LORD GEORGE GORDON BYRON LA SPOSA DI ABIDO RACCONTO TURCO |
CANTO SECONDO 1 Forti sull'Ellesponto spirano i venti, Come in quella notte procellosa, In cui Amor, che pur spinto l'aveva, Quel prode giovane gentile - Unica cura della figlia di Sesto - Dimenticò di salvar dai flutti. Solitario nella notte ardeva Alto il lume, sulla torre di lei; Ma, benché il levar del vento, il franger di bianche spume, Degli ucceffi marini l'alte strida gli intimasser la sosta; Benché le nubi in cielo, benché le onde in mare Con mille segni gli vietasser di partire, Nulla vedeva o voleva sentire, Suono o segno che pericol presagisse. L'occhio suo sol vedeva quella luce d'amore, L'unica stella che salutava in cielo; Non gli sonava all'orecchio altro che d'Ero il canto, «O Mare, non divider più gli amanti!». Antica è questa storia, ma sempre Giovani cuori innamorati potranno confermarla come vera. Cupi e gonfi s'innalzano lontani; Scendono le ombre della notte e oscurano Quella spiaggia invano bagnata di sangue, Quel deserto, orgoglio un tempo della schiatta di Priamo - Tutto, fuorché i sogni immortali Che il vecchio cieco consolàr della petrosa Chio. Di queste orme già impressi il sacro lido E in quelle onde vive affaticai le membra - Possa io di nuovo, o vate! con te sognare, Rievocar piangendo quelle antiche scene, Sicuro che le verdi colline Ricoprono le ceneri di veritieri eroi, E che proprio queste sponde Il suo «vasto Ellesponto» ancor flagella. Questo io m'abbia in sorte - ché gelido sarebbe Il cuore di colui che te rinnegasse qui mirando! Né ancora è sorta, sulle balze dell'Ida, Quella luna che irradiò la sua luce Sulla materia di sì alto canto: Guerrieri non imprecano al suo pacifico raggio, Ma il saggio pastore la saluta grato. La sua greggia va pascolando sul tumulo di colui Che la freccia del Dardano provò fatale; Tumulo altero, ove il figlio d'Ammone Corse d'intorno con superba pompa, Da popoli innalzato, incoronato da re, Solitario e senza nome. Com'è angusta all'interno, la dimora tua! D'intorno, solo il viandante sussurra Il nome di colui che là giaceva. Le ceneri duran più a lungo dell'istoriato cippo, Ma dite..., neppur la polvere rimane! Tardi, molto tardi stanotte, Diana rallegrerà il pastore E fugherà del nocchiero i timori; Fino ad allora, nessun faro traccerà sulla scogliera Alla barca in periglio il corso suo sicuro; Le luci sparse che la baia profilano Tutte, una dopo l'altra, si son spente. L'unico lume di quest'ora solitaria Splende nella torre di Zuleika. Sì, c'è un lume nella torre solitaria, E sulla serica ottomana Grani fragranti d'ambra sono sparsi, Sui quali scorron le sue dita di fata; Vicino a questi, di smeraldi adorno (gemma così preziosa come poté scordare?), Sta il sacro amuleto di sua madre Sul quale il testo di un versetto è inciso Che questa yita allevii, e l'altra si assicuri. Presso il suo rosario sta posato Un corano dai miniati colori, E dalle pagine arricchite di smaglianti blasoni Che gli scribi Persiani strapparono a un destino d'oblio. Sopra questi volumi ora, negletto, ma di rado ozioso Giace il suo liuto; E intorno all'aureo cesellato lume Urne di fiori, di cinese foggia, Dei telai persiani l'opre più rare E dei profumi di Schiraz il tributo. Quelle sontuose stanze là raccoglie; Ma un'aria di mestizia par che spiri. Ella, la Peri, spirito abitator del sacro luogo, Che cosa fa - da lì lontana, ed in sì cruda notte? Privilegio ai musulmani d'alto rango, Che dai rigidi venti protegge il seno suo Caro a Selim quanto lo stesso cielo, Si avvia Zuleika con prudenti passi nel folto di un boschetto. Trasale la fanciulla al suono ingannevole del vento Che ulula fra i rami, Finché, una via più sicura percorrendo, Il cuor più franco entro il timido petto batter sente. Segue Zuleika la sua muta guida; E, benché un vivo terrore la spinga a ritornare, Allontanarsi non può dal fianco di Selim, Né far uscir dal soave suo labbro timorosi accenti. Aperta da natura, ma allargata dall'arte, Dov'ella spesso soleva ritirarsi a modular sul liuto O a meditare sul Corano. E spesso, nei suoi sogni giovanili, Fantasticava com'essere potesse il Paradiso. Quale sia il destino di un'anima di donna, separata dal corpo, Il Profeta disdegnò di chiarire; Ma la celeste sede di Selim era sicura, Pur s'ella non poteva immaginare Lui beato a godere di altri mondi Senza colei che in questo amava tanto! Oh! chi offrirgli potrebbe più dolce compagnia? Un certo mutamento le parve di notare nella grotta: Forse, era solo la notte Che cambiava sembianze alle cose del giorno... Ma la lucerna, di brunito ottone, Un raggio incerto, e poco celestiale, diffondeva; E in un canto della caverna L'occhio le cadde sui più strani oggetti. Molte armi vi eran là ammucchiate, Non già quali maneggia in campo il prode musulmano, Ma brandi dall'esotica elsa e dalla strana lama: Uno era vermiglio, forse di colpa recente! Come, infatti, versare si può il sangue senza delitto? Una coppa poggiava sulla mensa Che non pareva colma di sorbetto. «Che significa ciò?» disse, e a Selim si volse. Ma... «Può essere lui quello che vedo?». E l'alto turbante alla fronte non faceva più corona, Ma in sua vece portava un rosso scialle Che, senza cura ritorto, gli cingeva le tempie. Quel suo pugnale, che una gemma adornava Degna d'un diadema, Non riluceva più nella cintura Che sosteneva invece pistole disadorne. Dalla vita pendeva minacciosa una sciabola Mentre dalla spalla scendeva senza cura Un bianco manto, modesto abbigliamento Degno piuttosto di un mercante cretese. Un giustacuore dalle dorate piastre Serrava il petto suo come corazza, Erano intrecciati con sottili argentee scaglie. Se non fosse per lo sguardo spirante autorità, Il gesto o l'accento di comando, Chi uno sguardo distratto vi posasse Dir lo potrebbe un giovin marinaio. E ora tu vedrai come le mie parole siano vere. Neppure immagini quanto sto per dire Ma, se è veritiero, c'è chi dovrà pentirsi amaramente. E vano, ormai, nasconder la mia storia, E non voglio vederti a Osmano sposa: Se non avessi appreso dal tuo labbro Quanta parte io abbia nel tuo cuore, Osato non avrei, né avrei dovuto rivelarti Del mio animo i segreti più profondi. Non intendo, con ciò, parlarti ora d'amore, Che... il tempo, i pericoli, la fedeltà ti mostreranno; Ma, prima d'ogni cosa, non puoi sposare un altro. Zuleika, io non sono tuo fratello!». Oh, cielo! son dunque sola al mondo A dolermi, non dico a maledire Il giorno della nascita mia solitaria. Tu forse ora non vorrai più amarmi! Il cuor mi presagiva la sventura imminente; Ma riconoscimi ancor per quel ch'io fui, Sorella, amica, la tua Zuleika sempre. Mi hai condotta qui forse per uccidermi? Se mai ti diedi ragione di vendetta, Eccoti il petto, fa' ciò che tu vuoi! Molto meglio morire, che vivere così: Un nulla per te, e forse men che nulla. E io, ahimè, sono figlia di quel Giaffir Da cui disprezzo ed ingiurie ricevesti. Se non come sorella, tienimi almeno come schiava, Se pure tu vuoi lasciarmi in vita!». Ma calma questi affanni, amore caro, Il tuo destino unito sarà sempre al mio: Lo giuro sul sacro nome del profeta, E questo pensiero ti sia balsamo al dolore. Così possa il versetto del Corano, Che inciso è sull'acciaio della spada, Proteggerci nell'ora degli affanni Come io conservar possa questo solenne giuramento! Il nome, che il tuo cuore aveva caro, Deve cambiare; ma sappi, mia Zuleika, Che il nodo s'è allentato, non disciolto, Pur se tuo padre è il mio mortal nemico. Mio padre era, per Giaffir, quello Che Selim finora fu per te; Ma quel fratello tramò per la rovina del fratello, Pur risparmiando, è vero, la mia tenera età Con lusinghe e con inganni vani Che su di lui potranno ricadere. Mi allevò, non on tenero amore, Ma come il nipote di un Caino, Mi vegliò come fossi un lioncello Che già morda e minacci di spezzar le catene. Il sangue di mio padre mi sento ribollire In ogni vena, ma per amor tuo Mi asterrò ora da vendette, Anche se qui non posso più restare. Ma prima ascolta, o mia amata Zuleika, Come Giaffir compì questo misfatto. Se amore oppure invidia li rendesse ostili, Non importa molto di sapere: Nelle anime fiere poco basta A intorbidar la pace. Possente in guerra era il braccio di Abdallah, Celebrato fin nei canti della Bosnia, E le orde del ribelle Pasvan possono far fede Di quanto poco amato fosse quell'ospite fra loro. Ma qui voglio dir della sua morte, Esito estremo e vile dell'odio di Giaffir, E di come della mia nascita il racconto Libero mi abbia fatto; ed altre cose ancora. Per la vita prima, poi per il potere Con insolente sfida s'insediò sulle mura di Widin, I nostri Pascià schierarono le truppe al gran completo. I due fratelli, pari nel comando supremo, Alla testa ciascun delle sue schiere Spiegarono al vento gli stendardi, E, riunito l'esercito nella piana di Sofia, Disposero le tende, assegnarono i posti; Per uno, ahimè, fu assegnato invano! Inutili sono le parole. La fatale coppa, Per ordin di Giaffir mischiata e porta, Colma di veleno nero e scaltro come lui, Sciolse l'anima di Abdallah dal suo peso mortale E l'inviò al cielo. Steso nel bagno e dalla febbre colto, Tornato dalla caccia, Abdallah non credeva Che l'ira di un fratello Tale bevanda offrisse per spegnere la sete. Un servo prezzolato porse quella coppa: Egli ne bevve un sorso, e tal bastò! Chiama Haroun, egli tutto ti dirà. E di Pasvan la rivolta Sedata in parte, ma non del tutto spenta, Il servo di Abdallah fu compensato. (tu non sai che cosa può far l'oro, Nel Divano, per dei veri ribaldi!): E Giaffir conquistò gli onori di mio padre, Ancor macchiato del sangue del fratello. È vero; con l'infame mercato quasi del tutto prosciugò Il suo mal procacciato tesoro, e tuttavia lo rimpinguò ben presto. Vuoi saper come? Osserva le campagne desolate, E chiedi al misero colono Come la messe gli ripaghi la sudata fronte. Perché mi risparmiò, quello spietato usurpatore, Perché con me volle spartire il suo palazzo, Lo ignoro. Vergogna? rimorso? pentimento? O per il poco timore che aveva di un fanciullo? Inoltre, la mia adozione come figlio, Non avendogliene il ciel concesso alcuno, O qualche strana cabala, o un capriccio, Tutto ciò la vita mi salvò, ma non la pace. Egli non può mutare i suoi modi sprezzanti, Né io so perdonare Chi del padre mio il sangue abbia versato. Non sono tutti fidi quelli che mangiano il suo pane. Se a costoro rivelassi il segreto della nascita mia, I suoi giorni e perfino le ore sarebbero contati: Un cuore che li guidi e una mano che dia l'ordine, Soltanto Haroun conosce, o conosceva i fatti Che s'appressano al giusto compimento: Egli crebbe nel palazzo di Abdallah Ed ebbe nel suo serraglio l'ufficio Che tuttora tiene. E lo vide morire: Ma, solo e schiavo, che poteva fare? Vendicare il suo signore... ahimè, era troppo tardi! O salvarne il figlio da un simile destino? Scelse il secondo partito; e mentre l'empio Giaffir, Ebbro per la vittoria sui nemici sconfitti, o sui traditi amici Stava assiso in trionfo, Egli me inerme condusse alla sua porta E supplicò, par non invano, Che la vita mi fosse risparmiata. Che rimanessero oscuri i miei natali Si assicurò, a tutti, ma soprattutto a me. Quindi Giaffir, sentendosi al sicuro, Dalla Rumelia e dal suo accampamento sul Danubio A queste coste d'Asia si mosse, Ed era Haroun l'unico depositano del segreto. Ma il Nubiano sa che i segreti dei tiranni Sono catene da cui il prigioniero uscire anela: E a me tutto, ed altro ancora, ha rivelato. Così agli iniqui concede il giusto Allah Schiavi, complici, mezzi; amici, mai! Ma ancor più crudo sarà il resto del racconto; Perché, pur se le mie parole ti possono ferire, L'intera verità devo narrarti. Trasalire ti vidi nel mirar queste vesti: Eppure sono vesti che ho già spesso indossate, E ancor più nel futuro indosserò. Questo marinaio, cui giurasti fede, E il capo di quelle orde di pirati Ascoltarne la dolente storia Impallidir farebbe la tua già bianca gota; Le armi che vedi le ha portate la mia ciurma, E le mani che devono brandirle son qui presso; Questa coppa è già colma per quelle rozze labbra - Tracannata che sia, nessuno mai si pente. Ma il nostro Profeta può assolvere quei bruti, Infedeli essi son solo nel vino. E disprezzato al punto ch'io meditavo d'andarmene ramingo; All'ozio condannato, perché i timori di Giaffir Mi negavano sia armi che corsiero, Anche se spesso, oh Maometto!, quanto spesso Il tiranno m'irrideva nel Divano, Come se la mia mano fosse tanto imbelle Da rifiutare la briglia ovvero il brando. E me lasciava inoperoso, oscuro, Rinchiuso con le donne in tutela di Haroun, Privo della speranza e della fama stessa. Tra le mura di Brusa, Zuleika, tu stavi sicura, Aspettando notizie dalla guerra; Ma la dolcezza tua, a me sì cara, Languido mi rendeva, pur dandomi conforto. Haroun, che infiacchito vide l'animo mio Sotto il pesante giogo dell'ignavia, Non senza trepidar, i miei ceppi di prigioniero Allentò, per breve tempo, Con la promessa ch'io sarei tornato Prima che l'impresa di Giaffir fosse compiuta. È inutile..., ché le parole non posson dire L'ebbrezza del mio cuore, Quando il mio sguardo, infine libero, Come se il mio spirito penetrasse nel profondo delle cose E vi scoprisse le più riposte meraviglie. Una sola parola può descriverti Questo mio sentire: libertà! Nemmen più te il mio cuor bramava; Il mondo, che dico?, il cielo stesso mi pareva mio! Mi portò lontano da questa riva oziosa; Bramavo di vedere le isole che, come gemme, Adornano il purpureo diadema dell'Oceano antico: A una a una le cercai, visitandole tutte. Ma quando e dove raccolsi quella ciurma Con cui giurai di risorgere o perire, Appena concluso il nostro disegno e compiuta la storia, Tutto te lo narrerò. Truci nei modi e rozzi nella forma; Una masnada di ogni credo e di ogni razza, Ma ciascuno ha franca la parola, lesta la mano E pronta l'obbedienza al comando del capo. Un animo disposto ad ogni impresa, Cui estraneo è il timore; Reciproca amicizia, e a tutti piena fedeltà; Vendetta promessa per chi sia caduto: Tutto ciò li ha resi Più che mai adatti ai miei disegni. Tutti coloro che più si distinguevano Dalla volgare schiera mi misi ad osservare, E sopra tutti, per i miei consigli, Ricorsi alla saggezza dell'accorto Franco. E i rari superstiti fra i seguaci di Lambro Già vivono un'aura di libertà. Spesso nella caverna, accanto al fuoco, Danno vita a fantastici disegni Per liberare dal loro fato gli infelici sfruttati. Lasciamo pure che si plachino il cuore Parlando di diritti e d'uguaglianza Che mai l'uomo conobbe; Io stesso amo la libertà. Ch'io vada errando come il padre oceano O che soltanto io conosca del Tartaro la sede, Una tenda sulla spiaggia, una galea sul mare Sono per me più che città o serraglio. In groppa al mio corsiero oppur sospinto dalla vela mia, Attraverso il deserto o col favor dei venti, Slanciati dove vuoi, mio berbero! scivola mia prora; Ma sii la stella che guida l'errante, Mia Zuleika, tu colomba di pace e di promesse alla mia arca, Il legno mio accompagna e benedici! Se speranza è negata in questo mondo di conflitti Sii tu l'arcobaleno alle procelle della vita; Il raggio che la sera, come un sorriso, le nuvole disperde, E cobra il domani col suo raggio profetico. Benedetta, come il canto del Muezzin nel tempio della Mecca, Al cui richiamo in preghiera si prostra il pellegrino; Dolce, come la melodia degli anni giovanili, Che nel ricordo stilla una tremula lacrima di lode; Cara, come il canto nativo all'orecchio dell'esule, Risuonerà ogni nota che la tua diletta voce rallegra. Per te, in quelle isole splendenti, pronto è un rifugio, Fiorito come un nuovo paradiso. Mille spade, col cuore e la mano di Selim in testa, Dovrò guidare ancora la mia turba di fidi, Più dell'uomo sprofonda in vergognosa lussuria... - Per il duro decreto di Giaffir, o la forza di Osmano, Quel timore svanirà col vento in poppa Dal pericolo la vita e la fede dal dubbio; Pochi sapevano, e nessuno rivelò Che d'isola in isola io avevo per qualche tempo navigato. Da allora, benché di rado senza la ciurma Io mi trovi a salpare, Nulla di ciò che han fatto (o di fare hanno in mente) E tenuto nascosto al mio volere. Io i piani decido, divido il bottino, E sempre più intendo le pene spartire. Ma fin troppo abbiamo qui indugiato: Il tempo stringe, la mia barca è agli ormeggi E, partendo, lasceremo soltanto odio e paura. Domani Osman giungerà col suo seguito; Stanotte sono da spezzar le tue catene. E se all'altero Bey la vita vuoi salvare, A colui che ti donò la vita, Via con me ora, via all'istante! Ma se, pur legata a me da giuramento, Tu volessi revocar la tua promessa, Atterrita da quanto ti ho narrato, Qui anch'io resterei - non a vederti sposa, Ma il pericolo a stornare sul mio capo! » - Come quella statua della disperazione, Quando, perduta fin l'ultima speranza, Una madre si irrigidì nel sasso. Tutto, nel sembiante della fanciulla, Pensar faceva a una Niobe giovinetta! Ma, prima che le labbra osassero parlare, O gli occhi accennare una risposta, Sotto l'arcato portico del giardino Ecco, una torcia innalzò la sua fiamma, «Fuggi, Selim, ora non più fratello, anzi più che fratello!». Laggiù, da ogni cespuglio, da ogni macchia Rosseggia terribile la luce delle fiaccole; Né solo quelle appaiono, ché ogni destra Porta il brando sguainato. Incalzano, si dividono, ritornano, si aggirano Frugando con le torce e l'acciaio lucente; E dietro tutti, agitando la spada Pazzo di rabbia, viene il fiero Giaffir. Son quasi presso la caverna; Dovrà forse esser di Selim la tomba? Un bacio, Zuleika, l'ultimo! La mia ciurma, vicino alla spiaggia, Potrebbe udire il segnale, vedere il lampo; Ora siam troppo pochi, l'attacco può esser imprudente, Ma non importa, uno sforzo ancora». Sulla bocca si portò della caverna, E lo sparo della sua pistola riecheggiò alto nell'aria: Zuleika non sussultò, non pianse, Ma disperazione le gelò lo sguardo e il cuore! «Non mi sentono, o se muovono i remi Sarà solo per vedermi morire; Con quello sparo ho attirato il nemico più vicino. Ordunque, scimitarra del padre mio, Pugna più impari di questa mai vedesti! Addio, Zuleika! Riparati, amor mio; Torna dentro, lì starai sicura Ché contro te il tiranno può soltanto infuriarsi. Non muoverti, che non ti colpisca per errore Un colpo di spada, o di fucile. Temi forse per lui? Possa io morire No, benché egli abbia versato quel fatal veleno; No, sebbene ancora egli mi chiami codardo. Ma dovrò forse vilmente offrirmi al ferro delle loro spade? No, così dovrà volare ogni cimiero, tranne il suo!». Già ai suoi piedi è caduto Il primo di quanti gli urgono alle spalle, Col petto ansante e i bridivi di morte. Un altro cade, ma intorno a lui un nugolo di nemici ecco s'accalca: A destra e a manca si fa strada col brando, E quasi l'onda provvida ha raggiunto. La sua barca già appare, lungi appena cinque affondi di remi, E i compagni lottano con disperata lena - Giungeranno essi in tempo per salvarlo? I suoi piedi i primi flutti lambiscono; La sua ciurma già si butta in mare, E fra gli spruzzi scintillano le spade: Furenti, instancabili eccoli raggiungere la riva, E fradici guadagnare la terra. Giungono, ma - solo ad accrescer lo scempio - Per vedere le acque più vermiglie del sangue del suo cuore! O, anche se colpito, di striscio appena, Pur incalzato si era spinto Selim Dove la spiaggia e le onde già s'incontrano. Là, dove il piede suo lasciava l'ultima impronta E la sua mano vibrava il colpo estremo, Perché mai volse lo sguardo Quell'indugio, quello sguardo fatale La sua morte decise, o la sua schiavitù. Prova funesta - nel pericolo e nel dolore L'ultima a svanire è degli amanti la speranza! Le spalle aveva volte agli impetuosi flutti, E dietro, pur vicini, i suoi compagni Quando, improvviso, era partito il colpo. «Così possan cadere di Giaffir i nemici!». Di chi fu quella voce? di chi la carabina? Di chi la pallottola che sibilò fra le ombre notturne? Molto vicina, con precisa mira mortale, Era la tua, assassino di Abdallah! Il padre ebbe a dolersi del tuo odio, per lenta insidia; Il figlio trovò un più pronto destino. Sgorga a fiotti il sangue dal suo petto E imporpora del mar le bianche spume; Se dalle labbra tentò d'uscire un gemito, Dal frastuono dell'onde venne spento. E svela, laggiù, pochi trofei della battaglia; Taccion le grida che a mezzanotte Avevano sconvolto quella baia; Ma alcuni segni di lotta restano sul tormentato lido: Profonde orme di passi, numerose tracce di scontri Impresse sulla rena e, non lontano, puoi vedere Una torcia spezzata, una barca senza remi. Impigliato agli arbusti, Che stringono la riva al mare declinante, Sta un bianco mantello. E strappato a metà, e una cupa macchia vermiglia L'onda che sopra vi gorgoglia invano tenta di cancellare. Ma dov'è colui che l'indossò? Voi, che vorreste pianger le sue spoglie, Rotolano il loro fardello intorno allo scoglio sigeo Per poi gettarlo sulla spiaggia di Lemno. Gli uccelli marini stridon sulla preda E ritraggono i loro avidi becchi Mentre il capo di lui, poggiato sul suo fatal cuscino, Si alza man mano si solleva l'onda. Quella mano, non da vita mossa, Sembra che tuttavia guerra minacci Or verso l'alto spinta, Or posata mentre si posa l'onda. Che importa se giacerà quel corpo Nel profondo di una tomba piena di vita? L'uccello, che lacera col becco l'esanime figura, Ha solo derubato del suo pasto il vile verme. L'unico cuore, l'unico occhio Che lacrime versar poteva nel vederlo morire, Che, vegliando le sue membra ricomposte, Lamentar poteva sulla tomba dal turbante segnata, Quel cuore è spezzato, quell'occhio è già chiuso, Sì, chiuso prima del suo! Le donne han l'occhio bagnato di pianto, gli uomini pallida la guancia. Zuleika, ultima erede di Giaffir, Troppo tardi è giunto lo sposo destinato! Egli non vede, né mai più vedrà il tuo volto. Non sente forse alto il funebre lamento Che da lungi il suo orecchio ammonisce? Le tue ancelle piangenti sulla soglia, I cantor del Corano che mormorano l'inno fatale, Gli schiavi muti, in attesa, con le braccia conserte, I sospiri nella sala e le grida al vento Gli narran la tua storia! Tu non vedesti il tuo Selim perire, Ma nel terribile momento in cui lasciò la grotta E il pensier di sua morte, che evitar non potevi, Quel verme che, sempre desto, non muore mai, Incubo di giorni oscuri e di notti orrende, Che teme l'oscurità e tuttavia odia la luce, Il non caduco cipresso tutti li adombra; Né s'avvizzisce, pur se rami e fronde Rendon testimonianza di un eterno dolore. Laggiù, come un primo amore non corrisposto, Giace una zolla, che sempre fiorisce Anche in quel funebre boschetto. Solo una rosa fa mostra, Pallida e gentile, di sua pompa: Pare colà piantata da Disperazione, Così bianca e languida, che il vento più leggero Potrebbe in alto sollevar le foglie; E tuttavia, sebbene nebbie l'assalgano e procelle, E mani più crudeli del cielo invernale Possano svellerne il fusto... invano, Ché al nuovo giorno essa fiorisce ancora. Qualche spirito gentile il suo stelo innalza, Bagnandolo con lacrime celesti. E ben possono credere le figlie d'Ellesponto Che quello non è fiore terrestre Che irride la siccità o la tempesta, Che, anche se indifeso da verzura, germoglia; Né languisce, se primavera le piogge gli rifiuta, Né appassisce, se il raggio dell'estate lo corteggia. A lui, non visto, ma non lontano, Tutta la notte canta un ignoto uccello; Ma, pur se invisibili sono le sue aeree ali, Dolce come arpa che un'Urì accarezza E l'incantevole sua nota. Forse è l'usignolo, ma la sua gola, Anche se triste, spande diversa melodia. Chi sta in ascolto, non può lasciar quel luogo, Ma là indugia e sospira Come se amasse invano! E tuttavia dolci sono le lacrime che sparge, E il dolor così placido, Che a mala pena può sopportare il mattino che sorge E quella malinconica malia sospende, Sì dolce e impetuoso è il canto! Ma quando l'alba rosata irrompe alta nel cielo, Cessa quella fatata melodia. Ci fu chi poteva credere (teneramente i sogni giovanili ingannano, E crudele è chi li deride), Che quelle profonde note dolenti Desser forma sonora al nome di Zuleika. Scende dall'alto del suo cipresso E nell'aria si stempera la liquida voce; Dalla casta zolla sepolcrale Cresce quella candida rosa. Là sorse, più tardi, un marmoreo cippo: La sera fu posato e il mattino scomparve! Non fu braccio mortale che alla riva Portò la stele, pur tanto confitta nel profondo; Infatti, come narran le leggende d'Ellesponto, La mattina dopo fu trovata dove cadde Selim, Battuta dal mareggio dell'onde, e dentro quel grembo Non ebber le sue ossa più sacra sepoltura. E là di notte, dicono, si vede reclinato sul sasso Un teschio avvolto dal turbante, Per cui quel sasso, abbattuto dal flutto, Vien detto «il guanciale del Pirata fantasma»! Ma dove prima posò la stele Quel triste fiore è sbocciato, e fiorisce tuttora, Solo, rondo, gelidamente puro e pallido, Come la guancia di Beltà che piange al racconto di Dolore! |
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