JORIS-KARL HUYSMANS

CONTROCORRENTE V


XIII

La stagione s'andava guastando; una usurpava il posto all'altra, quell'anno. Dopo ventacci e nebbioni, ecco inarcarsi cieli incandescenti, d'un bianco opaco di lamiera.
In due giorni, al freddo umido delle nebbie, al ruscellar delle pioggie, succedeva, senza il minimo preavviso, un calor torrido, un'atmosfera di piombo, asfissiante. Entrato di colpo in combustione, il sole apriva la sua bocca di forno, vomitando una luce che toglieva la vista.
Si levò dalle strade calcinate una polvere ardente che seccava e abbrustoliva gli alberi, strinava l'erba ingiallita. Il riverbero dei muri scialbati di calce, l'incendio appiccato allo zinco dei tetti ed ai vetri delle finestre accecò. Una temperatura da alto forno s'appesantì sulla casa di Des Esseintes.
Seminudo, aprì una finestra; ricevette in viso un alito di fornace. La stanza da pranzo dove cerco scampo scottava; l'aria rarefatta pareva bollire.
Sedette disperato. Ormai coi libri che aveva finito di sistemare e con le fantasticherie che quel lavoro alimentava in lui, anche l'animazione fittizia che lo teneva in piedi era caduta.
Come tutti i nevropatici, il caldo lo atterrava. L'anemia tenuta a bada dal freddo, riprendeva il suo corso; lo spossava indebolendolo con le copiose sudate.
La camicia incollata al dorso, il perineo bagnato, gambe e braccia madide, la fronte grondante che gli rigava la faccia di stille salate, Des Esseintes giaceva sulla sedia annientato. La vista, in quel momento, della carne nel piatto, gli diede un urto di stomaco. Gridò che gliela togliessero davanti e gli portassero invece delle uova intiepidite. Tentò d'intingervi delle listerelle di pane; gli sbarrarono la gola. Sforzi di vomito lo assalirono. Volle aiutarsi ad inghiottire con un sorso di vino; il vino gli bruciò come fuoco lo stomaco. Si asciugò la faccia; il sudore raffreddandosi fumava lungo le guance. Si provò, per ingannare il mal di cuore, a suggere qualche pezzetto di ghiaccio. Invano.
Una prostrazione da non dire lo obbligò ad appoggiarsi alla tavola.
In cerca d'aria, s'alzò; ma il poco pane trangugiato gonfiava, risaliva in gola, la ostruiva. Mai s'era sentito così inquieto, così a disagio, così a mal partito. Per di più, gli occhi gli si intorbidarono; vide gli oggetti sdoppiarsi, roteare su se stessi. Perdette il senso delle distanze; il bicchiere era a un chilometro da lui. Capiva, sì, d'essere vittima d'un inganno dei sensi, ma non riusciva a reagirvi.
Andò in sala a sdraiarsi sul sofà. Senonché, appena sdraiato, ecco il sofà diventare una tolda di nave, beccheggiare, rullare. Il cuore non resse; si tirò di nuovo su. Per liberarsi di quelle uova che lo strozzavano pensò di ricorrere a un digestivo.
Rientrato nella stanza da pranzo, in quella cabina da bastimento, malinconicamente gli venne fatto di paragonarsi ad un passeggero in preda al mal di mare. Traballando si diresse all'armadio; indugiò lo sguardo sull'organo a bocca, ma non l'aprì. Dal palchetto più alto tolse una bottiglia di benedettino.
Conservava questa bottiglia per la sua foggia: una foggia che gli suggeriva riflessioni al tempo stesso lussuriosette e vagamente mistiche.
Non adesso, però: indifferente, adesso fissava d'uno sguardo atono la bottiglia panciuta, d'un verde scuro cupo.
In altri momenti, con l'annosa pancia monacale, il cappuccio di pergamena, il bollo di ceralacca inquartato di tre mitre d'argento su campo azzurro e fissato al collo, come una bolla papale, da fili di piombo, con la sua etichetta dettata in sonoro latino, stampata su carta ingiallita e come stinta dal tempo: liquor Monachorum Benedictorum Abbatioe Fiscanensis, quella bottiglia gli aveva evocato le priorie medioevali. Sotto quella tonaca rigorosamente abbaziale, segnata d'una croce e della sigla ecclesiastica P.O.M., al pari d'un'autentica Carta protetta da pergamene e legature, dormiva un liquore color zafferano d'una squisita finezza. Si sprigionava da quel liquido un aroma quintessenziato di angelica e di issopo, mescolati con erbe di mare di cui gli zuccheri avevano attenuato il sentor d'iodio e di bromo. Mordeva il palato la fiamma del suo alcole, dissimulata sotto la buccia adescante d'un dolciore tutto verginale, tutto novizio; lusingava l'olfatto con una punta di corruzione, fasciata in una carezza insieme infantile e devota.
Questa ipocrisia che risultava dallo stridente contrasto tra contenente e contenuto, tra la sagoma liturgica della bottiglia e l'anima compiutamente femminea, affatto moderna, lo aveva un tempo fatto fantasticare. Davanti a quella bottiglia aveva a lungo pensato ai monaci che la spacciavano, ai benedettini dell'Abbazia di Fécamp, i quali appartenevano alla congregazione di San Benedetto, senza tuttavia seguire i riti dei monaci biancovestiti di Cîteaux e di quelli nerovestiti di Cluny.
Irresistibilmente se li figurava occupati, come nel Medio Evo, a coltivare semplici, dietro a riscaldare storte, a concentrare dentro alambicchi sovrane panacee, incontestabili magisteri.
Bevve una goccia di quel liquore e ne risentì per qualche momento un sollievo; senonché poco dopo il bruciore riprendeva, che una lacrima di vino era bastata ad accendergli nelle viscere.
Si strappò dal collo il tovagliolo; tornò nello studio, lo percorse in lungo e in largo. Gli pareva d'essere sotto una campana pneumatica dove gradatamente si facesse il vuoto; un mancamento, avvertito dapprima nel cervello, di là gli si propagava per tutto il corpo: d'una soavità intollerabile.
Cercò di tenergli testa. Non reggendovi, per la prima volta dacché era a Fontenay, cercò scampo nel giardino e chiese asilo alla poca ombra che pioveva da un albero.
Seduto sull'erba, l'occhio ebete gli cadeva sui quadratini di legumi piantati dai domestici. Guardava, ma una nebbia verdastra gli ondeggiava davanti agli occhi; non gli lasciava scorgere che forme confuse, di tinte e contorni mutevoli.
Solo in capo ad un'ora riuscì a vedere quello che guardava. Erano delle cipolle e dei cavoli. Più oltre distingueva un campicello di lattughe e, laggiù, lungo la siepe, una fila di gigli bianchi, immobili nell'afa.
Un sorriso gli sfiorò le labbra. Gli si era affacciato alla memoria il curioso paragone che l'antico Nicandro stabilisce tra il pistillo del giglio e i genitali dell'asino; e quell'altro punto dove Alberto il Grande, il taumaturgo, insegna un assai buffo espediente per conoscere, grazie alla lattuga, se una fanciulla è ancora intatta.
Questi ricordi lo esilararono un po'. Esaminò l'orto, interessandosi alle piante avvizzite dal calore, al terreno riarso che fumava nell'infiammato pulviscolo dell'aria. Quindi, di là della siepe, che separava l'appezzamento dalla strada sopraelevata che saliva al forte, scorse dei monelli che si rotolavano all'aperto, in pieno sole.
Li osservava, quando un altro monello si mostrò, più piccino, d'una sporcizia ributtante; i capelli, pieni di sabbia, si sarebbero detti di varech; aveva due pustole verdi sotto il naso, una bocca ripugnante che impiastricciava di bianco addentando una fetta di pane, sulla quale era stato schiacciato del formaggio molle e della cipollina verde tritata.
Des Esseintes aspirò l'aria. Una laida voglia da partoriente, depravata, subitanea s'impadronì di lui; l'immonda fetta di pane gli fece venire l'acquolina in bocca. Credette che lo stomaco, ribelle ad ogni cibo digerirebbe quella sconcezza; che il palato l'aggradirebbe come un boccone da re.
D'un balzo fu in piedi; corse in cucina; spedì il vecchio nel villaggio in cerca di quel formaggio, d'un filoncino di pane, di cipolline; e, dato ordine che gli preparassero una fetta assolutamente eguale a quella che mordeva il monello, tornò a sedersi sotto l'albero.
Adesso i monelli stavano picchiandosi; si disputavano quel pane, se lo strappavano, e, ficcandosene pezzi in bocca, si succhiavano le dita. Calci e pugni piovevano; i più deboli, gettati a terra e calpestati, tiravan calci e frignavano, strusciando il deretano nel pietrisco, conciandosi i calzoni per le feste.
Quello spettacolo ridiede a Des Esseintes tutti i suoi spiriti. L'interesse che prendeva alla zuffa lo distraeva dal suo male; davanti all'accanimento di cui davan prova quei ragazzacci, il suo pensiero andò alla spietata, sconcia lotta per l'esistenza. E per quanto ignobili quei monelli gli apparissero, non poté impedirsi d'interessarsi alla lor sorte, e di dirsi che meglio per essi sarebbe stato se la madre non li avesse partoriti.
Che potevano infatti attendersi? Appena venuti al mondo croste lattee, coliche, febbri, morbillo e ceffoni; sui tredici anni, un lavoro abbrutente e pedate; inganni di donne, malattie e corna coniugali, appena adulti; sul declino, acciacchi e l'agonia in un ricovero di mendicità o in un ospizio.
Né quelli più agiati potevano attendersi miglior destino; tanto che appena un po' più di buon senso avrebbe dispensato sì gli uni che gli altri dall'invidiarsi.
Anche ai ricchi la vita riserbava in diverso ambiente, le stesse passioni, lo stesso arrabbattarsi, le stesse pene, le stesse malattie; e mediocri restavano anche per essi i piaceri, li tirassero dall'alcole, dal cervello o dalla carne. Che se qualche vantaggio esisteva a pro dei ricchi, s'incaricava di ristabilire l'equilibrio una specie di giustizia, la quale risparmiava di preferenza ai poveri le sofferenze fisiche che s'abbattono implacabilmente sui ricchi, più deboli di costituzione e più consunti.
“Quale aberrazione mettere al mondo dei bambini!” pensava Des Esseintes. “E dire che i preti che fan voto di castità, hanno spinto l'incoerenza sino a canonizzare San Vincenzo di Paola perché manteneva in vita degli innocenti per serbarli a che? ad inutili patimenti.”
Grazie alle sue odiose cure, questo Santo aveva differito d'anni e d'anni la morte di esseri deficienti ed insensibili, affinché divenuti col tempo in grado di capire o, quantomeno, di soffrire, potessero rendersi conto di quello che li aspettava, attendere e temere quella morte di cui ignoravano testé anche il nome; alcuni magari invocarla, in odio a quella condanna ad esistere ch'egli infliggeva loro in virtù d'un codice teologico assurdo.
Morto lui, le sue idee avevano prevalso. Invece di lasciarli spegnersi in pace senza che se ne accorgessero, si raccoglievano bambini abbandonati, sebbene l'esistenza cui si destinavano diventasse ogni dì più arida e più dura.
Quasi già non bastasse, col pretesto del progresso e della libertà, la Società aveva trovato il modo di rendere anche più lamentevole la condizione dell'uomo, strappandolo alla famiglia, affagottandolo in una divisa grottesca, consegnandogli armi apposite, abbruttendolo in una schiavitù non da meno di quella da cui per pietà s'erano un tempo affrancati i negri; e tutto ciò, per metterlo in grado di assassinare il suo simile senza rischiare il patibolo, come per lo meno lo rischiano i comuni delinquenti che ammazzano sì, ma da soli, senza uniformi, e con armi più spicce e meno rumorose.
“Strana epoca” si diceva Des Esseintes “che, invocando il bene dell'umanità si scervella ad escogitare anestetici sempre più efficaci per sopprimere il dolore fisico ed intanto fa di tutto per accrescere quello morale!
Ah se un tempo c'è in cui si dovrebbe impedire, in nome della pietà di procreare inutilmente, quel tempo è ben questo!
Ma anche qui le leggi decretate dai Portalis e dagli Homais apparivano feroci e sconcertanti. La Giustizia trovava ben naturali le frodi adoperate nell'accoppiamento: nulla da ridire: precauzioni consentite; c'era coppia di coniugi, per quanto agiata, che non affidasse i nascituri all'acqua delle lavande? o che non usasse oggetti ed artifizi che si vendono liberamente e che a nessuno verrebbe in mente di riprovare?
Ma se viceversa quelle cautele o quei sotterfugi restavano inefficaci, se la frode falliva il suo scopo e per rimediare si ricorreva a mezzi più perentori, oh allora, apriti cielo! Non c'erano più prigioni bastevoli, case di pena, ergastoli per chiudervi gli individui che condannavano - in buona fede del resto - altri individui, i quali la sera stessa nel letto coniugale baravano del loro meglio per non mettere al mondo figli.
Non era dunque la frode, un crimine in sé; ma lo era il ripararvi.
Insomma la Società considerava un delitto sopprimere un essere dotato di vita; eppure, espellendo un feto, si distruggeva un animale meno formato, meno vitale e più deforme d'un cane o d'un gatto che impunemente ci possiamo permettere di sopprimere appena nasce.
“Conviene aggiungere” pensava Des Esseintes “che, per maggior giustizia, non è l'uomo inetto, per Solito, che s'affretta a scomparire, ma la donna, vittima di quella inettitudine, che espia il misfatto d'aver scampato dalla vita un innocente!”
Bisognava comunque che il mondo fosse pieno di pregiudizi per voler reprimere degli atti così naturali che è portato a praticare, guidato dal semplice istinto, l'uomo primitivo, il selvaggio della Polinesia.
Il domestico interruppe queste filantropiche riflessioni recando sur un piatto d'argento dorato la ghiottoneria di cui il suo padrone aveva manifestato il desiderio.
A quella vista Des Esseintes si sentì rovesciare le budella. Non ebbe più il coraggio di metter i denti in quel pane; lo stomaco lo rifiutava. Gli ripiombò addosso un senso di sfacelo atroce. Dovette alzarsi; ormai il sole arrivava anche lì, il caldo si faceva al tempo stesso più vivo e più peso.
“Butta codesta roba a quei ragazzi che si stanno accoppando là sulla strada. Auguro loro che i più deboli n'escano storpiati senza ottenerne una briciola; e per sovrammercato le tocchino di santa ragione dalla famiglia, rincasando con gli occhi pesti e i calzoni strappati. Servirà a dar loro un'idea della vita che li aspetta!” E, rientrato in casa, s'afflosciò come svenuto in una poltrona.
“Bisogna comunque che mi sforzi a buttar giù qualche cosa.” E s'azzardò ad inzuppare un biscotto in un annoso Constantia di J. P. Cloete; in cantina gliene restava qualche bottiglia.
Quel vino d'un color tunica di cipolla un tantino strinato, d'un sapore che stava tra quello del Malaga stagionato e del Porto, con in più una fragranza zuccherina tutta sua, e che lasciava in bocca un sentor d'uva d'una succolenza quintessenziata dalla forza del sole, l'aveva qualche volta ristorato, e spesso persino aveva infuso nuovo vigore allo stomaco affievolito dai forzati digiuni cui si sottometteva.
Ma il cordiale, di solito così fedele, stavolta si mostrò inefficace. Sperò allora che un emolliente mitigasse la pirosi che lo travagliava; e ricorse al Nalifka, un liquore russo, questo, contenuto in una bottiglia smerigliata d'oro spento: anche questo sciroppo untuoso, dal gusto di lampone, fallì il suo scopo.
Ahimé! il tempo era lontano che, ancora in buona salute, Des Esseintes in pieno solleone tornava a casa e lì, in una slitta, ingegnandosi di battere i denti: “Ah è un vento polare che tira! Si gela, qui, si gela!” riuscendo per poco a persuadersi che faceva freddo davvero.
Ahimé, da quando i suoi mali divenivano reali, questi rimedi non agivano più.
E non aveva neanche la risorsa di ricorrere al laudano; in luogo di calmarlo, questo calmante lo irritava al punto da togliergli il sonno.
In passato, aveva cercato di procurarsi delle visioni coll'oppio e con l'haschish ma era riuscito solo a procurarsi dei vomiti e dei violenti disturbi nervosi. Dovette smettere alla prima e, rinunziando a quei grossolani eccitanti, chiedere unicamente al cervello di portarlo lontano dalla vita, nel sogno.
“Che giornata!” si diceva ora, asciugandosi il collo che grondava come una spugna, sentendo andarsene in sudore il po' di forza che gli restava.
Ancora un'inquietudine febbrile gli impediva di rimanere dov'era; di nuovo lo spingeva ad errare di stanza in stanza, a sedersi ora qui ora là, in cerca d'una posizione in cui trovar tregua.
Non potendone più finì per abbandonarsi sullo scrittoio; aggomitato ad esso, senza pensare a quello che faceva, tolse in mano un astrolabio posato, a mo' di fermacarte, sur un cumulo di libri e di note.
Quell'astrolabio di rame inciso e dorato, di fabbricazione tedesca, e che datava dal Seicento, l'aveva acquistato a Parigi da un antiquario.
Usciva quel giorno da una visita al Museo di Cluny, dove s'era a lungo incantato in contemplazione d'un bellissimo astrolabio in avorio scolpito d'una foggia cabalistica che lo aveva estasiato.
Il fermacarte diede l'aire a tutto uno sciame di ricordi. Prendendo le mosse da quel gioiello d'arte, il pensiero da Fontenay lo portò a Parigi nel negozio d'anticaglie; e di lì, a ritroso lo condusse al Museo delle Terme e gli rimise sott'occhio l'astrolabio d'avorio, sostituendolo a quello di rame che i suoi occhi guardavano senza più vederlo.
Poi uscì dal Museo e andò a zonzo per la capitale; vagò per via Du Sommerard, pel grande passeggio alberato di Saint Michel; si ingolfò per le vie che corrono in quei paraggi e sostò davanti a locali che l'avevano tante volte colpito pel loro aspetto insolito e per la loro frequenza.
Iniziatosi da un astrolabio, il viaggio finiva nei caffeucci del Quartier Latino.
Quanti ce n'erano di quei locali in via Monsieur le Prince, nel tratto di via Vaugirard che raggiunge l'Odéon! A volte si susseguivano così fitti da ricordare i vecchi riddeck di via Canale d'Aringhe a Anversa, affacciando uno di seguito all'altro sul marciapiede i loro ingressi pressoché uguali.
Attraverso porte semiaperte e finestre male oscurate da vetri di colore o da tendine, Des Esseintes ricordava d'aver intravvisto donne che s'aggiravano pel locale tirandosi dietro i piedi e avanzando il collo al modo delle oche; altre, buttate su panche, lucidavano coi gomiti il marmo dei tavoli o ruminavano canticchiando, con le tempie tra i pugni; altre ancora si dondolavano in piedi davanti a specchi passando le punte delle dita sulle chiome finte uscite allora dalle mani del parrucchiere; altre infine cavavano da borsette che non chiudevano più gran numero di monete d'argento e di spiccioli che allineavano con cura in tanti mucchietti.
Avevano per la maggior parte lineamenti grossolani, la voce rauca, il petto cascante, occhi bistrati; e tutte, simili ad automi ricaricati a tempo, lanciavano con identiche intonazioni gli stessi inviti, emettevano con lo stesso sorriso le stesse frasi balorde, le stesse riflessioni insulse.
Ora, abbracciando col ricordo in una volta tutte quelle vie e quei caffeucci, di idea in idea Des Esseintes veniva ad una conclusione.
Quei locali rispondevano allo stato d'animo di una intera generazione; dal loro prosperare c'era da trarre la sintesi dell'epoca.
I sintomi da cui egli moveva per arrivare alla diagnosi erano certi e manifesti: le case di tolleranza si andavano diradando e, ad ognuna che si chiudeva, uno di quei caffè s'inaugurava.
Un simile decrescere della prostituzione legale a vantaggio di quella clandestina non poteva che aver radice nelle inverosimili illusioni che l'uomo si fa quando si tratta di rapporti sessuali. Per quanto mostruoso potesse apparire il fatto, quel tipo di locali esaudiva un ideale.
Sebbene le inclinazioni utilitarie ereditate dai giovani e nei loro animi precocemente sviluppate dalle cattive maniere e dalla costante brutalità usata nei collegi, avessero reso la gioventù del tempo singolarmente maleducata e l'avessero cresciuta paurosamente positiva e tetragona agli entusiasmi, essa non aveva meno per questo conservato in fondo al cuore un vecchio fiore azzurro, una dura a morire aspirazione verso un amore vago e passato di moda.
Oggigiorno, quando il sangue le ribolliva, quella gioventù non sapeva risolversi ad entrare, consumare pagare ed uscire; sarebbe stato ai suoi occhi fare come il cane che senza preamboli copre la cagna. Inoltre la vanità scappava inappagata dalla casa di tolleranza, dove non c'era stato né simulacro di resistenza né parvenza di vittoria, né speranza di preferenza, e neppure generosità da parte della mercantessa che commisurava le sue carezze allo scotto.
Invece la corte fatta alla ragazza di birreria, risparmiava tutte le suscettibilità dell'amore, tutte le delicatezze del sentimento. Quella ragazza, si poteva disputarsela; e coloro cui accordava - a caro prezzo - un abboccamento si figuravano in buona fede d'averla portata via ad un rivale, si credevano l'oggetto d'una distinzione che andasse a loro onore, d'un favore raro.
Eppure quel l'arrendevolezza era altrettanto stupida, altrettanto interessata, bassa e scevra di desiderio di quella che pregiudicava la casa di tolleranza. L'una ragazza come l'altra beveva senza sete, rideva senza convinzione, andava matta per le carezze d'un cialtrone, s'accapigliava e s'insultava senza motivo con le sue pari.
E, malgrado tutto questo, in tanti anni la gioventù parigina non s'era ancora accorta che le cameriere di caffè erano per risorse fisiche, per abilità professionale, per modo d'abbigliarsi di gran lunga inferiori alle donne irregimentate nei serragli di lusso.
“Dio mio” si diceva Des Esseintes “come sono scimuniti questi giovani che sfarfallano intorno alle birrerie! A parte le ridicole illusioni che si fanno, arrivano sino a scordare il pericolo che si nasconde in quelle esche sospette e da strapazzo; a non mettere in conto il danaro buttato in tante bibite il cui numero è fissato in precedenza dalle padrone; del tempo perso ad aspettare una consegna differita per accrescerne il prezzo, delle proroghe chieste per provocare e rendere più redditizio il gioco delle mance!”
Quel sentimentalismo imbecille che s'accompagnava ad una feroce praticità, era il segno distintivo del secolo; quegli stessi individui che, per guadagnare dieci soldi, avrebbero strappato un occhio al prossimo, perdevano ogni lucidità, ogni fiuto quando si trattava di quelle losche chellerine che li bersagliavano senza pietà e li ricattavano senza respiro.
Si mandavano avanti industrie; famiglie si lesinavano tra loro il necessario col pretesto del commercio, per lasciarsi poi portar via il danaro dai figli, che se lo facevano alla lor volta scroccare da quelle donne, spogliate in ultimo dagli amanti del cuore. Per tutta Parigi, da un capo all'altro della città, era una catena ininterrotta di truffe, una serie di furti organizzati a danno del vicino; e tutto questo perché, invece di accontentare la gente subito, si sapeva farla pazientare ed attendere.
In fondo, il nocciolo della saggezza umana consisteva nel tirare in lungo le cose; nel dir di no, per dire alla fine di sì; perché gli uomini non si sanno maneggiare veramente che tenendoli a bada con frottole.
“Ah potessi fare lo stesso anch'io con lo stomaco!” sospirò Des Esseintes, preso da un crampo che, di dov'era col pensiero, lo riconduceva bruscamente a Fontenay.

XIV

Tirò innanzi alla men peggio alcuni giorni, riuscendo con ripieghi ad ingannare la diffidenza dello stomaco.
Ma un mattino ributtato dall'odor di grasso e di sangue che le salse non arrivavano più a mascherare, si chiese con spavento se, aggravandosi, la debolezza non finirebbe per costringerlo a letto.
Allora gli sovvenne - il ricordo lo illuminò di speranza - d'un amico che in cattive condizioni di salute, aveva potuto, grazie ad un sostentatore, conservare il po' di forza che gli restava, scongiurando l'anemia ed arrestando il deperimento.
Spedì in tutta fretta il domestico a Parigi alla ricerca del prezioso apparecchio.
Era una pentola di stagno. Sulla scorta dell'istruzione che lo accompagnava, insegnò lui stesso alla donna il modo di servirsene: si trattava di tagliare in pezzettini dell'arrosto di manzo sanguinante, di metterlo tal quale, senza aggiunta d'acqua, con porro e carota, nella marmitta; di avvitarne indi il coperchio e di lasciar cuocere a bagnomaria. In capo a quattr'ore, la carne - o meglio i filamenti che ne restavano - si strizzava, ottenendo una cucchiaiata di sugo denso, salato. A berlo, sentivi scendere in gola, accarezzarla, un tepore vellutato.
Quel cibo quintessenziato arrestava i crampi e le nausee dello stomaco e lo persuadeva persino ad accettare qualche cucchiaio di minestra.
L'effetto fu che la nevrosi ebbe un arresto. “È sempre tanto di guadagnato” si disse Des Esseintes. “Chi sa che il caldo non scemi, che questo atroce sole che mi spossa non si mitighi e ch'io arrivi così, senza troppe scosse, alle prime nebbie e ai primi freddi.”
In quello stato di torpore, nel tedio in cui lo sprofondava la forzata inattività, divenne una spina al cuore la biblioteca che ancora non aveva finito di ordinare.
Siccome non si moveva dalla poltrona, tutto il tempo aveva sott'occhio quei libri. Ve n'erano che stavano nella scansia di sghimbescio, che crollavano uno sull'altro, che si puntellavano a vicenda, altri abbattuti addirittura; disordine che lo urtò, tanto più che contrastava col perfetto allinearsi delle opere religiose, schierate di costa, come per una rivista, lunghesso le pareti.
Tentò di rimediare; ma in capo a dieci minuti era inondato di sudore. Quel lavoro lo spossava. Affranto, andò a sdraiarsi su un divano e sonò.
Il vecchio servo si mise in vece sua all'opera: gli recava uno a uno i volumi e via via li ricollocava al posto che il padrone gli indicava.
Quel lavoro non richiese molto tempo; erano infatti ben poche le opere contemporanee di carattere profano che la biblioteca di Des Esseintes accoglieva.
E si capisce: come una lastra di metallo a forza di passare e ripassare nel laminatoio, si riduce di spessore sino a non esser più che una foglia, ben poco della produzione contemporanea aveva resistito al vaglio delle ripetute letture; ed a queste opere sole, le meglio temprate, le pochissime ancora in grado di affrontare una nuova prova, s'era ridotta la biblioteca di Des Esseintes.
Con un gusto così esigente, di necessità il piacere del leggere s'era rarefatto: rarefazione che ancora una volta poneva in evidenza l'irrimediabile conflitto esistente tra le idee d'un lettore cosiffatto ed il sentire del secolo in cui il caso l'aveva fatto nascere.
Ormai era giunto a tale che un libro il quale appagasse la sua intima aspettativa, disperava di scoprirlo; ma, quel che è peggio, sentiva la sua ammirazione scemare per quegli stessi libri che indubbiamente avevano concorso ad affinargli a tal punto il gusto, a renderlo così sospettoso ed incontentabile.
Eppure, nella valutazione dell'arte, il criterio da cui partiva era semplice. Per lui non esistevano scuole; solo il temperamento dello scrittore contava; qualunque fosse il soggetto che affrontava, solo il modo con cui lo trattava aveva importanza.
Senonché un criterio di stima così evidentemente giusto da esser degno di La Palisse, diventava pressoché inapplicabile per il semplice motivo che, per quanto desideri di liberarsi da preconcetti, per quanto aspiri ad essere imparziale, ognuno va di preferenza alle opere che rispondono più intimamente al suo temperamento e finisce per disprezzare tutte le altre.
Questo lavoro di selezione era avvenuto in lui lentamente.
Egli aveva non è molto adorato il grande Balzac; ma via via che il suo equilibrio fisico s'era andato dissestando, che i nervi avevano preso il sopravvento, i suoi gusti s'erano modificati, ad altri era andata la sua ammirazione. Presto anzi - e pur rendendosi conto di quanto fosse ingiusto verso il prodigioso autore della Comédie humaine - aveva finito per non aprirne più i libri; e l'innegabile arte che in essi riconosceva non faceva che irritarlo.
Altre aspirazioni gli fermentavano dentro, in certo modo indefinibili. Interrogandosi a fondo, tuttavia, capiva che per attrarlo, un'opera doveva anzitutto rivestire quel carattere di stravaganza che Edgar Poe considerava indispensabile. Ma su questa strada egli s'avventurava volontieri più in là e esigeva arditezze e bizantismi nei concetti, complicazioni decadenti nella lingua; auspicava una imprecisione sconcertante, che lasciasse la possibilità alla sua mente di sfumarla dell'altro o di precisarne i contorni, a piacer suo, a seconda dello stato d'animo del momento.
L'opera d'arte la voleva, insomma, non solo per quello che essa è in sé e per sé, ma anche per quello che di nostro permette le prestiamo. Grazie all'opera d'arte, quasi da essa assistito, quasi da essa portato, voleva assurgere ad una sfera dove gli fosse dato provare una commozione inattesa della quale, per quanto cercate, gli restassero oscure le cause.
Insomma, dacché aveva lasciato Parigi, si allontanava ogni giorno più dalla realtà e specialmente dagli uomini del suo tempo, per i quali nutriva una sempre crescente avversione; avversione che aveva di necessità influito sui suoi gusti letterari ed artistici e che gli faceva storcere risolutamente gli occhi dai quadri e dai libri che rispecchiavano unicamente aspetti di vita contemporanea.
Cosicché, perduta la possibilità d'ammirare indifferentemente il bello dovunque si trova, qualunque sia la forma che veste, preferiva di Flaubert, la Tentazione di Sant'Antonio all'Educazione sentimentale; di Goncourt, la Faustin a Germinie Lacerteux; di Zola, il Fallo dell'Abate Mouret allo Scannatoio.
Questo punto di vista lo riteneva legittimo; se anche meno immediate, queste opere pure così vive, così umane, lo ammettevano nella più gelosa intimità dell'autore, gli davan modo di penetrarne l'anima a fondo; in esse quei maestri scoprivano con maggiore abbandono le aspirazioni più segrete dell'esser loro; innalzando anche lui in più spirabil aere, fuori dell'esistenza triviale di cui era stanco. Non solo: grazie a quelle opere egli entrava in comunione di idee con gli scrittori che le avevano concepite: perfetta comunione, perché quando le avevano concepite, si trovavano in uno stato d'animo analogo al suo.
Infatti, quando il tempo in cui l'uomo di talento si trova forzato a vivere è stupido e piatto, l'artista, anche a propria insaputa, è assillato dalla nostalgia di un altro secolo. Non potendo che raramente e per poco accordarsi con l'ambiente in cui cresce, esaurito che abbia il godimento che può dargli lo studio di quell'ambiente, l'osservazione e l'analisi esercitate su chi lo subisce - piacere che bastava a distrarlo -; sente sorgere in sé e sbocciare una confusa brama di emigrare: aspirazione che studio e riflessione portano poi a chiarirsi. Istinti, sensazioni, tendenze ataviche si risvegliano, si precisano, s'impongono, divengono imperiosa esigenza. S'affacciano in lui reminiscenze di cose e persone estranee alla sua personale esperienza; finché l'ora scocca che a forza egli evade dal reclusorio del suo tempo per aggirarsi in piena libertà in un altro tempo, che crede per un'estrema illusione a sé più consono.
C'è così chi torna ad età defunte, a civiltà scomparse, a secoli perenti; chi si avventa nei mondi della fantasia e del sogno, vivendo con più o meno intensità il miraggio d'un tempo a venire; d'un tempo che rispecchia, senza ch'egli lo sappia, per influenze ataviche, l'immagine di epoche trascorse.
In Flaubert si trattava d'imponenti e vasti affreschi, dove dalla smagliante cornice d'una sfarzosa barbarie si staccavano soavi creature frementi di vita, enigmatiche e altere; donne che a una compiuta bellezza accoppiano un'anima tormentata, nel cui segreto Des Esseintes ravvisava una paurosa inettitudine a vivere, folli aspirazioni scaturite dalla desolante consapevolezza che già esse avevano della mediocrità delle gioie che potevano aspettarsi dalla vita.
La genialità del grande artista sbocciava in pieno nelle incomparabili pagine della Tentazione di S. Antonio e di Salambò dove, dimentico della nostra meschina esistenza, egli evocava gli splendori asiatici del passato, gli amori di quegli antichi, i loro mistici scoramenti, le follie che suggeriva l'ozio, gli atti di ferocia cui li spingeva il pesante tedio che nasce, prima ancora che se ne veda il fondo, dall'opulenza e dal fanatismo.
In De Goncourt, era la nostalgia del secolo precedente, un viaggio a ritroso alla ricerca delle eleganze d'una società per sempre perduta. La grandiosa cornice d'un mare che flagella i moli, di deserti che si perdono a vista d'occhio sotto torridi cieli, mancava alla sua opera nostalgica; ad essa bastava, presso un parco aristocratico, il salottino che intiepidisse l'effluvio voluttuoso di una donna dal sorriso stanco, dall'espressione perversa, dallo sguardo irrasegnato e pensoso.
L'anima dei suoi personaggi non era più quella che Flaubert prestava ai propri: un'anima nauseata in anticipo dalla spietata certezza che nessuna felicità nuova è possibile; quella dei suoi, era un'anima disillusa, dopo averne fatto la prova, di tutti gli inutili sforzi tentati per creare legami spirituali inediti, per non rassegnarsi al piacere che, da che mondo è mondo va a finire nella sazietà, più o meno ingegnosamente procacciata, dell'accoppiamento.
Sebbene vivesse in mezzo a noi ed appartenesse in tutto e per tutto al tempo nostro, la Faustin era, per influssi atavici, una creatura del settecento; di quel secolo aveva il piccante nell'anima, la stanchezza cerebrale, la spossata sensualità.
Questo, di Edmond De Goncourt, era uno dei libri che Des Esseintes amava di più; e in verità, di inviti al sogno - che è ciò ch'egli alla lettura chiedeva - quest'opera traboccava; sotto ogni riga stampata, un'altra traspariva visibile solo all'anima; suggerita da un aggettivo che apriva spiragli a fughe appassionate; da una reticenza che lasciava intravvedere abissi che nessun linguaggio può colmare.
Poi, non era più la lingua di Flaubert, quella lingua d'una inimitabile magnificenza; sì, uno stile avvertito e morbido, nervoso e scaltrito, preciso nel rendere lo stimolo impercettibile che determina la sensazione; uno stile che sapeva rendere con esattezza e grazia insieme le complicate sfumature di un'epoca già di per sé singolarmente complessa. Era il verbo, insomma, indispensabile alle civiltà decrepite che, per esprimere i loro bisogni, esigono, qualunque sia l'età in cui fioriscono, delle eccezioni, delle movenze sintattiche nuove, la fusione di nuovi modi di dire e di nuovi vocaboli.
A Roma, sul morire, il paganesimo aveva modificato la prosodia, trasformato la lingua con Ausonio, con Claudiano, con Rutilio, il cui stile attento e scrupoloso, avvincente e sonante, dove soprattutto descrive riflessi, ombre, mezze tinte, presentava un'analogia, che non poteva non sorprendere, con lo stile dei De Goncourt.
A Parigi s'era per tal modo verificato un fenomeno unico nella storia delle letterature. L'agonizzante società del settecento, che aveva visto i suoi gusti e il suo pensiero interpretati da pittori, scultori, musici, architetti, non aveva saputo esprimere dal suo seno un autentico scrittore che fermasse nelle lettere le sue grazie moribonde, che consegnasse alla parola scritta l'essenza delle sue gioie febbrili, così duramente espiate, era occorso aspettare la comparsa di De Goncourt - di quest'uomo dal temperamento fatto di ricordi, di rimpianti acuiti ancora dal doloroso spettacolo della miseria spirituale e delle basse aspirazioni dei suoi contemporanei - perché, non solo in volumi di storia, ma anche in un'opera nostalgica come la Faustin, potesse resuscitare l'anima stessa di quell'epoca, incarnare la sua isterica sensibilità in quella attrice, così tormentata da strizzarsi il cuore e da martoriarsi il cervello per assaporare i dolorosi revulsivi dell'amore sino allo spossamento e sino all'arte.
Di tutt'altro genere era la scontentezza di Zola. Nessuna velleità in lui di emigrare verso modi di vita scomparsi, mondi perduti nella notte dei tempi. Tutto preso dallo spettacolo della vita e delle sue esuberanze, innamorato dell'uomo moralmente sano, cui scorre nelle vene un sangue impetuoso, il suo temperamento solido e possente lo distraeva tanto dalle grazie artefatte e dalle imbellettate clorosi del settecento che dalla solennità ieratica, dalla ferocia brutale e dai sogni effeminati e ambigui dei vecchio Oriente.
La volta che anche lui era stato aggredito dalla nostalgia, dal bisogno - che fa tutt'uno insomma con la poesia - di fuggire lontano da quel mondo che stava studiando: quel giorno egli s'era rifugiato in una campagna idealizzata, dove in pieno sole le linfe ribollono; aveva fantasticato d'una terra che spasima nell'amplesso d'un cielo in amore; di polline che cade in pioggia su organi di fiori anelanti d'essere fecondati. Aveva messo capo ad un colossale panteismo: con l'Eden dove pone ad abitare il suo Adamo e la sua Eva, aveva, forse senza saperlo, creato un prodigioso poema indù; un poema che in uno stile prodigo di smaltati colori, d'uno spicco da pittura indiana, celebra l'apoteosi della carne, la materia animata, vivente, nell'atto che rivela alla creatura umana, con la sua frenesia generatrice, il frutto proibito dell'amore, le sue soffocazioni, le sue naturali positure, le sue carezze istintive.
Nella letteratura francese, moderna e profana, questi tre erano, con Baudelaire, i maestri che avevano influito di più sulla mentalità di Des Esseintes, che avevano meglio contribuito a formarla. Senonché, a forza di rileggerseli, di pascersi delle loro opere, aveva finito per conoscerle da cima a fondo a memoria; ed aveva dovuto, per non togliersi di trarne altro nutrimento, sforzarsi di scordarle, lasciarle per un certo tempo dormire negli scaffali.
Cosicché adesso che il domestico gliene recava, egli le apriva appena; e si limitava ad indicargli dove doveva collocarle, avendo cura che venissero a trovarsi tutti insieme, a lor agio e nell'ordine dovuto.
Un nuovo apporto di volumi lo imbarazzò di più.
Erano libri pei quali s'era preso d'interesse poco a poco; libri, che grazie appunto ai loro difetti, lo riposavano della perfezione dei primi. Pure in questi, così sottilmente li aveva letti, pure nel grigiore di quelle pagine, Des Esseintes era giunto a scoprire, inattese, delle frasi che, pel contrasto con la sordità del resto, l'avevano fatto trasalire come a una scossa elettrica.
Anche l'imperfezione gli piaceva, purché non fosse parassitaria né servile. E qualche cosa di vero c'era probabilmente nella sua teoria: che lo scrittore meno dotato della decadenza, lo scrittore imperfetto ma ancora personale, distilla un balsamo più mordente, più acre, più suggestivo dell'artista veramente grande, veramente perfetto che gli è contemporaneo.
A suo credere, era nei confusi abbozzi di siffatti scrittori che si coglievano gli spasimi più acuti della sensibilità, i capricci più morbosi della psicologia, i pervertimenti più azzardati della lingua incaricata di confinare, di sequestrare in libri di scarto le più estrose effervescenze delle sensazioni e delle idee.
Fra questi scrittori era Paul Verlaine, il quale, molto tempo prima, aveva esordito con un volume di versi: i Poèmes Saturniens: un libretto tenue tenue, dove accanto ad imitazioni di Leconte de Lisle, incontravi esercitazioni di retorica romantica; ma dove pure in taluni componimenti come nel sonetto Rêve familier, s'annunciava un'autentica personalità poetica.
Nell'incertezza di quei primi abbozzi, Des Esseintes ravvisava un talento già profondamente imbevuto di Baudelaire, la cui influenza s'era in seguito meglio precisata, senza tuttavia che il viatico concessogli dall'impeccabile maestro fosse evidente.
I libri dello stesso ch'erano seguiti, la Bonne Chanson, le Fêtes Galantes, Romances sans paroles, infine il suo ultimo volume Sagesse racchiudevano poemi dove l'originalità dello scrittore si affermava, staccandolo nettamente dalla folla dei colleghi.
Avvalendosi come rima di forme che il verbo assume nella sua flessione, talvolta persino di lunghi avverbi, traboccanti da un monosillabo come dall'orlo d'una pietra una pesante massa d'acqua, il suo verso, spezzato da inverosimili cesure, diventava spesso singolarmente astruso per l'audacia delle elissi e per strane scorrettezze non prive tuttavia di grazia.
Signore come nessuno della metrica, aveva cercato di ringiovanire le forme poetiche a schema fisso, capovolgendo il sonetto, che con lui prendeva l'aspetto di quei pesci giapponesi di terracotta policroma che posano sullo zoccolo con le branchie in basso; oppure corrompendolo, con l'accoppiare fra loro solo rime mascoline, per le quali pareva avere un debole. Così aveva inaugurato uno schema bizzarro, del quale si valeva spesso: tre versi, dove quello di mezzo non rimava; ed una terzina monorima, seguìta da un verso solitario che, a mo' di ritornello, faceva eco a sé stesso, come negli streets: “Dansons la Gigue”; sino a servirsi di ritmi il cui timbro quasi sordo, non era ripigliato che in strofe lontane e vi moriva come un suono che si spegne di campana.
Ma la sua originalità risiedeva principalmente in questo: nell'aver saputo rendere vaghe e squisite confidenze, scambiate sottovoce nel crepuscolo. Lui solo era riuscito a suggerire certe conturbanti intimità dell'anima, pensieri men che sussurrati, confessioni così a fior di labbro ed interrotte che l'orecchio di chi le percepisce resta esitante, mentre nell'anima gli si diffonde un languore avvivato dal mistero di quel soffio, più che udito, indovinato.
L'inconfondibilità dell'accento di Verlaine era tutta in questi versi - adorabili - delle Fêtes Galantes:

Le soir tombait, un soir équivoque d'automne.
Les belles se pendant rêveuses à nos bras
Dirent alors des mots si specieux tout bas,
Que notre âme depuis ce temps tremble et s'étonne.

Non era più l'orizzonte che si godeva, sconfinato, dagli indimenticabili balconi spalancati da Baudelaire in un chiar di luna; era uno spiraglio dischiuso su un panorama più angusto e più intimo, di privata proprietà dell'autore, insomma; il quale aveva del resto fissato la sua poetica nei versi che Des Esseintes si ridiceva spesso:

Car nous voulons la nuance encore,
pas la couleur, rien que le nuance
Et tout le reste est littérature.

Con godimento Des Esseintes l'aveva seguito nella sua opera ch'era delle più varie. Dopo le Romances sans paroles - che avevan visto la luce nella stamperia d'un giornale di Sens - Verlaine s'era per molto tempo taciuto; per poi uscire a cantare, in deliziosi versi nei quali passava l'accento dolce e smarrito di Villon, la Vergine loin de nos jours d'esprit charnel et de chair triste.
Des Esseintes si rileggeva spesso Sagesse e quella poesia gli suggeriva segrete fantasticherie: si fingeva un taciuto amore per una Madonna bizantina; che, ecco, si mutava in una Cidalisa sperduta nel nostro secolo, così misteriosa e conturbante ch'era impossibile dire se agognava a depravazioni talmente mostruose da diventare, appena consumate, irresistibili; o se si lanciava anch'essa nel sogno, in un sogno immacolato, dove, senza mai confessarselo, perennemente pura, l'anima le aleggerebbe intorno, adorando.
In altri poeti trovava ancora accoglienza: in Tristan Corbière che, nel 1783, tra l'indifferenza generale, aveva lanciato Les Amours jaunes, un libro dei più insoliti.
Des Esseintes che, in odio a tutto ciò che è banale e comune avrebbe accettato le intemperanze più spinte, le stravaganze più barocche, passava ore di beatitudine in compagnia di questo libro, dove la stramberia si sposava a una tumultuosa forza; dove versi sconcertanti lampeggiavano in mezzo a poesie oscurissime, come le litanie del “Sonno” che il poeta ad un certo punto chiamava:

“Obscène confesseur des dévotes mort-nées.”

La lingua che adoperava era a stento francese. L'autore parlava il gergo dei negri; si valeva di uno stile da telegramma, sopprimeva oltre ogni discrezione i verbi; sfoggiava un'ostentata buffoneria, s'abbandonava a barzellette da commesso viaggiatore, intollerabili; poi ecco, in quel guazzabuglio, improvvisamente, tra contorcimenti di concettuzzi ridicoli ed equivoche smancerie, esplodeva di punto in bianco uno straziante grido di dolore, come corda di violoncello che si spezza.
Eppure in quello stile duro e diseguale, arido, scarnito all'osso, irto di termini desueti, di neologismi inaspettati, sfolgoravano a tratti espressioni geniali, solitari versi monchi della rima, magnifici; infine - a parte la profonda definizione della donna che Des Esseintes coglieva nei “Poèmes Parisiens”:

Eternel féminin de l'eternel jocrisse

Tristan Corbière aveva, in uno stile d'una concisione che si poteva dire potente, celebrato il mar di Bretagna, i postriboli per marinai, il pellegrinaggio di Sant'Anna d'Auray; ed aveva attinto l'eloquenza dell'odio nell'invettiva che gettava in faccia, a proposito del campo di Conlie, a coloro che chiamava “forains du Quatre Septembre”.
Il cibo frollo che appetiva e che trovava in questo poeta dagli epiteti pregnanti, dalle veneri sempre un po' sospette, Des Esseintes lo trovava eziandio in un altro poeta, Théodore Hannon, allievo di Baudelaire e di Gautier: squisitamente sensibile alle affettate eleganze e alle gioie artificiali. Ma, mentre Verlaine derivava direttamente da Baudelaire, soprattutto dal punto di vista psicologico, pel capzioso modo in cui atteggiava il pensiero, per la distillata quintessenza del sentimento, Théodore Hannon si riattaccava al maestro soprattutto pel modo di vedere esseri e cose e di ritrarli plasticamente.
Destino voleva che la sua seducente depravazione si accordasse con le tendenze di Des Esseintes; il quale nei giorni grigi e piovosi si rifugiava nel ritiro creato dalla fantasia di questo poeta e si ubbriacava gli occhi dei cangianti riflessi delle stoffe di cui l'aveva addobbato, dei fuochi di quelle pietre, di tutta quella sontuosità puramente materiale che scaldava l'immaginazione; e che, come un pizzico di cantaride in una tepida nuvola d'incenso, vaporava verso un Idolo Brussellese dal viso truccato, dal ventre conciato di profumi.
Tolti questi poeti - e Stephane Mallarmé che al domestico ordinò di metter da parte per assegnargli un posto a sé - gli altri esercitavano su Des Esseintes ben scarsa attrattiva.
Nonostante la magnificenza della forma, il maestoso incedere del verso, d'uno spicco che gli stessi esametri d'Hugo apparivano al confronto grigi e sordi, Leconte de Lisle non poteva ormai appagarlo. Quell'antichità che Flaubert aveva così splendidamente resuscitato, restava nelle sue mani inerte e fredda. Nulla palpitava in quei versi tutta facciata che così di rado esprimevano un pensiero; nulla viveva in quei vacui poemi, la cui impassibile mitologia finiva per gelarlo.
Così, dopo averlo a lungo prediletto, anche di Gautier Des Esseintes era giunto a disinteressarsi; la sua ammirazione per questo incomparabile pittore era andata di giorno in giorno scemando; ed oggi egli restava più sbalordito che incantato delle sue descrizioni che lo lasciavano pressoché indifferente. Quella retina così sensibile coglieva con nettezza gli oggetti; ma lì la loro immagine si fermava, non andava oltre, non interessava il cervello, l'uomo. Come uno specchio prodigioso Gautier non aveva mai fatto altro che riflettere con impersonale nettezza delle parvenze.
Certo Des Esseintes amava ancora l'opera di questi poeti, come amava le gemme rare, la materia preziosa e morta; ma non un verso di quei perfetti artefici poteva più rapirlo, perché nessuno dava ali al sogno, nessuno offriva occasione, per lui almeno, ad una di quelle inebrianti fughe nel sogno che affrettano il lento passar delle ore.
Se dalla loro lettura usciva affamato come prima, non diversamente accadeva con Hugo. In questi, quei ch'era Oriente e patriarca lo sentiva troppo vuoto e di maniera per soffermarvisi; la parte dell'opera poi dove il poeta diventava al tempo stesso nonno e bambinaia, lo metteva fuori dei gangheri.
Doveva giungere sino alle Chansons des rues et des bois per trovar di che esclamare; qui, sì, prorompeva in gridi a vedergli trattar la metrica come un infallibile prestigiatore; ma con che piacere, tirate le somme, tutti quei miracoli di abilità li avrebbe dati in cambio d'un'opera che non deludesse le aspettative, di Baudelaire, il solo, o poco meno, nei cui versi si trovasse sotto la smagliante forma il balsamo d'un vitale nutrimento!
Ma se dalla forma priva di idee passava d'un salto alle idee prive di forma, Des Esseintes non si trovava meno freddo e meno circospetto.
I laberinti psicologici di Stendhal, le penetranti analisi di Duranty lo attraevano; ma il linguaggio commerciale, arido, incolore che adoperavano, quella prosa presa a nolo, buona a dir molto per l'ignobile industria del teatro, lo ributtava.
Senza dire che tutto quell'ingegnoso e interessante lavoro d'introspezione si esercitava su personaggi in preda a passioni che non lo toccavano più. Poco gli caleva dei patemi d'animo, delle associazioni di idee della grande maggioranza degli uomini, ora che il suo appartarsi toccava l'esagerazione e ch'egli più non ammetteva che sensazioni ultrasquisite, che crisi cattoliche e sensuali.
Per trovare un'opera che unisse, com'era nei suoi voti, ad uno stile incisivo un'analisi penetrante e scaltrita, gli era giocoforza arrivare al maestro dell'Induzione; a quel profondo e inquietante Edgar Poe che nessuna rilettura era ancora riuscita a far scadere nella sua ammirazione. Nessuno forse quanto Poe rispondeva per intima affinità alle esigenze spirituali di Des Esseintes.
Se nei geroglifici dell'anima Baudelaire aveva decifrato la menopausa dei sentimenti e delle idee, lui aveva, nella psicologia morbosa, scrutato più particolarmente il dominio della volontà.
Nella letteratura egli aveva per primo, sotto il titolo emblematico: “Il démone della perversità” scrutato quegli impulsi irresistibili che la volontà subisce senza conoscerli e che oggi la patologia del cervello spiega in modo pressoché irrefutabile. Per primo pure, aveva, se non scoperto, almeno divulgato l'influsso della paura che agisce come deprimente sulla volontà; e così gli anestetici che paralizzano la sensibilità ed il curaro che distrugge i centri nervosi che presiedono al movimento.
Era qui, su questa caduta in letargo della volontà, che egli aveva fatto convergere i suoi studi, analizzando gli effetti di quel veleno morale, indicando i sintomi del suo progresso, i dissesti che produce a cominciare dallo stato ansioso, per passare all'angoscia, esplodere infine nel terrore che istupidisce la volizione, senza che l'intelligenza, per quanto scossa, s'arrenda.
La morte, di cui tutti i drammaturghi han tanto abusato, l'aveva in certo modo resa più raccapricciante, trasformata in qualcosa d'altro, con introdurre in essa un elemento algebrico e sovrumano. Ma più che l'agonia in sé, egli veramente descriveva l'agonia morale di chi al moribondo sopravvive, del superstite, ossessionato, davanti al lamentevole letto, da paurose allucinazioni, partorite dal dolore e dalla stanchezza.
Con un'arte fascinatrice implacabile, calcava sulle manifestazioni dello spavento, sul cedimenti della volontà; vi ragionava su con freddezza, prendendo poco a poco alla gola il lettore, strozzato, ansante - davanti a quegli incubi, colto automaticamente da terzana.
Squassate da nevrosi ereditarie, in preda a coree morali, le sue creature vivevano a spese dei nervi. Le sue figure femminili, le Morelle, le Ligeia, possedevano una immensa erudizione, erano imbevute delle nebbie della filosofia tedesca, al corrente dei misteri cabalistici dell'antico Oriente, e tutte avevano petti lisci ed inerti d'angeli; tutte erano, per così dire, asessuali.
Baudelaire e Poe, questi due spiriti tante volte accoppiati a motivo della poetica che hanno in comune, dell'inclinazione che condividono per l'indagine delle affezioni mentali, differivano radicalmente per le concezioni affettive che avevano nella loro opera tanto posto: Baudelaire col suo amore depravato ed anormale, che gli dava una nausea così atroce da far pensare s'accanisse su di lui una specie d'Inquisizione; Poe, coi suoi amori bianchi, aerei, in cui il senso non entrava, dove solo il cervello erigeva, senza interessare organi che, se esistevano, restavano costantemente frigidi e vergini.
Questa sala operatoria del cervello dove, procedendo alle sue vivisezioni, in una atmosfera soffocante, questo chirurgo dell'anima, diventava, appena la sua attenzione si allentava, preda della propria immaginazione che faceva balenare, come deliziosi miasmi, apparizioni sonnambulesche ed angeliche, - era per Des Esseintes una inesauribile sorgente di congetture; ma adesso che la sua nevrosi si aggravava, venivano giorni in cui, con un tremito nelle mani, restava con l'orecchio all'erta, sentendosi invadere, come il desolante Usher, da un'ansia irragionevole, da un terror sordo.
Dimodoché doveva imporsi una regola, assaggiare appena di quei filtri pericolosi; allo stesso modo che non poteva più trattenersi impunemente nel vestibolo rosso e inebriarsi la vista delle tenebre di Odilon Redon e dei supplizi di Jean Luyken.
Eppure quando si trovava in questo stato d'animo ogni letteratura gli sembrava sciapa, paragonata a quei tremendi beveraggi importati dall'America. Allora si rivolgeva a Villiers de Lisle-Adam. Nel disordine della sua opera scoppiavano ancora, sotto forma d'osservazioni, gridi sediziosi, spasimi percorrevano ancora qua e là la pagina, ma non suscitavano più un sì sconvolgente orrore.
Fatta tuttavia eccezione per la sua Claire Lenoir. Apparsa nel 1867 sulle colonne della Rêvue des Lettres et des Arts, Claire Lenoir inaugurava una serie di novelle che andava sotto il titolo generico di Histoires moroses. Su uno sfondo di oscure elucubrazioni tolte in prestito al vecchio Hegel, s'agitavano esseri male in sesto: un dottor Tribulat Bonhomet, solenne e puerile; una Claire Lenoir, farsesca e sinistra, munita di lenti turchine tonde e grandi come scudi, che ne celavano gli occhi quasi spenti.
La novella s'aggirava su un semplice adulterio; ma la conclusione cui giungeva era terrificante. Al letto di morte di Clara, Bonhomet, frugandole con mostruose sonde, violava le pupille della donna, e impressa nella retina scorgeva nettamente l'immagine del marito di lei che brandiva a braccio teso il mozzo capo dell'amante della defunta, intonando, come un Canaco, un canto di guerra.
Questo racconto che prendeva le mosse dall'osservazione, esatta o meno, che l'occhio di certi animali, quello del bove per esempio, serba sinché non si decomponga, tal quale come una lastra fotografica, l'ultima immagine che lo impressionò - derivava manifestamente da Edgar Poe; del procedimento dell'americano s'appropriava l'arte di spaventare e la discussione cavillosa.
Il che accadeva anche per l'Intersigne, racconto compreso in seguito fra i Contes cruels; raccolta questa d'un indiscutibile valore, che accoglieva “Véra” una novella che Des Esseintes considerava un piccolo capolavoro.
Qui l'allucinazione s'improntava di squisita delicatezza. Non eran più i tenebrosi miraggi dell'americano; era una visione tiepida e fluida, quasi celeste. In un genere identico, Véra era il contrario delle Beatrici e delle Ligeia: di questi tristi e bianchi fantasmi generati dal nero incubo dell'oppio.
Anche in questa novella protagonista era la volontà; ma non la volontà che s'arrende e soccombe alla paura; sì la volontà esaltata da una fede che rasenta l'idea fissa. La volontà vi trionfava; riusciva persino a saturar di sé l'aria intorno, ad imporre all'ambiente la sua credenza.
Isis, un altro libro di Villiers, lo interessava per altre ragioni. Come Claire Lenoir, ingombrava anche questo libro il peso morto della filosofia; vi incontravi alla rinfusa osservazioni verbose e confuse reminiscenze di vecchi melodrammi, trabocchetti, pugnali, scale di corda, tutto il ciarpame romantico che l'autore non era riuscito a ringiovanire in Elen ed in Morgane; tentativi questi dimenticati, venuti alla luce per i tipi di certo Francisque Goyon, stampatore a Saint-Brieuc.
L'eroina di questo libro, la marchesa Tullia Fabriana, che passava per accoppiare la scienza caldea delle protagoniste di Edgar Poe alle finezze diplomatiche della Sanseverina-Taxis di Stendhal, v'assumeva per sovrammercato l'enigmatico contegno di una Bradamante complicata dell'antica Circe. Tante e così poco conciliabili personalità compendiate in una donna sola, emanavano un fumo fuligginoso, in mezzo al quale si urtavano influssi filosofici e letterari che non eran chiari neanche alla mente dell'autore quando aveva messo mano ai prolegomeni di quest'opera, che doveva abbracciare non meno di sette volumi.
Ma nel talento di Villiers un altro filone esisteva, ben altrimenti valido, ben altrimenti puro: una vena di canzonatura macabra e di beffa feroce. Non erano più allora le paradossali mistificazioni di Poe, sì uno scherno d'una comicità lugubre, dettato, come in Swift, dalla indignazione.
Tutta una serie di novelle: Les demoiselles de Bienfilâtre, L'Affichage celeste, La Machine à gloire, Le plus beau diner du monde, rivelava uno spirito beffardo, singolarmente caustico ed inventivo. Tutta la laidezza dell'utilitarismo contemporaneo, tutta la ignominia mercantile del secolo, erano esaltate con una ironia così pungente che entusiasmava Des Esseintes.
D'una satira sorniona così solenne e scarnificante, non c'era in Francia altro esempio. Tutt'al più una novella di Charles Gros, La science de l'amour, apparsa parecchi anni prima sulla Revue du Monde-Nouveau, poteva stupire per le sue stravaganze chimiche, il suo spirito di maniera, le sue buffonesche osservazioni a freddo; ma il piacere che dava era relativo, sciupato come era dalla forma scadentissima. In essa lo stile fermo, colorito, spesso originale di Villiers spariva per lasciare il posto ad un intruglio carpito dal tavolo del primo scrittore venuto.
“Dio mio! come son dunque pochi i libri che si possono rileggere!” sospirò Des Esseintes.
Il domestico, nel discendere la scaletta su cui s'era arrampicato, si traeva da parte per permettergli d'abbracciare d'uno sguardo l'intero scaffale. Del capo, Des Esseintes approvò.
Sul tavolo non restavano che due libriccini.
Congedato d'un segno il vecchio, Des Esseintes ne tolse in mano uno: rilegato in pelle d'onagro cui la pressa idraulica aveva dato il liscio ed il lucido del raso e che l'acquarello aveva fiorito di nuvole d'argento. Ne salvaguardava all'interno le pagine del vecchio lampasso, dai rabeschi un po' stinti che avevano la grazia, celebrata da Mallarmé in una deliziosa poesia, delle cose vizze.
Le pagine - nove in tutto - erano ricavate da undici esemplari dei due primi Parnasi tirati su pergamena, ed erano precedute dal titolo: Qualche poesia di Mallarmé, tracciato in bellissima grafia, in caratteri onciali, a colori, punteggiati d'oro come quelli degli antichi manoscritti.
Più d'uno dei componimenti che racchiudeva, lo calamitava: Les fenêtres, L'Epilogue, Azur; ma c'era tra gli altri un frammento dell'Hérodiade che lo soggiogava, a certe ore, come un sortilegio.
Quante volte, la sera, nella luce della lampada che, discreta, rischiarava il silenzio della stanza, egli s'era sentito sfiorare da quella Erodiade che, nella tela di Gustave Moreau, ora in ombra, si ritraeva, diventava leggera, di sé non lasciava più che confusamente intravvedere, in un bracere di gemme spente, il candore di statua! L'oscurità faceva sparire il sangue, addormentava gli ori ed i riflessi, aboliva le lontananze del tempio, inghiottiva le scialbe figure dei carnefici; e, risparmiando solo i bianchi dell'acquarello, traeva la donna dalla guaina dei suoi gioelli, la denudava maggiormente.
Irresistibilmente, egli alzava gli occhi a lei, ne riconosceva gli indimenticabili contorni; la donna riviveva e richiamava al suo labbro i versi strani e soavi che Mallarmé le pone in bocca:

Que de fois, et pendant les heures, desolée
Des songes et cherchant mes souvenirs qui sont
Comme des feuilles sous ta glace au trou profond
Je m'apparus en toi comme une ombre lointaine!
Mais, horreur! des soirs, dans ta sévère fontaine,
J'ais de mon rêve épars connu la nudité!

Questi versi li amava come amava il poeta che, nel secolo del suffragio universale e in un'era di mercanti, viveva appartato dal mondo letterario, salvaguardato dalla stupidità che lo circondava dal proprio disdegno, chiedendo le sue gioie, non già alla società, ma alle sorprese dell'intelletto, alle visioni che gli offriva la fantasia; lavorando di bulino un pensiero già di per sé specioso, intarsiandolo di bellezze bizantine, cogliendone via via gli echi in deduzioni appena accennate, legate fra loro da un impercettibile filo.
Queste idee preziose formanti unità, le consegnava in una lingua aderente, personalissima e segreta, tutta scorci elissi tropi audaci.
Avvertendo le più lontane analogie, l'essere o l'oggetto - che, indicato col semplice nome proprio, sarebbe occorso sovraccaricare di epiteti, per darne tutti gli aspetti, per renderne tutte le sfumature - lo designava spesso con un termine, che, per virtù di similitudine, ne evocava tutto in una la forma, l'odore, il colore, la qualità, lo spicco. Riusciva così a far a meno di esprimere i termini del paragone che s'istituiva da sé nella mente del lettore per forza d'analogia, non appena aveva penetrato il simbolo; cosicché invece di disperdere l'attenzione su ciascuna qualità - ciò che avrebbe ottenuto allineando una filza d'aggettivi - la concentrava su un'unica parola, sur un tutto, che - a mo' d'un quadro per esempio - presentava un aspetto unico e completo, una sintesi.
Otteneva così una scrittura intensa, liberata da tutte le scorie, essenziale.
Questo modo pregnante di scrivere, già inaugurato con discrezione nelle prime opere, Mallarmé lo aveva arditamente innalzato a regola in un saggio su Théophile Gautier e nell'Après midi d'un faune: un'ecloga, dove la gioia sensuale che permeava sottilmente i versi, esplodeva tutto ad un tratto nel grido selvaggio e delirante dal fauno:

Alors m'éveillerai-je à la ferveur première,
Droit et seul sous un flot antique de lumière,
Lys! et l'un de vous tous pour l'ingénuité.

Questo verso che col monosillabo “lys” riportato a capo, evocava qualche cosa di rigido, di slanciato, di bianco - sensazione accentuata ancora dal sostantivo “ingénuité” in funzione di rima - esprimeva allegoricamente in un vocabolo solo la passione, l'effervescenza, lo stato momentaneo del fauno vergine, accecato di voglia alla vista delle ninfe.
In quel mirabile poema s'aveva ad ogni verso la sorpresa d'immagini nuove ed inedite, laddove il poeta descriveva gli slanci, i rammarichi del capripede che contemplava dal margine dell'acquitrino il folto di canne che serbava ancora, fugace calco, l'impronta delle najadi.
Aggiungi il capzioso diletto che Des Esseintes provava a palpare il minuscolo libriccino: la coperta di feltro giapponese, bianca come latte cagliato, era fermata da due cordoncini di seta, uno rosa di China, nero l'altro. Dissimulata dietro la copertina, la trecciola nera raggiungeva quella rosa che metteva uno spolvero di cipria, un sospetto di belletto giapponese moderno, un che di libertino sul candore antico, sul bianco incarnato del libro e lo chiudeva, sposando in una fatua gala il suo color buio al color chiaro - ad ammonire senza parere, a mettere appena in guardia il lettore contro il rimpianto e la malinconia che seguono ai trasporti appagati, alla febbre dei sensi esaudita.
Des Esseintes ripose sul tavolo l'Après-midi d'un faune e sfogliò qualche pagina d'un altro libriccino, fatto stampare per suo conto: un'antologia del poemetto in prosa: una piccola cappella dedicata a Baudelaire, da servire d'introibo alla sua poesia.
Conteneva dei brani scelti dal Gaspard de la nuit, di quello stravagante Aloysius Bertrand che trasferì nella prosa i procedimenti di Leonardo e che dipinge, coi suoi ossidi metallici, quadretti dove la cangiante vivezza dei colori emula il luccichio degli smalti.
Des Esseintes vi aveva aggiunto il Vox populi di Villiers, un componimento magistrale martellato in uno stile d'oro alla maniera di Leconte de Lisle e di Flaubert; ed una scelta di quel delicato Livre des Jade in cui l'esotixo sentore del ginseng e del tè si mesce all'olezzante frescura dell'acqua che, lungo tutto il libro, bisbiglia al chiar di luna.
Il florilegio accoglieva poi alcuni peomi salvati da riviste che avevano cessato la pubblicazione: Le Démon de l'analogie, La Pipe, Le pauvre Enfant pâle, Le Spectacle interrompu, Le Phénomène futur; e, in prima fila, Plaintes d'automne e Frisson d'hiver; i quali, oltre ad essere i capolavori di Mallarmé, prendevan posto tra i capolavori del poemetto in prosa, perché ad una lingua riccamente scandita da bastar da sé a cullare come un malinconico incantesimo, un'inebbriante melodia, sposavano irresistibile la seduzione dei pensieri, palpiti d'anima di sensitivo i cui nervi vibrano con una intensità che penetra sino a darti l'estasi, sino a farti male.
Di tutte le forme letterarie, questa del poemetto in prosa, era la forma che Des Esseintes prediligeva. In mano ad un alchimista di genio, il poemetto in prosa poteva, a suo avviso, racchiudere nel suo breve giro, sotto specie di essenza, l'efficacia del romanzo, facendo a meno delle sue lungaggini d'analisi e delle sue superfluità descrittive.
Sovente Des Esseintes s'era chiesto se non fosse, per quanto arduo, possibile condensare un romanzo in poche righe, distillate al punto da contenere il succo di centinaia di pagine che vengon spese immancabilmente a dare l'ambiente, a disegnare i caratteri, a renderli persuasivi, con grande rincalzo di osservazioni e di minuti particolari.
Allora le parole scelte si presterebbero così poco a sostituzioni da supplire tutte le altre; l'aggettivo, collocato in posizione così ingegnosa e definitiva da non poter essere spostato di dov'è schiuderebbe al lettore prospettive da farlo fantasticare per settimane sul suo significato, preciso e multiplo insieme; gli darebbe il presente, gli permetterebbe di ricostruire il passato e d'indovinare l'avvenire spirituale dei personaggi, rivelati dai bagliori di quell'unico epiteto.
Così concepito, compendiato così in due o tre pagine, il romanzo diverrebbe una comunione di pensiero fra un magico scrittore ed un lettore ideale; una collaborazione di spiriti consentita fra dieci creature d'elezione sparpagliate pel mondo, una gioia offerta ai raffinati e solo ad essi accessibile.
Insomma il poemetto in prosa rappresentava agli occhi di Des Esseintes il succo concreto, l'osmazoma della letteratura, l'olio essenziale dell'arte.
Questo nutrimento sostanziale condensato in una goccia, già si trovava in Baudelaire; come pure nei poemetti di Mallarmé ch'egli si centellinava con sì intenso godimento.
Chiusa che ebbe l'antologia, Des Esseintes si disse che, se anche si fosse compendiata in quel libro, la sua biblioteca aveva scarse probabilità d'accrescersi. E in verità la decadenza d'una letteratura minata irrimediabilmente nel suo organismo, affievolita dalla decrepitezza delle idee, spossata da eccessi di sintassi, capace solo di curiosità quali son quelle che animano gli infermi e smaniosa insieme di fare in tempo ad esprimer tutto, di lasciare al letto di morte in testamento i pur minimi ricordi delle sue gioie e dei suoi dolori, ansiosa di non ometter nulla, s'era incarnata in Mallarmé nel modo più compiuto e squisito.
C'era in Mallarmé, spinta alle ultime possibilità dell'espressione, l'essenzialità di Poe e di Baudelaire; da lui, i preziosi e possenti filtri del francese e dell'americano ancora una volta erano stati sottoposti a distillazione e sprigionavano nuovi aromi, nuove ebbrezze.
Era l'agonia della vecchia lingua, che, dopo essersi andata corrompendo di secolo in secolo, finiva per dissolversi, per raggiungere la deliquescenza del latino che esalava il suo ultimo respiro nei concetti astrusi e nelle enigmatiche espressioni di San Bonifacio e di Sant'Adelmo.
Insomma, la decomposizione della lingua francese s'era prodotta di colpo. Per la latina, era occorso un lungo periodo di transizione, un intervallo di quattrocento anni, per passare dallo scrivere screziato e sontuoso di Claudiano e Rutilio a quello ormai frollo del settimo secolo. Nella lingua francese lo stesso fenomeno non era stato preparato da alcun intervallo di tempo, da nessuna età di mezzo: lo stile screziato e magnifico di De Goncourt e lo stile frollo di Verlaine e di Mallarmé erano contemporanei, venivano usati nello stesso tempo, nella stessa epoca, nello stesso secolo.
E Des Esseintes, con l'occhio ad uno degli in-folio aperti sul leggio della cappella, sorrise al pensiero che giorno verrebbe che un erudito allestirebbe per la decadenza della lingua francese un glossario come quello in cui il dotto Du Change aveva registrato gli ultimi spasimi, gli ultimi lampeggiamenti, le estreme balbuzie del latino che stava rantolando di decrepitezza nel buio dei chiostri.

XV

Divampato come un fuoco di paglia, il suo entusiasmo pel sostentatore si spense altrettanto presto.
Azzittitasi a tutta prima, la dispepsia nervosa si ridestò; poi, quel concentrato nutritivo, riscaldante di per sé, provocò nell'intestino una tale irritazione, che Des Esseintes dovette in tutta fretta rinunciarvi. La malattia riprese il suo corso e la aggravò la comparsa di nuovi sintomi. Dopo gli incubi, le allucinazioni olfattive, i turbamenti della vista, la tosse secca che compariva puntuale, il rombo delle arterie, del cuore e i sudor freddi, fecero la loro comparsa le illusioni uditive, le ultime a comparire nel decorso del male.
Bruciato dalla febbre, Des Esseintes percepì di punto in bianco un mormorar d'acque, uno sciamar di vespe: rumori che si fusero quindi in uno solo: si sarebbe detto il ronzar d'un tornio. Quel ronzio si schiarì, s'attenuò; divenne poco a poco il suono argentino d'una campana.
Onde sonore, musiche allora esaltarono il suo cervello di febbricitante; lo immersero, lo travolsero nei vortici mistici dell'infanzia.
Riudì i canti appresi dai gesuiti; bastò perché sorgesse innanzi a lui il collegio, la cappella dove avevano echeggiato; finché, propagandosi l'allucinazione agli organi dell'odorato e della vista, percepì e gli velò gli occhi fumo d'incenso; balenarono vetrate sotto alti archi irradiando la tenebra di bagliori.
Presso i Padri, le cerimonie religiose venivano celebrate con gran pompa; un ottimo organista ed una cantoria non meno notevole facevano degli esercizi spirituali, a tutto profitto del culto, un vero godimento artistico.
L'organista aveva una passione per i vecchi maestri, e, nei giorni feriali sonava messe di Palestrina e d'Orlando Lasso, salmi di Marcello, oratori di Haendel, mottetti di Sebastiano Bach; ed a preferenza delle languide e facili compilazioni del Padre Lambillotte, tanto in favore presso il clero, eseguiva delle Laudi spirituali del Cinquecento, d'una maestà chiesastica che aveva tante volte conquiso Des Esseintes.
Ma indicibili gioie gli aveva dato più di tutto il canto fermo, cui a dispetto delle nuove idee, l'organista si serbava fedele.
Questo genere di musica, considerato oggi una forma caduca e gotica della liturgia cristiana, una curiosità archeologica, una reliquia dei vecchi tempi, era bene l'espressione dell'antica chiesa, l'anima stessa del Medio Evo; era la preghiera eterna, modulata sugli slanci dell'anima, l'inno duraturo innalzato da secoli e secoli verso l'Altissimo. Quella melodia tradizionale col suo imponente unisono, con le sue armonie solenni e massicce al pari di blocchi di pietra da taglio, era la sola che s'accordasse con le secolari basiliche e riempisse le volte romane delle quali pareva l'emanazione e la voce stessa.
Quante volte Des Esseintes non s'era sentito afferrare e piegare da una ventata irresistibile, quando il Christus factus est del canto gregoriano s'alzava nella navata e, tra le volubili nuvole sprigionate dai turiboli, i pilastri ne vibravano; o quando il falso bordone del De Profundis gemeva, lugubre come un singhiozzo trattenuto, straziante come un appello disperato dell'umanità che piange sul suo destino mortale, che implora pietà e misericordia dal suo Salvatore.
A petto di quel canto stupendo, creato dal genio della Chiesa, impersonale, anonimo come l'organo stesso di cui s'ignora l'inventore, ogni altra musica gli pareva profana.
A ben guardare, tutte le opere del Jomelli e del Porpora, del Carissimi e del Durante, le composizioni più mirabili di Haendel e di Bach, non rinunciano ad un successo di pubblico, non sacrificano un solo effetto d'arte; in esse non abdica l'orgoglio umano che si ascolta pregare.
Tutto al più, lo stile religioso s'affermava ancora, grave ed augusto, e per la spietata nudità s'avvicinava all'austera imponenza dell'antico cantofermo nelle maestose messe del Leseur celebrate a Saint-Roch.
Da allora, stomacato dai pretesti del Stabat escogitati dai Pergolesi e dai Rossini, da tutta quella intrusione d'arte mondana nell'arte liturgica, Des Esseintes s'era tenuto alla larga dalle musiche equivoche che l'indulgenza della Chiesa tollera.
Del resto questa condiscendenza, suggerita dal desiderio di buoni incassi ed ammantata dall'ingannevole pretesto di attirare i fedeli, dov'era benpresto arrivata? a togliere in prestito canti da opere italiane, ad irreverenti cavatine, a indecorose quadriglie sonate a grande orchestra nella chiesa convertita anch'essa in salotto equivoco, data in balia agli istrioni dei teatri che bramivano lassù, mentre in basso le donne gareggiavano tra loro con la vistosità degli abbigliamenti e si sdilinquivano agli strilli dei cattivi cantori, alla loro voce che profanava con la sua impurità quella sacra dell'organo.
Da anni ed anni egli si rifiutava d'intervenire a quelle pie orge; per fedeltà all'infanzia, rimpiangendo persino d'aver ascoltato qualche Te Deum di celebrati maestri, perché non lo lasciava il ricordo dell'ammirabile Te Deum del canto gregoriano; quell'inno così semplice, così grandioso, sgorgato dal cuore d'un Santo, S. Ambrogio o S. Ilario che sia; quell'inno che in mancanza di complicati mezzi orchestrali, non soccorso dalla tecnica musicale di cui va orgogliosa la scienza moderna, rivelava un'ardente fede, un giubilo delirante, esplosi dall'anima dell'intera umanità in accenti commossi, convinti, pressoché celestiali.
Del resto, le idee di Des Esseintes sulla musica erano in piena contraddizione con le teorie ch'egli professava sulle altre arti. In fatto di musica religiosa egli non approvava veramente che la musica monastica del Medio Evo; quella scarna musica che esercitava un fascino irresistibile sul suoi nervi non altrimenti di certe pagine degli antichi autori cristiani. Aggiungi - e lo confessava lui stesso - che non sarebbe stato in grado di riconoscere i trucchi che i compositori del suo tempo potevano avere introdotto nella musica sacra.
Intanto, la musica non l'aveva studiata con la stessa passione della pittura e delle lettere. Sonava il piano né meglio né peggio di chicchessia e solo con molte esitazioni riusciva a decifrare approssimativamente uno spartito, ma ignorava affatto l'armonia, la tecnica necessaria per cogliere veramente una sfumatura, apprezzare un pregio, gustare una squisitezza con cognizione di causa.
D'altra parte la musica profana è un'arte promiscua se non la si può leggere da solo in casa propria come si legge un libro. Per ascoltarla, sarebbe occorso mescolarsi al solito pubblico di cui rigurgitano i teatri e che assedia quel Cirque d'hiver dove sotto un sole di striscio, in un'atmosfera da lavatoio pubblico, si vede un tizio dall'aspetto di carrettiere che si sbraccia come sbattesse in aria una salsa e massacra episodi staccati di Wagner tra la delirante esultanza d'una moltitudine incosciente.
Des Esseintes non se l'era sentita di tuffarsi in quel bagno di folla per andare ad ascoltare della musica di Berlioz, sebbene alcuni frammenti di questo autore lo avessero soggiogato per la loro appassionata esaltazione, la loro foga balzante; e quanto a Wagner, sapeva con certezza che, non dico una scena, ma neppure una frase di questo prodigioso maestro può essere impunemente staccata dall'opera cui appartiene.
I brani trinciati via e serviti sul piatto d'un concerto, perdevano ogni significato, se è vero che a mo' dei capitoli d'un libro completantisi a vicenda e concorrenti tutti ad un'unica conclusione, le melodie servivano a Wagner per disegnare il carattere dei personaggi, dar corpo ai loro pensieri, esprimerne i movimenti palesi o segreti; e che il loro sapiente e persistente ritorno era comprensibile solo a chi seguiva il soggetto dall'inizio e vedeva poco a poco i personaggi precisarsi, svilupparsi in un ambiente dal quale non si poteva toglierli, come non si può staccare dall'albero un ramo senza vederlo perire.
Ora, Des Esseintes si diceva, nella folla di melomani che la domenica si estasiava in platea, troveresti a stento venti persone a conoscenza dello spartito che si è dietro a massacrare e che del resto giunge all'orecchio solo quando le palchettiste hanno la cortesia di chetarsi.
Visto poi che un intelligente patriottismo vietava si rappresentassero in un teatro francese opere di Wagner, ai curiosi che ignoravano gli arcani della musica e non potevano o non volevano recarsi a Bayreuth, altro non rimaneva che restarsene a casa: ed era questo il ragionevole partito che Des Esseintes aveva adottato.
D'altronde né la musica più corrente, più facile, né i brani a sé stanti delle vecchie opere lo attiravano granché; i triviali gorgheggi di Auber e di Boïeldieu, di Adam e di Flotow, ed i luoghi comuni della rettorica musicale propugnanti dagli Ambroise Thomas e dai Bazin gli ripugnavano non meno delle affettazioni stantie e delle grazie popolaresche degli italiani.
Des Esseintes s'era quindi scostato deliberatamente dalla musica; e da quando se ne asteneva, da anni ormai, non ricordava con piacere che certe tornate di musica da camera, dove ne aveva ascoltato di Beethoven e soprattutto di Schumann e di Schubert; musiche che lo avevano fatto vibrare in ogni nervo non meno dei più intimi e tormentati poemi di Edgar Poe.
Certe parti per violoncello, di Schubert, lo avevano lasciato alla lettera senza fiato, strozzato in gola dal groppo isterico; ma erano i lieder di Schubert, in particolar modo, che lo avevano esaltato, messo fuori di sé; per poi gettarlo in una spossatezza simile a quelle che cagiona la dispersione di fluido nervoso conseguente ad un'orgia di misticismo.
Quella musica lo penetrava di brividi sino all'ossa: per essa gli rifluiva in cuore - nel cuore stupito di contenere tanta confusa angoscia, tanto confuso dolore - un'infinità di sofferenze scordate, d'antiche malinconie senza causa.
Quella musica di desolazione, che gridava dal più profondo dell'anima, lo terrificava ammaliandolo.
Mai aveva potuto ripetersi “I lamenti della fanciulla” senza che un pianto nervoso gli salisse agli occhi. C'era in quel lamento qualche cosa di più d'uno strazio, qualche cosa di strappato alle carni, qualche cosa come in un desolato paesaggio la fine d'un amore.
Ed ogni volta che gli tornavano alle labbra quei sublimi e funebri accenti, sempre gli evocavano un sito nei dintorni d'una città; un paesaggio arido, muto, dove in lontananza file di esseri spossati dalla vita, piegati in due, si perdono in silenzio nel crepuscolo; mentre, abbeverato di tristezza, strangolato dal disgusto, egli si sentiva, fra quella natura in pianto, solo, interamente solo, atterrato da un'indicibile malinconia, da un'ostinata angoscia così acuta e misteriosa da escludere ogni conforto, ogni pietà, da non lasciar sperare alcuna requie.
Simile ad un rintocco di campane a morto, quel canto senza speranza lo visitava ora che giaceva a letto, annientato dalla febbre ed in preda ad un'ansietà tanto più difficile a calmare in quanto egli non ne scorgeva più la causa.
Finiva per lasciarsi andare alla deriva, travolgere dal torrente d'angoscia che quella musica suscitava: torrente che arginava di colpo per la durata d'un attimo il sorgere in lui d'un canto, lento e sommesso, di salmi, scandito da battagli di campana che parevano martoriargli le tempie indolorite.
Un mattino tuttavia quei suoni s'attutirono; si sentì più padrone di sé e chiese al domestico di porgergli uno specchio.
L'aveva appena in mano che di mano lo specchio gli sfuggì. Vi si era riconosciuto a stento: aveva il viso terreo, le labbra enfiate e secche, la lingua cresposa, la pelle arrugata; i capelli e la barba, che il servo non aveva più fatti dacché egli era a letto, rendevano anche più impressionanti, in quel cranio di scheletro, l'incavarsi del viso e gli occhi ingranditi brucianti di febbre.
Più della prostrazione che avvertiva, più dei vomiti incoercibili pei quali restituiva checché tentasse d'inghiottire, più del marasma in cui si sentiva affondare, quel mutamento d'aspetto lo allarmò. Si credette perduto.
Poi nello scoramento che lo prese, l'energia che nasce nell'uomo che si sente spacciato, lo rizzò a sedere sul letto, gli diede la forza di scrivere una lettera al suo medico, d'ordinare al domestico di recarsi subito a Parigi, di cercare quel medico e di condurglielo a qualunque costo nella giornata.
Bastò perché passasse dal più completo abbattimento alla più rianimante speranza.
Era, quel medico, un celebre specialista, rinomato per le sue cure delle affezioni nervose. “Ha senza dubbio guarito casi più gravi ed ostinati che non sia il mio” si diceva Des Esseintes. “Certamente in pochi giorni mi rimetterà in piedi.” Ma non se l'era detto che alla fiducia succedeva un totale scetticismo:
“Per dotti, per perspicaci che siano, che sanno i medici della nevrosi?”
Anche questo qui, come gli altri, gli prescriverebbe il solito ossido di zinco, chinino, bromuro di potassio, e valeriana. “Ma chi sa!” concludeva, afferrandosi ad un'ultima speranza. “Può essere che se da questi rimedi non ho tirato nessun giovamento, ciò dipenda dal fatto che non ho saputo adoperarli nelle giuste dosi.”
Comunque, l'attesa del medico già di per sé lo rianimava. Ma ecco nascere un nuovo timore: “Purché sia a Parigi e voglia scomodarsi!” E l'idea che il domestico non ve l'avesse trovato, lo ributtò a terra.
Si sentì di nuovo come un uomo in mare. Saltava in un secondo dalla speranza più folle al più folle panico, vedendosi ora in punto di morte ora sulla soglia d'una subitanea guarigione.
Finché, passando invano le ore, venne il momento che, perduta ogni speranza ed allo stremo di forze, persuaso ormai che il dottore non verrebbe più, si disse con rabbia che certo, soccorso in tempo, si sarebbe salvato. Poi anche la sua stizza contro il servo, contro il medico che lo lasciava crepare, cadde; e se la prese allora con se stesso: si rinfacciò d'aver atteso all'ultimo a correre ai ripari, convinto che già sarebbe guarito se solo la vigilia avesse ricorso a cure energiche ed ai medicinali del caso.
Poco a poco quell'altalena di speranze e di allarmi che s'agitava nel vuoto del cervello, prese fine. La tensione aveva finito di spezzarlo. Piombò in un sonno di sfinitezza, attraversato da sogni incoerenti, in una specie di sincope rotta da risvegli in cui non ricuperava la conoscenza. E allorché il medico giunse, egli sapeva così poco ormai di quel che temesse o sperasse, che rimase, a vederlo, intontito, non provò né stupore né gioia.
Indubbiamente il domestico aveva informato il dottore della vita che Des Esseintes menava, dei sintomi ch'egli stesso aveva notato nel padrone dal giorno che lo aveva raccolto presso la finestra, accoppato dalla violenza dei profumi; perché rivolse all'infermo ben poche domande; del cliente conosceva del resto e da lunga data gli antecedenti.
Lo visitò, auscultò. Esaminò attentamente le orine e le strie biancastre che vi scoperse gli rivelarono una delle cause determinanti della nevrosi.
Sgorbiò una ricetta e, senza dir motto, partì, annunziando un prossimo ritorno.
La visita ridiede animo a Des Esseintes: il quale tuttavia, allarmato dal silenzio del medico, scongiurò il domestico di non celargli la verità. Questi diede la sua parola che il medico non aveva manifestato alcuna preoccupazione, e mentre così lo rassicurava, Des Esseintes, per diffidente che fosse, non riuscì a cogliere sul placido viso del vecchio la minima esitazione che lasciasse subodorare una menzogna.
Allora la sua fronte si spianò. Non soffriva del resto più e la debolezza che avvertiva per tutto il corpo non era senza dolcezza; si sentiva come blandito da carezze lente e insieme esitanti.
Lo stupì poi e lo rallegrò non vedersi opprimere di droghe e di fiale; ed un'ombra di sorriso gli distese le labbra quando vide comparire il domestico col necessario per un serviziale a base di peptone, e lo udì dirgli che ricomparirebbe con quell'arnese tre volte ogni ventiquattr'ore.
L'operazione raggiunse il suo scopo; e Des Esseintes non poté a meno di congratularsi secostesso per l'avvenimento che coronava in certo modo l'esistenza che s'era foggiato. Con questo, la sua inclinazione per l'artificio si poteva dire esaudita appieno, senza anzi che la sua volontà ci fosse entrata per nulla. Più in là era impossibile andare: cibarsi da quella parte era il più grosso smacco che si potesse dare alla natura, l'ultima inversione che si potesse commettere.
“Che bella cosa” si diceva “se anche da sano si potesse seguitare un così semplice regime! Che risparmio di tempo! quale liberazione per sempre dall'avversione che ispira ai disappetenti la carne! che mezzo spiccio e definitivo per sbarazzarsi del disappunto che nasce a ogni pasto dal dover scegliere in un numero di cibi necessariamente limitato! quale energica protesta contro il basso peccato della ghiottoneria! Infine, quale perentorio oltraggio gettato in faccia a questa barbogia natura che vedrebbe eluse per sempre le sue monotone esigenze!”
E, parlandosi a mezza voce, rincarò: “Diverrebbe un gioco, per stuzzicar la fame, ingurgitare un potente aperitivo; poi, quando ci si potesse logicamente dire: &Mac220;Che ora abbiamo fatto? Mi pare che sarebbe tempo di mettersi a tavola: ho lo stomaco nelle calcagna!&Mac221; si imbandirebbe il pranzo, collocando bene in vista sulla tavola il magistrale arnese; ed ecco che la tediosa e plebea sfacchinata del pasto sarebbe liquidata nel tempo di recitare il Benedicite!”
Qualche giorno dopo, il serviziale con cui il servo si presentò aveva un colore e tramandava un odore che non eran più quelli di prima.
“Che nuovo manicaretto mi propini?” esclamò Des Esseintes, osservando preoccupato il liquido che quello versava nell'arnese.
E, come avrebbe fatto alla trattoria, domandò la lista.
E nella nuova ricetta del dottore che l'altro gli presentava, lesse:

Olio di fegato di merluzzo . . . 20 grammi
Brodo ristretto . . . . . . . . . . . . 200 grammi
Vin di Borgogna . . . . . . . . . . . 200 grammi
Tuorli d'uovo . . . . . . . . . . . . . uno

Quella lettura gli diede da pensare. Lui che non aveva mai potuto, per lo stato del suo stomaco, interessarsi come meritava all'arte culinaria, si sorprese a ruminare piatti complicati per uno pseudo ghiottone. Poi una stramba idea lo attraversò: non poteva darsi che il medico, nel timore d'aver ormai stancato coi peptoni l'insolito palato del cliente, avesse voluto, come un abile cuoco, variargli le pietanze, nell'intento di impedire che la monotonia dei pasti ingenerasse nell'avventore totale inappetenza?
Messosi per questa via, Des Esseintes si divertì a redigere ricette inedite; escogitò pasti di magro pel venerdì, aumentando la dose di olio di merluzzo e sopprimendo invece il brodo ristretto, cibo di grasso espressamente vietato dalla Chiesa.
Ma non poté durare a lungo in quel passatempo, perché poco a poco il medico riusciva a vincere i vomiti ed a fargli trangugiare un siroppo fatto con carne in polvere. Il vago aroma di cacao ch'esso aveva non sgradiva alla sua bocca: quella vera stavolta.
Qualche settimana ancora, e lo stomaco si decise a rimettersi a lavorare. Se momentanee nausee ricomparivano, riuscivano a contenerle la birra di zenzero e la pozione antiemetica di Rivière.
Alfine l'apparato digerente s'andò ristabilendo; con l'aiuto di preparati di pepsina lo stomaco riaffrontò la carne con successo. Il convalescente prese forza e poté tenersi ritto e muoversi per la camera, appoggiandosi ad un bastone e afferrandosi agli spigoli dei mobili.
Invece di rallegrarsene, Des Esseintes, dimentico delle passate sofferenze, s'irritò d'una convalescenza che si trascinava così; e rinfacciò al medico di non andare più per le spicce.
Ci furono, è vero, tentativi infruttuosi che rallentarono la cura: lo stomaco non tollerò né la china né il ferro, neppure corretto con laudano. Lo si dovette sostituire con arseniati, quando già s'era persa una quindicina di giorni inutilmente, come Des Esseintes constatava con impazienza.
Giunse finalmente il giorno che il convalescente poté restare alzato interi pomeriggi ed aggirarsi senza aiuto per la casa.
Allora lo studio cominciò a preoccuparlo. I difetti di arredamento cui aveva fatto l'occhio, ora, dopo la lunga assenza, lo aggredirono.
I colori che aveva scelto perché s'accordassero alla luce delle lampe, a quella del giorno trovò che stridevano. Pensò dunque a sostituirli; e per ore ed ore escogitò faziose armonie di tinte, ibridi accoppiamenti di stoffe e di coiami.
Constatando in sé il riapparire delle antiche preoccupazioni, delle vecchie attrattive: “Mi vado, si vede, rimettendo” si disse.
Ora, un mattino, stava appunto contemplando quelle pareti blu e arancio, fantasticando di tappezzarle di stole della Chiesa greca, di dalmatiche russe a ricami d'oro, di piviali di broccato rabescati di caratteri slavi formati con pietre dell'Ural e filze di perle, quando il medico entrò e gli chiese che stesse guardando.
Des Esseintes lo mise a parte dei suoi chimerici progetti; e già cominciava ad arzigogolare di nuove ricerche di colori, a intrattenerlo di connubi e divorzi di tinte che creerebbe, quando l'altro lo interruppe, assestandogli tra capo e collo una doccia fredda. In tono perentorio gli osservò che non sarebbe comunque in quella casa che metterebbe in atto i suoi progetti.
E senza dargli il tempo di recuperare il fiato, dichiarò che, nel minor tempo possibile, aveva ottenuto il ristabilimento delle funzioni digestive, e che ora occorreva attaccare la nevrosi, la cui guarigione, nonché essere un fatto compiuto, richiederebbe anni di regime e di cure.
Concluse che prima di tentare alcunché, prima anche d'iniziare un trattamento idroterapico - impossibile d'altronde a Fontenay - Des Esseintes doveva lasciare quell'eremo, tornare a Parigi, rientrare come ogni altro nella vita, cercare insomma di distrarsi come tutto il resto dell'umanità.
“Ma non mi distraggono affatto, me, i piaceri degli altri!” protestò Des Esseintes in un impeto di sdegno.
Senza discutere questa opinione, il medico affermò semplicemente che, ai suoi occhi, il radicale mutamento di vita che gli chiedeva era quistione di vita o di morte; scegliesse dunque tra il rimettersi in salute o la pazzia complicata a breve scadenza da tubercolosi.
“Come dirmi di scegliere tra la morte o l'invio al bagno penale!” proruppe Des Esseintes fuor di sé.
Il dottore, che era imbevuto di tutti i pregiudizi dell'uomo di mondo, sorrise, e, senza replicare, s'avviò all'uscita.

XVI

Si chiuse in camera sua. Si turava le orecchie per non udire i colpi di martello che inchiodavano le casse: ogni martellata gli si ripercoteva nel cuore; ogni chiodo era come glielo conficcassero nelle carni.
Des Esseintes s'era piegato all'ordine del medico. Il timore d'aver di nuovo ad affrontare sofferenze che non aveva scordato, la paura d'una fine atroce, avevano avuto il sopravvento sull'avversione che provava per l'esecrabile esistenza cui l'autorità dei medici lo condannava.
“Eppure” si diceva “quanta gente c'è che vive in solitudine, appartata dal mondo, senza scambiar parola con anima viva, come sarebbero i reclusi ed i trappisti. Né risulta che questi disgraziati e questi saggi finiscano per ciò pazzi o tisici!”
Inutilmente aveva citato al dottore il loro esempio.
Seccamente, in un tono che non ammetteva replica il dottore gli aveva ripetuto che il suo verdetto - convalidato del resto dall'unanime parere degli specialisti di malattie nervose - era che solo la distrazione, il divertimento, la gioia possono influire favorevolmente sulla malattia; all'anima, anch'essa attaccata, nulla giovando i rimedi; e, spazientito dalle difese che l'ammalato tentava, gli aveva per l'ultima volta dichiarato che si rifiutava di seguitare a curarlo, se non consentiva a cambiar aria, ad adottare un nuovo più igienico sistema di vita.
Des Esseintes s'era precipitato a Parigi, dove aveva prospettato obiettivamente il suo caso ad altri specialisti; e, poiché senza esitazione essi avevano unanimi approvato le prescrizioni del collega, aveva affittato un appartamento rimasto libero in una casa di recente costruzione; e, di ritorno a Fontenay, aveva ordinato, pallido di rabbia, ai due vecchi di fare i bauli.
Sprofondato nella poltrona, ora rimuginava tra sé l'espressa ingiunzione che veniva ad attraversare i suoi piani, gli faceva rompere con la vita che s'era scelta, mandava per sempre a monte i progetti accarezzati.
Cosicché, addio dunque vita felice! Gli era giocoforza abbandonare il porto in cui aveva trovato rifugio; riaffrontare il tempestoso pelago di stupidità dove già una volta aveva fatto naufragio!
I medici parlavano di distrazione, di svago: ma in che cosa, nella compagnia di chi volevan mai che trovasse svago o distrazione? Non s'era da sé messo al bando della società? Conosceva forse un altro uomo, uno solo, che agognasse come lui d'appartarsi in contemplazione, di confinarsi nel sogno? uno ne conosceva che fosse in grado d'apprezzare la finezza d'una frase, il riposto pregio d'una tela, l'essenzialità d'un pensiero, uno che avesse un'anima così disincantata da capire Mallarmé e da amare Verlaine?
In che luogo in che tempo, in che mondo doveva mettersi a cercare per scoprire un'anima come la sua, uno spirito che si fosse sbarazzato per sempre dal ciarpame dei luoghi comuni, che benedicesse il silenzio come un benefizio, l'ingratitudine del prossimo come uno sgravio, la sua diffidenza come un rifugio ed un porto?
Nella società forse in cui aveva vissuto prima di ritirarsi a Fontenay? Ma i nobilucci che aveva frequentato s'eran certo da allora - per la maggior parte se non tutti - vieppiù avviliti frequentando i salotti, abbrutiti ai tavoli da gioco, smidollati del tutto praticando le donne di mestiere.
I più di loro anzi avevan certo finito per accasarsi: dopo aver avuto i rifiuti dei malviventi, eran ora le loro mogli che si godevano i rifiuti della plebe, perché, padrone delle primizie, il popolo era il solo che non si cibasse di scarti.
“Che scambio edificante di dame e cavalieri, che grazioso trasvolare da braccia a braccia, quest'uso adottato da una società che fa tanto la schizzinosa!” si diceva Des Esseintes.
La nobiltà, poi, era morta di decomposizione; l'aristocrazia era finita nell'imbecillimento o nell'ignominia. Essa s'andava spegnendo nella incontinenza dei suoi discendenti le cui facoltà scemavano ad ogni generazione, per metter capo ad istinti di gorilla fermentati in crani di palafrenieri e di fantini; quando non avveniva, come era stato dei Choiseul-Praslin, dei Polignac, dei Chevreuse, che rotolasse nel fango dei processi che la rivelavano non meno turpe delle altre classi.
Anche i palazzi, gli stemmi secolari, l'alterezza nobiliare, i modi pomposi di quell'antica casta erano spariti. Le terre, che non rendevano più, eran state messe all'incanto in una coi castelli; ché agli ultimi inebetiti campioni delle antiche famiglie scarseggiava il danaro per procacciarsi le magagne veneree.
I meno scrupolosi, i meno ottusi, bandivano ogni ritegno; diguazzavano in truffe, scremavano la melma degli affari, comparivano come volgari furfanti in Corte di Assisi; con che, servivano se non altro a ridare una parvenza di credito alla giustizia degli uomini, che non potendo mostrarsi costantemente parziale, finiva per nominarli bibliotecari negli ergastoli.
Questo attaccamento al danaro, questa smania di lucro aveva contagiato pure quell'altra classe che alla nobiltà s'era sempre puntellata: il clero. Oramai sulle quarte pagine dei giornali si leggevano correntemente annunzi di guarigioni di calli operate da ecclesiastici. I monasteri s'eran trasformati in officine d'apoticari e di liquoristi. Gli ordini religiosi vendevano ricette o mettevano in commercio prodotti da essi stessi fabbricati: l'ordine di Cîteaux, cioccolata, treppistina, semola, tintura d'arnica; i Padri Maristi, bifosfato di calce e acqua d'Arquebuse; i Domenicani, elisir antiapoplettico; i monaci di San Bruno, certosino; benedettino, i seguaci di San Benedetto.
La Bottega aveva invaso i chiostri, dove sui leggii libri mastri di commercio usurpavano il posto degli antifonari. Al pari d'una lebbra, l'avidità del secolo devastava la Chiesa, curvava i monaci su inventari e fatture, trasformava padri guardiani e priori in confettieri e medicastri; laici e conversi in volgari imballamerci, in bassi intrugliadroghe.
Eppure, nonostante tutto, non c'era che gli uomini di chiesa coi quali Des Esseintes potesse sperare d'aver rapporti non troppo discordanti dai suoi gusti; solo nella società di canonici, colti in generale e bene educati, egli avrebbe ancora potuto trascorrere qualche amabile e piacevole serata.
Senonché sarebbe occorso per questo dividere le loro credenze, mentre egli ondeggiava perennemente tra crisi di scetticismo e slanci di fede; che riagallavano ogni tanto, sorretti dai ricordi dell'infanzia. Avrebbe dovuto pensarla esattamente nel loro stesso modo: non pencolare più - come nei momenti di fervor religioso si proponeva - verso un cattolicesimo inquinato di magia, quale quello che usava sotto Enrico III, o di un'ombra di sadismo, come di moda alla fine del Settecento.
Il clericalismo tutto particolare, il misticismo depravato e raffinatamente perverso verso il quale a certe ore inclinava, non poteva essere discusso con un prete che non lo avrebbe capito o l'avrebbe all'istante con orrore ripudiato.
Ancora una volta s'arrovellava a trovare una soluzione all'insolubile problema. Avrebbe voluto uscire dall'incertezza in cui si dibatteva dacché era a Fontenay. Ora che la necessità s'imponeva di far pelle nuova, avrebbe voluto possedere a qualunque costo la fede; appropriarsela in modo da non smarrirla più; farne sua carne e suo sangue; metterla al riparo da tutti i dubbi che la insidiavano, che minacciavano di sradicarla. Ma più una simile fede la invocava e meno si colmava il vuoto della sua anima, più il Cristo indugiava a visitarlo.
Anzi quanto più imperiosa diveniva la sua fame di credere, quanto più l'agognava, riscatto per l'avvenire, viatico per la nuova vita da affrontare, quella fede - che si lasciava vedere ma ad una distanza che lo sgomentava - tanto più alla sua mente perennemente febbricitante idee s'affollavano che facevano capitolare la malferma volontà, che lo portavano a ripudiare per ragioni di buon senso, per prove scientifiche, i dogmi ed i misteri.
“Bisognerebbe che riuscissi a far tacere queste dispute con me stesso” si disse con dolore. “Bisognerebbe che potessi chiuder gli occhi, abbandonarmi alla corrente, scordare le malaugurate scoperte che da due secoli han distrutto da capo a fondo l'edifizio religioso.”
“E ancora!” sospirò. “Impedissero di credere solo i fisiologi e gli increduli! Non son essi che distruggono il cattolicesimo; sono i suoi ministri stessi a demolirlo. La balordaggine dei loro scritti estirperebbe la più radicata convinzione.”
Non c'era tra gli scrittori domenicani un maestro di teologia, predicatore per di più, il Reverendo Padre Rouard de Card che nell'opuscolo “Sulla falsificazione delle specie sacramentali” aveva perentoriamente dimostrato nulla la maggior parte delle Messe, pel fatto che i commercianti fornivano al culto sostanze sofisticate?
Da gran tempo l'olio santo veniva adulterato con grasso di pollame; la cera con ossa calcinate; l'incenso, con resina comune e belzuino stantio.
Ma questo era ancor niente. Persino le sostanze indispensabili alla Santa Messa, le due sostanze senza delle quali nessuna oblazione a Dio è possibile, erano state anch'esse snaturate: il vino, con ripetute aggiunte d'acqua, correzioni con legno di Pernambuco, bacche d'ebbio, alcole, allume, salicilato, litargirio; il pane, quel pane eucaristico che va intriso con fior di frumento, con farina di fagioli, potassa e terra da pipa!
Adesso poi s'era andati anche oltre; s'era spinta l'impudenza sino a fare interamente a meno di grano; e sfacciati mercanti fabbricavano gran parte, se non tutte, le ostie con fecola di patate.
Ora, nella fecola Dio si rifiutava di scendere. Era un fatto incontrovertibile, pacifico. Nel secondo tomo della sua “Teologia Morale” Sua Eminenza il cardinale Gousset aveva anche lui trattato diffusamente della frode dal punto di vista divino. Stando all'incontestabile autorità di questo Maestro non si poteva consacrare pane di avena, di grano saraceno, né d'orzo; e, se qualche dubbio poteva sussistere pel pane di segala, nessuna discussione, nessuna controversia era ammissibile quando si trattava d'una fecola, che non era ad alcun titolo, per usare l'espressione della Chiesa, materia di spettanza del Sacramento.
Prestandosi la fecola ad una facile lavorazione ed ottenendosi con essa pane azimo d'ottima apparenza, l'impudente frode aveva talmente preso piede che il miracolo della Transustansazione non avveniva, si può dire, quasi più e che i sacerdoti come i fedeli si comunicavano, a loro insaputa, con specie neutre.
Ahimè! era lontano il tempo in cui Redegonda, regina di Francia, preparava di sua mano il pane destinato agli altari; il tempo che, a Cluny, in forza d'un diritto consuetudinario, tre sacerdoti e tre diaconi, indossato il camice e l'amitto, si lavavano viso e mani; e a digiuno sceglievano il frumento chiccho a chicco, lo stritolavano sotto una macina, lo intridevano in acqua fredda e pura, di lor mano lo cuocevano a una chiara fiamma, salmodiando! “La prospettiva comunque”, si disse Des Esseintes “d'essere come sempre ingannati anche quando ci si accosta alla Mensa Eucaristica, non è fatta davvero per rafforzare credenze già vacillanti. Ma, a parte questo, come concepire una Onnipotenza che cessa d'esser tale in cospetto d'un pizzico di fecola, d'un sospetto d'alcole?”
Queste considerazioni gli fecero anche più tetra la prospettiva della vita che lo aspettava, gli abbuiarono ancora l'orizzonte, glielo mostrarono più minaccioso.
Inutile illudersi: nessuna proda, nessuna rada s'offriva allo sguardo, cui sperar d'approdare.
Che sarebbe di lui a Parigi, dove non contava né parenti né amici? Nulla più lo legava a quel sobborgo di Saint-Germain, sbriciolantesi in polvere per decrepitezza, tremante di marasma senile, vuota reliquia del passato superstite ad una società che gli ribolliva d'intorno. E che cosa d'altronde poteva esserci di comune tra lui e quella borghesia che s'era fatta a poco a poco, profittando per arricchirsi di tutti i disastri, suscitando catastrofi pur d'imporre il rispetto dei suoi misfatti e delle sue ruberie?
Dopo quell'aristocrazia del sangue, era oggi la volta dell'aristocrazia del danaro. Oggi su tutto imperava la Bottega, trionfava il dispotismo di rue du Sentier, spadroneggiava il mercante, vanitoso e truffatore per istinto, limitato e venale di animo.
Con meno scrupoli e maggiore codardia della nobiltà spogliata e del clero decaduto, la borghesia si appropriava delle due caste la frivola ostentazione e l'effimera prosopopea, avvilendole entrambe col suo manco di creanza; convertendo i difetti di quelle in ipocriti vizi. Autoritaria e sorniona, bassa e vigliacca, essa infieriva senza pietà contro l'eterna necessaria sua vittima, il popolino, cui pure aveva di sua mano tolta la museruola e che aveva appostato perché saltasse alla gola delle vecchie caste.
Ormai era cosa fatta. Ormai che il servizio lo aveva reso, la plebe era stata salassata per misura d'igiene sino all'ultima goccia: e il borghese rassicurato spadroneggiava allegramente, armato del suo danaro, forte della sua contagiosa stupidità.
Conseguenza della sua salita al potere, era stata la mortificazione d'ogni intelligenza, la fine di ogni probità, la morte d'ogni arte. Gli artisti umiliati, s'eran buttati ginocchioni a divorar di baci i fetidi piedi dei grandi sensali e dei vili satrapi, delle cui elemosine campavano.
Nella pittura, era un dilagare d'invertebrate scempiaggini, nella letteratura, il trionfo dello stile più piatto, delle idee più evirate. Come avrebbe infatti potuto fare a meno d'onorabilità l'affarista imbroglione? di virtù, il filibustiere che dava la caccia ad una dote pel figlio, mentre si rifiutava di sborsare quella della figlia? di amor celeste, il volterriano che accusava il clero di violenze carnali, mentre lui andava in stanze equivoche ad annusare, ipocritamente stupidamente acqua sporca di catinelle, sciapo pepe di sottane sporche?
Era insomma la galera in grande dell'America trapiantata nel nostro continente; era l'inguaribile incommensurabile pacchianeria del finanziere e del nuovo arrivato che splendeva, abbietto sole, sulla città idolatra che vomitava, ventre a terra, laidi cantici davanti all'empio tabernacolo delle Banche.
“E crolla dunque una buona volta, Società! Crepa dunque, barbogio mondo!” uscì a gridare Des Esseintes, stomacato dallo spettacolo che evocava.
Lo sfogo lo liberò dall'incubo.
“Ah” fece. “E dire che tutto questo non è un sogno! che davvero sto per rientrare nel pigia pigia di questo mondo turpe e servile!”
Non gli serviva richiamare a mente, per confortarsi, le consolanti massime di Schopenauer, ripetersi il doloroso assioma di Pascal: “Quando l'anima si mira intorno, nulla scorge che non la affligga.” Quelle parole echeggiavano ora in lui come suoni privi di senso, la sua angoscia le sbriciolava, toglieva loro ogni significato, ogni virtù di sollievo, ogni efficacia, ogni dolcezza.
S'accorgeva insomma che le conclusioni cui giungeva il pessimismo erano anch'esse impotenti a consolarlo; che solo l'impossibile fede in un'altra vita avrebbe potuto dargli la pace.
Tentava di trincerarsi nell'apatia, faceva sforzi per rassegnarsi: tentativi che spazzava ogni volta via un impeto d'ira, come foglie l'uragano.
Inutile dissimularsi la realtà. Più nulla, più nulla restava in piedi: tutto giaceva a terra; come già a Clamart, la borghesia mangiava a crepapelle su un tovagliolo di carta imbandito sulle ginocchia, sotto le maestose rovine della Chiesa, diventata luogo d'appuntamenti, cumulo di macerie, insozzato da turpi lazzi, da facezie oscene.
Che forse a dimostrare una buona volta che esisteva, il tremendo Iddio della Genesi e il pallido Dischiodato del Golgota erano in procinto di scatenare i mai più visti cataclismi? Stavano per riaccendere le piogge di fuoco che arsero un tempo le genti reprobe, le città morte? oppure la marea di fango avrebbe continuato a salire, a coprire della sua pestilenza questo vecchio mondo dove non attecchivano più che sementi d'iniquità, dove non lussureggiavan più che messi di obbrobrio?
Ad un tratto la porta di casa venne spalancata; laggiù, nel suo vano, uomini s'inquadrarono, che avevan le guance rase, una moschetta sotto il labbro inferiore, un berrettaccio per copricapo. Maneggiavano casse, trasportavano mobili. Quindi la porta si richiuse alle spalle del domestico, carico di pacchi e di libri.
Des Esseintes s'afflosciò su una sedia.
“Tra due giorni sarò a Parigi. Confessiamocelo: tutto è finito. Come in un maremoto, i flutti della umana mediocrità arrivano al cielo. Un momento ancora e inghiottiranno il porticciolo di cui io stesso apro le dighe.
Ah che mi manca il coraggio! ah che il cuore mi si impenna!
Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell'incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che s'imbarca solo nella notte, sotto un cielo che non rischiaran più i consolanti fari dell'antica speranza!”