JORIS-KARL HUYSMANS

CONTROCORRENTE IV


X

Nel corso della curiosa malattia che devasta le razze di sangue depauperato sùbite bonaccie seguono alle crisi. Senza che potesse spiegarsene la causa, un bel mattino Des Esseintes si destò del tutto rimesso; scomparsa la tosse che pareva divellergli i visceri; non più cunei nella nuca, conficcati a colpi di maglio; sì un indicibile senso di benessere, una levità nel cervello; i pensieri si schiarirono: da opachi e torbidi divennero fluidi e iridati come bolla di sapone delicatamente sfumata. Questo stato di grazia durò qualche giorno. Poi ecco un pomeriggio fare improvvisamente la loro comparsa allucinazioni olfattive: gli invase la camera odor di frangipana.
Si assicurò se ve ne fosse una fiala sturata; non c'era; passò nello studio, nella sala da pranzo: dappertutto quell'odore. Sonò. “Senti qui qualche odore?” chiese al servo accorso. Quello annusò l'aria: “no, nessun odore.”
Non restava più dubbio; la nevrosi tornava dissimulata sotto un nuovo inganno dei sensi.
Noiato dalla tenacia di quell'inesistente profumo, pensò di stordirsi con profumi reali, nella speranza che questa omeopatia nasale lo guarisse o almeno lo scampasse dal supplizio dell'importuna frangipana.
Andò nel gabinetto da bagno, dove, presso un bacile battesimale che gli serviva da catinella, sormontato da una cornice in ferro battuto imprigionante, a mo' di balaustra argentata di luna, l'acqua verde e come stagnante di un lungo specchio, fiale d'ogni foggia e dimensione s'allineavano su mensolette di avorio.
Le tolse di là e le dispose in due file sur un tavolo: quella dei profumi semplici, vale a dire degli estratti e delle essenze; e quella dei profumi composti, chiamati con termine generico bouquet o mazzolini d'odore.
Ciò fatto si sprofondò in una poltrona e chiamò a raccolta le sue idee.
Da anni Des Esseintes era esperto nella scienza del fiuto. Non meno della vista e dell'udito egli stimava l'odorato capace di godimenti. Ogni senso, a suo avviso, purché a ciò disposto da natura e debitamente educato, era in grado di percepire nuove sensazioni, di scinderle, d'associarle, sino a comporre con esse ciò che costituisce opera d'arte.
Secondo lui insomma, non era per niente più strana l'esistenza di un'arte basata sui profumi che quella che si vale d'onde sonore o di raggi variamente colorati. Soltanto che come, senza una particolare attitudine sviluppata dallo studio, nessuno può distinguere la tela di un grande pittore da una crosta qualsiasi, un motivo di Beethoven da un'aria di Clapisson, allo stesso modo nessuno può neanche, se non è un iniziato, distinguere alla prima un bouquet creato da un autentico artista da un miscuglio qualsivoglia messo in commercio da un industriale e destinato alla vendita nelle drogherie e nei bazar.
Nell'arte degli odori, ciò che più di tutto lo aveva interessato era la possibilità di ottenere artificialmente profumi del tutto identici a quelli in natura.
Quasi mai, infatti, i profumi ci vengono dai fiori di cui recano il nome. Il profumiere che unicamente dalla natura traesse gli elementi della sua arte, non otterrebbe che un prodotto bastardo, privo di consistenza e di stile; dato che l'essenza che si ricava dalla distillazione del fiore non offre che una pallida e volgarissima analogia con la fragranza, con gli effluvi che la pianta sprigiona quando fiorisce in piena terra. Così, se si eccettua l'inimitabile gelsomino che si rifiuta ad ogni similitudine, ad ogni contraffazione, che rigetta persino ogni pressapoco, gli altri fiori sono riprodotti esattamente nella loro fragranza da alleanze di alcolati e di spiriti che involano al modello la sua stessa personalità e v'aggiungono quel nonnulla, quel tanto di più, quell'aroma inebbriante, quel raro tocco che fa l'opera d'arte.
In conclusione, nella profumeria l'artista perfeziona l'opera greggia della natura, sfaccetta l'odore, lo monta come il gioielliere affina l'acqua di una pietra e la pone in valore.
Poco a poco gli arcani di quest'arte, fra tutte la più negletta, s'erano aperti a Des Esseintes che decifrava ormai la sua lingua, varia e altrettanto suggestiva di quella letteraria, il suo stile di una inaudita concisione sotto quella apparenza vaga e fluttuante. Per ciò gli era stato d'uopo dapprima compulsare la grammatica, intendere la sintassi degli odori, imbeversi, sino a possederle, delle regole che li governano, ed una volta famigliarizzatosi con quel gergo, paragonare le opere dei maestri: degli Atkinson e dei Lubin, dei Chardin e dei Violet, dei Legrand e dei Piesse; smontare la costruzione delle loro frasi; valutare la proporzione delle parole, e la disposizione dei periodi. Non solo: occorreva spesso appoggiare con l'esperienza la teoria, non di rado incompleta e banale.
La profumeria classica era, a dir vero, poco varia, pressoché incolore. S'atteneva ancora al monotono ricettario fissato dagli antichi alchimisti; procedeva a caso, affidata ai vecchi lambicchi, finché non s'arrivò allo sboccio del romanticismo, che modificò anche lei, la ringiovanì, la rese più duttile e malleabile.
La sua storia seguiva passo passo, presso di noi, quella della lingua.
Lo stile della profumeria Luigi XIII, composto di ingredienti cari all'epoca, di polvere di riso, di muschio, di zibetto, d'acqua di mirto - nota prima sotto il nome di acqua degli angeli - bastava a stento ad esprimere le grazie altezzose, le tinte un po' crude del tempo che ritroviamo in certi sonetti di Saint Amand.
Più tardi, con la mirra, l'olibano, gli odori mistici, potenti ed austeri, potè quasi emulare il portamento pomposo del secolo d'oro, i ridondanti artifici dell'oratoria, lo stile largo, sostenuto, numeroso di Bousset e dei grandi predicatori. Più tardi ancora le grazie stanche e sapienti della società francese sotto Luigi Quindici trovarono più facilmente la loro traduzione nella frangipana e nella marescialla: che diedero in certo modo la sintesi stessa dell'epoca. Quindi, dopo l'apatia e il tedio del primo impero che abusò d'acqua di Colonia e di preparati al rosmarino, l'arte dei profumi si lanciò, sulle orme di Victor Hugo e di Gautier, verso i paesi del sole; creò delle acque orientali, dei mazzi simbolici folgoranti di spezie; scoprì tonalità nuove, antitesi sino allora inosate; scelse e riprese antiche sfumature, le complicò, le affinò, le assortì; ripudiò infine risolutamente la volontaria decrepitezza cui l'avevano ridotta i Malesherbe, i Boileau, gli Andrieux, i Baour-Lormian, dozzinali distillatori dei suoi poemi.
Né, dal 1830, questa lingua era rimasta stazionaria; s'era ancora evoluta, e, modellandosi sul progresso del secolo, era entrata in lizza con le altre arti; s'era pur essa piegata ai voti degli intenditori e degli artisti, lanciandosi all'imitazione di ciò che è in Cina e Giappone; immaginando album di profumi; imitando i mazzi di fiori di Takeoka; ottenendo, con lo sposare la lavanda al garofano l'odore del Rondeletia; coll'alleare il pasciulì alla canfora, l'aroma singolare dell'inchiostro di China; col mescolare limone, garofano ed essenza di fior d'arancio, l'effluvio della Hovenia del Giappone,
Des Esseintes studiava, analizzava l'anima di quei fluidi; procedeva all'esegesi di quei testi; si divertiva, per suo piacere personale, a fare con essi la parte dello psicologo; a smontare e rimontare gli ingranaggi di un'opera, a svitare i diversi pezzi che entrano nella struttura di un effluvio composito; ed in tale esercizio il suo odorato era giunto ad una sicurezza d'assaggio pressoché infallibile.
Come ad un negoziante di vini basta aspirarne una goccia per riconoscerne la provenienza; come un negoziante di luppolo ne annusa un sacco e subito si rende esatto conto di quel che vale; come un cinese che ne faccia traffico può dichiararti lì per lì di dove viene il tè che odora, dirti in quali fattorie dei monti Boei, in che convento buddista è stato coltivato; la stagione in cui le foglie furono colte, precisarti il grado di torrefazione, l'influsso che subirono dalla prossimità di susini in fiore, di Aglaia, d'Olea fragrans, di tutti i profumi che ne modificano la natura ed aggiungono al suo un inaspettato spicco, introducono nel suo aroma un po' arido, un sentore di fiori freschi lontani; - non altrimenti Des Esseintes, respirando un accenno d'odore, era in grado di raccontarvi lì per lì quali dosi entravano nella sua miscela, di spiegare di quella miscela la psicologia, quasi quasi di proclamare il nome dell'artista che l'aveva scritto, che vi aveva impresso il suggello inconfondibile del suo stile.
Superfluo aggiungere ch'egli possedeva l'intera serie degli ingredienti usati dai profumieri; aveva sinanco dell'autentico balsamo della Mecca, l'estremamente raro profumo che si raccoglie solo in certe parti dell'Arabia Petrea e il cui monopolio appartiene al Sovrano.
Adesso, seduto, nel suo gabinetto da bagno davanti a quella tavola, vagheggiava di creare un nuovo bouquet; preso da quell'attimo di esitazione ben noto agli scrittori che, dopo mesi di riposo, s'accingon a metter mano ad un'opera nuova.
Non diversamente di Balzac che, per darsi l'avvio, non poteva a meno di annerire una risma di carta, Des Esseintes ritenne necessario rifarsi prima la mano con qualche lavoretto senza importanza. Nell'intento di ottenere dell'eliotropio, soppesò fiale di mandorla e di vanilla; poi mutò idea e si decise ad affrontare il pisello odoroso.
I vocaboli, i procedimenti idonei allo scopo gli sfuggivano. Procedette a tastoni; nella fragranza di quel fiore non domina in fin dei conti l'arancio? Saggiò parecchie miscele; e finì per azzeccare il tono giusto, unendo all'arancio della tuberosa che legò con una goccia di vanilia.
La sua incertezza si dissipò; fu preso da una leggera febbre; si sentì all'altezza del compito. Non pago ottenne ancora del tè, mescolando cassia e giaggiolo; quindi, ormai sicuro di sé, risolse di andare oltre, di fissare una frase fulminante che col suo arrogante fracasso coprirebbe il bisbiglio della maliziosa frangipana che s'intrufolava ancora nella stanza.
Manipolò l'ambra, il muschio del Tonchino, terribile di violenza, il pasciulì, il più acre dei profumi vegetali che in natura sprigiona un tanfo di muffito e di ruggine.
Per quanto facesse, l'assillante ricordo del Settecento continuò ad assediarlo: le crinoline, i falpalà gli vorticarono davanti agli occhi, apparizioni di Veneri di Boucher, tutte carne, disossate, imbottite di rosea bambagia presero dimora sulle pareti; ricordi del romanzo di Thémidore, della deliziosa Rosetta che in una disperazione di fuoco si rimbocca la gonna, lo perseguitavano.
Furibondo, s'alzò e per liberarsi di quell'ossessione, aspirò a pieni polmoni quella schietta essenza di spinacardo che, per il suo troppo accentuato sentore di valeriana, mentre piace tanto agli Orientali, riesce così incomoda agli Europei.
L'urto fu così violento che ne rimase stordito.
Come stritolata sotto un colpo di maglio, la filagrana del delicato odore sparì; ed egli profittò della tregua per sfuggire ai secoli defunti, ai profumi desueti; per passare, come faceva un tempo, a imprese meno ristrette o più nuove.
Con i profumi s'era altravolta dilettato a cullarsi in accordi; si valeva d'effetti analoghi a quelli dei poeti; ricalcava, in qualche modo, il mirabile schema di certe composizioni di Baudelaire; dell'Irreparable ad esempio e di Le Balcon, dove l'ultimo verso della quintina riecheggia il primo, ripresentandosi a mo' di ritornello ad annegare l'anima negli infiniti della malinconia e del languore. Smarrito nei sogni evocati da quelle strofe fragranti, ecco di colpo era ricondotto al punto di partenza, al motivo della sua meditazione, dal ritorno del tema iniziale che ricompariva, a studiati intervalli, nell'olezzante orchestrazione del poema.
Questa volta si propose di perdersi in un sorprendente e mutevole paesaggio; ed esordì con una frase sonora, che gli dischiuse di colpo una immensa lontananza di campagne.
Grazie ai suoi vaporizzatori, sprigionò nella camera essenza d'ambrosia, di lavanda di Mitcham, di pisello odoroso fusi insieme: un'essenza che, ove sia stata distillata da un artista, non usurpa il nome che le vien dato di “essenza di prato in fiore”; poi, in quel prato, insinuò un ben riuscito accordo di tuberosa, di fior d'arancio e di mandorla; e, d'incanto, fittizi lillà fiorirono, mentre tigli stormivano al vento, impregnando il suolo dei loro tenui effluvi, simulati dall'estratto di tilia londinese.
In questo sfondo tracciato a grandi linee, fuggente a perdita d'occhio sotto le sue palpebre chiuse, insufflò una spruzzatura di sentori umani e quasi felini; evocanti la donna, annunzianti la femmina incipriata e truccata: lo stefanotis, l'ayapana, l'opoponax, il cipro, lo sciampaca, il sarcanto; sovrappose ad essi un accenno di siringa, per introdurre nel mondo fittizio e truccato che essi creavano, un sentore naturale di esultanze accaldate, di gioia che si disfrena in pieno sole.
Poscia, con l'ausilio di un ventilatore, lasciò che si disperdessero queste onde odorose; e serbò solo la campagna che rinnovò, costringendola a tornare nel suo poema come un ritornello.
Le femmine s'andarono dileguando; la campagna era tornata deserta; allora, all'incantato orizzonte, opifici si rizzarono, arditi comignoli sprigionarono fumo come bollenti tazze di ponce.
Nella brezza, suscitata da ventagli, passava ora un alito di fabbriche, un sentore di prodotti chimici; eppure nell'aria così corrotta, la natura insinuava ancora i suoi effluvi soavi. Gli è che Des Esseintes riscaldava adesso tra le dita una pallottolina di storace, che partecipava del delizioso odore della giunchiglia e dèll'immondo lezzo della guttaperca e dell'olio di litantrace.
Bastò che riponesse la resina nella sua scatola ermeticamente chiusa e si tergesse le mani, perché a loro volta le fabbriche si dileguassero. Allora tra i sentori, che riprendevano forza, dei tigli e dei prati, saettò alcune goccie di new mown hay; ed al centro del magico panorama, momentaneamente spogliato dei lillà, covoni di fieno si rizzarono improvvisando una nuova stagione, impregnando quell'estate dei loro effluvi sottili.
Come fu sazio di quello spettacolo, spruzzò all'impazzata profumi esotici; vuotò i vaporizzatori, profuse alcoli concentrati, diede il via a tutti i balsami di cui disponeva; ed ecco, nello snervante calore della stanza, esplodere una natura demente e sublime, che acuiva moltiplicando i suoi aliti, caricava d'alcoolati in delirio una brezza posticcia; una natura irreale e affascinante, paradossale da capo a fondo, che sposava le droghe dei tropici, gli aliti pepati del sandalo della Cina e dell'hediosmia della Giamaica, agli odori indigeni del gelsomino, del biancospino e delle verbene, facendo sorgere a dispetto delle stagioni e dei climi, alberi esotici d'ogni specie, sbocciare fiori i più opposti di tinta e di profumo; creando con la fusione e l'urto di tutti quegli ingredienti, un profumo diffuso cui era impossibile dare un nome: imprevisto, stravagante; in mezzo a cui ricompariva, ostinato ritornello, il motivo decorativo iniziale: l'odore del grande prato ventilato da tigli e lillà.
In quella, ahi, che un'acuta trafittura gli mozzò il respiro; fu come se un trivello gli forasse le tempie.
Aprì gli occhi: si vide nel gabinetto da bagno, seduto davanti alla tavola. A fatica si diresse barcollante alla finestra, la schiuse.
L'aria, che irruppe nell'interno, dissipò la soffocante atmosfera in cui boccheggiava. Per riprendere l'uso delle gambe, percorse in lungo e in largo la stanza, con gli occhi alla volta dove spiccavano in rilievo, su uno sfondo granito, biondo come sabbia di lido, granchi ed alghe incrostate di salino.
Decorata allo stesso modo era la cimasa che correva lungo gli assiti tappezzati di crespo del Giappone, color verde acqua, un po' increspato a simulare l'arricciarsi d'un fiume che al vento s'arruga. Galleggiava in quella lieve corrente un petalo di rosa e intorno sciamava una frotta di pesciolini disegnati con due tratti di penna.
Ma il peso alle palpebre non accennava a cessare. Smise di misurare su e giù l'angusto spazio tra il bacile battesimale e la vasca da bagno; s'appoggiò alla balaustra della finestra. Lo stordimento ebbe fine.
Riturò accuratamente le fiale e profittò dell'occasione per riordinare l'armamentario per la truccatura.
Non vi aveva rimesso mano da quand'era arrivato a Fontenay; ed era quasi con stupore che adesso rivedeva la collezione che aveva fatto la curiosità di tante donne.
Vasetti e flaconi s'ammonticchiavano alla rinfusa. Là, richiamava l'occhio una scatola di maiolica verdolina: conteneva la schnuda, la prodigiosa crema bianca che, stesa sulle gote, passa, al contatto dell'aria, al rosa tenero per assumere quindi un incarnato così vero da dare la perfetta illusione di una pelle colorata dal sangue. Quì, lacche incrostate di madreperla, racchiudevano dell'oro giapponese e del verde d'Atene color elitra di cantaride; oro e verde che si mutano in cupa porpora, quando si umettano.
Accanto a vasetti di pasta d'avellana, di serkis dell'harem, a boccette d'emulsioni al giglio del Cascemir, di lozioni d'acqua di fragola e di sambuco per la carnagione; fra fiale di soluzione di inchiostro di China e di acqua di rose per gli occhi, spiccavano in gran disordine oggetti d'avorio, di madreperla, d'acciaio, d'argento; mescolati a spazzolini di erba medica per le gengive, a pinze, forbicette, strigili, sfumini, posticci, piumini da cipria, spazzolini di fil di ferro, limette.
Tutto quel corredo Des Esseintes l'aveva acquistato tempo addietro, pregato da un'amante, che sveniva percependo certi aromi, certi balsami; una donna dai nervi dissestati, che godeva a macerarsi i capezzoli nei profumi, ma cadeva addirittura in estasi, in deliquio se le si raschiava il capo con un pettine, o quando poteva aspirare, mentre la si accarezzava, odor di fuliggine, o l'odore che tramanda in giorni piovosi il gesso da presa d'una casa in costruzione, o quello della polvere quando la spegne d'estate l'avvisaglia di un acquazzone.
Des Esseintes s'obliò a ruminare quei ricordi. Un pomeriggio che, per non aver di meglio, per curiosità, aveva trascorso a Pantin in compagnia di quella donna, in casa di una sorella di lei, gli si riaffacciò alla memoria; rimescolò tutto un mondo scordato di vecchie idee, risuscitò vecchi profumi. Mentre le due donne cicalavano mostrandosi i vestiti, egli s'era fatto alla finestra e oltre i vetri appannati aveva visto fuggire la via piena di mota e udito sul selciato suole di legno diguazzare nelle pozzanghere.
Perduta nella memoria, quella scena gli si ripresentava ora con incredibile nettezza.
Pantin era lì davanti a lui, animata, viva, nell'acqua verde quasi morta dello specchio incorniciato di luna in cui, senza avvedersene, tuffava l'occhio. Un'allucinazione lo strappò da Fontenay; con la visione della strada, il cristallo gli rimandò i pensieri che essa aveva fatto nascere in lui; e, come in un sogno, si ridisse l'ingegnosa, malinconica e confortante antifona che, di ritorno in città, s'era subito annotato:
“Sì, il tempo è giunto delle grandi pioggie: ecco che le gronde vomitano cantando sui marciapiedi, e il fimo si concia nella pozza che del loro caffelatte riempiono le cogome scavate nell'inghiaiata stradale; dappertutto per l'umile pedone è in faccende lo stoino nettasuole.
“Sotto il cielo basso, nell'aria moscia, le case trasudano dai muri sudor nero e putono dai loro sfiatatoi; il fastidio di vivere s'acuisce, il tedio schiaccia; fermentano in ognuno le sozzure di cui l'anima cova il seme; bisogni di sconce ribotte metton sossopra i catoni, e nel cervello dei più stimati cittadini desideri da galeotti stan per esplodere.
“Eppure io mi scaldo davanti a un gran fuoco; sul mio tavolo un vistoso cesto di fiori sboccia e imbalsama la stanza di belzuino, di geranio e di vetiver. In pieno mese di novembre, a Pantin, s'ostina la primavera; e posso ridere tra di me al pensiero delle pavide famiglie che per schivare l'avvicinarsi del freddo fuggono a tutto vapore verso Antibo o verso Cannes.
“Ma la natura non c'entra affatto nel benessere che provo; all'industria solo, è dovere riconoscerlo, Pantin è in debito di questa fittizia primavera.
“Infatti questi fiori sono fatti di taffetà, montati su fil d'ottone e l'odore di primavera è dalle connessure della finestra che filtra e lo esalano le fabbriche dei dintorni: le fabbriche di profumi di Pinaud e di Saint James.
“Grazie a questi industriali, l'illusione di un po' d'aria buona, anche gli artigiani, logori dal duro lavoro degli opifici, se la possono passare; anche i piccoli impiegati, troppo spesso ahi già padri.
“Senza dire che da questa illusione di una campagna un rimedio intelligente si può trarre. Ai gaudenti attaccati di petto, esportati nel Mezzodì, l'interruzione delle abitudini dà il colpo di grazia; essi soccombono alla nostalgia degli stravizi parigini ai quali debbono il loro male. Qui, in un clima artificiale trattenutovi dai ceppi che bruciano nelle stufe, i ricordi libertini rinasceranno, oh quanto dolci, evocati dal languido odor di donne che le fabbriche vaporano. Al tedio mortale della vita di provincia, l'Esculapio può, con questo innocente sotterfugio, sostituire per il suo infermo l'atmosfera delle alcove parigine, il sentore delle donne di mestiere. Nel più dei casi, per guarire, basterà che il paziente disponga d'un po' di fantasia.”
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“Visto che coi tempi che corrono non esiste più nulla di sano; visto che il vino che si beve, la libertà che si proclama, sono merci adulterate ed irrisorie; visto infine che ci vuole una discreta dose di buona volontà per credere che le classi dirigenti sien degne di rispetto e che quelle addomesticate meritino d'essere soccorse oppure compiante, non mi pare” Des Esseintes concluse “né più ridicolo né più folle, chiedere al mio prossimo un totale d'illusione appena equivalente a quello che egli spende ogni giorno a scopi imbecilli, per fingermi che Pantin sia una Nizza artificiale, una fittizia Mentone.”
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Ciò non toglie - si disse, strappato alle sue riflessioni da un senso di mancamento che avvertiva in tutto il corpo - ciò non toglie che d'ora innanzi dovrò diffidare di questi deliziosi e abbominevoli passatempi che mi accoppano.
“Suvvia,” sospirò, “ancora dei piaceri da misurare col contagocce, delle precauzioni da prendere.” E si rifugiò nello studio, nella speranza di sfuggire più facilmente all'ossessione di quei profumi.
Spalancò la finestra quant'era larga, felice di tuffarsi in un bagno d'aria; senonché ad un tratto ebbe la sensazione che la brezza gli soffiasse in viso un acuto odore di bergamotto spalleggiato da essenza di gelsomino, di cassia e d'acqua di rose.
Boccheggiò; si chiese se l'ossessione cui era in preda non fosse di quelle che nel Medio Evo si esorcizzavano.
L'odore mutò, divenne un altro ma persistette. Adesso dal villaggio, accovacciato ai piedi della costa, veniva un sentore vago di tintura di tolù, di balsamo del Perù, di zafferano; fusi insieme da qualche stilla d'ambra e muschio; quand'ecco quei sparsi accenni si fusero e daccapo la frangipana, di cui sin allora l'olfatto aveva sceverato gli ingredienti e fatto l'analisi, imperversò nella valle da Fontenay sino al forte, aggredì le sue nari spossate, gli scrollò il sistema nervoso già demolito, lo gettò in una prostrazione siffatta che, svenuto, quasi per spirare, s'accasciò sul parapetto della finestra.

XI

I domestici spaventati corsero a Fontenay, in cerca del medico - il quale non capì niente del malessere di Des Esseintes.
Borbottò qualche termine medico, tastò il polso dell'ammalato, gli esaminò la lingua; tentò ma invano di farlo parlare; ordinò riposo e calmanti, promise di tornare l'indomani; e invitato a non scomodarsi da un gesto di Des Esseintes - il quale trovò la forza di rimproverare i servi del loro zelo e di congedare l'intruso - partì e andò a raccontare a tutto il villaggio le sbalorditive eccentricità di quella casa, i particolari d'un arredamento che l'aveva lasciato di stucco.
Con grande stupore dei domestici, che non osavano più muoversi dal loro posto, il padrone si ristabilì in capo a pochi giorni; e, fatto insolito, ora capitava che lo sorprendessero a spiare preoccupato il cielo, tamburellando con le nocche sui vetri.
Finché un pomeriggio i campanelli squillarono perentori; ed ai servi accorsi Des Esseintes ordinava di preparargli le valigie per un lungo viaggio.
Mentre i due, su istruzioni del padrone, sceglievano gli oggetti che dovevano accompagnarlo nel viaggio, Des Esseintes smanioso percorreva a grandi passi la cabina della stanza da pranzo, consultava l'orario dei piroscafi; su e giù per lo studio, interrogava tutti i momenti il cielo, con espressione impaziente insieme e soddisfatta.
Già da una settimana il tempo s'era messo al peggio. Vortici di caligine, massicce nubi, simili a macigni divelti dal suolo, vagavano continuamente sul grigiore del cielo. Ogni po' acquazzoni ne scaturivano, seppellendo la vallata sotto torrenti di pioggia.
Quel giorno il cielo aveva mutato aspetto: non più flutti d'inchiostro; le nubi s'eran fuse; la volta celeste si stendeva tutta eguale come rivestita d'una federa grigiastra.
Poco a poco quella federa sembrò calare; un mattino nebbioso avvolse la campagna; la pioggia non s'abbatté più a cateratte come la vigilia; sì, cadde continua, sottile, penetrante, allagando i viali, intridendo di mota le vie, sipario di fili che univa la terra al cielo. L'aria s'intorbidò; una luce livida rischiarò il villaggio, ormai trasformato in acquitrino di fango e di pozze, trafitte dalla pioggia che le punzecchiava d'argento. Nel desolato paesaggio tutti i colori si spensero; solo i tetti lustrarono sullo squallore dei muri.
“Tempaccio!” sospirò il vecchio domestico, sciorinando su una sedia un abito che il suo padrone s'era fatto un tempo confezionare a Londra.
Per tutta risposta, Des Esseintes si stropicciò le mani e andò a piantarsi davanti ad un armadio, dove, dietro i vetri, s'apriva a ventaglio un mazzo di calzini di seta. Esitò nella scelta; poi, considerando la tetraggine della giornata, l'austero chiaroscuro dell'abito, e la meta che si prefiggeva, si decise di botto per un paio di calzini color foglia secca. Li infilò lì per lì; vi calzò sopra degli stivaletti a fibbie e ad orli sfrangiati; indossò l'abito grigio-topo, quadrettato di grigio-lava e punteggiato di martora; calcò in capo una bombetta, s'avvolse in un soprabito sbracciato con pellegrina, blu lino; e, seguìto dal domestico curvo sotto il peso d'una valigia, d'una borsa a mantice, d'una sacca da notte, d'una cappelliera, d'una coperta da viaggio che conteneva ombrelli e bastoni, raggiunse la stazione.
Là dichiarò al domestico che non poteva dirgli quando sarebbe di ritorno, se tra un anno, un mese, una settimana od anche prima; gli raccomandò di lasciare in casa tutto com'era; gli consegnò la somma che presumeva a occhio e croce potesse bastare alla coppia per le spese durante la sua assenza; e salì sul vagone, lasciando il vecchio dietro il cancello a guardare a bocca aperta e braccia ciondoloni il treno mettersi in moto.
Nello scompartimento era solo.
Una campagna vaga, sporca, come vista attraverso l'acqua torbida d'un acquario, arretrava velocissima dietro il treno, sferzato dalla pioggia.
Des Esseintes chiuse gli occhi e si sprofondò nei suoi pensieri.
Una volta ancora la tanto agognata solitudine, al fine esaudita, aveva messo capo ad un atroce disagio; il silenzio, salutato da principio quale un compenso alle sciocchezze ascoltate per anni ed anni, era venuto a pesargli insostenibilmente.
Un mattino s'era svegliato, smanioso d'uscirne come il detenuto dalla cella. Non ne poteva più. Sì a lungo mortificate, le labbra si movevano da sé ad articolar suoni; lagrime gli salivano agli occhi; soffocava come avesse singhiozzato da ore.
Divorato dal desiderio di camminare, di vedere un viso umano, di discorrere non importa con chi, di mescolarsi alla vita di tutti, con un pretesto chiamò i domestici, li trattenne presso di sé. Ma non servì: conversare con essi era impossibile.
A parte il fatto che costretti da tanti anni a curare infermi, abituati al silenzio, quei vecchi avevano si può dire perduto l'uso della favella, la distanza a cui il padrone li aveva sempre tenuti, non era fatta per indurli ad aprirsi con lui. Senza dire che il loro cervello era pressoché arrugginito ed altro che monosillabi non trovavano per rispondere alle domande.
Non potè quindi ottenere nulla da loro, trovare nella loro compagnia alcun sollievo.
Intanto, la lettura di Dickens cui s'era recentemente dedicato per calmare i nervi e ch'era valsa solo ad esasperarli, andava poco a poco esercitando sul suo animo un'influenza inaspettata.
Cominciarono a visitarlo, a tenerlo assorto per ore e ore, visioni di vita inglese; e in quelle fantasticherie poco a poco s'insinuò il desiderio d'esaudirle con un viaggio, di verificarle sul posto: desiderio cui s'innestava la sete di nuove sensazioni, il bisogno di sfuggire per quella via a quel macinare a vuoto che lo intontiva, a quelle orgie cerebrali che lo riducevano un cencio.
L'orribile tempaccio, la nebbia e la pioggia favorivano quei pensieri; davano consistenza ai ricordi delle letture fatte; gli mettevano continuamente sottocchio la visione d'un paese di brume e di fango; impedivano ai pensieri di allontanarsi dal loro punto di partenza.
Non si dominò più; ed un giorno di punto in bianco s'era deciso. La sua impazienza fu tale che scappò di casa prima dell'ora; voleva sottrarsi al presente, sentirsi sgomitato nel chiasso d'una strada, nel baccano d'una folla e d'una stazione.
“Respiro,” diceva nel momento che il trenino rallentava per fermarsi sotto la pensilina, dove ritmava la sua corsa traballante il fragore a sbalzi delle piattaforme girevoli.
Affacciatosi in via d'Enfer, diede la voce ad un cocchiere. Godeva a vedersi così impacciato da valigie e coperte. Con la promessa d'una lauta mancia s'intese coll'uomo che sfoggiava un panciotto rosso su calzoni nocciola.
“Vi noleggio ad ora. In via Rivoli vi fermerete davanti al Calignani's Messenger.” Prima di partire, voleva provvedersi d'una guida di Londra, d'un Baedeker o d'un Murray.
La vettura si mise pesantemente in moto, sollevando con le ruote cerchi di mota.
Si diguazzava in piena palude. Sotto il cielo grigio che pareva toccare il tetto delle case, i muri ruscellavano, tra un traboccar di grondaie. Mota nerastra rendeva i selciati scivolosi; sui marciapiedi rasentati dagli omnibus crocchi di gente sostavano; per non essere inzaccherate, donne curve sotto ombrelli, con le sottane rimboccate sino ai ginocchi, s'addossavano più che potevano alle botteghe.
Siccome l'acqua entrava di traverso per gli sportelli, Des Esseintes dovette tirar su i vetri. Subito la pioggia li rigò, mentre d'ogni lato pillacchere di mota schizzavano a raggera.
Cullato da quel picchiettare monotono sul tetto della vettura come di piselli rovesciati a sacchi, Des Esseintes pensava al suo viaggio.
Parigi, con un tempo simile, non gli dava già un acconto d'Inghilterra? Sotto gli occhi non gli passava appunto una Londra piovosa, mastodontica, sterminata, tramandante odor di ferraccio riscaldato e di fuliggine, fumante senza tregua nel nebbione?
Ed ecco, come non bastasse, fughe di docks allungarsi a perdita d'occhio, gremiti di gru, di argani, di balle di mercanzia; formicolanti d'uomini appollaiati su alberi di nave, a cavalcioni su antenne; mentre sulle banchine altri, innumerevoli, rotolavano curvi, il deretano in aria, barili dentro fondaci.
Tutto quel mondo s'agitava su rive, in portifranchi colossali, bagnati dall'acqua rognosa e sorda d'un immaginario Tamigi, tra una selva d'alberi di nave, in una foresta di travature che trafiggeva lassù la livida nuvolaglia; intanto che in cielo treni filavano a tutto vapore, altri rotolavano nelle viscere della terra, ruttando fischi che facevano sobbalzare, vomitando da bocche di pozzi vortici di fumo; intanto che per le strade, pei grandi passeggi alberati, dove in un eterno crepuscolo esplodevano, vistose ed atroci, le brutture della pubblicità, fiumi di veicoli scorrevano tra siepi silenziose di gente indaffarata, che, stringendo ai fianchi i gomiti, si protendeva innanzi con lo sguardo.
Des Esseintes provava deliziosi brividi a sentirsi mescolato a quel pauroso mondo di trafficanti, perduto in quel nebbione che lo segregava, preso nello spietato ingranaggio che stritola milioni di diseredati - esortati da filantropi a recitar versetti, a consolarsi intonando salmi.
Lo trasse bruscamente da quella visione una scossa che lo fece sobbalzare sul sedile. Guardò dagli sportelli.
La notte era calata; nella fitta nebbia le fiammelle del gaz vacillavano in un alone giallastro; nastri di fuoco galleggiavano nelle pozze d'acqua, parevano saettare intorno alle ruote dei veicoli, trasaltanti dentro una fiamma liquida torbida.
Cercò di rendersi conto dov'era; scorse il Carrousel. Ed ecco, senza motivo, per semplice reazione forse all'altezza immaginaria da cui ruzzolava, la mente s'andò a fermare sul ricordo del più banale degli incidenti: mentre guardava preparare le valigie, aveva notato che il domestico tralasciava per dimenticanza d'includere fra gli oggetti d'uso personale uno spazzolino da denti.
Allora verificò la lista degli oggetti impacchettati; non uno mancava nella valigia; ma la contrarietà di aver omesso quello spazzolino durò sino a che l'arrestarsi della vettura non troncò la catena di quei ricordi e di quei crucci.
Era in via Rivoli, di fronte al GALIGNANI'S MESSENGER.
Separate da una porta a vetri smerigliati, tappezzate di scritte, di ritagli di giornale e di moduli turchini di telegrammi in cornice, due ampie vetrine rigurgitavano di album e di libri. Attirato da quella esposizione s'accostò.
C'erano rilegature in cartone blu parrucchiere e verde cavolo, fregiate su ogni costa di arabeschi d'oro e d'argento; rilegature in tela color carmelita, porro, fimo d'oca, ribes; impresse a freddo sul dorso e sulle parti piatte di filettature nere.
Tuttociò aveva qualche cosa di niente affatto parigino, una piega mercantilesca più cruda eppur men vile delle rilegature nostrane correnti. Qua e là in mezzo ad album squadernati, riproducenti scene umoristiche di Du Maurier e di John Leech o le pazze cavalcate di Coldecott, lanciate attraverso pianure in cromolitografia, qualche romanzo faceva capolino, mescolando a quell'agresto di tinte volgarità blande e soddisfatte.
Strappandosi da quella contemplazione, Des Esseintes spinse la porta; e penetrò in una vasta libreria, piena di gente; dove straniere sedute spiegavano carte ed a bassa voce facevano osservazioni in lingue sconosciute.
Un commesso gli recò tutto un assortimento di guide, dalla rilegatura flessibile che cedeva alla mano. Sedutosi a sua volta Des Esseintes le percorreva.
Una pagina del Baedeker lo arrestò: descriveva i musei di Londra. Le notizie laconiche e precise che dava lo interessarono; ma presto dall'antica pittura il suo pensiero passò alla nuova che lo attraeva maggiormente.
Alcuni saggi ne aveva visto, ricordava, in esposizioni internazionali e sperava di rivederle a Londra: delle tele di Millais, la “Veglia di Santa Agnese” d'un verde argenteo così suggestivamente lunare; quadri di Watts, inaspettati di colore, variegati di gommagutta e d'indaco; quadri che si sarebbero detti schizzati da un Gustave Moreau sul declino, dipinti a larghe pennellate da un Michelangelo anemico e ritoccate da un Raffaello annegato nel turchino.
Tra gli altri, gli galleggiavano nella memoria una “Denunzia di Caino”, un'“Ida” e delle “Eve”, dove da una originale e misteriosa amalgama di quei tre Maestri scaturiva la personalità quintessenziata e al tempo stesso prepotente di un inglese colto e sognatore, ossessionato da colori atroci.
Il ricordo di tutte quelle tele lo assediava disputandoselo.
Il commesso che vedeva con stupore il cliente incantarsi davanti a un tavolo, gli chiese su quale guida cadesse la sua scelta. La domanda lo tirò dal suo trasognamento; si scusò, acquistò un Baedeker e riuscì all'aperto.
L'umidità dell'esterno lo intirizzì. Il vento soffiando di sbieco sferzava i portici di raffiche di acqua.
“Fermate là” disse al cocchiere; ed indicava in fondo ad una galleria un negozio che faceva angolo tra via Rivoli e via Castiglione: le vetrate biancicanti rischiarate dall'interno, gli davano l'aspetto d'una lampada che vegliasse cheta l'opprimente nebbione.
Era la BODEGA. Des Esseintes si smarrì in una vasta ala, sorretta da pilastri di ghisa, che s'allungava a corridoio, con le pareti tappezzate tutto attorno da alte botti rizzate su panconi. Cerchiate di ferro, guernite al ventre di merlature di legno, simili a rastrelliere per pipe, ai cui denti pendevano bicchieri a tulipano capovolti; forate in fondo da una spina di quarzo, quelle botti, stemmate d'un blasone regale, recavano in vista, su etichette colorate, la provenienza del contenuto, la capacità del recipiente, il prezzo del vino a barile, a bottiglia od a bicchiere.
Nell'andito che restava libero tra le due ali di botti, otto fiamme a gaz ronzanti dai becchi d'un bruttissimo lampadario dipinto in grigio ferro, tavoli seminati di cestelli di biscotti Palmers, di sfoglie salate o no, di piatti colmi di mince-pie e di pagnottelle imbottite dall'aspetto innocente che celava scottanti mostarde di senapa, si susseguivano tra una siepe sino in fondo alla cantina; fondo bardato anch'esso di barili sormontati a carratelli coricati, coi nomi stampigliati a fuoco nel legno di quercia.
Appena Des Esseintes ebbe preso posto nella sala, lo avvolse l'aroma dei gagliardi vini che vi sonnecchiavano. Si guardò attorno.
Qui s'allineavano grosse botti da cui si spillava tutta la serie dei “porto”: dei vini secchi e amabili, color acagiù od amaranto, contrassegnati dai laudativi epiteti: old port, light delicate, cockburn's very fine, magnificent old Regina. Là arrotondando le epe possenti, fianco a fianco si pigiavano enormi fusti; contenevano i bellicosi vini di Spagna, lo xeres e i suoi affini color topazio bruciato o crudo, il san lucar, il pasto, il pale dry, l'oleroso, l'amontillado, dolci o secchi.
La cantina era affollata. Aggomitato ad uno spigolo di tavolo, Des Esseintes era in attesa del bicchiere di porto ordinato ad un gentleman occupato a sturare esplosive soda, contenute in bottiglie ovali che ricordavano, esagerandone le dimensioni, le capsule di gelatina e di glutine che gli speziali adoperano per mascherare il gusto di certi farmachi.
Intorno a lui c'erano inglesi a josa: pallidi clergymen contegnosi, in nero da capo a piedi, con cappelli flosci, scarpe a lacci, redengotte sino a terra, costellate sul petto di piccoli bottoni; menti rasi, lenti tonde, chiome lustre e lisce; facce rubizze di trippai, musi di cane su colli apoplettici, orecchi come pomidoro, gote vinose, occhi iniettati e idioti, collari di barba simili a quelli di certe grandi scimmie.
Più oltre all'altro capo del vasto fondaco un impacciato spilungone dai capelli di stoppa, il mento guernito di peli bianchi come il ricettacolo d'un carciofo, decifrava i minuti caratteri romani d'un foglio inglese. In faccia a lui una specie di commodoro americano, corpacciuto e tozzo, dalla carnagione affumicata e dal naso a bulbo, un sigaro piantato nel cespuglioso buco della bocca, s'appisolava a fissare la pubblicità, messa in cornice sulle pareti, dei vini di Champagne, marca Perrier o Roederer, Heidsieck o Munn e la testa incappucciata di monaco col nome in caratteri gotici di Don Pérignon a Reims.
Una specie di languore invase Des Esseintes in quella atmosfera da corpo di guardia; intontito dal chiacchiericcio degli inglesi che discorrevano fra loro, fantasticava.
Il Porto che riempiva della sua porpora i bicchieri gli evocava i personaggi di Dickens, così proclivi al bere, popolando la Bodega di nuovi clienti.
Qui Des Esseintes vedeva i capelli bianchi e la carnagione accesa di mister Wickfield; là l'espressione flemmatica e astuta, l'occhio implacabile di Tulkinghorn, il funebre avvocato di Bleackhouse. In realtà ogni personaggio si staccava dalla sua memoria, s'allogava nella Bodega coi suoi gesti e la sua storia; i ricordi ravvivati dalla recente lettura acquistavano un'incredibile nettezza. La città del romanziere, la sua casa ben riscaldata, ben rischiarata, servita inappuntabilmente, ermeticamente chiusa, le bottiglie mesciute adagio dalla piccola Dorrit, da Dora Copperfield, dalla sorella di Tom Pinch - tutto ciò gli apparì come il tepore d'un'arca che navigasse tra un diluvio di fango e di fuliggine.
Felice di sentirsi al riparo, s'infingardì in quella Londra fittizia; navigavano il Tamigi i rimorchiatori cui porgeva l'orecchio e che lanciavano sinistri ululi presso il ponte, dietro le Tuileries.
Il bicchiere era vuoto. Nonostante il calore dell'ambiente, accresciuto ancora dal fumare intorno di sigari e di pipe, Des Esseintes, tornando alla realtà, provò un piccolo brivido al pensiero dell'umidità malodorante dell'esterno.
Chiese un bicchiere d'amontillado. Ma quel vino pallido e secco disfogliò le malve dell'autore inglese, disperse il ricordo delle sue storie al bromuro; ed evocò in vece loro i potenti revulsivi, i rubefacenti senapismi di Edgar Poe.
Des Esseintes soggiacque così all'incubo gelato della botte d'amontillado, dell'uomo murato nel sotterraneo. Allora le faccie bonarie e qualunque dei bevitori gli sembrarono riflettere pensieri involontari e atroci, covare istinti e progetti esecrandi.
Finché s'accorse che il locale si vuotava minacciando di lasciarlo solo: l'ora di cena s'avvicinava. Pagò, si strappò via dalla sedia e intontito raggiunse l'uscita.
Sulla soglia lo accolse uno schiaffo bagnato.
Accecati dalla pioggia e dalle raffiche, i lampioni agitavano i ventaglietti di fiamma senza riuscire a far luce; abbassatosi, il cielo oltrepassava ora di poco l'altezza dei primi piani. La fuga dei portici annegati nell'ombra, gli lasciò un attimo credere di percorrere il traforo scavato sotto il Tamigi.
Stiracchiamenti allo stomaco lo richiamarono alla realtà. Raggiunse la vettura, gettò all'uomo l'indirizzo della taverna di via d'Amsterdam, nei pressi della stazione.
Consultò l'oriolo: eran le sette. Aveva giusto il tempo di cenare, il treno non partiva che alle otto e cinquanta. E contava sulle dita le ore di traversata tra Dieppe e Newhaven: “Se l'orario ferroviario non mente, domani a mezzogiorno e mezza sono a Londra.”
La vettura s'arrestò davanti alla Taverna. Di nuovo Des Esseintes ne scese; penetrò in una lunga sala senza dorature, bruna, divisa da tramezzi ad altezza di gomito in tanti scomparti, simili a quelli d'una scuderia. Nella sala, che davanti all'ingresso s'allargava, era un banco e sul banco carratelli di birra si rizzavano in gran numero, affiancati da giamboni anneriti come vecchi violini, da aliguste accese di minio, da sgombri marinati, cosparsi di rotelle di cipolle e di carote crude, di fette di limone, di mazzetti di lauro e di timo, di coccole di ginepro e di pepe macinato grosso, nuotante in una salsa torbida.
Uno di quegli scomparti era libero. Des Esseintes ne prese possesso e diede la voce ad un giovinotto in abito nero che s'inchinò gorgogliando parole incomprensibili.
Mentre costui apparecchiava, Des Esseintes diede un'occhiata ai suoi vicini di tavola.
Anche qui come alla Bodega, degli insulari dagli occhi di maiolica, dalla carnagione cremisi, dall'aria assorta od altezzosa, scorrevano giornali stranieri.
Solo alcune donne senza cavaliere cenavano fra loro faccia a faccia: robuste inglesi dai visi di maschi, dentoni come racchette, mele rubizze per gote, manoni e piedoni; attaccavano con voracità un rumpsteak-pie, piatto caldo di carne, cotta in salsa di fungo, e rivestita di crosta come un pasticcio.
Da tanto tempo gli faceva difetto l'appetito, che Des Esseintes si sentì mortificato alla vista di quelle gagliarde mangiatrici; la loro voracità gli aguzzò la fame.
Ordinò una zuppa oxstail e si celebrò quella minestra fatta con coda di bue, untuosa insieme e vellutata, grassa e consistente. Poi, scrutata la lista del pesce, fissò la sua scelta su un haddok, specie di merluzzo affumicato che gli sembrò egregio. E, preso da subitanea fregola mangereccia a veder gli altri impinzarsi, divorò un rosbiffe con contorno di mele e lo inaffiò di due pinte di “ale”, invitato dal gusto di vaccheria muschiata che emana questa fine e pallida birra.
La sua fame si placava. Peluzzicò un niente di formaggio turchino di Stilton, dolce e amaro ad un tempo; pecchiò una torta al rabarbaro; e, per cambiare, si dissetò col “porter”, quella birra inglese che, lo zucchero in meno, sa di succo di regolizia.
Rifiatava. Non gli capitava da anni di bere e pacchiare a quel modo; quello scarto nelle abitudini, quell'assortimento di cibi imprevisti e sostanziosi, aveva tirato lo stomaco dal suo sonno.
Si sprofondò nella sedia, accese una Muratti e si preparò a gustare la tazza di caffè che battezzò abbondantemente di gin.
Seguitava a piovere. Udiva l'acqua crepitare sui vetri che soffittavano in fondo il locale, ingorgar le grondaie donde cadeva a cascatelle.
Nessuno si moveva nella sala: tutti si crogiolavano come lui all'asciutto, davanti al bicchierino.
Le lingue si sciolsero. Siccome quasi tutti alzavano parlando gli occhi al soffitto, Des Esseintes ne concluse che commentavano il tempaccio. Non uno di quegli inglesi rideva; tutti eran vestiti di lana scozzese rigata di giallo nanchino e di rosa cartasuga.
Compiaciuto si guardò l'abito; per tinte e per taglio, non differiva gran fatto da quello degli altri. Fu lieto di non stonare là dentro, d'essere in qualche modo e superficialmente naturalizzato londinese.
A un tratto sobbalzò: e l'ora del treno? Consultò l'oriolo: mancavan dieci alle otto: “Ho ancora quasi una mezz'ora di tempo da restar qui.” E una volta di più il pensiero gli andò al viaggio progettato.
Nella sua vita due soli paesi lo avevano tentato: l'Olanda e l'Inghilterra. La prima curiosità l'aveva esaudita. Un bel giorno, non reggendo più, aveva lasciato Parigi e visitato una ad una le città dei Paesi Bassi. Da quel viaggio, tirate le somme, aveva riportato crudeli disillusioni.
Dell'Olanda s'era fatto un'idea sui quadri di Teniers e di Steen, di Rembrandt e di Ostade; foggiandosi a proprio uso ghetti dorati dal sole come corami di Cordova; immaginando sbalorditive kermesse, continue ribotte in campagna; aspettandosi di trovarvi quella bonomia patriarcale, quella ridaciana licenza di costumi che gli antichi maestri avevano celebrato.
Certo, Harlem ed Amsterdam gli erano piaciute; il popolo, non ancora dirozzato dell'autentica campagna, somigliava sì a quel dipinto da Van Ostade, coi suoi bambini tagliati con l'accetta e non rimondati; con le lardose comari prominenti di grosse tette e ventrute; ma niente sfrenate esultanze, niente grandi sbornie in famiglia.
Allo stringer dei conti, gli era giocoforza riconoscere che la scuola olandese del Louvre l'aveva ingannato, ch'era solo servita di trampolino ai suoi sogni. Slanciatosi al galoppo su quella falsa pista, pieno il capo di visioni impareggiabili, Des Esseintes non aveva per nulla scoperto il paese magico eppure reale che aveva sperato; non aveva affatto assistito, su prati seminati di botti, a danze di villani e villane lagrimanti di gioia, scalpitanti di felicità che si scompisciassero dal troppo ridere brache e sottane.
Ah no: nulla di simile gli era stato possibile vedere. L'Olanda era un paese come ogni altro e, quel che è peggio, un paese niente affatto primitivo, niente affatto bonaccione; ché anzi il protestantesimo vi infieriva con le sue rigide ipocrisie, con la sua solenne intransigenza.
Adesso l'amaro di quel disinganno si riaffacciava al ricordo. Consultò daccapo l'oriolo: non mancavano più che dieci minuti alla partenza del treno. “Se non voglio mancarlo, ho appena il tempo di chiedere il conto e di filare” si disse.
Sentiva un peso allo stomaco ed una gravezza in tutte le membra, grandissimi.
“Suvvia” s'incoraggiò “beviamo il bicchiere della staffa.” E mentre se lo mesceva, di arzente, domandò il conto.
Un tizio in abito nero, con la salvietta sul braccio, una specie di maggiordomo dal cranio appuntito e calvo, una barba imponente più bianca che grigia, il labbro raso, si presentò con la matita all'orecchio. Si postò, avanzando una gamba come in procinto di cantare; tolse di tasca un calepino; e, fissando anziché il foglio, il soffitto in direzione d'un lampadario, sgorbiò gli addendi e tirò la somma.
“Ecco” disse, strappando il foglietto e porgendolo al cliente.
Des Esseintes incuriosito lo contemplava come una bestia rara.
“Che splendido campione di John Bull!” si diceva, considerando il flemmatico personaggio che la bocca rasa faceva somigliare ad occhio e croce ad un timoniere della marina americana.
In quella, la porta d'ingresso s'apri; gente entrò recando seco un odore di can bagnato, cui si mescolò fumo di carbonfossile, ricacciato dal vento nella cucina la cui porta senza nottolino sonò come uno schiaffo.
Des Esseintes era incapace di muover le gambe. Un caldo e soave senso di inesistenza gli legava le membra, gli impediva sinanco di stender la mano per accendersi il sigaro.
S'esortava: “Andiamo, suvvia: è tempo di filare.” Ma subito obbiezioni sorgevano a contraddire i suoi ordini.
A che pro muoversi quando si può viaggiare tanto bene restandosene su una sedia? Non era egli già a Londra? Odori, aria, abitanti, cibi, suppellettili non eran già intorno a lui quelli che troverebbe alla meta? Che poteva mai sperare recandovisi davvero, se non nuovi disinganni come gli era successo in Olanda?
Non gli restava più che il tempo di correre al treno; ed ecco che una insormontabile avversione per i viaggi, un imperioso bisogno di starsene tranquillo s'imponevano alla sua con una volontà sempre più decisa, di minuto in minuto più cocciuta.
Sovrappensiero, lasciò scorrere i minuti, tagliandosi così la fuga, dicendosi: “Ormai dovrei precipitarmi agli sportelli, fare a gomitate per recuperare i bagagli. Che seccatura! che sfacchinata sarebbe!” E una volta di più ripeté: “Non ho forse provato e visto tutto quello che volevo provare e vedere? Di vita inglese ho fatto, dacché son qui, una vera scorpacciata. Dovrei essere matto per andare a perdere, a prezzo di un trasferimento balordo, delle sensazioni indimenticabili! Quale aberrazione non è stata la mia quando tentai di rinnegare le mie vecchie convinzioni, di condannare il pegaso della fantasia che mi porta dovunque voglio! Quale stoltezza aver creduto, come un vero baggiano, alla necessità, all'interesse che presenterebbe per me lo spostarmi!
E guardando un'ultima volta l'oriolo: “Veh, ma è l'ora di rientrare a casa!”
Stavolta si rizzò sulle gambe; uscì, ordinò al cocchiere di ricondurlo alla stazione di Sceaux; e con valigie, pacchi, borse, coperte, ombrelli e bastoni tornò a Fontenay; risentendo tutti i sintomi della stanchezza fisica e morale d'un uomo che reintegra il domicilio alla fine d'un lungo e periglioso viaggio.

XII

Nei giorni che seguirono il ritorno, Des Esseintes sostò in lunghe contemplazioni davanti ai suoi libri; e, all'idea che avrebbe potuto restarne separato per molto tempo, il rivederli gli diede una tale gioia che maggiore non avrebbe provato dopo una lunga assenza. Sentimento che glieli mostrò sotto una luce nuova, gli fece in essi scoprir pregi che gli erano caduti di mente dal tempo che li aveva comprati.
Né solo i libri; dal mobilio ai ninnoli tutto acquistò un incanto particolare. Il letto gli parve più soffice paragonato con quello in cui avrebbe dormito a Londra: il modo discreto e silenzioso con cui i domestici disimpegnavano il servizio lo incantò, stanco com'era, nell'immaginazione, del chiasso e della loquacità dei camerieri d'albergo; la regola di vita che s'era imposta, più che accettabile, gli parve degna d'invidia ora che diventava possibile l'imprevisto dei viaggi.
S'immerse di nuovo nella solita vita come in un bagno che artificiali rimpianti rendevano più tonico e corroborante.
Ma la preoccupazione maggiore rimasero i libri. Li riprese in mano ad uno ad uno; li ordinò di nuovo negli scaffali; si sincerò che a Fontenay calore e umidità non ne avessero sciupato la bella carta o deteriorato la rilegatura.
La prima a venir messa sossopra fu la collezione latina; quindi nuovo assetto ricevettero le opere di cabala e di scienze acculte di Archelao, d'Alberto il Grande, di Lullo, d'Arnaldo di Villanova; fu infine la volta dei libri contemporanei, che ebbe la gioia di trovar tutti in perfetto stato di conservazione.
Questa collezione gli era costata parecchio. Non ammetteva infatti che gli autori prediletti figurassero nella sua biblioteca vestiti di fustagno e calzati di scarponi chiodati come montanari dell'Alvernia.
A Parigi in passato s'era fatto stampare, per suo uso personale, libri con torchi a braccia da maestranze assunte a questo scopo. Talora ricorreva a Perrin, a Lione; ai suoi caratteri svelti e puri, quel che v'era di meglio per la ristampa in caratteri arcaici di piccoli antichi libri; talora, ed era quando si trattava di opere contemporanee, faceva venire nuove fogge di caratteri dall'Inghilterra e dall'America; talvolta ancora si rivolgeva ad una casa di Lilla che possedeva da secoli un assortimento completo di caratteri gotici; talvolta infine s'accaparrava l'antica stamperia Enschedé di Harlem, che conservava in fonderia i punzoni ed i coni dei caratteri detti di civiltà.
Non diversamente aveva proceduto per la carta. Ristucco un bel giorno delle Chine argentate, delle Giappone madreperlacee e dorate, dei bianchi wathmans, delle Olanda bigie, dei turkey e dei seychalmill color camoscio; stufo del pari della carta a macchina, s'era commissionato carte vergate in appositi formati dalle antiche cartiere di Vire dove ci si serve tuttora dei pestelli adoperati per pestare la canapa.
Per introdurre un po' di varietà nelle sue collezioni, a più riprese s'era fatto venire da Londra stoffe manganate, carte lanuginose, carte lineate orizzontalmente; e perché il suo cliente potesse guardare con sovrano disprezzo gli altri bibliofili, un cartaio di Lubecca gli preparava una carta à chandelle perfezionata, turchiniccia, sonora, un po' vetrina, nel cui impasto tenevano il posto del detrito vegetale pagliuzze d'oro simili a quelle che punteggiano l'acquavite di Danzica.
Era in questo modo venuto in possesso d'edizioni senza rivali adottando insoliti formati che da Lortic, da Trautz-Bauzonnet, da Chambolle, dai successori di Capé faceva rivestire d'impeccabili rilegature in seta antica, in cuoio stampato, in pelle di becco del Capo; di rilegature piene a scomparti e mosaici, foderate di tabì o di moerro; ecclesiasticamente fregiate di canti e di fermagli; a volte persino adornate da Gruel-Engelmann di argenti ossidati e di splendidi smalti.
Così, coi mirabili caratteri episcopali dell'antica casa Le Clere s'era fatto stampare le opere di Baudelaire, in un formato arieggiante quello dei messali, su lievissimo feltro del Giappone, spugnoso, soave al tatto come midolla di sambuco, con un sospetto di rosa nel latteo biancore.
Questa edizione in unico esemplare, stampata nel nero vellutato dell'inchiostro di China, era stata vestita al di fuori e ricoperta dentro d'una autentica meravigliosa pelle di scrofa: scelta fra mille, color carne; picchiettata al posto delle setole e adorna di merletti neri impressi a freddo, assortiti con squisito gusto da un autentico artista.
Quel giorno Des Esseintes tolse dallo scaffale l'impareggiabile volume. Se lo palpeggiava religiosamente; si rileggeva poesie che, in quella semplice ma inestimabile cornice, gli parevano più inebrianti del solito.
Per questo scrittore Des Esseintes nutriva una ammirazione sconfinata.
Dell'anima, sino a Baudelaire, i letterati s'erano a suo avviso limitati ad esplorare la superficie; e se si erano avventurati nel suo sottosuolo ciò era avvenuto per le parti di facile accesso e in luce.
Qua e là avevano segnalato giacimenti di peccati mortali, ne avevano studiato i filoni, il modo di svilupparsi; avevano messo in evidenza, come a esempio Balzac, lo stratificarsi dell'anima sotto il dominio di una passione che tutta l'assorbe: l'ambizione, l'avarizia, la dabbenaggine paterna, l'amor senile.
Ma si era ancora, in fin dei conti, ai vizi e alle virtù che scoppiano di salute, al tranquillo funzionamento di cervelli normalmente configurati, sul terreno pratico delle idee correnti, senza curiosità di morbose depravazioni, senza desiderio di maggiori approfondimenti. Ciò che insomma questi analisti avevano scoperto non andava oltre gli schemi, buoni o cattivi, cui era giunta nelle sue speculazioni la Chiesa. Si trattava ancora di semplice ricerca; dell'ordinaria attenzione con cui il botanico segue d'appresso il preveduto svilupparsi in natura della solita flora.
Baudelaire era andato più in là. Si era calato sino in fondo all'inesauribile miniera, cacciato per cunicoli abbandonati o ignorati, s'era spinto in quei recessi dell'anima in cui si ramificano le mostruose vegetazioni del pensiero.
Colà, ai confini oltre i quali soggiornano le aberrazioni e le malattie, il tetano mistico, la quartana della lussuria, le tifoidee e i vomiti del crimine, aveva trovato, a covare sotto la tetra campana del tedio, la spaventosa menopausa dei sentimenti e delle idee.
Egli ci aveva rivelato la psicologia morbosa dello spirito che ha toccato l'ottobre delle sensazioni; narrato i sintomi dell'anima che il dolore s'accaparra, che lo spleen privilegia; additato la progressiva tabe che mina la sensibilità allorché gli entusiasmi si raffreddano, le fedi della gioventù inaridiscono; allorché all'intelletto, schiacciato da un destino assurdo, più non resta che l'arido ricordo dei mali sopportati, dei rifiuti subiti, degli oltraggi sofferti.
In ogni sua fase aveva seguito il lamentevole autunno di cui è vittima la creatura umana, facile ad inasprirsi, abile a frodare se stessa; l'uomo che costringe i suoi pensieri a corbellarsi a vicenda per meglio patire; che si guasta in anticipo ogni possibile gioia a forza di esaminarla da ogni parte e di anatomizzarla.
Poi in quell'anima dalla sensibilità così esasperata portata dalla riflessione a respingere con ferocia una abnegazione tanto più imbarazzante quanto più calorosa, a guardarsi dagli amorevoli oltraggi di un affetto dettato da carità, egli vedeva poco a poco sorgere spaventose quelle passioni in ritardo, quei maturi amori in cui uno si abbandona ancora mentre già l'altro si tiene in guardia; in cui la stanchezza dell'uno chiede all'altro carezze filiali che seducono per la loro apparente novità, candido affetto materno che riposi per la sua dolcezza e lasci in pari tempo gustare i piccanti rimorsi di un vago incesto.
In magnifiche pagine aveva esposto questi ibridi amori, esasperati dall'impossibilità in cui sono di appagarsi; le pericolose menzogne degli stupefacenti e dei tossici cui l'infermo ricorre per addormentare la sofferenza e domare la noia.
In un tempo in cui la letteratura imputava quasi interamente il dolore di vivere al disinganno di un amore non corrisposto o alle gelosie dell'adulterio, egli aveva trascurato queste scarlattine e sondato invece le ferite tanto più difficili a rimarginarsi, tanto più dolorose e profonde, che apre la sazietà, la delusione, il disprezzo in quelle anime in isfacelo che l'oggi tortura, l'ieri colma di disgusto, l'indomani atterrisce e dispera.
E più Des Esseintes rileggeva Baudelaire più avvertiva un ineffabile fascino in questo scrittore che, in un tempo in cui il verso non serviva più che a ritrarre l'aspetto esterno di esseri e cose, era riuscito ad esprimere l'inesprimibile, grazie ad una lingua tutta muscoli e polpa; che meglio di ogni altro scrittore possedeva la meravigliosa dote di rendere nel modo più chiaro gli stati d'animo morbosi, meno definibili, più oscillanti degli spiriti spossati e delle anime tristi.
A partire da Baudelaire, si diradavano nella scansia i libri francesi. Des Esseintes era del tutto insensibile alle opere per le quali è indizio di gusto avvertito estasiarsi. “Il grande riso di Rabelais” e “la solida comicità di Molière” non riuscivano a spianare sulla sua fronte una ruga; e l'antipatia che provava per questi buffoni era così spinta che gli facea temere di confonderli, dal punto di vista dell'arte, con le esibizioni di quegli scimuniti che fanno del loro meglio per rallegrare le fiere.
Dei poeti antichi leggeva quasi solo Villon, del quale lo commovevano le malinconiche ballate; e qualche brano di D'Aubigné che qua e là gli sferzava il sangue con l'incredibile virulenza delle sue apostrofi e dei suoi anatemi.
Tra i prosatori, poco conto faceva di Voltaire e di Rousseau, nonché di Diderot, di cui i tanto magnificati “salons” trovava pieni, al di là di ogni discrezione, di scemenze morali e di aspirazioni balorde. In odio a tutta questa farragine, si rifugiava quasi unicamente nella lettura dell'eloquenza cristiana, di Bourdaloue e di Bossuet; il loro periodare sonoro ed abbigliato gli incuteva rispetto; ma più ancora gustava i pensieri di Nicole, che nel giro della frase incisiva e disadorna condensano tanta vitale sostanza; e soprattutto Pascal, il cui austero pessimismo, la cui dolorosa attrizione gli andavano al cuore.
A parte questi pochi libri, la letteratura francese cominciava, nella sua biblioteca, col secolo.
Si divideva in due gruppi: uno abbracciava la letteratura propriamente detta, quella profana; l'altro la letteratura cattolica: una letteratura di un genere speciale, pressoché ignorata nonostante gli sforzi che grandi secolari case editrici facevano per divulgarla in tutto il mondo.
Egli non aveva arretrato davanti all'impresa di percorrere quelle catacombe e, come era avvenuto per l'arte laica, sotto valanghe di carta da macero aveva scoperto qualche autentico autore.
Contrassegnava questa letteratura la fedeltà a certe idee e l'uso costante di un certo linguaggio. Come la Chiesa s'era inibita qualunque variante alla forma, fissata una volta per sempre, degli oggetti sacri, allo stesso modo con le reliquie dei dogmi aveva religiosamente serbato il tabernacolo che le accoglieva: la lingua oratoria del secolo d'oro. Come anche dichiarava uno dei suoi scrittori, Ozanam, lo stile cristiano non sapeva che farsi della lingua di Rousseau, esso doveva valersi unicamente del dialetto di Bourdaloue e di Bossuet.
A dispetto di questa affermazione, la Chiesa, più tollerante, chiudeva gli occhi su certe espressioni, certi giri di frase, tolti in prestito alla lingua laica del secolo; ed il linguaggio cattolico s'era un po' alleggerito del suo periodare massiccio che appesantivano, specie in Bossuet, le interminabili parentesi ed il faticoso allacciamento, affidato ai pronomi, di frase con frase; ma le concessioni s'erano fermate lì; ed altre sarebbero risultate superflue perché, così sveltita, quella prosa bastava egregiamente ai limitati soggetti che la Chiesa si condanna a trattare.
Incapace di riallacciarsi alla vita del suo tempo, di rendere con efficacia il più semplice aspetto di esseri e cose, inetta a spiegare le complicate astuzie d'un cervello refrattario alla grazia, quella lingua vinceva però ogni altra nel trattare soggetti astratti. Utile nella discussione di un punto controverso, nella dimostrazione di una teoria, nell'incertezza di una interpretazione, più di ogni altra pure essa aveva l'autorità necessaria per affermare senza discussione la verità di una dottrina.
Disgraziatamente, come sempre anche qui, una folla di tangheri aveva invaso il santuario e ne aveva con la propria ignoranza e mancanza di talento insudiciato l'austerità e la nobiltà. Per colmo di disdetta, pie donne se n'erano immischiate e i loro lamentevoli cicalecci erano stati esaltati come opere di genio da malaccorte sacristie e da incauti salotti.
Fra queste, aveva incuriosito Des Esseintes l'opera della Swetchine, la generalessa russa, la cui casa era stata a Parigi la meta dei più ferventi cattolici. Quella lettura lo aveva massacrato di noia: peggio che brutti libri, eran quelli dei libri qualunque; pareva di trovarsi in una chiesuola dove tutto un pubblico altezzoso e bigotto borbottasse preci, sottovoce si scambiasse notizie, si ripetesse con aria di mistero e con importanza luoghi comuni sulla politica, sulle previsioni del barometro, sul tempo che faceva.
Ma c'era chi batteva la Swetchine: una laureata con tanto di diploma di istituto, la signora Augusta Craven, l'autrice del Récit d'une soeur, di un'Eliane, di un Fleurange; opere che la stampa cattolica ortodossa esaltava in coro con accompagnamento d'organo e di fagotto.
No, mai e poi mai Des Esseintes avrebbe supposto che si potessero scriver di simili scemenze. Stupidi dal punto di vista del contenuto, quei libri erano per sovramercato scritti in una lingua che finiva per renderli quasi quasi personali, poco meno che delle rarità.
Del resto non era certo in libri di donne che Des Esseintes, scarsamente sentimentale com'era e lettore punto novellino, poteva trovare un pascolo letterario adatto ai suoi gusti.
S'accostò tuttavia, con la migliore disposizione e armato d'un buon volere che doveva aver ragione d'ogni scatto d'impazienza, all'opera del genio in gonnella, della Vergine sdottorante del gruppo. Non servì; non trovò alcun piacere nella lettura di quel “Diario” e di quelle “Letture” dove Eugénie de Guérin esalta al di là di ogni discrezione il portentoso talento di un fratello che verseggiava con una grazia, con un candore, che bisognava risalire al signor De Jouy e al signor Écouchard Lebrun per trovare qualche cosa che gli stesse a paro per audacia e originalità.
Invano egli aveva cercato di capire in che consistesse il pregio di quei libri in cui si incontravano notizie come queste: “Ho appeso stamane al capezzale del babbo la croce che una bimbetta gli diede ieri” - “Siamo invitati Mimì ed io ad assistere domani in casa del signor Requiers alla benedizione di una campana; è una gita che non mi dispiace”; dove si apprendono avvenimenti di questa importanza: “Mi sono ora appesa al collo una medaglia della SS. Vergine che Luisa mi ha spedito perché mi preservi dal colera”; dove si notano lampi poetici di questo genere: “Oh il bel raggio di luna venuto a posarsi sul vangelo che stavo leggendo!”; infine delle osservazioni acute e delicate come questa: “Quando un uomo che passa davanti ad una croce lo vedo segnarsi o togliersi il cappello, mi dico: Ecco un cristiano che passa.”
E su questo tono l'autrice seguitava, senza dare al lettore un momento di respiro; finché Maurice De Guérin moriva e la sorella lo piangeva in nuove pagine, scritte in uno stile acquoso, seminato qua e là di saggi di poesia d'una così mortificante povertà da finire per muovere Des Esseintes a pietà.
Oh non si poteva dire davvero che il partito cattolico fosse difficile nella scelta dei suoi pupilli né che in fatto d'arte si mostrasse di gusti esigenti!
Queste sue colombelle per le quali manifestava tante premure, alle quali aveva aperto i suoi fogli sino a stancare la pazienza dei redattori, scrivevano tutte come educande in una lingua incolore, come prese da una diarrea contro la quale non valessero astringenti.
Ce n'era d'avanzo perché Des Esseintes distornasse la faccia inorridito; ma a compensarlo di quel disgusto, a fargli la bocca meno amara, non bastavano certo i grandi sacerdoti in cattedra del suo tempo.
Eran costoro, certo, predicatori o polemisti impeccabili e corretti; ma la lingua che adoperavano nei loro libri o sermoni aveva finito per perdere ogni personalità, per fissarsi in una rettorica dai movimenti e dalle pause previste, in sfilze di periodi calcati tutti su un unico modello.
Tutti gli uomini di chiesa scrivevano infatti alla stessa guisa; e se si distinguevano fra loro, era per un po' più o meno d'enfasi e d'abbandono. Quasi nessuna differenza s'avvertiva tra le pagine egualmente grigie dei Monsignori Dupanloup o Landriot, La Bouillerie o Gaume; del benedettino Guéranger o del padre Rastibonne, di Monsignor Freppel o di Monsignor Perraud, dei Reverendi Padri Ravignan o Gratry, del gesuita Olivain, il carmelitano Dosithée, il domenicano Didon o dell'ex priore di San Massimino, il reverendo Chocarne.
Non era la prima volta che Des Esseintes se lo diceva: per disgelare quella lingua, per dar vita a quello stile per tutti, incapace a reggere il peso di un'idea che non fosse prevista, a sostenere una tesi che fosse coraggiosa, occorreva in chi l'adoperava un talento di prim'ordine, una originalità ben profonda, una fede ben radicata.
Eppure qualche scrittore c'era che col calore dell'eloquenza sapeva fonderla e atteggiarla a modo suo; primo fra questi Lacordaire, uno dei pochissimi veri scrittori che da anni avesse dato la Chiesa.
Imprigionato come tutti i suoi colleghi nell'angusta cerchia dell'ortodossia, obbligato com'essi a muoversi in quell'ambito, a non valersi che di concetti enunciati e sanciti dai Padri della Chiesa e svolti dalle cattedre e dai pulpiti, egli riusciva a dare l'illusione che così non fosse, a ringiovanire quei concetti, a modificarli quasi, dando loro una forma più personale e più viva. Qua e là nelle sue conferenze a Notre-Dame, genialità d'espressioni, audacie di vocaboli, accenti d'amore, balzi, gridi d'esultanza, effusioni incontenibili facevano vibrare sotto la sua penna quello stile impassibile da secoli.
Poi, oltre l'oratore di talento che c'era in questo mite e valente frate, il quale aveva consacrato ogni suo sforzo, messa tutta l'intelligenza nell'impossibile compito di conciliare le dottrine d'una società liberale con i dogmi autoritari della Chiesa, c'era in Lacordaire un cuore traboccante di contenuta tenerezza, di fervida dilezione. Nelle lettere che indirizzava ai giovani si trova la dolcezza d'un padre che esorta i figli: sorridenti reprimende, amorevoli consigli, indulgenti perdoni.
Incantevoli le lettere dove confessa candidamente la sua ingordigia d'affetto; quasi imponenti altre, scritte per sostenere il coraggio in chi vacilla e dissiparne i dubbi con le incrollabili certezze della sua Fede. Insomma quell'affetto di padre che dava alla sua parola una delicatezza poco meno che femminea, conferiva alla sua prosa un accento che la distingueva da tutta la letteratura clericale.
Ben rari si facevano dopo lui i frati e gli ecclesiastici che mostravano una loro, per quanto modesta, personalità. Tutto al più, si prestava ancora alla lettura qualche pagina del suo allievo, l'abate Peyreyve. Questi aveva lasciato del maestro commoventi biografie, scritto qualche bella lettera, composto qualche articolo nella sonora lingua dei sermoni, pronunciato dei panegirici in cui si avvertiva però troppo il tono declamatorio.
Certo, l'abate Peyreyve non possedeva né il cuore né gli entusiasmi del maestro. Egli era troppo prete e troppo poco uomo; pure nella sua oratoria sorprendevano, qua e là, degli accostamenti interessanti, un periodare largo e consistente, dei voli quasi imponenti.
Ma bisognava giungere agli scrittori che non avevano ricevuto gli Ordini, agli scrittori laici, fautori del cattolicesimo e devoti alla sua causa, per trovare dei prosatori meritevoli di sosta.
Lo stile episcopale, così scaduto nell'uso fattone dai prelati, s'era ritemprato ed aveva acquistato un certo maschio nerbo col conte di Falloux.
Sotto un aspetto mite, questo accademico trasudava fiele. Se nei discorsi pronunciati al parlamento nel 1848 era prolisso e grigio, gli articoli apparsi sul Correspondant e riuniti poscia in libro, erano invece di una asprezza e causticità che l'esagerata cortesia della forma non bastava a mascherare. Concepiti come arringhe, li permeava un certo amaro brio e sorprendevano per l'intransigenza della convinzione.
Polemista pericoloso per i trabocchetti che tendeva, loico scaltro che arrivava per vie traverse e coglieva l'avversario di sorpresa, il conte di Falloux aveva pure scritto qualche acuta pagina sulla morte della Swetchine, ch'egli venerava come una santa e della quale aveva raccolto gli opuscoli.
Ma dove il suo talento di scrittore si rivelava veramente, era in due opuscoletti comparsi l'uno nel '46, l'altro nell'80; quest'ultimo intitolato l'Unité nationale.
Animato di fredda rabbia, l'irreducibile legittimista combatteva questa volta, contro il solito, a viso aperto e lanciava in faccia agli increduli, a mo' di perorazione, di queste invettive fulminanti:
“E voi, utopisti per sistema, che astraete dalla natura umana, fautori d'ateismo nutriti d'odio e di chimere, emancipatori della donna, sovvertitori della famiglia, genealogisti della razza delle scimmie, voi, che chiamare per nome era ancora poco fa un'ingiuria, esultate; voi sarete stati profeti e i vostri scolari saranno i pontefici d'un abominevole avvenire!”
L'altro opuscolo recava il titolo: Le parti catholique ed era diretto contro il despotismo dell'Univers e contro Veuillot, del quale disdegnava di fare il nome.
Qui gli attacchi indiretti ricominciavano. Ogni riga schizzava veleno con cui il gentiluomo, coperto di lividi, rispondeva con sprezzanti sarcasmi alle calciate dell'avversario.
Da soli, Falloux e Veuillot, rappresentavano a meraviglia i due partiti della Chiesa dove i dissensi sfociavano in odii insanabili; il primo, sulle sue e più prudente, apparteneva a quella setta liberale che già contava Montalembert e Cochin, Lacordaire e Broglie; apparteneva interamente alle idee del Correspondant, una rivista che si sforzava di coprire d'una vernice di tolleranza l'intransigenza della Chiesa; Veuillot, con meno peli sulla lingua, più franco, rigettava quella maschera, riconosceva senza esitare il dispotismo delle volontà d'oltralpe, confessava ed invocava a gran voce l'implacabile giogo dei suoi dogmi.
Egli s'era foggiato per il combattimento una lingua sua, nella quale entrava del La Bruyère e del plebeo Du Gros-Caillou. Questo stile tra solenne e canagliesco, acquistava in mano di quell'energumeno, il terribile peso di una clava. Cocciuto e coraggioso come lui solo, aveva con questo arnese accoppato così i liberi pensatori che i vescovi, menando colpi all'impazzata, avventandosi a capo basso come un toro contro tutti i nemici, a qualunque partito appartenessero.
Guardato con diffidenza dalla Chiesa, che non ammetteva né quello stile di contrabbando né quel frasario da malvivente, questo teppista della religione s'era lo stesso imposto per la forza del suo ingegno, sollevandosi contro, lungo il cammino, tutta la stampa ch'egli strigliava a sangue negli “Odori di Parigi”, tenendo testa a tutti gli assalti, sbarazzandosi a calci di tutti i mediocri scrittori che cercavano di afferrarglisi alle gambe.
Disgraziatamente, il suo incontestabile talento veniva fuori solo nel fervore della mischia; da calmo, Veuillot non era più che uno scrittore come tanti altri. La sua poesia, i suoi romanzi facevano pietà; quel linguaggio tutto pepe svaporava, perdeva ogni piccante, diventava pappa; il gradasso cattolico si mutava, in riposo, in un cachettico che tossiva dozzinali litanie e balbettava cantici infantili.
Più agghindato, più contenuto, più grave era l'apologista diletto della Chiesa, il censore della, lingua cristiana, Ozanam.
L'imperturbabilità con cui questo scrittore, senza preoccuparsi di recar prove a sostegno di quanto contro ogni verosimiglianza asseriva, discorreva degli imperscrutabili disegni di Dio, non finiva di sbalordire Des Esseintes, pure così poco facile a lasciarsi sorprendere. Col più ammirevole sangue freddo, costui alterava i fatti; contraddiceva, anche più impudentemente dei panegiristi degli altri partiti, i dati della Storia; asseriva che mai la Chiesa aveva dissimulato quanta stima facesse della Scienza; definiva le eresie miasmi impuri; trattava il buddismo e le altre religioni con tale disprezzo da scusarsi d'insudiciare la prosa cattolica con l'accennare loro, fosse pure per accusarle. Qua e là, la passione religiosa riscaldava quell'oratoria, sotto il cui gelo si sentiva ribollire sordamente una corrente impetuosa. Nei numerosi scritti su Dante, su San Francesco, sull'autore dello Stabat, sui poeti francescani, sul socialismo, sul diritto commerciale, su ogni argomento, egli perorava la difesa del Vaticano ch'egli riteneva indefettibile. Imperterrito, giudicava buona o cattiva ogni causa a seconda che s'accostava alla sua o se ne scostava.
Allo stesso sistema di considerare ogni quistione da un unico punto di vista, s'atteneva lo stitico scrittorello che alcuni gli opponevano a rivale: Nettement.
Questi era meno azzimato ed affettava ambizioni meno alte e più mondane. Più volte era uscito dalla clausura letteraria, in cui invece si chiudeva Ozanam, per fare, in veste di giudice, scorribande nella letteratura laica. Là si era avventurato a tastoni come un fanciullo in una cantina, senza vedere intorno a sé altro che buio, un buio diradato solo dalla candela che gli rischiarava il cammino. Ignaro del luogo, aveva inciampato ad ogni passo: per Murger aveva potuto parlare di “preoccupazione di uno stile cesellato e polito all'estremo”; dire di Hugo che andava in cerca dell'infetto e dell'immondo e paragonargli nientemeno che Laprade; di Delacroix, che s'infischiava dei canoni pittorici; esaltare Paul Delaroche ed il poeta Reboul perché gli parevano in possesso della fede; opinioni che facevano spallucciare Des Esseintes e che ricopriva una prosa rabberciata, d'un ordito ormai logoro dall'uso, che si stracciava ad ogni svolta di frase.
Né granché di più lo interessava l'opera di Poujoulat e di Genoude, di Montalembert, di Nicolas e di Carne; sentiva inclinazione per la storia trattata con competenza ed in una lingua decorosa dal Duca di Broglie e propensione per le quistioni sociali e religiose affrontate da Henry Cochin; ma s'asteneva del giudicarli.
Era tanto che non prendeva più in mano quei libri e del tempo n'era passato parecchio da quando aveva gettato nelle cartacce le puerili elucubrazioni del sepolcrale Pontmartin e dello strimenzito Féval ed in cui aveva affidato ai domestici, che ne facessero l'uso che credevano, le storielle degli Aubineau e dei Lasserre, questi agiografi da strapazzo dei miracoli operati dal signor Dupont di Tours e dalla Madonna.
In conclusione, da tutta questa letteratura Des Esseintes non ricavava nemmeno un po' di distrazione alla noia; per cui aveva relegato quel mucchio di libri - non ripresi in mano da quando era uscito di collegio - nel cantuccio più buio della biblioteca.
“Questi qui poi non avrei dovuto neanche portarmeli dietro” si disse; e tirava fuori, snidandoli di dietro ad altri, alcuni volumi che gli erano particolarmente odiosi. Si trattava delle opere dell'abate Lammenais e di quell'impermeabile settario, insuperabilmente e pomposamente noioso e vacuo, che è il conte Joseph de Maistre.
Un solo volume restava a portata di mano sur un palchetto: L'Homme di Ernest Hello.
Questo qui era l'esatta antitesi dei suoi correligionari.
Quasi isolato nel devoto crocchio che il suo modo di fare indisponeva, Ernest Hello aveva finito per lasciare la grande strada maestra che mena dalla terra al cielo. Disgustato senza dubbio dalla banalità di quella via, dalla chiassosa calca dei letterati che gli uni dietro gli altri vi seguivano da secoli la stessa pista, camminando sulle orme un dell'altro, fermandosi negli stessi punti per scambiarsi gli stessi luoghi comuni sulla religione, sui Padri della Chiesa, sulle loro stesse credenze, sui loro stessi maestri, - egli ave va preso per scorciatoie ed era venuto a sbucare nell'inamena radura di Pascal; e dopo esservi a lungo indugiato per riprender lena, aveva seguitato per suo conto il cammino, spingendosi più innanzi del giansenista, al quale del resto non risparmiava aspre critiche nel campo del pensiero non religioso.
Contorto e prezioso, dottorale e complesso, Hello ricordava a Des Esseintes, per la penetrante sottigliezza dell'analisi, gli scavi in profondità, le acute intuizioni di alcuni dei psicologi del suo e del precedente secolo.
C'era in lui una specie di Duranty cattolico, ma più dogmatico e più acuto; un osservatore esperto nel maneggio della lente, un dotto ingegnere dell'anima, un abile orologiaio del cervello che pigliava gusto a scrutare il meccanismo d'una passione, a scomporlo in tutti i suoi minuti ingranaggi.
In quella mente bizzarramente conformata, si producevano associazioni di idee, accostamenti e contrapposizioni impreviste; poi tutto un curioso procedimento che dell'etimologia delle parole si serviva da trampolino alle idee il cui tessuto diventava a volte tenue, ma restava quasi sempre ingegnoso e vivo.
Aveva così, nonostante l'instabile equilibrio delle sue costruzioni, smontato pezzo per pezzo con singolare acume “L'Avaro”, “L'uomo mediocre”; analizzato “Il piacere della mondanità”, “La passione della sventura”; messo in luce gli interessanti paragoni che si possono istituire tra i processi della fotografia e quelli del ricordo.
Hello aveva un'anima a due facce; dietro il diritto appariva il rovescio ch'era quello d'un fanatico religioso, d'un profeta biblico.
Come Hugo, di cui ricordava a tratti le slogature di frasi e di idee, Ernest Hello s'era divertito a fare il piccolo San Giovanni a Patmos: pontificava e vaticinava dall'alto d'una roccia confezionata nelle sacristie di via Saint-Suplice, arringando il lettore in un linguaggio apocalittico, cui dava qua e là sapor di sale l'amarezza d'un Isaia.
Ma questa abilità nel maneggiare il perfezionato istrumento dell'analisi ch'egli aveva tolto di mano ai nemici della Chiesa, non era che un lato del temperamento di quest'uomo.
Affettava allora sproporzionate ambizioni di profondità. Dei compiacenti gridavano al genio, fingevano di ritenerlo il luminare, il pozzo di scienza del secolo; ed un pozzo magari lo era, ma ben spesso nel suo fondo non si scorgeva stilla d'acqua.
Nel suo volume Paroles de Dieu, in cui parafrasava le Sacre Scritture e si sforzava di complicarne il senso pressapoco chiaro; nell'altro suo libro, L'Homme; nell'opuscolo Le Jour du Seigneur, scritto in uno stile biblico, singhiozzante ed oscuro, appariva quale un apostolo vendicativo, orgoglioso, roso dalla bile; ma si scopriva pure quale un chierico affetto da epilessia mistica, un De Maistre che non mancasse di talento, un settario ringhioso e feroce.
Senonché, pensava Des Esseintes, quella sfrontatezza di ammalato tappava spesso la vista all'acuto casista. Con più intransigenza ancora di Ozanam, egli negava risolutamente valore a tutto ciò che non apparteneva alla sua cricca; proclamava gli assiomi più stupefacenti, sosteneva con sconcertante sicumera che “la geologia aveva preso parte per Mosè”; che la storia naturale, la chimica, tutta la scienza moderna comprovava l'esattezza scientifica della Bibbia.
Non c'era pagina dove non sbandierasse l'Unico Vero, il sapere sovrumano della Chiesa; condendo il tutto di aforismi peggio che avventati e di schiumanti imprecazioni, vomitate sull'arte dell'ultimo secolo.
A questo stravagante miscuglio, s'aggiungeva in Hello un debole per gli sdilinquimenti bacchettoni, che l'aveva portato a tradurre le Visioni di Angela -di Foligno, un libro d'una stupidità senza pari; e le opere scelte di Giovanni Rusbrock l'Ammirabile, un mistico del Duecento, la cui prosa offriva una incomprensibile ma attraente amalgama d'esaltazioni tenebrose, d'effusioni carezzevoli, di slanci veementi.
Tutta la posa dell'arrogante pontefice ch'era Hello, sgorgava fuori dall'abracadabrante prefazione scritta per questo libro. Com'egli faceva notare "le cose sublimi si possono solo balbettare"; ed egli balbettava infatti quando dichiarava che “la sacra tenebra dove Rusbrock spiega le sue ali d'aquila, è il suo oceano, la sua preda, la sua gloria e che i quattro orizzonti sarebbero per lui troppo incomodo vestito.”
Comunque, Des Esseintes si sentiva attratto da questo spirito male equilibrato ma sottile. La fusione non aveva potuto farsi tra l'abile psicologo e il pedante bigotto; ma questa stessa incongruenza costituiva la sua personalità.
Sotto la sua bandiera s'era arruolato lo sparuto gruppo degli scrittori che combattevano sul fronte clericale. Non appartenevano costoro al grosso dell'esercito; erano più esattamente, i battistrada, le avanguardie d'una religione che diffidava degli uomini di talento, come Veuillot, come Hello, perché non li trovava ancora abbastanza docili né abbastanza piatti. Ad essa occorrevano soldati che non ragionassero, bande di combattenti ciechi, di quei mediocri dei quali Hello parlava con l'indignazione d'un uomo che ha subìto il loro giogo.
Tanto che il cattolicesimo s'era affrettato ad allontanare dai suoi fogli uno dei suoi partigiani, un libellista arrabbiato, che scriveva una lingua al tempo stesso esasperata e preziosa, sempliciotta e feroce: Léon Bloy; ed aveva messo alla porta delle sue librerie come un appestato e un immorale un altro scrittore che s'era pure sgolato a cantar le sue lodi: Barbey d'Aurévilly.
È vero che costui era troppo compromettente e troppo poco docile. Gli altri, insomma, piegavano la testa alle ramanzine e rientravano nelle file; lui era il discolo che fa la disperazione dei genitori e il partito lo rinnegava per suo. Come scrittore, correva dietro alle sgualdrine e discinte le introduceva nel tempio.
Ci voleva anzi tutto l'immenso disprezzo di cui il cattolicesimo gratifica l'ingegno, perché ancora una scomunica in piena regola non avesse colpito quell'insolente servo, il quale col pretesto d'onorare i padroni tirava sassi nei vetri della cappella, improvvisava giochi di destrezza coi santi cibori, eseguiva balletti intorno al Santissimo. Delle opere di Barbey d'Aurévilly due soprattutto calamitavano Des Esseintes: il Prete con moglie e Le Diaboliche.
Altre, come Lo stregato, Il Cavalier di Touches, Una vecchia amante, eran certo più equilibrate, meglio finite; ma lasciavano più freddo questo lettore che non portava un vero interesse se non alle opere malaticce, minate ed esasperate dalla febbre.
Con questi volumi quasi sani, Barbey d'Aurévilly s'era barcheggiato tra misticismo e sadismo, questi due fossati della religione cattolica che finiscono per confluire.
Nei due libri che ora Des Esseintes sfogliava, Barbey aveva messo da parte ogni prudenza. Data briglia sciolta alla sua cavalcatura, era partito, ventre a terra, ed aveva percorso la sua strada sino in fondo.
Tutto l'arcano orrore medievale grandeggiava nell'inverosimile “Prete con moglie”; la magia vi si mescolava alla religione, il libro della cabala a quello della messa; e più spietato, più feroce del Diavolo, il Dio del Peccato Originale s'accaniva contro l'innocente Callista, la reproba, la marchiava in fronte d'una croce rossa, della stessa di cui già aveva fatto contrassegnare da uno dei suoi angeli le case degli infedeli che aveva in animo di sterminare.
Concepite dalla fantasia d'un monaco digiuno colto da delirio, quelle scene ti passavano sott'occhio nello stile a sbalzi d'un esagitato. Disgraziatamente, tra quelle creature squilibrate, ricordanti le mesmerizzate Coppelia di Hoffmann, ce n'erano che, come il Néel de Néhou, sembravano concepite nei momenti di prostrazione che tengon dietro alle crisi e stonavano su quello sfondo di cupa follia, recandovi l'involontaria nota comica che dà la vista d'un signorinetto di zinco, in stivali flosci che suona il corno sullo zoccolo d'una pendola.
Smaltite queste divagazioni mistiche, lo scrittore aveva avuto un periodo di bonaccia; ma ad esso era seguita una tremenda ricaduta.
Il credere che l'uomo è un asino di Buridano, un essere disputato tra due potenze d'egual forza, volta a volta vittoriose e vinte; questa credenza che la vita umana altro non è che una lotta di esito incerto che si combatte tra cielo e inferno; questa credenza in due entità antitetiche, Satana e Cristo, non poteva a meno di sfociare in un intimo dissidio, in cui l'anima esaltata dall'incessante battaglia, infiammata in certo qual modo dalle promesse e dalle minacce, finisce per darsi vinta e prostituirsi a quella delle due parti che la perseguita con maggiore accanimento.
Nel Prete con moglie Barbey d'Aurévilly aveva bruciato incensi al Cristo, tentatore vittorioso; nelle Diaboliche egli soccombeva al Diavolo, lo celebrava; e faceva allora la sua comparsa il sadismo, questo figlio spurio che il cattolicesimo ha, sotto qualunque forma si presentasse, perseguitato attraverso secoli con esorcismi e con roghi.
Un'inclinazione curiosa e mal definita come il sadismo non potrebbe infatti nascere nell'animo d'un miscredente. Sadismo non è solo avvoltolarsi in eccessi carnali acuendoli con cruente sevizie: non si tratterebbe allora che d'uno scarto del senso genetico, d'una forma di satiriasi spinta all'eccesso. Sadismo consiste prima di tutto in una pratica sacrilega, in una rivolta morale, in un'orgia dello spirito, in una aberrazione tutta cerebrale, tutta cristiana. Esso risiede inoltre in una gioia frenata dal timore, in una gioia analoga al piacere malvagio che trova il ragazzo nel disobbedire, nel giocar con cose proibite, pel semplice motivo che gli è stato intimato dai genitori di tenersene lontano.
Infatti, se non si complicasse d'un sacrilegio, il sadismo non avrebbe ragion d'essere; d'altra parte, il sacrilegio, che suppone necessariamente l'esistenza di una religione, non può essere di proposito ed in realtà commesso che da un credente, perché nessuna esultanza si proverebbe nel profanare una fede che ci fosse indifferente o sconosciuta.
La forza del sadismo, la sua attrattiva consiste dunque interamente nel piacere vietato di tributare a Satana gli omaggi e le preghiere che si debbono a Dio; consiste dunque nell'inosservanza dei precetti cattolici che il sadico arriva a mettere in pratica al rovescio, commettendo, al fine di dileggiare più atrocemente il Cristo, i peccati che egli ha più espressamente maledetto: la polluzione del culto e l'orgia della carne.
A dire il vero, questo pervertimento cui il Marchese de Sade ha legato il suo nome, era antico quanto la Chiesa; aveva infierito nel Settecento, rinnovando, a non volere rifarsi più in su, per un semplice fenomeno di atavismo, le empie pratiche del sabbato medioevale.
Bastava a Des Esseintes aver consultato il Malleus maleficiorum, questo terribile codice di Jacob Sprenger che permise alla Chiesa di mandare sul rogo migliaia di negromanti e di stregoni, perché egli trovasse nel sabba tutte le pratiche oscene e tutti i blasfemi del sadismo.
Oltre le sconce scene care al Maligno, le notti di fila consacrate agli accoppiamenti leciti ed illeciti, le notti insanguinate dalla bestialità della foia, egli incontrava in quel codice la parodia delle processioni, la pervicacia degli insulti e delle minacce a Dio, la dedizione al suo Rivale, quando, maledicendo il pane e il vino, si celebrava la messa nera sul dorso d'una donna carponi, che col deretano scoperto e via via polluto fungeva d'altare e che, a scherno dell'Eucaristia, veniva dai presenti imboccata d'un'ostia nera in cui traspariva l'immagine d'un caprone.
Questo rigurgito d'immondi scherni, d'insozzanti obbrobri si mostrava senz'ombra di veli nell'opera del marchese De Sade che drogava d'oltraggi sacrilegi le sue spaventose voluttà. Egli inveiva contro il cielo, invocava Lucifero, trattava Dio di miserabile, di scellerato, d'imbecille; sputava sulla Eucaristia; s'ingegnava in ogni modo per contaminare con le più basse turpitudini una Divinità che sperava lo precipitasse nell'Inferno, pur proclamando, per provocarla meglio, la sua inesistenza.
Questo stato d'animo, Barbey d'Aurévilly lo rasentava da presso. Se lui non arrivava agli eccessi del divino marchese, non proferiva contro il Salvatore atroci imprecazioni; se più prudente o meno coraggioso, pretendeva di onorar sempre la Chiesa, rivolgeva però egualmente, come nel Medio Evo, le sue suppliche al Diavolo; e scivolava anche lui, per sfidar Dio, nell'erotomania demoniaca, inventando mostruosità sessuali; giungendo, nel “Pranzo d'un ateo”, a togliere in prestito alla Philosophie dans le boudoir un episodio ch'egli drogava ancora, come non bastasse, di nuove spezie.
Questo libro eccessivo andava a sangue a Des Esseintes; tanto che ne aveva fatto tirare in paonazzo vescovile incorniciato di porpora cardinalizia, su autentica pergamena benedetta dagli Uditori della Santa Ruota, un esemplare stampato in caratteri di civiltà. Gli sghembi contorti di quelle lettere, i loro paraffi torti in code e zanne ostentavano una forma satanica.
Con alcune poesie di Baudelaire, che, ad imitazione dei canti innalzati durante le notti del sabba, celebravano litanie infernali, questo volume era, fra tutte le opere della letteratura apostolica del tempo, il solo che testimoniasse di quello stato d'animo, devoto ed empio insieme, verso il quale i ritorni del cattolicesimo, stimolati dagli accessi di nevrosi, avevano spesso spinto Des Esseintes.
Con Barbey d'Aurévilly si chiudeva la serie degli scrittori religiosi.
A ver dire, questo paria apparteneva, da qualunque punto di vista lo si volesse considerare, alla letteratura laica, piuttosto che all'altra, dov'egli si rivendicava un posto che gli veniva rifiutato. La sua lingua d'un romanticismo scapigliato, piena di locuzioni contorte, di giri di frasi inusitati, di paragoni barocchi, faceva scattare a scudisciate i periodi che esplodevano come petardi, tra uno strepito di sonagli, lungo tutto il testo.
In una parola: d'Aurévilly irrompeva come uno stallone tra i castrati che popolano le scuderie oltremontane.
Questo pensava Des Esseintes, rileggendosi qua e là qualche brano del libro; e, confrontando quello stile nervoso e vario a quello linfatico e stereotipo degli altri scrittori cattolici, riandava con la mente a quella evoluzione delle lingue che Darwin ha così giustamente messo in evidenza.
Nel suo commercio coi profani, cresciuto in mezzo alla scuola romantica, al corrente della nuova letteratura, Barbey si trovava necessariamente in possesso di un dialetto che aveva subito numerose e profonde modificazioni, che dal tempo del grande secolo s'era rinnovato.
Per contro, confinati nelle loro sacristie, imbalsamati dalla lettura di vecchie opere che dai tempi dei tempi eran sempre le stesse, all'oscuro dell'evoluzione letteraria e ben deliberati all'occorrenza d'accecarsi pur di non vederla, gli ecclesiastici adoperavano - e non poteva essere altrimenti - una lingua immutabile, come quella lingua settecentesca che i pronipoti dei francesi stabiliti nel Canada parlano e scrivono ancora correttamente, senza che alcuna selezione di costrutti o di vocaboli si sia potuta produrre nel loro idioma, isolato dall'antica madre patria e attorniato d'ogni parte da gente che parla inglese.
Rivolgeva in mente questi pensieri, quando lo squillo argentino d'una campana che rintoccava l'avemaria del giorno annunziò a Des Esseintes che la colazione era pronta.
Lasciò i suoi libri; si terse la fronte; si avviò alla sala da pranzo, dicendosi che di tutti i volumi che aveva finito di mettere a posto, le opere di Barbey d'Aurévilly eran le sole dove stile e idee presentassero quei segni d'infrollimento, quelle macchie di corruzione, quelle ammaccature sulla buccia e quel sapore sfatto ch'egli amava tanto negli scrittori decadenti, latini e monastici, delle età decrepite.