HEINRICH VON KLEIST

RACCONTI



IL TERREMOTO IN CILE

A Santiago, capitale del regno del Cile, proprio nel momento del grande terremoto dell'anno 1647, nel quale trovarono la morte molte migliaia di persone, un giovane spagnolo accusato di un delitto, che si chiamava Jerónimo Rugera, stava ritto accanto a un pilastro della prigione nella quale era stato rinchiuso, e voleva impiccarsi.
Don Enrique Asterón, uno dei nobili più ricchi della città, lo aveva allontanato, all'incirca un anno prima, dalla sua casa, dove svolgeva l'incarico di precettore, perché tra lui e donna Josefe, la sua unica figlia, era sorto un tenero legame. Un incontro segreto, rivelato all'anziano don, che aveva già energicamente ammonito la figlia, dalla perfida vigilanza del suo orgoglioso figlio, lo indignò a tal punto che egli la chiuse nel monastero di Nostra Signora del monte Carmelo. Per un caso felice, Jerónimo riuscì a riannodare laggiù il suo legame e, in una notte silenziosa, fece del giardino del convento il teatro della sua piena felicità.
Era la festa del Corpus Domini, e la solenne processione delle monache, alle quali seguivano le novizie, si era appena mossa quando l'infelice Josefe, al suono delle campane, cadde in preda alle doglie sui gradini della cattedrale. L'avvenimento destò enorme scalpore; la giovane peccatrice, senza riguardo al suo stato, venne subito gettata in prigione e, non appena rimessa dal parto, fu sottoposta, per ordine dell'arcivescovo, a un processo severissimo. In città si parlava con tanta indignazione dello scandalo, e le lingue furono così taglienti con tutto il monastero in cui era avvenuto, che né l'intercessione della famiglia Asterón, né lo stesso desiderio della badessa, che aveva preso a benvolere la fanciulla, per il suo contegno altrimenti irreprensibile, poterono mitigare la severità della legge Convetuale che la minacciava. Tutto ciò che si poté ottenere fu che il rogo, al quale venne condannata, fosse commutato, per atto d'imperio del vinceré e con gran disappunto delle matrone e delle vergini di Santiago, nella decapitazione. Nelle strade per le quali doveva passare il corteo dell'esecuzione si affittarono le finestre, si scoperchiarono i tetti delle case, e le pie fanciulle della città invitarono le loro amiche, per assistere fraternamente, fianco a fianco, allo spettacolo concesso alla vendetta divina.
Jerónimo, che nel frattempo era stato anch'egli messo in prigione, uscì quasi di senno quando venne a sapere quale mostruosa piega avessero preso le cose. Invano pensò a una via di salvezza; dovunque lo portassero le ali dei più folli pensieri, urtava contro mura e chiavistelli; e un tentativo di segare l'inferriata gli valse, quando fu scoperto, un regime ancora più severo. Egli si gettò in ginocchio davanti all'immagine della santa Madre di Dio, e la pregò con infinito fervore, come l'unica dalla quale sarebbe ormai potuta venire la salvezza. Ma il temuto giorno apparve e con esso la convinzione, nel suo cuore, che la situazione era ormai senza speranza. Le campane che accompagnavano Josefe al luogo dell'esecuzione risuonarono, e la disperazione s'impadronì della sua anima. La vita gli parve odiosa, e decise di darsi la morte con una corda che il caso gli aveva lasciata.
Stava appunto ritto, come si è detto, accanto a un pilastro, e assicurava a un arpione di ferro, infisso sotto il cornicione, la corda che avrebbe dovuto strapparlo a questa valle di lacrime, quando improvvisamente la maggior parte della città, con un rombo, come se precipitasse la volta celeste, sprofondò, seppellendo sotto le macerie ogni essere vivente. Jerónimo Rugera restò impietrito dall'orrore; e, come se anche la sua coscienza fosse stata schiacciata, per non cadere si tenne al pilastro accanto al quale aveva voluto morire. Il suolo vacillò sotto i suoi piedi, le pareti della prigione si spaccarono; l'intero edificio s'inclinò, per abbattersi sulla via; e solo la caduta dell'edificio di fronte, che incontrò la sua lenta caduta, gli impedì, formando casualmente una volta, di rovinare interamente al suolo.
Tremando, con i capelli dritti e le ginocchia che gli si piegavano, Jerónimo strisciò, sul pavimento inclinato, verso l'apertura che il cozzo dei due fabbricati aveva prodotto nella parete esterna della prigione. Appena si trovò all'aperto, la strada intera, già scossa, crollò completamente per un secondo movimento tellurico. Incapace di pensare a come salvarsi da quella generale rovina, si mise a correre, saltando fra le macerie e le travi, mentre la morte lo assaliva da ogni parte, verso una delle più vicine porte della città. Qui una casa crollava e, scagliando lontano intorno a sé i rottami, lo sospingeva in una via laterale, là le fiamme, balenando tra nubi di fumo, lambivano i comignoli, ricacciandola, terrorizzato, in un'altra via; là il rio Mapocho, strappato al suo letto, saliva gonfio verso di lui, e ribollendo lo trascinava in una terza. Qui giaceva un mucchio di persone schiacciate, là una voce gemeva ancora sotto le macerie; qui giungevano le urla della gente dai tetti in fiamme, là uomini e animali lottavano contro i flutti; qui un coraggioso salvatore cercava di dare aiuto, là un uomo stava in piedi, pallido come la morte, e protendeva muto verso il cielo le mani tremanti.
Quando Jerónimo ebbe raggiunto la porta, e salito un colle fuori città cadde al suolo svenuto. Giaceva disteso, da un quarto d'ora almeno, nella più profonda incoscienza, quando finalmente si ridestò e, volgendo le spalle alla città si tirò su a mezzo. Si toccò la fronte e il petto, senza sapere che cosa fare di se stesso, un indicibile senso di benessere lo invase quando un vento di ponente, dal mare, investì con un soffio la sua vita che ritornava, e il suo occhio percorse, in tutte le direzioni, la fiorente regione di Santiago. Solo i gruppi di uomini sconvolti che si vedevano dappertutto gli stringevano il cuore; non capiva che cosa avesse potuto spingere lassù lui e loro, e soltanto quando si volse, e vide dietro di sé la città rasa al suolo, si rammentò del momento terribile che aveva vissuto. Si prosternò così profondamente che la sua fronte toccò terra, e ringraziò Dio di averlo così prodigiosamente salvato; e, come se l'orrenda esperienza impressa nel suo animo ne avesse scacciato tutte le precedenti, pianse di gioia, perché la vita era bella, colorata, varia, ed egli ne godeva ancora. Poi, scorgendo alla sua mano un anello, si rammentò di colpo di Josefe; e con lei della prigione, delle campane che aveva udito laggiù e del momento che aveva preceduto il crollo. Una profonda tristezza riempì di nuovo il suo cuore, rimpianse la sua preghiera, e tremendo gli parve l'Essere che regna sopra le nubi. Si mescolò alla folla che dappertutto, occupata a salvare i propri averi, sciamava dalle porte cittadine, e si arrischiò timidamente a chiedere della figlia di Asterón, e se l'esecuzione avesse avuto luogo; ma nessuno gli sapeva dare notizie precise.
Una donna, che portava sulla schiena, curva quasi fino al suolo, un enorme peso di suppellettili, e teneva due bambini in collo, disse passando, come se l'avesse visto con i propri occhi, che era stata decapitata. Jerónimo si voltò; e poiché, calcolando il tempo, non poteva in realtà dubitare che l'esecuzione fosse avvenuta, andò a sedersi in un bosco solitario e si abbandonò al suo dolore.
Desiderava che la violenza distruttrice della natura si scatenasse di nuovo su di lui. Non capiva perché, in quei momenti, nei quali la morte, che la sua anima straziata stava cercando, gli era apparsa spontaneamente intorno da ogni parte come una salvezza, egli l'avesse sfuggita. E si propose fermamente di non vacillare, se ora dovessero essere sradicate le querce, e le loro cime precipitare su di lui. Dopo che ebbe pianto tutte le sue lacrime, e fra le più cocenti si fu affacciata di nuovo la speranza, si alzò e batté la campagna in tutte le direzioni. Esplorò ogni altura dove si fossero radunate delle persone; le andò a cercare su tutti i sentieri dove ancora si muoveva la corrente degli scampati; dovunque una veste femminile si agitasse al vento, la lo portava il suo piede tremante: ma nessuna copriva l'amata figlia di Asterón.
Il sole calava di nuovo, e con esso la speranza, verso il tramonto, quando salì sull'orlo di una rupe, e gli si aprì la vista su un'ampia valle, in cui solo poche persone avevano trovato rifugio. Indeciso sul da farsi, passò in fretta da un gruppo all'altro, e stava già per tornare indietro, quando improvvisamente, presso un ruscello che scendeva lungo il ripido pendio, scorse una giovane donna intenta a lavare un bambino nelle sue acque. A quella vista ebbe un tuffo al cuore; corse giù, presago, saltando di pietra in pietra, gridò: "Santa madre di Dio!", e riconobbe Josefe, che al rumore si era guardata intorno timorosa.
Con quale beatitudine si abbracciarono gli infelici, che un prodigio del cielo aveva salvato! Nel suo cammino verso la morte Josefe era già vicinissima al luogo dell'esecuzione, quando improvvisamente il crollo assordante degli edifici aveva disperso il corteo che la conduceva al supplizio. I primi passi inorriditi l'avevano portata verso la più vicina porta della città; ma presto tornò in sé, e si voltò per correre al monastero, dove era rimasto il suo piccolo bambino indifeso. Trovò l'intero convento già in fiamme, e la badessa, la quale, nei momenti che per Josefe sarebbero dovuti essere gli ultimi, le aveva promesso di prendersi cura del neonato, stava appunto chiamando, davanti alle porte dell'edificio, aiuto per salvarlo. Josefe si precipitò impavida, attraverso il fumo spesso che l'elogiava, nel fabbricato, che già crollava da ogni parte, e subito, come se la proteggessero tutti gli angeli del cielo, ne uscì fuori con il bimbo, illesa, dalla porta principale. Stava per precipitarsi nelle braccia della badessa, che si era coperta il capo con le mani, quando costei, con quasi tutte le sue monache, venne miseramente uccisa dal crollo del cornicione del palazzo. Josefe arretrò, tremando, di fronte all'orribile spettacolo, chiuse in fretta gli occhi alla badessa e fuggì, piena di terrore, per strappare alla rovina la cara creatura che il cielo le aveva donato per la seconda volta.
Aveva fatto solo pochi passi, quando s'imbatté nella salma dell'arcivescovo, che avevano appena estratto, sfracellata, dalle macerie della cattedrale. Il palazzo del vinceré era crollato, il tribunale, nel quale era stata pronunciata la sua condanna, era in fiamme, e sul luogo dove era sorta la sua casa paterna si era formato un lago che, ribollendo, esalava vapori rossastri. Josefe fece appello a tutte le sue forze per non cadere. Di strada in strada, allontanando dal suo cuore lo strazio, camminava coraggiosamente con la sua preda, ed era già vicina alla porta della città, quando vide anche la prigione, nella quale aveva languito Jerónimo, ridotta in macerie. A quella vista vacillò, e stava per cadere in un angolo priva di sensi; ma, in quel momento, il crollo di un edificio alle sue spalle, già pericolante per le scosse, la costrinse ad alzarsi, e il terrore le diede nuove forze: baciò il bambino, si asciugò le lacrime, e, senza badare più agli orrori che la circondavano, raggiunse la porta della città.
Quando si vide in aperta campagna, si disse ben presto che non tutti coloro che avevano abitato in una casa distrutta ne dovevano essere stati per forza schiacciati. Al primo incrocio si fermò, e restò in attesa, per vedere se non comparisse la persona che, dopo il piccolo Filippo, aveva più cara al mondo. Ma non venne nessuno e, poiché la confusione aumentava, proseguì; poi si voltò di nuovo indietro, e attese di nuovo; e, versando molte lacrime, si addentrò così in una valle scura, ombreggiata di pini, a pregare per l'anima di lui, che credeva fuggita; e qui, nella valle, aveva trovato l'uomo amato e il paradiso, come se fosse stata la valle dell'Eden.
Tutto questo raccontava ora, piena di commozione, a Jerónimo; e, quando ebbe finito, gli porse il bambino da baciare. Jerónimo lo prese, lo accarezzò con indicibile gioia paterna e gli chiuse la bocca, poiché si era messo a piangere di fronte al viso sconosciuto, con baci senza fine. Nel frattempo era scesa una notte bellissima, carica dei più dolci profumi, argentea e silenziosa come solo un poeta la può sognare. Dappertutto, lungo il ruscello, si erano stesi gli uomini, al lume della luna, preparandosi soffici giacigli di fronde e di muschio, per riposare, dopo una giornata così atroce. E poiché i miseri continuavano a compiangere chi la perdita della casa, chi della moglie e dei figli, chi di tutto ciò che aveva, Jerónimo e Josefe si addentrarono in una macchia più fitta, per non turbarli con l'esultanza segreta delle loro anime.
Trovarono uno stupendo melograno, che allargava intorno i suoi rami carichi di frutti profumati; sulla cima l'usignuolo zufolava il suo canto voluttuoso. Jerónimo si coricò là, appoggiandosi al tronco; e anche Josefe, contro il suo petto, e Filippo, su quello di lei, si distesero, coperti dal suo mantello, e riposarono. L'ombra dell'albero, con i suoi riflessi di luce, passò sopra di loro e si dileguò; e la luna impallidiva già davanti all'aurora prima che si addormentassero. Infinite cose avevano da dirsi: del convento, della prigione, di ciò che avevano sofferto l'uno per l'altra. E si commuovevano pensando a quanta sofferenza aveva dovuto colpire il mondo, perché potessero essere di nuovo felici! Decisero, non appena le scosse fossero cessate, di andare a La Concepción, dove Josefe aveva un'amica fidata, e, con un piccolo prestito che sperava di ottenere da lei, di imbarcarsi di là per la Spagna, dove vivevano i parenti materni di Jerónimo; laggiù avrebbero finito la loro vita felice. Poi, tra molti baci, si addormentarono.
Quando si destarono il sole era già alto nel cielo, ed essi videro, tutto intorno, numerose famiglie che preparavano, accanto al fuoco, un po' di colazione. Jerónimo stava appunto pensando a come procurarsi del cibo per i suoi, quando un uomo giovane e ben vestito, con un bambino in braccio, si avvicinò a Josefe, e le chiese rispettosamente se non voleva offrire per poco tempo il seno a quel povero piccino, la cui madre giaceva ferita sotto gli alberi, non molto lontano. Josefe ne fu turbata, ravvisando in lui un conoscente. Ma quando egli, fraintendendo il suo turbamento, proseguì dicendo: "Solo per pochi momenti, donna Josefe; questo bambino non ha più toccato nulla, dall'ora che ci ha reso tutti infelici", ella rispose: "Tacevo... per un'altra ragione, don Fernando; in queste ore terribili nessuno rifiuta di dividere ciò che possiede". Prese il piccolo estraneo, porgendo il suo bambino al padre, e se lo mise al petto.
Don Fernando, assai grato per la sua bontà, chiese se non volevano raggiungere con lui la sua compagnia, dove si stava per l'appunto cuocendo una piccola colazione. Josefe rispose che accettava l'offerta con piacere; e poiché neppure Jerónimo ebbe nulla da obiettare, lo seguì presso la sua famiglia, dove fu accolta nel modo più affettuoso e delicato dalle due cognate di don Fernando, due giovani ed eccellenti signore che conosceva. Donna Elvira, la moglie di don Fernando, che era coricata per terra, ferita gravemente ai piedi, attirò a sé Josefe con molta amicizia, quando le vide al petto il suo bambino sfinito. Anche don Pedro, il suocero di don Fernando, ferito a una spalla, le accennò cordialmente col capo.
Nel petto di Jerónimo e di Josefe si agitavano strani pensieri. Vedendosi trattati con tanta confidenza e bontà, non sapevano che cosa pensare del passato: del patibolo, della prigione, della campana. O tutto ciò l'avevano soltanto sognato? Era come se gli animi dal colpo terribile che li aveva percossi fossero stati tutti riconciliati, e nel ricordo non potessero risalire al di là di esso. Solo donna Elisabetta, che era stata invitata da un'amica allo spettacolo del mattino precedente, ma non aveva accettato l'invito, posava di tanto in tanto su Josefe uno sguardo trasognato; ma il racconto di nuove orribili sciagure trascinò di nuovo sul presente la sua anima, che se ne era appena staccata. Raccontavano come la città, subito dopo la prima e più violenta scossa, si fosse riempita di donne che partorivano sotto gli occhi di tutti gli uomini; come i monaci si fossero messi a correre ovunque, con il crocefisso in mano, gridando che era venuta la fine del mondo; come a una pattuglia che, per ordine del vinceré, aveva chiesto di sgomberare una chiesa dalle macerie, fosse stato risposto che non c'era più un vinceré del Cile; come il viceré, nei momenti più terribili, avesse dovuto far innalzare le forche per frenare le ruberie; e un innocente, che si era salvato, fuggendo, sul retro di una casa in fiamme, era stato precipitosamente acciuffato dal proprietario, e subito impiccato.
Donna Elvira, mentre Josefe faceva il possibile per dare sollievo alle sue ferite, aveva approfittato di un momento nel quale i racconti si incrociavano in modo più che mai concitato per domandarle che cosa le fosse successo, in quella giornata terribile. E quando Josefe le riferì, con il cuore stretto, le vicende principali, ebbe la gioia di vedere le lacrime negli occhi della dama. Donna Elvira le prese la mano, la strinse, e le fece cenno di tacere. A Josefe sembrava di essere in paradiso. Un sentimento che non sapeva reprimere la induceva a considerare la giornata trascorsa, per quanto dolore avesse causato al mondo, come una grazia quale il cielo non le aveva mai concesso. E davvero, nel mezzo di quei momenti orribili, in cui tutti i beni terreni degli uomini andavano in rovina e la natura intera minacciava d'inabissarsi, lo spirito di umanità sembrava sbocciare come un bel fiore. Sui campi, fin dove l'occhio arrivava, si vedevano persone di tutti i ceti sparse le une accanto alle altre: principi e mendicanti, matrone e contadine, funzionari e braccianti, monache e frati; e tutti si compiangevano a vicenda, si davano reciprocamente aiuto, dividevano con gioia cio che erano riusciti a salvare per conservarsi in vita, come se la comune sventura avesse fatto una sola famiglia di quanti ne erano scampati. Al posto delle insulse conversazioni alle quali il mondo soleva offrire argomento ai tavoli da té, si raccontavano ora esempi di azioni inaudite; persone che di solito in società passavano inosservate avevano mostrato una magnanimità da antichi romani; esempi a non finire di impalidità, di gioioso disprezzo del pericolo, di abnegazione e divino sacrificio di sé di prontezza nel far dono della vita, come se fosse un bene da nulla, che si potesse ritrovare qualche passo più in là. E poiché non vi era nessuno che in quel giorno non avesse ricevuto un gesto commovente, o non avesse compiuto egli stesso un'azione magnanima, il dolore era mescolato, nel cuore di ogni uomo, a una gioia tanto dolce che, pensava Josefe, non si poteva affatto dire se la somma del bene universale non fosse tanto cresciuta da una parte, quanto era diminuita dall'altra.
Quando ebbero finito di fare tacitamente, ognuno fra sé e sé, queste considerazioni, Jerónimo prese Josefe sotto braccio e la portò a passeggiare avanti e indietro, con inesprimibile serenità, sotto il fogliame ombroso del bosco di melograni. Le disse che, in quella disposizione degli animi, e nel capovolgimento di tutte le relazioni sociali, rinunciava alla sua decisione di imbarcarsi per l'Europa; avrebbe corso il rischio di gettarsi ai piedi del viceré, il quale era stato sempre favorevole alla sua causa, se era ancora in vita, e sperava (nel dir questo le diede un bacio) di restare con lei in Cile. Josefe rispose che pensieri simili erano venuti anche a lei; neppure lei dubitava, se suo padre era ancora vivo, di riconciliarsi con lui, ma consigliava, invece di gettarsi ai piedi del viceré, di andare piuttosto a La Concepción e condurre di là, per iscritto, il tentativo di riconciliazione con il sovrano; là si era, per ogni evenienza, nelle vicinanze del porto, e nel migliore dei casi, se la faccenda prendeva la piega desiderata, si sarebbe potuti ritornare facilmente a Santiago. Dopo una breve riflessione, Jerónimo diede il suo consenso a quella misura di prudenza, la condusse ancora un poco a passeggio sotto le piante, percorrendo a volo i sereni giorni a venire, e ritornò con lei verso la compagnia.
Intanto era venuto il pomeriggio, e gli animi dei profughi sparsi dappertutto si erano appena, poiché le scosse diminuivano, un poco tranquillizzati, quando si propagò la notizia che nella chiesa dei Domenicani, l'unica che il terremoto avesse risparmiato, il priore del convento avrebbe celebrato di persona una messa solenne, per implorare dal cielo protezione da ulteriori sventure. Il popolo era già in movimento da ogni parte, e accorreva fitto verso la città. Nella compagnia di don Fernando si sollevò la domanda se non si dovesse partecipare alla solennità, e unirsi al corteo generale. Donna Elisabetta ricordò, con una certa apprensione, la sciagura avenuta in chiesa il giorno prima; le cerimonie di ringraziamento si sarebbero ripetute, e allora, con il pericolo già più lontano, ci si sarebbe potuti abbandonare alla commozione con tanta maggiore serenità e tranquillità. Josefe, balzando subito in piedi con entusiasmo, affermò di non aver mai sentito l'impulso di chinare il volto nella polvere davanti al Creatore più vivo che in quel momento, quando egli dispiegava così la sua incomprensibile, sublime potenza. Donna Elvira si dichiarò con vivacità della stessa opinione di Josefe. Essa insisté che ci si recasse alla messa, e pregò don Fernando di guidare la compagnia.
Tutti si alzarono, anche donna Elisabetta. Ma quando videro che quest'ultima, con il petto ansante, esitava a fare i piccoli preparativi per la partenza, e le domandarono che cosa si sentisse, lei rispose di avere non sapeva quale infausto presentimento, e donna Elvira la tranquillizzò, invitandola a restare con lei e con il padre infermo.
"Allora, donna Elisabetta", disse Josefe, "volete prendere voi questo piccolo tesoro, che, come vedete, si è già di nuovo attaccato a me?".
"Volentieri", rispose donna Elisabetta, e fece l'atto di prenderlo; ma poiché lui strillava, protestando per il torto che gli si faceva, e in nessun modo si rassegnava, Josefe disse sorridendo che l'avrebbe tenuto, e baciandolo lo calmò. Allora don Fernando, al quale molto piacevano la dignità e la grazia di tutto il suo contegno, le offerse il braccio; Jerónimo, che portava in braccio il piccolo Filippo, conduceva donna Costanza; le altre persone che si trovavano con la compagnia vennero dietro, e in quest'ordine il gruppetto si avviò verso la città.
Non avevano ancora fatto cinquanta passi, quando si udì donna Elisabetta, che nel frattempo aveva parlato animatamente con donna Elvira, prendendola da parte, gridare: "Don Fernando!", e affrettarsi verso il gruppo con fare preoccupato. Don Fernando si fermò, si volse, e attese, senza lasciare il braccio di Josefe; e poiché lei si era fermata a una certa distanza, come se aspettasse che egli le andasse incontro, le domandò che cosa volesse. Allora donna Elisabetta gli si avvicinò, benché, sembrava, a malincuore, e gli bisbigliò in modo che Josefe non potesse sentire, alcune parole all'orecchio.
"Ebbene?", domandò don Fernando. "Ne può forse venire qualcosa di male?".
Donna Elisabetta continuò a sussurrargli all'orecchio, con il viso turbato. Un rossore di disappunto salì al volto di don Fernando.
"Sta bene così", rispose. "Donna Elvira può star tranquilla". E proseguì con la sua dama. Quando giunsero nella chiesa dei Domenicani, si udiva già, maestosa, la musica dell'organo, e una folla sterminata, a ondate, vi si accalcava. La ressa si estendeva per un buon tratto, oltre i portali, sul sagrato della chiesa; i ragazzi si erano arrampicati in alto sulle pareti, tenendosi alle cornici dei quadri, e guardavano, con i berretti in mano e occhi pieni di attesa. La luce raggiava da tutti i lampadari, i pilastri gettavano, nell'incipiente crepuscolo, ombre misteriose, il grande rosone di vetro colorato in fondo alla navata ardeva, rosso come il sole del tramonto che lo illuminava, e il silenzio, quando l'organo tacque, calò sulla folla come se nessuno avesse voce nel petto. Mai, da un tempio cristiano, salì verso il cielo una tale fiamma di devozione, come in quel giorno nella chiesa dei Domenicani di Santiago; e nessun cuore umano vi partecipava con maggior ardore di Jerónimo e di Josefe.
La cerimonia cominciò con una predica che uno dei canonici più anziani, vestito con i paramenti solenni, tenne dal pulpito. Egli cominciò subito distendendo alte verso il cielo le mani tremanti, che uscivano dalle ampie maniche della cotta, lodando e ringraziando che ci fossero ancora uomini, in quella parte del mondo che precipitava in macerie, capaci di innalzare a Dio i loro balbettamenti. Poi descrisse ciò che, a un cenno dell'Onnipotente, era avvenuto, il Giudizio Universale non può essere più tremendo; e quando chiamò il terremoto del giorno precedente, indicando una fessura che si era aperta nella parete del tempio, un semplice preannuncio di quel Giudizio, un brivido percorse l'intera adunanza. Quindi, trascinato dalla sua eloquenza sacerdotale, egli venne a parlare della corruzione morale della città; ne condannò gli orrori, quali non videro mai né Sodoma né Gomorra, e attribuì soltanto all'infinita clemenza di Dio se non era stata del tutto cancellata dal terremoto. Ma come un pugnale trafisse i cuori, già straziati da quella predica dei nostri due infelici, quando il canonico, in quel punto, ricordò con tutti i particolari il delitto che era stato commesso nel giardino del convento delle Carmelitane, chiamò empia l'indulgenza che quel delitto aveva trovato nel mondo e, in un inciso carico di maledizioni, consegnò le anime dei suoi autori, chiamati per nome, a tutti i prìncipi dell'Inferno!
Donna Costanza, rabbrividendo al braccio di Jerónimo, gridò: "Don Fernando!". Questi, con tutta l'energia e la segretezza che fu possibile conciliare, rispose: "Tacete, donna Costanza! Non muovetevi, e fate finta di svenire; così usciremo dalla chiesa".
Ma, prima che donna Costanza mettesse in atto l'ingegnoso stratagemma ideato per la salvezza, una voce già gridava, sovrastando e interrompendo la predica del canonico: "Allontanatevi, cittadini di Santiago! Gli empi sono qui!". Mentre intorno a loro si formava un ampio cerchio di orrore, un'altra voce chiese, piena di spavento: "Dove?". "Qui!", rispose un terzo, e, invasato di santa crudeltà, afferrò e tirò per i capelli Josefe, che sarebbe caduta a terra con il figlio di don Fernando, se questi non l'avesse sorretta.
"Siete impazziti?", gridò il giovane, e cinse Josefe con il braccio. "Io sono don Fernando Ormez, figlio del comandante della città, che tutti conoscete".
"Don Fernando Ormez?", gridò, piantandoglisi proprio davanti, un ciabattino che aveva lavorato per Josefe, e la conosceva non meno bene dei suoi piccoli piedi. "Chi è il padre di questo bambino?", e si volse, con aria insolente di sfida, verso la figlia di Asterón.
Don Fernando, alla domanda, impallidì. Ora guardava con timore Jerónimo, ora percorreva con gli occhi la folla, cercando qualcuno che lo conoscesse.
Schiacciata dall'orribile situazione, Josefe gridò: "Questo non è il mio bambino, mastro Pedrillo, come voi credete". E, guardando don Fernando, aggiunse, con l'anima piena di infinita angoscia: "Questo giovane signore è don Fernando Ormez, figlio del comandante della città, che tutti conoscete!".
"Chi di voi, cittadini, conosce questo giovane?", domandò il calzolaio. E molti degli astanti ripeterono: "Chi conosce Jerónimo Rugera? Si faccia avanti!".
Ora, avvenne che in quel momento il piccolo Juán, spaventato dal tumulto, si protendesse dal petto di Josefe verso don Fernando, per farsi prendere in braccio. "È lui il padre!", urlò
una voce. "È lui Jerónimo Rugera!", urlò un'altra. "Sono loro i sacrileghi!", urlò una terza. "A morte! A morte!", urlarono tutti i cristiani radunati nel tempio di Gesù.
"Barbari, fermatevi!", gridò allora Jerónimo. "Se cercate Jerónimo Rugera, eccolo! Lasciate andare quest'uomo, che non ha alcuna colpa!".
La folla inferocita, confusa dalle parole di Jerónimo, esitò, e molte mani lasciarono don Fernando. E poiché in quel momento cercò di raggiungerli un ufficiale di Marina d'alto grado, che, facendosi largo nel tumulto, domandò: "Don Fernando Ormez, che cosa vi è successo?", questi, ora completamente libero, rispose, con freddezza veramente eroica: "Vedete, don Alonzo, questi assassini! Sarei stato perduto, se quest'uomo coraggioso, per calmare i forsennati, non si fosse denunciato come Jerónimo Rugera. Aristoteli, se volete avere questa bontà, insieme a questa giovane signora, per la sicurezza di entrambi; e anche questo miserabile", aggiunse afferrando mastro Pedrillo, "che ha scatenato tutta questa rivolta!".
"Don Alonzo Onoreja", gridò il ciabattino, "ve lo chiedo sulla vostra coscienza, questa ragazza è o non è Josefe Asterón?".
E poiché don Alonzo, che conosceva benissimo Josefe, esitava a rispondere, e molte voci, vedendo questo, urlarono con rinnovato furore: "È lei! È lei! A morte! A morte!", Josefe mise il piccolo Filippo, che fino a quel momento era stato portato da Jerónimo, in braccio a don Fernando, insieme al piccolo Juán, e disse: "Andate, don Fernando, salvate i vostri due bambini e lasciateci al nostro destino!".
Don Fernando prese i bambini e disse che sarebbe morto, piuttosto di permettere che qualcosa di male accadesse a chi era con lui. Offerse a Josefe, dopo aver pregato l'ufficiale di Marina di dargli la sua sciabola, il braccio, e invitò Jerónimo e donna Costanza a seguirlo.
Riuscirono davvero, poiché, dopo quei preparativi, la gente faceva largo con una certa deferenza, ad arrivare fuori della chiesa, e si credettero salvi. Ma, non appena furono sul sagrato, non meno gremito di gente, una voce si levò dal gruppo dei forsennati che li aveva seguiti: "Questo è Jerónimo Rugera, cittadini, perché io sono suo padre!" e con un'orrenda mazzata lo stese al suolo, a lato di donna Costanza.
"Gesù Maria!", gridò donna Costanza, stringendosi al cognato.
"Sgualdrina di convento!" risuonò, e una seconda mazzata, da un altro lato, la stese senza vita accanto a Jerónimo.
"Orrore!", urlò uno sconosciuto. "Quella era donna Costanza Xares!".
"Perché ci hanno mentito?", urlò il calzolaio. "Cerchiamo quella vera, e accoppiamola!".
Don Fernando, alla vista del cadavere di donna Costanza avvampò d'ira; sguainò la sciabola, la brandì e vibrò un tal fendente al fanatico assassino che aveva scatenato quelle atrocità che l'avrebbe diviso in due, se questi, con un balzo, non si fosse sottratto alla furia del colpo. Ma non poteva resistere alla folla che gli si gettava addosso. "Salvate i bambini, don Fernando, addio!", gridò Josefe. "Uccidetemi, tigri assetate di sangue!". E si gettò spontaneamente in mezzo a loro, per porre fine alla lotta.
Mastro Pedrillo l'abbatté con la mazza, e tutto spruzzato del suo sangue, urlò: "Mandatele dietro all'inferno il suo bastardo!". E si fece di nuovo avanti, non ancora sazio di uccidere.
Don Fernando, eroe divino, stava ora con le spalle appoggiate alla chiesa; con la sinistra teneva i bambini, con la destra la sciabola; a ogni colpo, un uomo cadeva al suolo fulminato; non si difende meglio un leone. Sette di quei sanguinari giacevano morti davanti a lui, lo stesso principe della masnada satanica era ferito. Mastro Pedrillo, tuttavia, non si fermò finché non ebbe strappato dal suo petto, afferrandolo per le gambe, uno dei due bambini, e, descritto in aria un gran cerchio, non l'ebbe sfracellato contro l'angolo di un pilastro. Allora tornò la calma, e tutti si allontanarono.
Don Fernando, quando vide steso davanti a sé il suo piccolo Juán, con il cervello che usciva dalla fronte, levò gli occhi al cielo, in un dolore senza nome. L'ufficiale di Marina gli si avvicinò, cercò di consolarlo, e gli assicurò che gli rincresceva della propria inerzia in quella sventura, benché giustificata da varie circostanze; ma don Fernando gli disse che non aveva nulla da rimproverargli, e lo pregò soltanto di aiutare a portar via le salme.
Furono portate, nell'oscurità della notte che avanzava, in casa di don Alonzo, e don Fernando le seguì, versando molte lacrime sul viso del piccolo Filippo. Passò la notte in casa di don Alonzo e indugiò a lungo, con falsi pretesti, a informare sua moglie dei particolari della sciagura; un po' perché era inferma, e un po' perché non sapeva come avrebbe giudicato il suo comportamento in quella circostanza. Ma poco tempo dopo, informata per caso da un visitatore di tutto ciò che era successo l'eccellente dama sfogò piangendo in silenzio il suo dolore materno, e un mattino, con un'ultima lacrima che le brillava negli occhi, gli gettò le braccia al collo e lo baciò. Don Fernando e donna Elvira adottarono il piccolo estraneo; e, paragonando Filippo a Juán, e come li aveva avuti, don Fernando sentiva quasi di doversene rallegrare.

FIDANZAMENTO A SANTO DOMINGO

A Port-au-Prince, nella parte francese dell'isola di Santo Domingo, all'inizio di questo secolo, quando i neri assassinavano i bianchi, viveva, nella piantagione del signor Guillaume de Villeneuve, un vecchio negro terribile, di nome Congo Hoango. Originario della Costa d'Oro africana, quest'uomo, che in gioventù sembrava di indole fedele e onesta, era stato colmato dal suo padrone, poiché una volta, durante un viaggio a Cuba, gli aveva salvato la vita, di infiniti benefici. Non soltanto il signor Guillaume gli fece sui due piedi dono della libertà e, ritornato a Santo Domingo, gli assegnò una casa e un podere; ma pochi anni dopo lo nominò, contro l'usanza del paese, sorvegliante dei suoi vasti possedimenti, e gli mise accanto come compagna, poiché non voleva risposarsi, una vecchia mulatta della sua piantagione, di nome Babecan, lontana parente della prima moglie di Hoango. Poi, quando il negro ebbe raggiunto i sessant'anni, lo collocò a riposo con una cospicua pensione, e coronò i suoi benefici ricordandolo anche nel suo testamento con un legato; eppure tutte queste prove di gratitudine non poterono proteggere il signor de Villeneuve dal furore di quell'uomo truce.
Congo Hoango fu, nel generale delirio di vendetta fomentato in quelle piantagioni dai passi sconsiderati della Convenzione Nazionale, uno dei primi che impugnò la carabina e, memore della tirannide che l'aveva strappato alla sua patria, cacciò una palla in testa al suo padrone. Incendiò la casa, nella quale avevano cercato rifugio la moglie di lui, con i suoi tre figli, e gli altri bianchi della colonia, devastò da cima a fondo la piantagione, che gli eredi, i quali abitavano a Port-au-Prince, avrebbero potuto rivendicare, e, rasi al suolo tutti gli edifici che facevano parte della fattoria, si mise a battere la campagna circostante, con i negri che aveva raccolto e armato, per sostenere i confratelli nella lotta contro i bianchi.
Ora tendeva imboscate ai viaggiatori che attraversavano il paese in gruppi armati; ora assaliva in pieno giorno i piantatori barricati nelle loro fattorie, passando a fil di spada quanti vi si trovavano. E, nella sua disumana sete di vendetta, volle che anche la vecchia Babecan, e la figlia di lei, una giovane meticcia di quindici anni, di nome Toni, prendessero parte a quella guerra crudele, nella quale egli si sentiva ritornato giovane. E poiché l'edificio principale della piantagione, nel quale egli adesso abitava, sorgeva solitario sulla strada maestra, e spesso durante la sua assenza, passavano di là fuggiaschi bianchi o creoli, che vi cercavano cibo o ricovero, egli instruì le due donne a trattenere quei cani di bianchi, come li chiamava con soccorsi e gentilezze, fino al suo ritorno. Babecan, la quale, a causa di una crudele punizione subita in gioventù, soffriva di tubercolosi, in simili casi soleva abbigliare la giovane Toni, che, per il colorito chiaro del suo volto, era particolarmente adatta a quell'orribile astuzia, con le sue vesti più belle, e la incoraggiava a non rifiutare ai forestieri i suoi abbracci, tranne l'ultimo, che le era vietato, pena la morte; e, quando Congo Hoango ritornava con la sua banda di negri dalle scorrerie compiute nella zona, la morte immediata era il destino che toccava ai miseri che si erano lasciati ingannare da quelle arti.
Nell'anno 1803, quando, come ognuno sa, il generale Dessalines avanzò con trentamila negri contro Port-au-Prince, tutti coloro che avevano la pelle bianca corsero a difenderla, poiché era l'ultimo baluardo della potenza francese nell'isola e, se fosse caduta, tutti i bianchi che vi si trovavano sarebbero stati perduti senza scampo. Così avvenne che, in assenza del vecchio Hoango, il quale era partito, con i neri che aveva con sé, per consegnare al generale Dessalines un carico di piombo e polvere da sparo attraverso la linea dei presidi francesi, nell'oscurità di una notte piovosa e tempestosa qualcuno bussasse alla porta posteriore della sua casa. La vecchia Babecan, che era già a letto, si alzò, aprì la finestra, avvolgendosi una gonna intorno ai fianchi, e domandò chi fosse.
"In nome di Maria e di tutti i santi", disse lo sconosciuto a voce bassa, mettendosi sotto la finestra, "rispondete, prima che ve lo dica, a una domanda". E, allungata la mano, nell'oscurità della notte, per afferrare la mano della vecchia, domandò: "Siete negra?".
"Be', voi siete di certo un bianco", disse Babecan, "se preferite guardare in faccia questa notte buia come la pece, piuttosto di una negra! Entrate", aggiunse, "e non abbiate paura. Qui abita una mulatta, e l'unica che si trova in casa, oltre a me, è mia figlia, una meticcia".
E chiuse la finestra, come se volesse scendere ad aprirgli la porta; ma, con il pretesto che non riusciva a trovare subito la chiave, salì silenziosamente, con alcune vesti strappate in fretta dall'armadio, nella stanza di sopra, e svegliò la figlia.
"Toni!", chiamò. "Toni!".
"Che c'è, mamma?".
"Presto! Alzati e vestiti! Ecco i vestiti, la biancheria e le calze. Un bianco inseguito è alla porta e chiede di entrare!".
"Un bianco?", domandò Toni, tirandosi su a sedere sul letto. Prese i vestiti che la vecchia aveva in mano, e disse: "Ma è solo, mamma? Se lo facciamo entrare, non avremo nulla da temere?".
"Nulla, nulla!", rispose la vecchia, mentre faceva luce. "È disarmato, solo, e trema di paura che vogliamo saltargli addosso!"
E, mentre Toni si alzava e si infilava la gonna e le calze, accese la lanterna grande, che si trovava in un angolo della stanza, annodò in fretta i capelli sul capo della ragazza, secondo l'usanza del paese, le strinse il corpetto, la coprì con un cappello, gli mise in mano la lanterna e le ordinò di scendere nel cortile e fece entrare il forestiero.
Nel frattempo, all'abbaiare dei cani del cortile, si era destato un ragazzo, di nome Nanky, che Hoango aveva avuto dall'unione illegittima con una negra e che dormiva, con il fratello Seppy, in uno degli edifici adiacenti; e quando, al lume della luna, vide un uomo solo, in piedi, sui gradini posteriori della casa, corse subito, com'era istruito a fare in simili casi, verso il portone del cortile, dal quale era entrato lo sconosciuto, per sbarrarlo. Lo straniero, che non capiva che cosa questo significasse, domandò al ragazzo, nel quale riconobbe, con orrore, quando gli fu vicino, un negro, chi abitasse nella fattoria; e alla sua risposta che, alla morte del signor Villeneuve, la piantagione era venuta in possesso del negro Hoango, stava già per gettarsi su di lui, strappargli la chiave del portone, che teneva in mano, e fuggire all'aperto, quando Toni, con la lanterna in mano, apparve davanti alla casa.
"Presto!", disse, prendendolo per mano, e tirandolo verso la porta. "Di qua". E dicendo questo ebbe cura di tenere la lanterna in modo che la luce le battesse in pieno sul viso
"Chi sei?", gridò il forestiero, tirandosi indietro, mentre, disorientato da tante sorprese, osservava la sua giovane e graziosa figura. "Chi abita in questa casa, dove, a quel che dai a intendermi, dovrei trovare la mia salvezza?".
"Nessuno, per la luce del sole!", disse la fanciulla. "Nessuno, tranne me e mia madre!". E faceva forza per tirarselo dietro.
"Come, nessuno!", gridò il forestiero, arretrando di un passo, e liberando la mano. "Questo ragazzo mi ha appena detto che vi si trova un negro di nome Hoango".
"Se dico di no!", continuò la fanciulla, battendo il piede con espressione di contrarietà. "Anche se la casa appartiene a un malvagio che porta questo nome, in questo momento non c'è, è dieci miglia lontano da qui". E dicendo questo tirò in casa lo sconosciuto con tutte e due le mani, ordinò al ragazzo di non dire a nessuno chi era venuto, prese, quando ebbe raggiunto la porta, la mano dell'uomo e lo guidò su per la scala, in camera della madre.
"Be'", disse la vecchia, che dalla finestra aveva ascoltato l'intero colloquio, e alla luce della lanterna aveva notato che l'uomo era un ufficiale, "che vuol dire quella sciabola che tenere sotto il braccio, pronto a usarla? Noi", aggiunse mettendosi gli occhiali, "vi abbiamo offerto rifugio in casa nostra, con pericolo della nostra vita; siete entrato per ricambiare il beneficio con il tradimento, secondo l'uso dei vostri compatrioti?".
"Il cielo me ne guardi!", rispose il forestiero, che si era avvicinato alla sua sedia. Prese la mano della vecchia, se la premette sul petto e, dopo aver gettato intorno per la stanza alcune occhiate timorose, slacciò la sciabola che portava al fianco e disse: "Vedete davanti a voi il più infelice degli uomini, ma non un ingrato, né un malvagio".
"Chi siete?", domandò la vecchia, spingendo verso di lui una seggiola con il piede, e ordinò alla ragazza di andare in cucina, a preparargli alla meglio, in fretta, un po' di cena.
"Sono un ufficiale dell'esercito francese", rispose lo straniero, "benché, come potete giudicare da sola, io non sia francese; la mia patria è la Svizzera, e il mio nome Gustavo von der Ried. Ah, non l'avessi mai abbandonata, per venire in quest'isola sventurata! Vengo da Fort Dauphin, dove, come sapete, tutti i bianchi sono stati trucidati, e sto cercando di raggiungere Port-au-Prince, prima che il generale Dessalines riesca a circondarla e assediarla, con le truppe che conduce".
"Da Fort Dauphin!", esclamò la vecchia. "E con il colore che avete in viso avete percorso senza danno tutta questa strada, in un paese pieno di negri in rivolta?".
"Dio e tutti i santi", rispose lo straniero, "mi hamo protetto. E non sono solo, buona donna; nel gruppo che mi segue, che ho lasciato indietro, si trovano un venerabile vecchio, mio zio, con sua moglie e cinque figli, per non parlare dei domestici e delle serve della famiglia; un drappello di dodici persone in tutto, che devo condurre con me, con l'aiuto di due miseri muli, in marce notturne che sono una fatica indescrivibile, perché di giorno non possiamo mostrarci sulla strada maestra".
"In nome del cielo!", esclamò la vecchia; e, scuotendo il capo con commiserazione, aspirò una presa di tabacco. "E dove si trovano, in questo momento, le persone che viaggiano con voi ?".
"Di voi", riprese lo straniero, dopo aver riflettuto un poco, "di voi posso fidarmi; nel colore del vostro viso vedo trasparire un raggio del mio. La famiglia, sappiatelo, si trova a un miglio da qui, vicino allo Stagno dei Gabbiani, nel folto della foresta montuosa che lo circonda; la fame e la sete ci costrinsero, l'altro ieri, a cercare quel rifugio. Invano, la notte scorsa, abbiamo mandato i nostri servi a cercare un po' di pane e di vino tra gli abitanti della zona; la paura di essere presi e uccisi li trattenne dall'esporsi. Per questo oggi ho dovuto lasciare il rifugio io stesso, a rischio della vita, per tentare la fortuna. E il cielo, se non è tutto un inganno", proseguì, stringendo la mano della vecchia, "mi ha guidato presso gente misericordiosa, che non partecipa all'inaudito, crudele accanimento che ha travolto tutti gli abitanti di quest'isola. Abbiate la bontà, in cambio di un generoso compenso, di riempiermi qualche cesta di viveri e bevande; ci mancano soltanto cinque giorni di viaggio per Port-au-Prince, e, se ci procurate i viveri per raggiungere quella città, vi considereremo per sempre i salvatori della nostra vita".
"Sì, questo folle accanimento", disse ipocritamente la vecchia. "Non è come se le mani di uno stesso corpo, o i denti di una stessa bocca, infierissero gli uni contro gli altri, perché non sono fatti tutti nello stesso modo? Che ci posso fare se mio padre è nato a Santiago, nell'isola di Cuba, e se, quando fa giorno, un barlume di luce affiora sul mio viso? E che ne può mia figlia, concepita e nata in Europa, se dal suo viso traspare il giorno pieno di quel continente?".
"Come", esclamò il forestiero, "voi, che in ogni tratto del volto siete una mulatta, e dunque di origine africana, e la graziosa giovane meticcia che mi ha aperto la porta, subite la stessa condanna di noi europei?".
"Per tutti i santi!", rispose la vecchia, levandosi gli occhiali.
"Credete che la piccola proprietà che ci siamo guadagnate in anni di fatica e di sofferenze, con il lavoro delle nostre mani, non faccia gola a questa feroce accozzaglia di ladri, uscita dall'inferno? Se non sapessimo metterci al riparo dalle loro persecuzioni con l'astuzia, e con tutte le arti che la necessità di difendersi insegna ai deboli, l'ombra di parentela che abbiamo sul viso, potete starne certo, non servirebbe a nulla!".
"Non è possibile!", esclamò il forestiero. "E chi vi perseguita su quest'isola?".
"Il padrone di questa casa", rispose la vecchia. "Il negro Congo Hoango. Dalla morte del signor Guillaume, che era il proprietario di questa piantagione, e che allo scoppio della rivolta è stato abbattuto dalla sua mano feroce, noi che, come suoi parenti, amministriamo il podere, siamo in balia del suo arbitrio e della sua violenza. Ogni pezzo di pane, ogni sorso d'acqua che, per umanità, concediamo all'uno o all'altro dei bianchi in fuga, che di tanto in tanto passano lungo la strada, ce lo ricambia con insulti e maltrattamenti; e il suo più gran desiderio sarebbe scatenare contro di noi, cani bastardi bianchi e creoli, come ci chiama, la vendetta dei neri; sia per liberarsi di noi, che gli rimproveriamo la sua crudeltà verso i bianchi, sia per venire in possesso della piccola proprietà che lasceremmo".
"Infelici!", disse il forestiero. "Vi compatisco. E dove si trova in questo momento quel sanguinario?".
"Con le truppe del generale Dessalines", rispose la vecchia.
"Insieme agli altri negri della piantagione gli ha portato un carico di munizioni del quale il generale aveva bisogno. Se non si mette in altre imprese, lo aspettiamo fra una decina di giorni. E se allora, Dio ne scampi, viene a sapere che abbiamo concesso protezione e rifugio a un bianco in viaggio per Port-au-Prince, mentre egli partecipa con tutte le sue forze alla lotta per cancellare dall'isola tutta la vostra razza, saremmo tutte e due, potete crederei, votate alla morte".
"Il cielo, che ama l'umanità e la compassione", rispose lo straniero, "vi proteggerà, per l'aiuto che date a un infelice! E poiché, in tal caso", aggiunse, avvicinandosi di più alla vecchia, "vi sareste ormai attirate la collera del negro e l'obbedienza, anche se voleste fare marcia indietro, non vi gioverebbe più a nulla, non potreste risolvervi, per qualunque compenso vogliate stabilire, a dare ricovero per un giorno o due, in casa vostra, a mio zio e alla sua famiglia, ridotta allo stremo dal viaggio, in modo che si riprendano un poco?".
"Signore!", disse la vecchia, sorpresa. "Che cosa mi chiedete? Come è possibile ospitare in una casa che si trova sulla strada maestra un gruppo numeroso come il vostro, senza che la gente dei dintorni lo venga a sapere?".
"Perché no", insistette lo straniero, "se io stesso partissi subito per lo Stagno dei Gabbiani, e guidassi la mia gente nella fattoria, prima che faccia giorno? Potremmo alloggiare tutti, padroni e servitù, in una sola stanza, e magari, per timore del peggio, usare la precauzione di tenere ben chiuse le porte e le finestre".
La vecchia, dopo aver riflettuto alquanto sulla proposta, rispose che, se avesse cercato, quella notte stessa, di condurre il suo drappello dalle forre montane nella fattoria, sulla via del ritorno si sarebbe immancabilmente imbattuto in una banda di negri armati, che era stata annunciata sulla strada maestra da alcuni tiratori mandati in avanscoperta.
"Ebbene", replicò lo straniero, "accontentiamoci, per ora, di mandare a quegli infelici una cesta di viveri, e rimandiamo il tentativo di portarli nella fattoria alla notte prossima. Volete far questo, buona donna?".
"Ma sì", disse la vecchia, mentre le labbra dello straniero coprivano di baci la sua mano ossuta, "per l'europeo che è stato il padre di mia figlia, farò questo favore ai suoi compatrioti perseguitati. Domattina scriverete ai vostri un biglietto, invitandoli a venire qui da me nella fattoria; il ragazzo che avete visto nel cortile lo porterà laggiù, con un po' di provviste, passerà la notte con loro sui monti, per maggiore sicurezza, e il mattino seguente, se accetteranno l'invito, farà loro da guida fin qui, lungo il cammino".
Nel frattempo Toni era ritornata con la cena preparata in cucina, e, lanciandò un'occhiata al forestiero, domandò alla vecchia in tono scherzoso, mentre preparava la tavola: "Allora mamma, di' un po', il signore si è rimesso dallo spavento che si era preso sulla porta di casa? Si è convinto che qui non l'attendono né il veleno né il pugnale, e che il negro Hoango non è in casa?".
"Bimba mia", disse la madre con un sospiro, "dice il proverbio: chi s'è scottato non si fida del fuoco. Il signore avrebbe agito in modo imprudente, se si fosse arrischiato a entrare in casa prima di essere sicuro della razza alla quale appartenevano i suoi abitanti".
La fanciulla si mise di fronte alla madre, e le raccontò che aveva tenuto la lanterna in modo che la sua piena luce le battesse sul viso. "Ma la sua immaginazione", aggiunse, "vedeva solo negri e mori; e anche se gli avesse aperto una dama di Parigi o di Marsiglia, l'avrebbe presa per una negra".
Lo straniero, mettendole dolcemente il braccio intorno alla vita, disse con imbarazzo che il cappello che portava gli aveva impedito di guardarla in viso. "Se avessi potuto", continuò stringendola al petto, "guardarti negli occhi, come posso fare adesso, anche se tutto il resto in te fosse stato nero, avrei bevuto con te anche da un bicchiere avvelenato". E dicendo queste parole arrossì.
La madre gli fece prendere posto; Toni si sedette accanto a lui, appoggiando i gomiti sulla tavola, e, mentre lo straniero mangiava, lo fissava in viso. Lo straniero le domandò quanti anni aveva, e in che città era nata; la madre, presa la parola, disse che Toni era stata concepita e messa al mondo a Parigi quindici anni prima, durante un viaggio in Europa nel quale aveva accompagnato la moglie del signor Villeneuve, che era allora il suo padrone. Il negro Comar, che l'aveva poi sposata, continuò, aveva accettato Toni come una figlia; ma il vero padre era un ricco commerciante di Marsiglia, di nome Bertrand dal quale la ragazza si chiamava appunto Toni Bertrand. Toni gli domandò se in Francia non l'avesse conosciuto.
"No", rispose lo straniero; il paese era grande, e, durante il breve soggiorno che aveva preceduto il suo imbarco per le Indie Occidentali, non aveva incontrato nessuno con quel nome.
La vecchia aggiunse che, inoltre, secondo notizie abbastanza sicure da lei raccolte, il signor Bertrand non doveva più essere in Francia. "Era un uomo molto ambizioso", disse, "che non sopportava la limitatezza della vita borghese. Allo scoppio della rivoluzione si immischiò negli affari pubblici, e nell'anno 1795 si recò con una delegazione francese alla corte turca, dalla quale, per quanto ne so, non è ancora ritornato".
Lo straniero disse sorridendo a Toni, prendendole la mano, che allora lei era una ragazza nobile e ricca. La invitò a far valere quei vantaggi, e disse che c'era speranza che un giorno suo padre la introducesse in un mondo più brillante di quello nel quale ora viveva!
"Sarà difficile", disse la madre, con risentimento represso.
"Quando ero incinta, a Parigi, il signor Bertrand, che si vergognava di fronte a una fidanzata giovane e ricca che voleva sposare, negò in tribunale la paternità di questa creatura. Non dimenticherò mai il giuramento che ebbe l'impudenza di pronunciare, in faccia a me; me ne venne una febbre biliare, e poco dopo anche sessanta frustate, che mi fece dare il signor Villeneuve; per quelle frustate soffro ancora oggi di mal sottile".
Toni, che aveva appoggiato il capo sulla mano, pensierosa, domandò allo straniero chi fosse, di dove venisse e dove fosse diretto. Dopo un breve imbarazzo, nel quale l'aveva messo l'amaro discorso della vecchia, questi rispose che veniva da Fort Dauphin, insieme alla famiglia di suo zio, il signor Strömli, che aveva lasciata, sotto la protezione di due giovani cugini, nella foresta montuosa che dava sullo Stagno dei Gabbiani. Poi, su preghiera della ragazza, raccontò molti particolari della rivolta scoppiata in quella città. Verso la mezzanotte, mentre tutti dormivano, a un segno dato a tradimento si era scatenata la strage dei negri contro i bianchi. Il capo dei negri, che era sergente nel corpo dei genieri francesi, aveva avuto la crudeltà di incendiare subito nel porto tutte le navi, per impedire ai bianchi la fuga verso l'Europa. La sua famiglia aveva avuto appena il tempo di salvarsi fuori dalle porte della città con poche robe; e, poiché la rivolta divampava contemporaneamente in tutte le località costiere, non le era rimasto altro da fare che prendere, con due muli che erano riusciti a procurarsi, la via che, attraversando tutto il paese, portava a Port-au-Prince, l'unica città che, difesa da un forte esercito francese, resistesse ancora al dominio dilagante dei negri.
Toni domandò in che modo i bianchi si fossero attirati tanto odio.
"Per la posizione comune", rispose il forestiero, colpito, "che, come padroni dell'isola, avevano nei confronti dei neri; e che io, per dire la verità, non mi attenterei a difendere. Ma esisteva, immutata, già da molti secoli! La frenesia della libertà, che ha contagiato tutte le piantagioni, ha spinto negri e creoli a spezzare le catene che li opprimevano, e a vendicarsi contro i bianchi dei molti e condannabili maltrattamenti subiti per colpa di alcuni bianchi malvagi".
"Soprattutto", continuò, dopo un breve silenzio, "mi ha colpito e mi è parso raccapricciante il gesto di una ragazza. Questa giovane, di razza negra, quando divampò l'insurrezione era ammalata di febbre gialla che, per raddoppiare la sventura, era scoppiata in città. Tre anni prima aveva lavorato come schiava al servizio di un colono di razza bianca; questi risentito perché non si era mostrata arrendevole ai suoi desideri, l'aveva duramente maltrattata, e poi venduta a un colono creolo. Il giorno della rivolta generale la ragazza venne a sapere che quel piantatore, il suo antico padrone, aveva cercato scampo dal furore dei negri che lo inseguivano in una legnaia vicina; allora, ricordandosi dei maltrattamenti subiti, sull'imbrunire aveva mandato da lui suo fratello, per offrirgli di passare la notte presso di lei. L'infelice, che non sapeva che la ragazza fosse malata, e tanto meno di quale malattia soffrisse, venne e, pieno di gratitudine, credendosi salvo, si gettò fra le sue braccia. Ma non aveva trascorso mezz'ora nel suo letto, tra baci e carezze, quando lei di colpo, con un'espressione di selvaggio e gelido furore, si alzò, dicendo: "Hai baciato una malata di peste, che porta la morte nel petto. Vai a portare la febbre gialla a tutti quelli che ti assomigliano!"".
L'ufficiale, mentre la vecchia esprimeva con esclamazioni il suo orrore per quel gesto, domandò a Toni se lei sarebbe stata capace di un'azione simile. "No!", disse Toni, e abbassò, confusa, lo sguardo davanti a sé. Lo straniero, posando sulla tavola il tovagliolo, aggiunse che, secondo i sentimenti del suo animo, nessuna tirannia che i bianchi avessero commesso poteva giustificare un così orribile e spregevole tradimento. "Un simile gesto", disse, alzandosi, con espressione appassionata, "disarmava la vendetta del cielo: gli angeli stessi, indignati da tanto, si sarebbero messi dalla parte di coloro che avevano torto e, per conservare l'ordine umano e divino, avrebbero preso le difese della loro causa!". Pronunciando queste parole, si avvicinò per un momento alla finestra e guardò fuori, nella notte, che trascorreva con nuvole tempestose, oscurando la luna e le stelle; e poiché gli sembrò che la madre e la figlia si guardassero, anche se non notò affatto che si fossero fatte cenni d'intesa, un senso di noia e di repulsione lo invase; si voltò, e pregò che gli indicassero la camera dove avrebbe potuto dormire.
La madre, guardando verso la pendola, osservò che era quasi mezzanotte, prese in mano un lume, e invitò lo straniero a seguirla. Attraverso un lungo corridoio, lo condusse nella stanza che gli era destinata; Toni portò il mantello e le altre cose che egli aveva deposto. La madre gli indicò un comodo letto, con molti cuscini, per dormire, e, dopo aver ordinato a Toni di preparare un bacile perché il signore potesse rinfrescarsi i piedi, gli augurò la buona notte e si congedò.
Lo straniero posò in un angolo la spada e depose sul tavolo due pistole che portava alla cintola. Mentre Toni sprimacciava il letto, e vi stendeva sopra un lenzuolo bianco, si guardò intorno nella stanza, e concluse subito, dal lusso e dal gusto che vi regnavano, che doveva essere appartenuta al primo proprietario della piantagione. Un senso di inquietudine gli calò sul cuore, come un avvoltoio, e desiderò di essere di ritorno fra i suoi, nella foresta, affamato e assetato com'era venuto.
Intanto la ragazza era andata a prendere dall'attigua cucina un recipiente di acqua calda, che profumava di erbe odorose, e invitò l'ufficiale, che si era appoggiato alla finestra, a ristorarsi. Liberandosi in silenzio della cravatta e del panciotto, l'ufficiale si sedette sulla sedia; e, mentre si accingeva a togliersi gli stivali, e la ragazza, accoccolata in ginocchio davanti a lui, attendeva ai piccoli preparativi per il bagno, osservò la sua attraente figura. I suoi capelli, in onde di riccioli scuri, erano scivolati, quando si era inginocchiata, sui giovani seni; un tratto di grazia non comune giocava intorno alle sue labbra e sulle lunghe ciglia che coprivano gli occhi abbassati; avrebbe potuto giurare che, all'infuori del colore, che gli ripugnava, non aveva mai visto nulla di più bello. E poi notava una lontana somiglianza, non sapeva ancora esattamente lui stesso con chi, che aveva già osservato entrando in casa e che in tutta l'anima gli parlava in suo favore.
Quando lei, continuando le sue faccende, si alzò in piedi, la prese per mano e ritenendo, molto giustamente, che non v'era che un modo per scoprire se la fanciulla avesse un cuore oppure no, la fece sedere sulle sue ginocchia e le domandò se era già fidanzata.
"No", sussurrò la ragazza, abbassando a terra i grandi occhi neri con delizioso pudore. E, immobile sulle sue ginocchia, aggiunse che sì, Conelly, un giovane negro del vicinato, l'aveva chiesta in moglie tre mesi prima; ma lei aveva detto di no; era ancora troppo giovane.
Lo straniero, che con le mani le cingeva la vita sottile, disse che nel suo paese, secondo un proverbio, una ragazza di quattordici anni e sette settimane era già in età da marito. E, mentre lei osservava una piccola croce d'oro che lui portava sul petto, le chiese quanti anni aveva.
"Quindici", rispose Toni.
"E dunque!", continuò lo straniero. "È forse troppo povero, per mettere su casa con te come vorresti?".
"Oh, no!", rispose Toni, senza alzare gli occhi su di lui. "Al contrario", disse, lasciando andare la piccola croce che teneva in mano. "Conelly, con la piega che hanno preso le cose, è diventato ricco; a suo padre è toccata tutta la piantagione che prima apparteneva al suo padrone".
"E allora perché hai respinto la sua proposta?", domandò lo straniero. E, allontanandone i capelli dalla fronte con una carezza gentile, aggiunse: "Forse non ti piaceva?".
La fanciulla rise, scuotendo brevemente la testa; e, quando lo straniero le sussurrò scherzosamente all'orecchio se doveva essere un bianco a ottenere il suo favore, lei di colpo, dopo un attimo di trasognata esitazione, con un delizioso rossore che le accendeva il volto gli si abbandonò sul petto.
Lo straniero, commosso dalla sua grazia e dalla sua dolcezza, la chiamò la sua cara fanciulla e, sollevato da ogni angoscia come per mano divina, la chiuse tra le sue braccia. Gli era impossibile credere che tutti i gesti che aveva osservato in lei non fossero che la sciagurata espressione di un freddo, mostruoso tradimento. I pensieri che l'avevano reso inquieto si dileguarono, come uno stormo di uccelli orribili; si biasimò per aver dubitato a torto, anche per un attimo, del suo cuore, e, dondolandola sulle ginocchia, suggendo il dolce respiro che saliva da lei, le impresse, quasi come un segno di riconciliazione e di perdono, un bacio sulla fronte.
Intanto la ragazza si era rizzata messa bruscamente in ascolto, come se qualcuno si avvicinasse alla porta lungo il corridoio; con espressione pensierosa e sognante, si aggiustò lo scialle che le si era spostato sul petto, e solo quando si accorse di essersi ingannata si volse di nuovo al forestiero, con il viso allegro, e gli ricordò che l'acqua, se non l'avesse usata subito, si sarebbe raffreddata.
"Che cosa c'è?", chiese, preoccupata, vedendo che lo straniero taceva, e la guardava pensieroso. "Perché mi osservate così attentamente?". E cercò di nascondere il suo improviso imbarazzo aggiustandosi il corpetto. "Strano signore", esclamò ridendo, "che cos'è che vi colpisce tanto nel mio aspetto?".
Lo straniero, che si era passato la mano sulla fronte, disse, soffocando un sospiro, mentre la faceva scendere dalle sue ginocchia: "Una strana somiglianza fra te e un'amica".
Toni, che vedeva bene come la sua allegria si fosse dissipata, gli prese con affetto gentile la mano, e domandò: "Quale amica?".
Dopo una breve riflessione, egli rispose: "Il suo nome era Marianna Congrève, e la sua città natale Strasburgo. L'avevo conosciuta laggiù, dove suo padre aveva un commercio, poco prima che scoppiasse la rivoluzione, ed ero stato così fortunato da ottenere il suo consenso e, provvisoriamente, anche quello di sua madre. Ah, era l'anima più fedele sotto il sole; e le circostanze atroci e commoventi in cui l'ho perduta mi ritornano, quando ti guardo, così presenti, che per la tristezza non posso trattenere le lacrime".
"Come?", disse Toni, premendosi forte e con tenerezza contro di lui. "Non vive più?".
"È morta", rispose lo straniero. "E solo dalla sua morte ho imparato che cosa sono la vera bontà e la grandezza d'animo. Dio sa", continuò, appoggiando dolorosamente il capo sulla spalla di lei, "come abbia potuto spingere tanto oltre la mia sconsideratezza da arrischiare una sera, in un luogo pubblico, un giudizio sul terribile tribunale rivoluzionario che era stato appena costituito. Fui messo sotto accusa, mi cercarono; e, in mancanza di me, che avevo avuto la fortuna di trovare scampo nei sobborghi, la masnada dei miei forsennati persecutori, che volevano ad ogni costo una vittima, corse a casa della mia fidanzata; infuriati perché assicurava, ed era vero, che non sapeva dove fossi, con il pretesto che era d'accordo con me la trascinarono, con inaudita leggerezza, al patibolo al posto mio. Appena mi fu riportata quella spaventosa notizia, uscii dal nascondiglio in cui mi ero rifugiato e, fendendo la calca, corsi verso il patibolo gridando: "Eccomi, bestie feroci, eccomi!". Ma lei, che era già sul palco della ghigliottina, alla domanda dei giudici, che sventuratamente non mi conoscevano, con uno sguardo che mi si è impresso nell'anima per sempre, voltò il viso, dicendo: "Non conosco quest'uomo...".
"E, al rullo dei tamburi e alle urla impazienti di quei sanguinari, la lama, pochi istanti dopo, cadde e le spiccò il capo dal busto... Come mi abbiano salvato, non so. Mi trovai, un quarto d'ora dopo, nella casa di un amico, dove passai da uno svenimento all'altro; e a sera, semipazzo, mi caricarono su una carrozza e mi portarono oltre il Reno".
Con queste parole lo straniero lasciò la fanciulla e si avvicinò alla finestra; e, quando lei vide che egli premeva nel fazzoletto il viso commosso, un sentimento umano, destato da molti lati, la sopraffece; con un movimento improvviso lo seguì, gli gettò le braccia al collo e mescolò le sue lacrime a quelle di lui.
Ciò che venne poi non occorre narrarlo, poiché chiunque sia arrivato a questo punto lo intende da sé. Lo straniero, quando si fu ripreso, non sapeva dove l'avrebbe condotto l'azione che aveva commesso; ma capiva di essere salvo, e che, nella casa in cui si trovava, non aveva nulla da temere da parte della fanciulla. Vedendola piangere sul letto, con le braccia incrociate, fece tutto il possibile per calmarla. Si tolse dal petto la piccola croce d'oro, dono della sua fedele Marianna, la sua fidanzata morta, e, chinandosi su di lei con infinite carezze, gliela mise al collo, come dono di fidanzamento, così disse. E poiché lei continuava a sciogliersi in lacrime, e non ascoltava le sue parole, si sedette sul bordo del letto e le disse, ora accarezzandole, ora baciandole la mano, che il mattino seguente l'avrebbe chiesta in sposa a sua madre. Le descrisse la piccola proprietà, libera da qualsiasi gravame, che possedeva sulle rive della Aar, la casa, abbastanza comoda e spaziosa per accogliere lei e anche sua madre, se l'età le avesse permesso di compiere il viaggio per raggiungerla; i campi, il giardino, i prati, la vigna; e il vecchio padre venerando, che l'avrebbe accolta con gratitudine e con amore, perché aveva salvato suo figlio. La chiuse, poiché le sue lacrime continuavano a sgorgare senza fine, inzuppando il cuscino, tra le sue braccia, e le domandò, a sua volta commosso, che cosa le aveva fatto di male, e se non poteva perdonarlo. Le giurò che l'amore per lei non sarebbe mai venuto meno nel suo cuore, e che soltanto, nella vertigine di una strana confusione dei sensi, una mescolanza di desiderio e di paura che lei gli aveva ispirato aveva potuto spingerlo a commettere una simile azione. Le ricordò, infine, che brillavano già le stelle del mattino, e che, se fosse rimasta più a lungo nel letto, sua madre sarebbe giunta e ve l'avrebbe sorpresa; la invitò, per amore della sua salvezza, ad alzarsi e a riposare ancora qualche ora nel proprio letto; le chiese, mentre l'angoscia per il suo stato gli causava un vero tormento, se non voleva che la prendesse tra le braccia e la portasse in camera sua; e poiché non rispondeva a nessuna delle sue parole, e continuava a piangere silenziosamente, distesa tra i cuscini scompigliati nel letto, immobile, con il capo premuto tra le braccia, non gli restò alla fine, poiché dalle due finestre entrava già la luce chiara del giorno, altro da fare che prenderla in braccio, senza altri discorsi; la portò, che pendeva dalla sua spalla come senza vita, su per la scala, in camera sua, e, dopo averla adagiata sul suo letto e averle ripetuto ancora una volta, tra mille carezze, tutto ciò che le aveva già detto, la chiamò ancora una volta la sua cara sposa, le premette un bacio sulle guance e ritornò in fretta nella propria stanza.
Non appena fu giorno fatto, la vecchia Babecan salì dalla figlia e le rivelò, sedendosi accanto al suo letto, il piano che aveva in mente, a proposito dello straniero e di quelli che viaggiavano con lui. Disse che, poiché il negro Congo Hoango non sarebbe ritornato prima di due giorni, si trattava soltanto di trattenere in casa lo straniero per il tempo necessario, cercando di evitare che arrivassero i suoi familiari, che, a causa del loro numero, avrebbero potuto essere pericolosi. A questo scopo, continuò, aveva pensato di far credere allo straniero che, secondo una notizia appena arrivata, il generale Dessalines avrebbe attraversato la regione con le sue truppe, e perciò, dato l'estremo pericolo, soltanto il terzo giorno, quando fosse ormai passato, sarebbe stato possibile accogliere in casa la sua famiglia, secondo il suo desiderio. Nel frattempo, concluse, bisognava rifornire quella gente di viveri, perché non continuassero il viaggio, e inoltre mantenerli, in modo da potersi impadronire di loro successivamente, nell'illusione di trovare rifugio nella casa. La cosa era importante, osservò, perché probabilmente la famiglia aveva con sé beni considerevoli; ed esortò la figlia ad appoggiarla con tutte le sue forze nel disegno che le aveva esposto.
Toni, seduta sul letto, rispose, mentre il rossore dell'indignazione le accendeva il volto, che era una vergogna e un'infamia violare in quel modo le leggi dell'ospitalità a danno di persone attirate in quella casa. Un uomo perseguitato che si era affidato alla loro protezione avrebbe dovuto essere doppiamente sicuro, presso di loro; e assicurò che, se non avesse rinunciato al sanguinario proposito che le aveva esposto, sarebbe andata immediatamente dallo straniero, e gli avrebbe rivelato quale covo di assassini fosse la casa in cui aveva creduto di trovare scampo.
"Toni!", disse la madre, mettendosi le mani sui fianchi e guardandola con gli occhi sbarrati.
"Sicuro!", rispose Toni, abbassando la voce. "Che cosa ci ha fatto di male questo giovane, che per nascita non è neppure francese, ma, come abbiamo visto, è svizzero, perché noi, come briganti, dobbiamo aggredirlo, ucciderlo e derubarlo? Le accuse che si fanno qui contro i piantatori valgono forse anche per la parte dell'isola dalla quale viene? E tutto non ci dimostra, invece, che è la persona più nobile e migliore che ci sia, e che certo non ha nessuna colpa delle ingiustizie che i neri rimproverano alla sua razza?".
La vecchia, osservando la strana espressione della fanciulla disse soltanto, con le labbra tremanti, che si meravigliava. E che colpa aveva, domandò, il giovane portoghese che, poco tempo prima, era stato abbattuto sotto il portone a colpi di mazza? E che cosa avevano commesso i due olandesi che, tre settimane prima, erano caduti nel cortile sotto le pallottole dei neri? E, volle sapere, i tre francesi, e tutti gli altri fuggiaschi isolati di razza bianca che erano stati ammazzati nella casa, a fucilate, a colpi di lancia e di pugnale, dall'inizio dell'insurrezione, di che cosa erano stati accusati?
"Per la luce del sole!", gridò la figlia, saltando in piedi come una furia. "Hai torto a rinfacciarmi questi orrori! Le crudeltà alle quali mi costringete a partecipare mi ripugnavano già da un pezzo, nel profondo; e per placare la vendetta di Dio contro di me, per tutto ciò che è successo, ti giuro che morirò dieci volte, piuttosto di lasciare che a questo giovane sia torto anche solo un capello, finché si trova nella nostra casa".
"E va bene", disse la vecchia, con improvvisa arrendevolezza, "che lo straniero se ne vada pure! Ma quando Congo Hoango ritorna", aggiunse, alzandosi per lasciare la stanza, "e verrà a sapere che un bianco ha passato la notte in casa nostra, gli renderai conto della pietà che ti ha spinto, contro i suoi espressi ordini, a lasciarlo andar via".
A queste parole, dalle quali, a dispetto della loro apparente moderazione, traspariva copertamente la collera della vecchia, la fanciulla restò sola nella stanza, profondamente abbattuta. Conosceva troppo bene l'odio della madre per i bianchi, per credere che si lasciasse sfuggire quell'occasione di saziarlo. Il timore che mandasse subito qualcuno nelle piantagioni vicine, a raccogliere i negri per sopraffare lo straniero, la spinse a vestirsi e a seguirla senza indugio nella stanza di sotto. Mentre la vecchia si allontanava turbata dalla credenza, dove sembrava aver trafficato qualcosa, e si sedeva alla spola per filare, si fermò davanti al proclama affisso alla porta, nel quale si vietava a tutti i neri, pena la morte, di offrire ai bianchi asilo e protezione; e, come se, spaventata, si fosse resa conto di essersi comportata male, si voltò di colpo, e cadde ai piedi della madre, che, come ben sapeva, da dietro la stava osservando. Abbracciandola le ginocchia, la pregò di perdonare le follie che si era permessa di dire in difesa dello straniero; si scusò, adducendo lo stato, a metà fra il sogno e la veglia, nel quale era stata sorpresa, ancora a letto, dalle sue proposte di vincerlo con l'astuzia; e disse che l'abbandonava senz'altro alla vendetta delle leggi del paese, che ormai ne avevano decretato la morte.
La vecchia, dopo una pausa, durante la quale aveva guardato fisso la ragazza, disse: "Per il cielo, quel che hai detto gli salva la vita, per oggi! Perché il suo cibo, dato che minacciavi di prenderlo sotto la tua protezione, era già avvelenato, e, almeno morto, l'avrebbe messo nelle mani di Congo Hoango, secondo i suoi ordini". E, così dicendo, si alzò e rovesciò fuori dalla finestra una scodella di latte che era sulla tavola.
Toni, non credendo ai propri occhi, fissò inorridita la madre con gli occhi sgranati. La vecchia tornò a sedersi, fece alzare la ragazza, che era rimasta in ginocchio sul pavimento, e le domandò che cosa le avesse fatto cambiare così improvvisamente idea nel corso di una notte. La sera prima, dopo avergli preparato l'acqua calda, era rimasta ancora molto con lui? Aveva parlato a lungo con lo straniero? Ma Toni, con il petto che le batteva, non disse nulla, o nulla di preciso; rimase in piedi, con gli occhi fissi a terra, e, tenendosi la testa con le mani, parlò di un sogno; ma uno sguardo al petto della sua povera mamma, disse, chinandosi in fretta a baciarle la mano, bastava a richiamarle alla memoria tutta la crudeltà della razza alla quale lo straniero apparteneva; e, assicurò, voltandosi e premendo il volto nel grembiule, non appena fosse rientrato il negro Congo Hoango, lei avrebbe visto quale figlia aveva.
Babecan stava ancora seduta, pensierosa, riflettendo da dove provenisse la strana eccitazione della ragazza, quando lo straniero, che aveva in mano un foglio scritto in camera sua, nel quale invitava la famiglia a passare alcuni giorni nella piantagione del negro Hoango, entrò nella stanza. Salutò, con fare lieto e gentile, madre e figlia, e le pregò, porgendo il biglietto alla vecchia, di mandare subito qualcuno nella foresta, a prendersi cura della sua famiglia, secondo la promessa fatta.
Babecan si alzò e disse con inquietudine, riponendo il biglietto nell'armadio: "Signore, dobbiamo pregavi di tornare immediatamente nella vostra camera da letto. La strada è piena di drappelli di negri in marcia, e ci hanno detto che il generale Dessalines sta per attraversare con le sue truppe questa regione. Questa casa, aperta a tutti, non vi garantisce alcuna sicurezza, se non vi nascondete in camera vostra, che dà sul cortile, e non chiudete perfettamente le porte, e anche le imposte alle finestre".
"Come?", disse lo straniero stupito. "Il generale Dessalines...".
"Non fate domande!", lo interruppe la vecchia, battendo tre volte sul pavimento con un bastone. "Nella vostra camera, dove vi seguirò subito, vi spiegherò tutto".
Lo straniero, spinto fuori dalla stanza dai gesti ansiosi della vecchia, si voltò ancora una volta, sulla soglia, dicendo: "Ma, alla famiglia che mi aspetta, non si potrà almeno mandare un messaggio che...".
"Ci occuperemo di tutto", lo interruppe la vecchia, mentre chiamato dai suoi colpi, entrava il ragazzo che già conosciamo, ordinò a Toni, la quale, voltando le spalle allo straniero, si era messa davanti allo specchio, di prendere una cesta di viveri che stava in un angolo, e la madre, la figlia, lo straniero e il ragazzo salirono nella camera da letto.
Qui la vecchia, messasi comodamente a sedere nella poltrona, raccontò che per tutta la notte, sui monti che chiudevano l'orizzonte, si erano visti brillare i fuochi del generale Dessalines: circostanza realmente fondata, anche se, fino a quel momento, nella zona non si era ancora mostrato neppure un negro del suo esercito, che avanzava verso sud-ovest, in direzione di Port-au-Prince. In questo modo le riuscì di gettare lo straniero in un vortice d'inquietudine, che seppe poi calmare, assicurandolo che avrebbe fatto tutto il possibile, anche nel caso peggiore che le toccasse alloggiare le truppe, per salvarlo. Alle ripetute, insistenti preghiere dello straniero che, in quelle circostanze, si aiutasse almeno la sua famiglia mandando dei viveri, prese dalle mani della figlia la cesta e, porgendole al ragazzo, gli disse di andare allo Stagno dei Gabbiani, nella foresta vicina, e consegnarlo alla famiglia dell'ufficiale straniero, che vi si trovava. L'ufficiale, avrebbe dovuto riferire, stava bene; amici dei bianchi, i quali, per il partito che avevano preso, erano anch'essi esposti ai maltrattamenti dei negri, l'avevano accolto per compassione in casa loro. Non appena la strada maestra fosse stata sgombra dalle bande di negri armati che si stavano aspettando, concluse, si sarebbero prese le misure opportune per offrire anche alla famiglia un rifugio in quella casa.
"Hai capito?", domandò, quando ebbe finito. Il ragazzo, mettendosi il paniere sulla testa, rispose che conosceva benissimo lo Stagno dei Gabbiani di cui aveva parlato, perché, di tanto in tanto, ci andava a pescare con i compagni; e avrebbe riferito tutto, così come gli era stato detto, alla famiglia del signore straniero che vi era accampata.
Lo straniero, alla domanda della vecchia se avesse ancora qualcosa da aggiungere, si tolse dal dito un anello e lo porse al ragazzo, perché lo consegnasse al signor Strömli, il capofamiglia, per attestare che le cose da lui riferite rispondevano a verità. Poi la madre si occupò di vari preparativi diretti, come diceva, alla sicurezza del forestiero; ordinò a Toni di chiudere le imposte alle finestre e, per fugare le tenebre scese nella stanza, accese lei stessa un lume, con un acciarino che si trovava sulla mensola del camino: ma dovette trafficare un po', perche l'esca non voleva prendere. Lo straniero approfittò di quel momento per mettere dolcemente il braccio intorno alla vita di Toni, e sussurrarle all'orecchio se aveva dormito bene, e se egli non dovesse mettere la madre al corrente di quanto era avvenuto. Ma alla prima domanda Toni non rispose, e alla seconda, sciogliendosi dal suo braccio, disse: "No! Se mi amate, non una parola!"; represse l'angoscia che suscitavano in lei quei subdoli preparativi e, col pretesto di preparare la colazione al forestiero, scese di corsa nella stanza di soggiorno.
Prese dall'armadio della madre il biglietto con il quale il forestiero, ignaro, aveva invitato la famiglia a seguire il ragazzo nella piantagione, e decise di giocare il tutto per tutto, sperando che la madre non lo cercasse: risoluta, nel peggiore dei casi, a morire con lui, volò con il biglietto dietro al ragazzo, che si era già incamminato per la strada maestra. Poiché, davanti a Dio e al suo cuore, quel giovane non era più un semplice ospite, al quale aveva concesso protezione e rifugio, ma era il suo promesso sposo; ed era disposta, non appena il partito di lui fosse stato abbastanza forte nella casa, a confessarlo senza ritegno alla madre, anche se prevedeva, in circostanze simili, la sua costernazione.
"Nanky", disse senza fiato, quando ebbe raggiunto di corsa il ragazzo sulla strada maestra, "mia madre ha cambiato il suo piano, a proposito della famiglia del signor Strömli. Prendi questo foglio! È indirizzato al signor Strömli, il vecchio capofamiglia, e lo invita a passare qualche giorno nella nostra piantagione, con tutti quelli che sono con lui. Sii sveglio, e vedi anche tu di fare tutto il possibile per convincerli; al suo ritorno il negro Congo Hoango ti ricompenserà".
"Va bene, Toni, va bene", rispose il ragazzo. E, messo in tasca il biglietto, dopo averlo piegato con cura, domandò: "E devo fare da guida al loro gruppo, quando verranno qui?".
"Certo", rispose Toni, "si capisce, perché non conoscono la zona. Ma, dato che sulla strada maestra potrebbero esserci dei movimenti di truppe, non ti metterai in cammino per venire qui prima di mezzanotte; allora, però, dovrai sbrigare, per arrivare qui prima che faccia giorno. Posso aver fiducia in te?".
"Fidati di Nanky!", rispose il ragazzo. "Lo so, perché volete attirare questi fuggiaschi bianchi nella piantagione. Congo Hoango sarà contento dl me!"
Poco dopo, Toni portò la colazione allo straniero; e, quando ebbe sparecchiato, madre e figlia ritornarono nel soggiorno per sbrigare le loro faccende. Dopo un po', com'era inevitabile, la madre si avvicinò all'armadio e, naturalmente, non trovò il biglietto. Per un attimo, poco sicura della sua memoria, si passò la mano sulla fronte, e domandò a Toni dove potesse aver posato il foglio che lo straniero le aveva dato. Dopo una breve pausa, in cui fissò il pavimento, Toni rispose che, per quanto sapeva, lo straniero se l'era rimesso in tasca e di sopra, in camera sua, l'aveva stracciato davanti a loro. La madre guardò la ragazza con gli occhi spalancati, disse che si ricordava benissimo di aver preso il foglio dalle sue mani, e di averlo messo nell'armadio; ma, poiché, dopo averlo cercato a lungo invano, non lo trovò, e non si fidava della propria memoria, non essendo la prima volta che le capitava una cosa del genere, non le restò alla fine che prestar fede a quanto aveva detto la figlia. Non riusciva però a nascondere il suo disappunto per la circostanza perché il biglietto, diceva, sarebbe stato della massima importanza per il negro Hoango, per attirare la famiglia nella piantagione.
A mezzogiorno e a sera, quando Toni portò da mangiare allo straniero, la vecchia cercò più volte l'occasione, mentre sedeva, a un angolo della tavola, per intrattenerlo, di domandargli del biglietto; ma Toni fu tanto abile, ogni volta che la conversazione si avvicinava a quel punto pericoloso, da sviarlo o confonderla; così che la madre dalle parole del forestiero non riuscì in alcun modo ad appurare che fine avesse fatto il foglio. Intanto la giornata passò. La madre, dopo cena, chiuse a chiave per prudenza, come disse, la camera dello straniero e, dopo aver ancora riflettuto, insieme a Toni, a uno stratagemma che le permettesse, il giorno seguente, di venire in possesso di un altro biglietto, andò a riposare, ordinando alla fanciulla di fare altrettanto.
Non appena Toni, che per tutto il giorno aveva aspettato quel momento, ebbe raggiunto la sua stanza e si fu persuasa che la madre aveva preso sonno, mise su una seggiola l'immagine della Santa Vergine che era appesa accanto al suo letto, le si inginocchiò davanti, con le mani giunte, e implorò dal Redentore, il suo divino figliolo, in una preghiera piena di infinito ardore, il coraggio e la fermezza di confessare al giovane al quale si era data tutti i delitti che pesavano sul suo giovane petto. Promise che, per quanto potesse costare al suo cuore non gli avrebbe nascosto nulla, neppure la spietata, orribile intenzione con cui il giorno prima l'aveva attirato in casa; ma, in nome dei passi che aveva già compiuti per la sua salvezza, desiderava che potesse perdonarla, e condurla con sé in Europa, come una moglie fedele. Meravigliosamente rinfrancata da quella preghiera, si alzò, prese la chiave principale, che apriva tutte le stanze della casa, e con essa si avviò lentamente, senza lume, per lo stretto corridoio che attraversava l'edificio, verso la camera dello straniero.
Aprì la stanza piano piano, e si avvicinò al letto, dove lui riposava in un sonno profondo. La luna illuminava il suo volto fiorente, e il vento notturno, entrando attraverso le finestre aperte, giocava con i capelli sulla sua fronte. Si chinò dolcemente su di lui e lo chiamò per nome, aspirando il suo dolce respiro. Ma egli era immerso in un profondo sogno, del quale proprio lei sembrava l'oggetto, perché dalle sue labbra ardenti, che tremavano, udì più volte uscire in un sussurro una parola: "Toni!". Una malinconia che non si può descrivere la prese; non poteva risolversi a strapparlo dai cieli di una soave immaginazione e trascinarlo in basso, in una realtà volgare e dolorosa; e, nella certezza che presto o tardi si sarebbe svegliato da solo, si inginocchiò accanto al letto e coprì di baci la sua cara mano.
Ma chi descriverà il terrore che, pochi istanti dopo, le strinse il cuore, quando ad un tratto, dall'interno del cortile, udì un rumore di uomini, di cavalli e di armi, e fra esso, chiarissima la voce del negro Congo Hoango, che era inaspettatamente ritornato, con tutta la sua banda, dall'accampamento del generale Dessalines! Corse, evitando con cura la luce lunare, che minacciava di tradirla, dietro le tende della finestra, e udì già la madre mettere al corrente il negro di tutto ciò che era avvenuto nel frattempo, e della presenza del fuggiasco europeo nella casa. Il negro ordinò ai suoi, con voce attutita, di fare silenzio nel cortile, e domandò alla vecchia dove fosse in quel momento lo straniero. Lei gli indicò la stanza; e ne approfittò per raccontargli subito lo strano e sorprendente colloquio che aveva avuto con la figlia, a proposito del fuggiasco. Assicurò al negro che la ragazza li tradiva, e che tutto il disegno per impadronirsi di lui minacciava di fallire. Quella canaglia, lei se n'era accorta, al cader della notte si era infilata di nascosto nel suo letto, e c'era ancora, a riposare tranquilla; e probabilmente, se lo straniero non era già scappato, in quel momento lo stava mettendo in guardia, e stava concordando con lui i mezzi per favorire la fuga.
Il negro, che in simili casi aveva già sperimentato la fedeltà della ragazza, rispose: "È mai possibile? Kelly, Omra!", gridò furente. "Prendete le carabine!". E, senza aggiungere una parola, si avviò su per la scala, seguito da tutti i suoi negri, verso la camera dello straniero.
Toni, che per alcuni minuti aveva visto svolgersi sotto i suoi occhi questa scena, restò in piedi, paralizzata in tutte le membra, come se fosse stata colpita da un fulmine. Pensò per un attimo di svegliare lo straniero, ma, da una parte, con il cortile occupato, ogni fuga per lui era impossibile; dall'altra, previde che egli avrebbe impugnato le armi e, data la superiorità dei negri, sarebbe andato immediatamente incontro alla morte sicura. Anzi, la precauzione più spaventosa ch era costretta a prendere era proprio che l'infelice, trovandola in quel momento davanti al suo letto, la ritenesse una traditrice e, invece di dare ascolto ai suoi consigli, sconvolto da un errore che gli toglieva ogni speranza, andasse a gettarsi alla cieca tra le braccia del negro Hoango.
In quei momenti di inesprimibile angoscia l'occhio le cadde su una corda che, per un caso voluto dal cielo, era rimasta appesa alla parete. Dio stesso, pensò afferrandola, l'aveva messa lì per la salvezza sua e dell'amico. Con essa legò le mani e i piedi del giovane, stringendo nodi su nodi; e, dopo aver, senza badare al fatto che si era mosso e si dibatteva, tirato i capi, e averli fissati saldamente ai sostegni del letto, felice di avere ormai in pugno la situazione premette un bacio sulle sue labbra e corse incontro al negro Hoango, che già si sentiva, dal cozzare delle armi, su per la scala. Il negro, che, per quel che riguardava Toni, non credeva ancora al racconto della vecchia, quando la vide uscire dalla camera che gli era stata indicata si fermò, sorpreso e costernato, nel corridoio, con il suo drappello di fiaccole e di armati. "Ah, l'infedele, l'infame!", gridò. E, voltandosi verso Babecan, che aveva fatto qualche passo avanti, verso la porta dello straniero, domandò: "È fuggito?".
Babecan, trovando la porta aperta, tornò indietro come una furia, senza guardare dentro, gridando: "Canaglia! L'ha fatto scappare! Correte, occupate le uscite, prima che arrivi all'aperto!".
"Che c'è?", domandò Toni, guardando con un'espressione di sbalordimento il vecchio e i negri che lo circondavano.
"Che c'è?", rispose Hoango; e afferratola al petto la trascinò verso la stanza.
"Siete impazziti?", gridò Toni, respingendo il vecchio, che restò impietrito alla vista che gli si offriva. "Ecco lo straniero! L'ho legato io al letto, e, per il cielo, non è certo l'azione peggiore della mia vita!". E così dicendo gli volse le spalle e si sedette a un tavolo come se piangesse.
Il vecchio si voltò verso la madre, che stava da un lato, confusa, e disse: "Babecan, che razza di favole mi hai raccontato?".
"Sia ringraziato il cielo", rispose la madre, esaminando con imbarazzo le corde che legavano lo straniero. "Lo straniero è qua, anche se non capisco niente di quello che è successo".
Il negro, rimettendo la sciabola nel fodero, si avvicinò al letto e domandò allo straniero chi fosse, da dove venisse e dove fosse diretto. Ma poiché questi, facendo sforzi spasmodici per liberarsi, non diceva nulla, se non, con espressione di atroce dolore: "Ah, Toni! Toni!", prese la parola la madre, spiegandogli che era uno svizzero, si chiamava Gustavo von der Ried, e veniva da Fort Dauphin, sulla costa, con tutta una famiglia di cani europei, che in quel momento era nascosta in qualche anfratto, vicino allo Stagno dei Gabbiani. Hoango, vedendo che la ragazza era rimasta a sedere, con il capo tristemente appoggiato sulle mani, le si avvicinò, la chiamò la sua cara ragazza, le diede un colpetto sulla guancia e la pregò di perdonargli l'affrettato sospetto di cui l'aveva accusata.
La vecchia, che si era messa anche lei di fronte alla ragazza, puntò i gomiti sui fianchi, scuotendo la testa, e le domandò perché mai avesse legato al letto lo straniero, che non sapeva nulla del pericolo che correva.
Toni, piangendo veramente di dolore e di rabbia, rispose, girandosi di scatto verso la madre: "Perché tu non hai né occhi né orecchi! Perché aveva capito benissimo che pericolo correva! Perché voleva scappare; perché mi aveva chiesto di aiutarlo a fuggire; perché voleva attentare alla tua vita, e senza dubbio, appena fosse stato giorno, se io non l'avessi legato mentre dormiva, avrebbe messo in atto il suo proposito".
Il vecchio accarezzò e calmò la fanciulla, ordinò a Babecan di non parlarne più, e chiamò un paio di tiratori con le carabine, per porre immediatamente in esecuzione la legge in cui era incorso lo straniero.
Ma Babecan gli sussurrò, in modo che gli altri non sentissero: "No, Hoango, per l'amor del cielo!" E, presolo da parte, gli spiegò che lo straniero, prima di essere giustiziato, doveva scrivere un biglietto per attirare la famiglia nella piantagione, perché affrontarla nella foresta sarebbe stato pericoloso.
Hoango, considerando che la famiglia, probabilmente, non era disarmata, approvò il progetto; poiché era troppo tardi per fargli scrivere la lettera nel modo che avevano concertato, mise due sentinelle presso il fuggiasco bianco e, dopo aver di nuovo esaminato, per maggiore sicurezza, le corde e, avendole trovate troppo lente, aver chiamato un paio d'uomini che le stringessero, lasciò con tutti gli altri la stanza, e sulla casa scese a poco a poco il silenzio.
Ma Toni, che solo per finta aveva dato la buona notte al vecchio, il quale le aveva stretto ancora una volta la mano, e si era coricata, non appena vide che nessuno si muoveva più nella casa, si alzò di nuovo, uscì di soppiatto all'aperto, da una porta sul retro, e corse, con un'atroce disperazione nel cuore, su per il sentiero, che sboccava sulla strada maestra, lungo il quale la famiglia del signor Strömli si sarebbe dovuta avvicinare. Gli sguardi pieni di disprezzo che lo straniero le aveva gettato dal suo letto le avevano dolorosamente trapassato il cuore, come pugnalate; al suo amore per lui si mescolava un sentimento di cocente amarezza, e provava un senso di gioia all'idea di morire in quel tentativo che compiva per salvarlo. Preoccupata di non incontrare la famiglia, si appoggiò al tronco di un pino davanti al quale sarebbe dovuta passare, se aveva accettato l'invito, e il primo raggio di luce era appena spuntato all'orizzonte quando secondo gli accordi, udì da lontano, sotto gli alberi della foresta, la voce di Nanky, il ragazzo, che faceva da guida alla compagnia.
Il corteo era composto dal signor Strömli e da sua moglie, che montava un mulo, dai loro cinque figli, due dei quali Adalberto e Goffredo, di diciotto e diciassette anni, camminavano accanto all'animale, di tre servitori e di due cameriere, una delle quali, con un poppante al seno, montava l'altro mulo: in tutto dodici persone, che si avvicinavano lentamente, scavalcando le radici degli alberi che attraversavano il sentiero, al tronco del pino. Toni, senza fare rumore, per non spaventare nessuno, uscì dall'ombra dell'albero e gridò verso il gruppo: "Ferma!".
Il ragazzo la riconobbe subito; e, alla sua domanda dove fosse il signor Strömli, mentre uomini, donne e bambini la circondavano, la presentò con gioia al vecchio capo della famiglia.
"Nobile signore", disse Toni, interrompendo con voce ferma i suoi saluti, "il negro Hoango è ritornato improvvisamente nella piantagione con tutta la sua banda. Adesso non potete entrarci senza il più grande pericolo per la vostra vita; e anche vostro cugino, che per sua sventura vi è stato accolto, è perduto, se non prendete le armi e non mi seguite alla piantagione, per liberarlo dalla prigionia in cui il negro Hoango lo tiene!".
"Dio del cielo!", esclamarono, pieni di spavento, tutti i membri della famiglia; e la madre, che era ammalata e sfinita dal viaggio, cadde dal mulo svenuta. Mentre al richiamo del signor Strömli le cameriere accorrevano ad aiutare la padrona, Toni, tempestata di domande dai giovani, per timore di Nanky chiamò da parte il signor Strömli e gli altri uomini e, senza frenare le sue lacrime di vergogna e di rimorso, raccontò tutto ciò che era avvenuto; quale fosse la situazione nella casa, al momento dell'arrivo del giovane; come il suo colloquio a quattro'occhi con lui l'avesse, in modo del tutto inspiegabile, completamente mutata; ciò che aveva fatto all'arrivo del negro, quasi impazzita per l'angoscia, e come volesse ora mettere in gioco la vita per liberarlo dalla prigionia in cui lei stessa l'aveva gettato.
"Le mie armi!", gridò il signor Strömli, correndo al mulo della moglie e staccandone la carabina; e, mentre si armavano anche Adalberto e Goffredo, i suoi vigorosi figlioli, e i tre bravi domestici, disse: "Il cugino Gustavo ha salvato la vita a più d'uno di noi; adesso tocca a noi fare lo stesso". Aiutò sua moglie, che si era ripresa, a risalire sulla sua cavalcatura, fece legare le mani a Nanky, per precauzione, come a una sorta di ostaggio, fece tornare indietro allo Stagno dei Gabbiani il gruppo delle donne e dei bambini, affidandolo alla protezione del solo Ferdinando, il suo figlio di tredici anni, anch'egli armato, e, dopo aver interrogato Toni, che aveva preso a sua volta un elmetto e una lancia, sul numero dei negri e sulla loro disposizione nel cortile, e averle promesso di risparmiare nell'attacco, per quanto possibile, le vite di Hoango e di sua madre, si mise alla testa del piccolo drappello e, guidato da Toni, si incamminò verso la piantagione.
Toni, quando il gruppo fu entrato cautamente dalla porta posteriore, mostrò al signor Strömli la stanza in cui dormivano Hoango e Babecan; e, mentre il signor Strömli entrava senza fare rumore con i suoi nella casa aperta, e si impadroniva dei fucili dei negri, che erano raccolti in un fascio, sgattaiolò, da una parte, nella scuderia, nella quale dormiva Seppy, il fratellastro di Nanky, un bambino di cinque anni. Nanky e Seppy, figli illegittimi del vecchio Hoango, gli erano infatti, e particolarmente quest'ultimo, la cui madre era morta da poco, assai cari; e poiché, anche nel caso che riuscissero a liberare il giovane prigioniero, la ritirata verso lo Stagno dei Gabbiani, e la fuga di là verso Port-au-Prince, alla quale voleva unirsi, erano ancora esposte a molte difficoltà, Toni aveva pensato, non a torto, che il possesso dei due ragazzi sarebbe stato di grande vantaggio, come una sorta di pegno, alla compagnia, se fosse stata inseguita dai negri. Non vista, riuscì a prendere il bambino dal suo letto, e a portarlo tra le sue braccia, ancora semiaddormentato, nell'edificio principale.
Intanto il signor Strömli con il suo drappello era giunto, più silenziosamente che poteva, sulla porta della camera di Hoango; ma, invece di trovare lui e Babecan a letto, come credeva, li vide in piedi svegliati dal rumore, al centro della stanza, benché seminudi e senza difesa. Impugnando la carabina, il signor Strömli gridò che si arrendessero, o erano morti! Ma Hoango, per tutta risposta, strappò una pistola dalla parete e fece fuoco nel mucchio, sfiorando alla testa il signor Strömli. Il gruppo dei bianchi, a quel gesto, gli si lanciò addosso con furia; dopo un secondo colpo, che trapassò la spalla a un domestico, Hoango venne ferito da un colpo di sciabola alla mano; egli e Babecan furono gettati a terra e saldamente legati, con alcune corde, alle gambe di un grosso tavolo.
Nel frattempo, svegliati dagli spari, i negri di Hoango, venti e più, si precipitavano fuori dalle scuderie e, sentendo le urla della vecchia Babecan provenire dalla casa, accorrevano furiosi, per riprendere le loro armi. Inutilmente il signor Strömli, la cui ferita era senza importanza, mise la sua gente alle finestre e ordinò di far fuoco su di loro per tenerli a bada; incuranti di due morti già caduti nel cortile, essi stavano per andare a prendere scuri e sbarre di ferro, per scardinare la porta della casa, che il signor Strömli aveva fatto sprangare, quando Toni, tremante, entrò, con il piccolo Seppy in braccio, nella camera di Hoango.
Il signor Strömli, al quale la sua apparizione giungeva a proposito, le strappò il fanciullo, trasse, voltandosi verso Hoango il coltello da caccia e giurò che avrebbe immediatamente ucciso il ragazzo, se egli non avesse gridato ai negri di desistere dal loro proposito. Hoango, il cui vigore era stato spezzato dal colpo alle tre dita della mano, e che, in caso di rifiuto, avrebbe arrischiato la sua stessa vita, rispose, dopo qualche momento di riflessione, facendosi sollevare da terra, che l'avrebbe fatto. Condotto dal signor Strömli, si avvicinò alla finestra, sventolò verso il cortile un fazzoletto che teneva nella sinistra, e gridò ai negri di non toccare la porta, poiché non c'era bisogno di aiuto per proteggere la sua vita, e di tornare nelle scuderie!
Allora la lotta si calmò un poco. Hoango, su richiesta del signor Strömli, mandò un negro catturato nella casa a ripetere il comando ai suoi uomini, che erano rimasti nel cortile a consigliarsi; e, poiché alle parole di quel formale messaggero, per quanto poco capissero della cosa, dovevano obbedire, rinunciarono al loro proposito, per il quale era già tutto pronto, e, sia pure continuando a brontolare e imprecare, ritornarono nelle scuderie.
Il signor Strömli fece legare le mani al piccolo Seppy sotto gli occhi di Hoango e gli disse di non avere altre intenzioni, se non liberare l'ufficiale, suo nipote, dalla prigionia in cui era caduto nella piantagione; se la sua fuga verso Port-au-Prince non fosse stata ostacolata, non avrebbe avuto nulla da temere né per la sua vita né per quella dei suoi figli, che gli sarebbero stati restituiti.
Babecan, alla quale Toni si era avvicinata, e aveva cercato di porgere la mano per dirle addio, con una commozione che non riusciva a reprimere, la respinse da sé con violenza. La chiamò traditrice e infame e, voltandosi dall'altra parte, alla gamba del tavolo dove era legata, le disse che la vendetta di Dio l'avrebbe colpita prima che avesse avuto il tempo di approfittare del suo tradimento.
"Io non vi ho tradito", rispose Toni. "Sono bianca, e fidanzata al giovane che tenete prigioniero; io appartengo alla razza che combattete, e saprò rispondere a Dio, per essermi messa dalla sua parte".
Il signor Strömli mise una sentinella accanto al negro Hoango, che per sicurezza aveva fatto legare di nuovo e attaccare saldamente agli stipiti della porta; fece sollevare e portare fuori il domestico che giaceva a terra, privo di sensi, con la clavicola spezzata, e, dopo aver ancora detto a Hoango che, dopo qualche giorno, avrebbe potuto mandare a prendere i due bambini, Nanky e Seppy, a Sainte-Luce, dove si trovavano i primi avamposti francesi, prese con sé Toni, che, assalita da sentimenti contrastanti, non poteva trattenere le lacrime, e la condusse, fra le maledizioni di Babecan e del vecchio Hoango, fuori dalla stanza.
Intanto Adalberto e Goffredo, i figli del signor Strömli, sin dalla fine del combattimento che aveva avuto luogo alle finestre erano corsi, per ordine del padre, verso la stanza del cugino Gustavo, ed erano riusciti a sopraffare i due negri che lo custodivano, dopo un'ostinata resistenza. Uno giaceva morto nella stanza; l'altro si era trascinato fino al corridoio, con una grave ferita d'arma da fuoco. I fratelli, uno dei quali, il maggiore, era stato ferito, sia pure solo leggermente alla coscia, slegarono il caro cugino, lo abbracciarono e lo baciarono, e lo esortarono esultanti, porgendogli un fucile e le armi, a seguirli nella stanza verso il cortile, dove il signor Strömli, ottenuta ormai la vittoria, probabilmente aveva già disposto ogni cosa per la ritirata.
Ma il cugino Gustavo, sollevatisi sul letto, si limitò a stringere le loro mani con amicizia; restava in silenzio, distratto, e, invece di prendere le pistole che gli porgevano, alzò la destra e se la passò sulla fronte, con un'espressione di inesprimibile dolore. I giovani, che si erano seduti accanto a lui, gli domandarono come stava; e, quando egli li strinse a sé con il braccio, e appoggiò il capo, in silenzio, sulla spalla del più giovane, Adalberto, temendo che stesse per svenire, fece per andare a prendergli un bicchiere d'acqua; ma in quel momento Toni, con il piccolo Seppy in braccio, entrò nella stanza, tenuta per mano dal signor Strömli. A quella vista Gustavo cambiò colore; si afferrò forte, alzandosi, al corpo degli amici, come se stesse per cadere, e, prima che i giovani immaginassero che cosa intendeva fare con la pistola che aveva preso dalle loro mani, digrignando i denti per la rabbia la scaricò contro Toni. Il colpo le attraversò il petto da parte a parte. E quando, con un grido spezzato di dolore, fece ancora qualche passo verso di lui e, dato il fanciullo al signor Strömli, gli cadde ai piedi, egli le gettò addosso la pistola, la respinse con il piede, chiamandola sgualdrina, e si lasciò di nuovo cadere sul letto.
"Sciagurato!", gridarono il signor Strömli e i suoi due figli. I giovani si lanciarono verso la fanciulla, la tirarono su, e chiamarono un vecchio domestico, che in più di un caso disperato aveva prestato alla compagnia i soccorsi di un medico; ma Toni, premendo convulsamente la mano sulla ferita, respinse gli amici e rantolando balbettò: "Ditegli...", indicando lui che l'aveva colpita. E ripeté di nuovo: "Ditegli...".
"Che cosa dobbiamo dirgli?", domandò il signor Strömli, mentre la morte le toglieva la voce.
Adalberto e Goffredo si alzarono, e gridarono all'assassino incomprensibilmente crudele se sapeva che la fanciulla era la sua salvatrice, che lo amava e aveva deciso di fuggire con lui a Port-au-Prince, che gli aveva sacrificato tutto, beni e genitori.
"Gustavo!", gli urlavano nelle orecchie, "Non senti?", scuotendolo e tirandolo per i capelli; ma lui, insensibile, restava disteso sul letto, senza badare a loro.
Alla fine si tirò su. Gettò uno sguardo alla fanciulla, che si torceva nel proprio sangue, e il furore che aveva provocato il suo gesto cedette istintivamente a un moto di comune pietà. Il signor Strömli, piangendo nel fazzoletto a calde lacrime, gli domandò: "Sventurato, perché l'hai fatto?". Gustavo si alzò dal letto, si asciugò il sudore dalla fronte, guardò la fanciulla e rispose che l'aveva legato, di notte, a tradimento e consegnato al negro Hoango.
"Ah!", gridò Toni, e, con uno sguardo indescrivibile, tese la mano verso di lui. "Amore mio, ti ho legato, perché...". Ma non poté parlare, né raggiungerlo con la mano; d'un tratto le forze le vennero meno, e ricadde in grembo al signor Strömli.
"Perché?", domandò Gustavo, pallido, inginocchiandosi accanto a lei.
Dopo una lunga pausa, rotta soltanto dal rantolare di Toni, durante la quale sperarono invano in una sua risposta, prese la parola il signor Strömli, e disse: "Perché, dopo l'arrivo di Hoango, non c'era altro mezzo per salvarti, infelice; voleva evitare il combattimento in cui ti saresti certamente gettato, e guadagnare tempo finché noi, che già, grazie al suo piano, ci stavamo avvicinando, potessimo liberarti con le armi in pugno".
Gustavo si portò le mani al viso. "Oh!", esclamò, senza alzare gli occhi, e credette che la terra gli sprofondasse sotto i piedi. "È vero ciò che dite?". Le circondò il corpo con le braccia e, con il cuore penosamente straziato, la guardò in volto
"Ah", gridò Toni, e furono le sue ultime parole, "non avresti dovuto diffidare di me!". Ed esalò la sua anima bella.
Gustavo si strappava i capelli. "No", disse, mentre i cugini lo trascinavano lontano dal cadavere, "non avrei dovuto diffidare di te. Perché ti eri fidanzata a me con un giuramento, anche se non ne avevamo fatto parola".
Il signor Strömli allentò gemendo i lacci che stringevano il petto alla fanciulla, ed esortò il domestico, che, con alcuni strumenti poco adatti, era in piedi accanto a lui, a estrarre la palla, la quale, disse, doveva essere penetrata nello sterno. Ma ogni sforzo, come si è detto, fu vano, perché il piombo l'aveva passata da parte a parte, e la sua anima era già fuggita verso astri migliori.
Nel frattempo Gustavo si era avvicinato alla finestra, e mentre il signor Strömli e i suoi figli si consigliavano, piangendo silenziosamente, su che cosa dovessero fare della salma, e se non dovessero chiamare la madre, si fece saltare le cervella con la palla dell'altra pistola. A quel nuovo orribile gesto i parenti si smarrirono del tutto. Corsero a portargli aiuto, ma il cranio dell'infelice era sfracellato e, poiché si era messo in bocca la pistola, il cervello imbrattava le pareti tutto intorno.
Il signor Strömli fu il primo a riprendersi. Poiché dalle finestre penetrava ormai la luce piena del giorno, e giungevano notizie che i negri ricominciavano a mostrarsi nel cortile, non restava altro da fare che pensare senza indugio alla ritirata. I due cadaveri, che non si vollero lasciare in balia della violenza dei negri, furono deposti su un asse; e, ricaricate le carabine, il triste corteo si mosse verso lo Stagno dei Gabbiani. Davanti camminava il signor Strömli, con il piccolo Seppy in braccio; seguivano i due domestici più robusti, che portavano in spalla i cadaveri; il ferito zoppicava dietro, appoggiandosi a un bastone; Adalberto e Goffredo camminavano, con le carabine spianate, ai lati del corteo funebre, che avanzava lentamente. I negri, vedendo che il gruppo era così debole, uscirono con forche e picche dai loro alloggi e fecero mostra di attaccare; ma Hoango, che era stato slegato per precauzione, si fece avanti sui grani esterni e accennò ai suoi di non muoversi. "A Sainte-Luce", gridò al signor Strömli, che era già con i cadaveri sotto il portone carraio. "A Sainte-Luce", rispose questi; e, senza essere inseguito, il corteo uscì all'aperto e raggiunse la boscaglia.
Allo Stagno dei Gabbiani, dove trovarono i familiari, essi scavarono, fra molte lacrime, una fossa per le due salme; e, dopo aver scambiato gli anelli che recavano al dito, le calarono, con silenziose preghiere, nella dimora della pace eterna. Il signor Strömli, cinque giorni dopo, raggiunse felicemente, con la moglie e i figli, Sainte-Luce, dove lasciò, secondo la promessa, i piccoli negri. Poco prima dell'assedio, raggiunse Port-au-Prince, e combatté sulle sue mura per la causa dei bianchi, e quando la città, dopo un'ostinata resistenza, si arrese al generale Dessalines, si salvò con le truppe francesi sulla flotta britannica. La famiglia arrivò così in Europa e, senza ulteriori disgrazie, raggiunse la patria, la Svizzera.
Il signor Strömli acquistò, con il rimanente del suo piccolo patrimonio, un podere nella zona del Righi, e nel 1807 si poteva vedere, tra i cespugli del suo giardino, il cippo da lui eretto in memoria del nipote Gustavo e della sua fidanzata, la fedele Toni.

LA MENDICANTE DI LOCARNO

Ai piedi delle Alpi, presso Locarno, in Alta Italia, sorgeva un vecchio castello, appartenente a un marchese, che ancora oggi, venendo dal San Gottardo, si vede, ridotto in macerie e in rovina: un castello dalle stanze alte e spaziose, in una delle quali una volta, sulla paglia che vi era stata ammucchiata, era stata messa a giacere per compassione, dalla padrona di casa, una vecchia donna malata, che si era presentata alla porta chiedendo l'elemosina. Il marchese, che, di ritorno dalla caccia, entrò distrattamente nella stanza, dove soleva deporre la sua carabina, ordinò irritato alla donna di alzarsi dall'angolo in cui era distesa, e di mettersi dietro la stufa. La donna, tirandosi su, scivolò con la gruccia sul pavimento liscio, e si fece una grave ferita all'osso sacro; tanto che si alzò, bensì, con indicibile sforzo e attraversò di sbieco la stanza, come le era stato prescritto, ma dietro la stufa, fra gemiti e sospiri, si lasciò cadere e spirò.
Alcuni anni dopo, quando il marchese, a causa della guerra e dei cattivi raccolti, si trovava in una brutta situazione finanziaria, venne a trovarlo un cavaliere fiorentino, che, per la sua bella posizione, voleva comperare il castello. Il marchese, che teneva molto all'affare, disse alla moglie di alloggiare l'ospite nella stanza di cui abbiamo parlato, che era vuota, ed era stata arredata splendidamente. Ma quale fu la costernazione della coppia quando il cavaliere, nel bel mezzo della notte, scese in camera loro pallido e turbato, giurando e spergiurando che in quella stanza c'erano gli spiriti, perché qualcosa che era rimasto invisibile allo sguardo si era alzato da un angolo della stanza, con un rumore come di paglia smossa, aveva attraversato di sbieco la stanza, con passi lenti e interrotti, ma ben udibili, e si era lasciato cadere, fra gemiti e sospiri, dietro la stufa.
Il marchese, spaventato, egli stesso non sapeva bene perché, canzonò il cavaliere con simulata allegria, e disse che si sarebbe alzato immediatamente e, per sua tranquillatà, avrebbe trascorso la notte con lui in quella stanza. Ma il cavaliere lo pregò, per cortesia, di consentirgli di pernottare nella sua camera da letto, su una poltrona, e, quando venne il mattino, fece attaccare i cavalli, si congedò e partì.
L'incidente, che destò grande scalpore, scoraggiò, con estremo disappunto del marchese, molti compratori. E poiché tra i suoi stessi domestici si diffondeva, in modo strano e incomprensibile, la voce che in quella stanza, a mezzanotte, si muovessero gli spiriti, egli, per metterla decisamente a tacere una volta per tutte, un giorno decise di esaminare egli stesso la cosa la notte seguente. All'imbrunire fece dunque portare il suo letto in quella stanza, e attese senza dormire la mezzanotte. Ma quale fu il suo sgomento quando in effetti, allo scoccare dell'ora degli spiriti, percepì l'incomprensibile rumore; era come se un essere umano si alzasse dalla paglia, che frusciava sotto di lui, attraversasse di sbieco la stanza e si lasciasse cadere, fra rantoli e lamenti, dietro la stufa.
La marchesa, il mattino seguente, gli domandò, appena fu sceso, come si fosse svolta la sua indagine. E, quando egli si guardò intorno, con occhiate incerte e timorose, e, dopo aver chiuso a chiave la porta, le assicurò che i fantasmi c'erano davvero, lei si spaventò come non le era mai successo in vita sua e lo pregò, prima di divulgare il fatto, di tentare un'altra prova, a mente fredda, in sua compagnia. Ma la notte successiva, insieme a un fedele domestico che avevano portato con sé, udirono ancora una volta lo stesso incomprensibile, spettrale rumore. Solo il pressante desiderio di sbarazzarsi del castello a qualunque costo poté far loro reprimere, in presenza del domestico, il terrore che li prese, e attribuire l'incidente a una causa qualsiasi, indifferente e fortuita, che prima o poi si sarebbe scoperta.
La sera del terzo giorno, quando entrambi, per venire a capo della cosa, salirono di nuovo, con il cuore che batteva, la scala della camera degli ospiti, il loro cane da guardia, che era stato sciolto dalla catena, si trovò per caso davanti alla porta; tanto che i due, senza dirlo esplicitamente, forse con l'intenzione istintiva di avere con sé un terzo essere vivente, fecero entrare il cane nella stanza.
La coppia, due candele sul tavolo, la marchesa senza spogliarsi, il marchese tenendo accanto a sé la spada e le pistole che aveva preso da un armadio, si siede, verso le undici, ognuno sul proprio letto; e, mentre cercano di passare il tempo come possono, facendo conversazione, il cane si corica in mezzo alla stanza, testa e gambe acciambellate, e si addormenta. A mezzanotte in punto, l'orribile rumore si fa udire di nuovo; qualcuno che nessun occhio umano può vedere si alza sulle grucce, nell'angolo della stanza; si sente la paglia frusciare sotto di lui; e al primo passo, tap!, tap!, il cane si sveglia, drizza le orecchie, si solleva di colpo dal pavimento e, ringhiando e abbaiando, proprio come se un essere umano venisse passo passo verso di lui, indietreggia verso la stufa. A quella vista la marchesa, con i capelli ritti, si precipita fuori dalla stanza e, mentre il marchese, afferrata la spada, grida: "Chi è là?" e, poiché nessuno risponde, mena fendenti in aria come un pazzo, in tutte le direzioni, dà ordine di attaccare i cavalli, decisa a partire immediatamente per la città. Ma, prima che, radunati alcuni bagagli, esca dal portone con fracasso, vede il castello tutto avvolto dalle fiamme. Il marchese, sopraffatto dall'orrore, aveva preso una candela e, stanco della vita, aveva appiccato il fuoco ai quattro angoli dell'edificio, interamente rivestito di legno. Invano la marchesa mandò gente dentro, a salvare l'infelice: era già perito nel modo più miserando, e ancora oggi le sue bianche ossa, raccolte dai contadini, giacciono nell'angolo della stanza dal quale egli aveva fatto alzare la mendicante di Locarno.

IL TROVATELLO

Antonio Piachi, facoltoso mediatore romano di terreni, era costretto di tanto in tanto dai suoi commerci a intraprendere lunghi viaggi, durante i quali lasciava di solito a casa Elvira, la giovane moglie, sotto la protezione dei parenti di lei. Uno di questi viaggi lo condusse, con il figlio Paolo, un ragazzo di undici anni, nato dalla sua prima moglie, a Ragusa. Ora, avvenne che laggiù fosse appena scoppiata un'epidemia, che spargeva gran terrore in città e nei dintorni. Piachi, che ne aveva avuto notizia solo durante il viaggio, si fermò nei sobborghi, per informarsi sulla sua natura. Ma, quando udì che il morbo si faceva di giorno in giorno più pericoloso, e si pensava di chiudere le porte della città, l'angoscia per il figlio prevalse su ogni interesse commerciale: si procurò dei cavalli e ripartì.
Giunto in aperta campagna, notò accanto alla carrozza un fanciullo che tendeva le mani verso di lui, come se implorasse, e sembrava in preda a una forte agitazione. Piachi ordinò di fermare. Quando gli fu chiesto che cosa volesse, il fanciullo rispose candidamente che aveva la peste e che i birri lo inseguivano, per portarlo all'ospedale, dove erano già morti suo padre e sua madre; pregò per tutti i santi che lo prendesse con sé e non lo lasciasse morire in città, e con queste parole afferrò la mano del vecchio, la strinse, la baciò e la coperse di lacrime. Piachi, nel primo impulso del terrore, fece per spingere lontano da sé il ragazzo; ma poiché egli, proprio in quel momento, cambiò colore e cadde al suolo svenuto, il buon vecchio si mosse a compassione: smontò, con il figlio, adagiò il ragazzo nella carrozza e proseguì con lui, anche se non aveva la più pallida idea di che cosa dovesse farne.
Stava ancora discutendo con i locandieri, alla prima tappa, sul modo per liberarsene, quando, per ordine della polizia, che aveva ricevuto una soffiata, venne arrestato e ricondotto sotto scorta a Ragusa, insieme a suo figlio e a Nicolò, come si chiamava il fanciullo malato. Tutte le rimostranze di Piachi contro la crudele di quel procedimento furono inutili; arrivati a Ragusa, essi furono consegnati a un poliziotto e portati tutti e tre all'ospedale, dove Piachi, bensì, restò sano, e Nicolò, il fanciullo, si ristabilì, ma Paolo, il suo figliolo di undici anni, contagiato da lui, in tre giorni morì.
Quando le porte vennero riaperte Piachi, seppellito il figliolo, ottenne dalla polizia il permesso di partire. Era appena salito in carrozza, prostrato dal dolore, e, scorgendo accanto a sé il posto vuoto, aveva tirato fuori il fazzoletto per dare sfogo alle lacrime, quando Nicolò, con il berretto in mano, si avvicinò alla carrozza e gli augurò buon viaggio. Piachi si sporse dal finestrino e gli domandò, con la voce rotta da violenti singhiozzi, se voleva fare il viaggio con lui.
"Oh sì, molto volentieri!", disse il ragazzo annuendo, non appena ebbe compreso le parole del vecchio. E poiché i responsabili dell'ospedale, quando il commerciante chiese se al ragazzo era permesso partire con lui, l'assicurarono, sorridendo, che era un figlio di Dio, e nessuno ne avrebbe sentito la mancanza, Piachi lo fece salire, con grande commozione, nella carrozza e lo portò con sé a Roma, al posto di suo figlio.
Per via, davanti alle porte della città, il commerciante guardò per la prima volta con attenzione il ragazzo. Era di una bellezza strana, un po' fissa; i capelli neri gli ricadevano sulla fronte in ciocche lisce, ombreggiando un volto serio e intelligente, che non mutava mai espressione. Il vecchio gli rivolse parecchie domande, alle quali egli diede solo brevi risposte; taciturno e raccolto in se stesso, se ne stava seduto nell'angolo, con le mani in tasca, contemplando, con occhi timidi e pensierosi, le cose che correvano via a lato della carrozza. Di tanto in tanto, con gesti lenti e silenziosi, prendeva una manciata di noci da una borsa che aveva con sé e, mentre Piachi si asciugava le lacrime, le metteva fra i denti e le spezzava.
A Roma Piachi lo presentò, con un breve racconto di ciò che era accaduto, a Elvira, la sua giovane e brava moglie, che non poté fare a meno di piangere calde lacrime, pensando a Paolo, il piccolo figliastro, al quale aveva voluto molto bene; tuttavia strinse al petto Nicolò, che stava davanti a lei tutto rigido e spaesato, gli assegnò per riposare il letto in cui l'altro aveva dormito e gli regalò tutti i suoi vestiti. Piachi lo mandò a scuola, dove imparò a leggere, scrivere e far di conto, e poiché, come è facile comprendere, si era affezionato al ragazzo in proporzione di quanto gli era costato, lo adottò come figlio, con l'assenso della buona Elvira, che non poteva più sperare di avere dei figli dal vecchio, già poche settimane dopo. In seguito, licenziò un impiegato, del quale era scontento per varie ragioni e, messo Nicolò al suo posto nell'ufficio, ebbe la gioia di vedere che amministrava nel modo più energico e vantaggioso la sua vasta e complicata rete d'affari.
Il padre, nemico giurato di ogni bigotteria, non aveva nulla da rimproverargli, se non la sua assiduità presso i frati del convento dei Carmelitani, i quali dimostravano al giovane, a causa del notevole patrimonio che un giorno gli sarebbe toccato, con l'eredità del vecchio, grande affetto e favore; e nulla la madre, da parte sua, se non un'inclinazione per il sesso femminile, che, così le sembrava, si era destata precocemente nel suo animo. Già a quindici anni, infatti, in occasione di una delle sue visite ai frati, era stato vittima delle seduzioni di una certa Saveria Tartini, concubina del loro vescovo; e, benché avesse subito rotto, costretto dalla severa richiesta del vecchio, quella relazione, Elvira aveva svariate ragioni per credere che la sua continenza, su quel pericoloso terreno, non fosse delle maggiori.
A vent'anni, tuttavia, Nicolò sposò Costanza Parquet, una giovane e graziosa genovese, nipote di Elvira, che, affidata alle sue cure, era stata educata a Roma; e così almeno il secondo dei mali parve bloccato alla radice. Entrambi i genitori, ormai, erano contenti di lui e, per dargliene una prova, arredarono splendidamente la sua abitazione, per la quale gli assegnarono una parte considerevole della loro bella e spaziosa dimora. Raggiunti i sessant'anni, infine, Piachi fece l'ultimo e massimo gesto che poteva fare per lui: gli intestò per via legale tutto il patrimonio investito nel suo commercio di terreni, eccettuato un piccolo capitale che tenne per sé, e si ritirò dagli affari, insieme alla buona e fedele Elvira, che aveva poche aspirazioni mondane. Nel carattere di Elvira c'era una silenziosa inclinazione alla tristezza, che le era rimasta da un episodio toccante che risaliva alla storia della sua puerizia. Suo padre, Filippo Parquet, facoltoso tintore genovese, abitava una casa che, come richiedeva la sua attività, dava, con la parte posteriore, sul mare, a filo dei grandi blocchi quadrati dell'argine; grandi travi, dalle quali pendevano i panni colorati, uscivano dal sottotetto e sporgevano per molte braccia sul mare sottostante. Una volta, in una notte infausta, la casa prese fuoco e, come se fosse stata fatta di pece e di zolfo, le fiamme crepitarono contemporaneamente in tutte le stanze dei vari piani; terrorizzata dalle vampate, la tredicenne Elvira, scappando di scala in scala, si trovò, senza sapere lei stessa come, su una di quelle travi. La povera fanciulla, sospesa fra cielo e terra, non sapeva come salvarsi; dietro di lei bruciava il solaio e le fiamme, frustate dal vento, avevano già attaccato la trave; sotto di lei, l'orrida distesa del mare deserto. Voleva già raccomandarsi a tutti i santi e, scegliendo il minore dei mali, saltare tra i flutti, quando, tutto a un tratto, un giovane genovese di famiglia patrizia apparve sull'apertura del solaio, gettò il suo mantello sulla trave, la abbracciò stretta e, con un'abilità non minore del suo coraggio, si lasciò scivolare in mare con lei lungo uno dei panni umidi che pendevano dalla trave. Qui furono raccolti dalle gondole che si trovavano nel porto e sbarcati a riva fra l'esultanza della popolazione; ma, poco dopo, si vide il giovane eroe, che prima, attraversando la casa, era stato gravemente ferito al capo da una pietra staccatasi dal cornicione, accasciarsi al suolo privo di sensi. Lo portarono nel palazzo del marchese, suo padre, il quale, poiché tardava a rimettersi, fece venire medici da ogni parte d'Italia, che più volte gli trapanarono il cranio, per estrargli dei frammenti d'osso dal cervello. Ma, per un imperscrutabile decreto del cielo, ogni rimedio fu vano; raramente si rianimava, tenendo la mano di Elvira, che la madre di lui aveva chiamato per assisterlo; e, dopo tre anni di cure dolorosissime, durante i quali la ragazza non si mosse dal suo fianco, le porse ancora una volta, gentilmente, la mano, e spirò.
Piachi, che aveva rapporti d'affari con la famiglia del marchese, aveva conosciuto Elvira laggiù, quando lo assisteva, e due anni dopo l'aveva sposata; ma si guardava dal nominarlo davanti a lei, o di ricordarglielo in qualunque modo, ben sapendo come il suo animo affettuoso e sensibile ne venisse sconvolto. La minima occasione che le ricordasse, anche solo da lontano, il tempo in cui quel giovane aveva sofferto ed era morto per lei la commuoveva sempre fino alle lacrime, e allora non c'era più modo di consolarla e di calmarla: dovunque fosse, si appartava, senza che nessuno la seguisse, perché si era già fatta la prova che ogni altro rimedio era vano, se non lasciarla sfogare piangendo il suo dolore in solitudine.
Nessuno, all'infuori di Piachi, conosceva la causa di quelle strane e frequenti commozioni, perché neppure una volta in vita sua le era venuta alle labbra una parola su quell'avvenimento; erano abituati ad attribuirle all'eccitabilità del suo sistema nervoso, in conseguenza di una violenta febbre che l'aveva colpita subito dopo il matrimonio; e così venne a cessare ogni ulteriore indagine sulle sue cagioni.
Una volta Nicolò, insieme a quella Saveria Tartini con la quale, a dispetto del divieto paterno, non aveva mai del tutto interrotto la relazione, si recò di nascosto, senza che la moglie lo sapesse, con la scusa di essere stato invitato a casa di un amico, al Carnevale; e ritornò a tarda notte, quando tutti dormivano, indossando un costume, che aveva scelto a casaccio, da nobile genovese. Avvenne che il vecchio, improvvisamente, si sentisse poco bene ed Elvira, in mancanza delle domestiche, si alzasse per aiutarlo e andasse nella sala da pranzo a prendergli l'ampollina dell'aceto. Aveva appena aperto la credenza, che si trovava nell'angolo, e stava frugando, in piedi, sull'orlo di uno sgabello, tra bicchieri e caraffe, quando Nicolò aprì cautamente la porta e, con un lume che aveva acceso nell'anticamera, il cappello piumato, il mantello e la spada, attraversò la sala.
Ignaro, senza vedere Elvira, si avvicinò alla porta che dava nella sua camera da letto; e si era appena accorto, con un tuffo al cuore, che era chiusa a chiave, quando, alle sue spalle, Elvira lo vide e, con i bicchieri e le boccette che aveva in mano, cadde, come se fosse stata colpita da un fulmine invisibile, dallo sgabello sul pavimento di legno. Nicolò, pallido per lo spavento, si volse e fece per correre in aiuto della poverina. Ma, poiché il rumore causato dalla caduta non poteva non far accorrere il vecchio, il timore dei suoi rimproveri soffocò ogni altro riguardo: le strappò in fretta dal fianco, tutto agitato, il mazzo di chiavi che portava, ne trovò una che apriva, gettò il mazzo in mezzo alla stanza e sparì.
Poco dopo, quando Piachi, per quanto indisposto, era saltato giù dal letto e l'aveva tirata su, e anche domestici e fantesche, chiamati dalle sue scampanellate, erano accorsi con le candele, venne anche Nicolò, in vestaglia, e domandò che cosa fosse successo; ma poiché Elvira, con la lingua paralizzata dal terrore, non era in condizione di parlare, e solo egli stesso, all'infuori di lei, avrebbe potuto dare una risposta a quella domanda, come si fossero svolte le cose restò per sempre un mistero. Elvira, che tremava in tutte le membra, venne messa a letto, e vi rimase parecchi giorni, in preda a una violenta febbre; ma, con il naturale vigore della sua costituzione, superò l'incidente e si riprese abbastanza bene, anche se le rimase una strana malinconia.
Trascorse un anno. Costanza, la moglie di Nicolò, partorì e, durante il puerperio, morì insieme al bimbo che aveva messo al mondo. L'evento, di per sé increscioso, perché rapiva una creatura educata e virtuosa, lo era doppiamente, perché riapriva le porte alle due passioni di Nicolò, la bigotteria e le donne. Dal mattino alla sera, con il pretesto di cercare consolazione, se ne stava nelle celle dei Carmelitani, benché fosse noto che alla moglie, quando era viva, non aveva dimostrato che scarso affetto e fedeltà. Costanza non era ancora sotto terra, e già Elvira entrando di sera in camera sua, per occuparsi dell'imminente sepoltura, trovò presso di lui una ragazza in gonnella corta e con il trucco, che conosceva anche troppo bene come la cameriera di Saveria Tartini. Elvira, a quella vista, abbassò gli occhi, si volse, senza dire una parola, e lasciò la stanza. Né Piachi né nessun altro seppe mai nulla di quell'incontro; a lei bastò inginocchiarsi e piangere, con il cuore oppresso, accanto alla salma di Costanza, che aveva molto amato Nicolò.
Ma avvenne che, per caso, Piachi, il quale era stato in città rincasando incontrasse la ragazza e, avendo subito capito che cosa era venuta a fare, la investisse con veemenza e, un po' con l'astuzia, un po' con la forza, le facesse consegnare il biglietto che aveva con sé. Salì, per leggerlo, in camera sua, e vi trovò, come aveva previsto, l'ardente preghiera di Nicolò a Saveria di fargli sapere il luogo e l'ora dell'incontro che desiderava. Piachi sedette, e rispose, contraffacendo la scrittura, a nome di Saveria: "Subito, prima di notte, nella chiesa della Maddalena". Poi chiuse il biglietto con un sigillo non suo e lo fece recapitare, come se venisse da quella signora, nella stanza di Nicolò.
Il disegno riuscì perfettamente. Nicolò prese subito il mantello e, dimentico di Costanza, esposta nella bara, uscì di casa. Allora Piachi, profondamente indignato, disdisse le esequie solenni fissate per il giorno seguente, fece sollevare la salma, così com'era, da alcuni becchini e, accompagnata soltanto da Elvira, da lui stesso e da alcuni parenti, la fece portare in silenzio nella cripta della chiesa della Maddalena, che era stata preparata per lei.
Nicolò, il quale, avvolto nel mantello, era in piedi sotto la navata, vide con stupore avvicinarsi quel corteo funebre a lui ben noto, e domandò al vecchio, che seguiva la bara, che cosa significasse tutto ciò, e chi venisse trasportato. Ma lui, con il messale in mano, rispose soltanto, senza alzare il capo: "Saveria Tartini", e la salma, come se Nicolò non ci fosse stato, fu ancora una volta scoperta, benedetta dai presenti e infine calata e richiusa nella cripta.
L'episodio, che l'aveva coperto di vergogna, destò nel petto dello sventurato un odio cocente per Elvira, poiché a lei credeva di essere debitore dell'offesa che il vecchio gli aveva fatto davanti a tutti. Per molti giorni Piachi non gli rivolse la parola. Ma poiché Nicolò, a causa dell'eredità di Costanza, aveva bisogno del favore e della benevolenza del vecchio, si vide costretto a prendergli, una sera, la mano, e a promettergli, con espressione contrita, di rompere immediatamente e per sempre ogni rapporto con Saveria. Ma era assai poco propenso a mantenere la promessa e, anzi, la resistenza che gli si opponeva non faceva che acuire la sua ostinazione, e renderlo più scaltro nell'arte di eludere la vigilanza dell'onesto vecchio.
Elvira, al tempo stesso, non gli era mai parsa così bella come nel momento in cui aveva, per sua mortificazione, aperto e richiuso la stanza in cui si trovava la ragazza. Lo sdegno, accendendo le sue guance di un soave rossore, aveva dato al suo viso dolce, raramente agitato dalle emozioni, un fascino infinito. Gli sembrava incredibile che, con tali attrattive, non azzardasse lei stessa, di tanto in tanto, il piede sul sentiero fiorito sul quale egli si stava incamminando, quando era stato da lei così ignominiosamente punito. Se era così, bruciava dal desiderio di renderle, presso il vecchio, lo stesso servizio che aveva ricevuto da lei, e non cercava né aveva bisogno d'altro, se non dell'occasione di mettere in atto il suo proposito.
Un giorno passava, in un momento in cui Piachi era assente, davanti alla camera di Elvira e, con stupore, udì qualcuno parlare. Attraversato da un improvviso brivido di maligna speranza chinò occhi e orecchi alla serratura e, cielo!, che cosa vide? Lei era là, ai piedi di qualcuno, con un'espressione rapita, e benché non potesse scorgere chi fosse, udì sussurrare, nettissima, pronunciata con l'inconfondibile accento dell'amore, la parola: "Colino".
Con il cuore che gli batteva, si mise nel vano della finestra del corridoio, dal quale poteva sorvegliare l'uscio della stanza senza tradire le sue intenzioni; e già credeva, a un leggerissimo rumore che veniva dalla serratura, giunto il momento inestimabile in cui avrebbe potuto smascherare la santerellina, quando, invece dello sconosciuto che attendeva, Elvira stessa, senza che nessuno la seguisse, uscì gettandogli da lontano uno sguardo del tutto calmo e indifferente, dalla stanza. Aveva sottobraccio una pezza di tela tessuta in casa; e, dopo aver chiuso la stanza con una chiave che portava al fianco, cominciò a scendere tranquillamente la scala, con la mano appoggiata alla ringhiera.
Quella dissimulazione, quell'apparente indifferenza gli sembrò il culmine dell'impudenza e della perfidia. Non appena l'ebbe persa di vista, corse a prendere una chiave generale e, dopo aver gettato a destra e a manca alcune occhiate timorose, aprì con precauzione la porta della stanza. Ma quale fu il suo sbalordimento quando trovò tutto vuoto e, frugando in ogni angolo, non trovò nulla di simile a un uomo, se non il ritratto di un giovane aristocratico, in grandezza naturale collocato in una nicchia della parete, dietro una cortina di seta rossa, illuminato da una lampada che aveva davanti. Nicolò ne fu spaventato, non sapeva egli stesso perché. Di fronte ai grandi occhi del ritratto, che lo fissavano, una quantità di pensieri gli attraversarono il petto; ma, prima che avesse il tempo di raccoglierli e ordinarli, lo prese la paura di essere scoperto e punito da Elvira; richiuse, assai turbato, la porta, e si allontanò.
Quanto più ripensava allo strano caso, tanto più cresceva ai suoi occhi l'importanza del ritratto che aveva scoperto, e tanto più bruciante e dolorosa diveniva la curiosità di sapere a chi si riferisse. L'aveva pur vista in ginocchio, in tutto il suo profilo, ed era più che sicuro che colui dinanzi al quale aveva fatto quel gesto era la figura del giovane cavaliere dipinta sulla tela. Nell'irrequietezza d'animo che si era impadronita di lui, andò da Saveria Tartini e le raccontò la strana esperienza che gli era successa. Costei, che condivideva il suo interesse alla rovina di Elvira, poiché tutti gli ostacoli alla loro relazione venivano da lei, espresse il desiderio di vedere il ritratto collocato nella stanza. Poteva vantarsi, infatti, di molte conoscenze fra i nobili italiani, e se quello di cui si parlava era stato a Roma anche una sola volta in vita sua, ed era persona di una certa importanza poteva sperare di conoscerlo.
Poco tempo dopo, avvenne che i due coniugi Piachi, che volevano far visita a un parente, si recassero, una domenica, in campagna. Non appena Nicolò seppe di avere, in tal modo, campo libero, corse da Saveria e la introdusse, come una signora forestiera, insieme a una figlioletta che aveva avuto dal cardinale, con il pretesto di mostrarle dei quadri e dei ricami, nella stanza di Elvira. Ma quale fu il suo sconcerto quando la piccola Clara (così si chiamava la figlia), non appena egli ebbe tirato la cortina gridò: "Oh Dio, signor Nicolò! Ma quello siete voi!".
Saveria ammutolì. Il ritratto, in effetti, quanto più lo guardava, rivelava un'evidente somiglianza con lui, tanto più se ripensava, e per la sua memoria non era certo difficile, al costume da aristocratico con il quale, non molti mesi prima, l'aveva accompagnata di nascosto al Carnevale. Nicolò cercò di dominare scherzando l'improvviso rossore che gli era salito alle guance, e disse, baciando la piccola: "Oh sì, Claretta, il ritratto mi assomiglia proprio! Come tu a quello che si crede tuo padre!".
Ma Saveria, nell'animo della quale si era destato l'amaro sentimento della gelosia, gli lanciò un'occhiata, disse, mettendosi davanti allo specchio, che dopo tutto era indifferente chi fosse quell'uomo, lo salutò piuttosto freddamente e lasciò la stanza.
Nicolò, non appena Saveria se ne fu andata, ripensò a quella scena con vivissima agitazione. Ricordò, con grande gioia, lo strano e profondo turbamento in cui aveva gettato Elvira con la fantastica apparizione di quella notte. Il pensiero di aver destato la passione di quella donna, che passava per un modello di virtù, lo lusingava quasi quanto era forte il suo desiderio di vendicarsi di lei. E poiché ora gli si apriva la possibilità di soddisfare con un sol colpo l'una e l'altra voglia, attese con impazienza il ritorno di Elvira, e il momento in cui uno sguardo agli occhi di lei avrebbe coronato la sua convinzione, ancora esitante.
Nulla lo turbava, nella vertigine che l'aveva travolto, se non il preciso ricordo che il ritratto davanti al quale Elvira era inginocchiata, quando egli l'aveva spiata dal buco della serratura era stato chiamato da lei con il nome di Colino. Ma anche nel suono di quel nome, che non era affatto comune da quelle parti, c'era qualcosa che, non sapeva per quale ragione, cullava il suo cuore in dolci sogni. E, se doveva diffidare di uno dei due sensi, la vista o l'udito, inclinava naturalmente verso quello che meglio lusingava i suoi desideri.
Elvira ritornò dalla campagna solo parecchi giorni dopo; e poiché, dalla casa del cugino al quale aveva fatto visita, aveva portato con sé una giovane parente, che desiderava vedere Roma, tutta intenta a essere premurosa con lei gettò soltanto uno sguardo distratto e indifferente a Nicolò, che, con grande cortesia, l'aiutava a scendere dalla carrozza. Alcune settimane interamente dedicate all'ospite, che abitava con loro, trascorsero in un'agitazione inconsueta per la casa. Si visitò, dentro e fuori città, tutto ciò che poteva interessare una ragazza giovane e allegra come l'ospite; e Nicolò, il quale, a causa del lavoro che doveva sbrigare in ufficio, non era invitato a prender parte a quelle piccole gite, ricadde, riguardo a Elvira, nell'umore più nero. Ricominciò a pensare, con i sentimenti più amari e lamentosi, allo sconosciuto che lei adorava nella sua devozione segreta; e, la sera della partenza della giovane parente, che aveva atteso tanto a lungo con desiderio, questo sentimento faceva sanguinare più che mai il suo cuore inasprito, perché Elvira, invece di parlare con lui, taceva da più di un'ora, seduta al tavolo da pranzo, occupata da un piccolo lavoro a maglia.
Era avvenuto che Piachi, pochi giorni prima, avesse chiesto di una scatola che conteneva delle piccole lettere d'avorio, che erano servite per insegnare l'alfabeto a Nicolò quando era bambino; il vecchio aveva pensato, poiché ormai non servivano più a nessuno, di regalare a un bambinello del vicinato. La cameriera che era stata incaricata di cercarle, in mezzo a molte altre vecchie cose, non era riuscita a trovare altro che le sei lettere che formavano il nome "Nicolò"; probabilmente perché alle altre, che avevano un rapporto meno diretto con il ragazzo, si era fatta meno attenzione e, in una circostanza qualsiasi, erano state gettate via. Quando Nicolò prese in mano le lettere, che si trovavano sul tavolo da vari giorni, e, con il gomito appoggiato sul desco, si mise a giocherellarci, covando i suoi tetri pensieri, gli venne fuori per caso - egli stesso se ne stupì, quanto non si era mai stupito in vita sua - la combinazione che formava il nome "Colino". Nicolò, che non aveva mai pensato a fare l'anagramma del suo nome, gettò, di nuovo in preda a folli speranze, uno sguardo timido e incerto a Elvira, che sedeva al suo fianco. Il nesso che gli era stato rivelato fra le due parole gli parve più di una semplice coincidenza; rifletté, reprimendo la sua gioia, al significato della strana scoperta, e, levare le mani dalla tavola, aspettò con il cuore in gola il momento in cui Elvira avrebbe alzato gli occhi e scorto il nome, che era là in piena vista.
L'attesa non lo deluse. Non appena Elvira, in un momento d'ozio, ebbe notato la posizione delle lettere, e si fu chinata su di esse, ignara e sopra pensiero, per leggerle, perché era un po' miope, il suo sguardo sfiorò, con una strana angoscia, il volto di Nicolò, che la fissava con apparente indifferenza; riprese il lavoro, con una espressione malinconica che non si può descrivere, e, credendosi inosservata, lasciò cadere in grembo, con un soave rossore, una lacrima, e poi altre ancora. Nicolò, che osservava tutti quei moti dell'animo senza guardarla, non dubitava più che, dietro quella trasposizione di lettere, ella nascondesse il suo nome. La vide scompigliare le lettere, con un gesto soave, e le sue selvagge speranze raggiunsero il culmine della certezza quando lei si alzò, mise da parte il lavoro a maglia e disparve nella sua camera da letto. Voleva già alzarsi e seguirvela, quando entrò Piachi e, alla sua domanda dove fosse Elvira, una cameriera rispose che non si sentiva bene e si era messa a letto. Piachi, senza dimostrare grande turbamento, si volse e andò a vedere che cosa faceva; e quando, un quarto d'ora dopo, ritornò con la notizia che non sarebbe venuta a cena, senza aggiungere altro, Nicolò credette di aver trovato la chiave di tutte le scene enigmatiche di cui era stato testimone.
Il mattino seguente, mentre era occupato a riflettere, con gioia perversa, sull'utilità che sperava di trarre dalla sua scoperta, ricevette un biglietto da Saveria, in cui lei lo pregava di raggiungerla perché aveva qualcosa di interessante da dirgli a proposito di Elvira. Attraverso il vescovo che la manteneva, Saveria era in rapporti strettissimi con i frati del convento dei Carmelitani; e poiché sua madre andava a confessarsi al convento, Nicolò non dubitava che Saveria fosse riuscita a farsi rivelare, sulla storia segreta dei suoi sentimenti, dei particolari che corroborassero le sue innaturali speranze. Ma come fu sgradevolmente strappato, dopo un saluto stranamente beffardo di Saveria, ai pensieri in cui si cullava, quando lei lo fece accomodare sorridendo sul divano su cui era seduta, e gli disse che doveva rivelargli che l'oggetto dell'amore di Elvira era un morto, che già da dodici anni riposava nella tomba. Alvise, marchese del Monferrato, al quale uno zio di Parigi, presso il quale era stato educato, aveva dato il soprannome di "Collin", trasformato poi in Italia, scherzosamente, in "Colino", era l'originale del ritratto che egli aveva scoperto nella nicchia, dietro la tenda di seta rossa, in camera di Elvira: il giovane aristocratico genovese che, durante la sua fanciullezza, l'aveva così nobilmente salvata dalle fiamme, ed era morto per le ferite ricevute in quell'occasione. Ma, aggiunse, lo pregava di non fare uso di quel segreto, che le era stato confidato, sotto il sigillo della più assoluta discrezione, da una persona che non avrebbe avuto il diritto di rivelarglielo, nel convento dei Carmelitani. Nicolò, sul viso del quale si alternavano il pallore e il rossore, l'assicurò che non aveva nulla da temere e, del tutto incapace com'era di nascondere, davanti alle occhiate maliziose di Saveria, l'imbarazzo in cui l'aveva gettato quella rivelazione, addusse il pretesto di un lavoro urgente da sbrigare, prese, con uno sgradevole tremito del labbro superiore, il cappello, la salutò e uscì.
Umiliazione, lussuria e vendetta si unirono allora per covare l'azione più orrenda che sia mai stata compiuta. Egli sentiva che soltanto con l'inganno avrebbe potuto raggiungere l'anima pura di Elvira e non appena Piachi, che si recava in campagna per qualche giorno, gli lasciò libero il campo, si preparò a mettere in opera il piano diabolico che aveva escogitato. Si procurò lo stesso vestito con il quale, pochi mesi prima, era apparso di notte a Elvira, ritornando di nascosto dal Carnevale, indossò mantello, colletto e cappello piumato di foggia genovese, identici a quelli che portava il ritratto, si introdusse di soppiatto, poco prima dell'ora del riposo, in camera di Elvira, coperse con un panno nero il ritratto della nicchia e attese, con il bastone in mano, nella stessa identica posizione del giovane patrizio, l'adorazione di Elvira.
Reso perspicace dalla sua infame passione, aveva fatto bene i suoi calcoli; perché, non appena Elvira, che era entrata poco dopo, quando si fu svestita, con gesti lenti e silenziosi, tirò, come faceva abitualmente, la cortina di seta che chiudeva la nicchia e lo vide, gridò: "Colino! Amore mio!" e cadde svenuta sul pavimento di legno. Nicolò uscì dalla nicchia; restò fermo per un attimo, immerso nella contemplazione della sua bellezza, rimirando la sua dolce figura, che di colpo impallidiva sotto il bacio della morte; ma subito la sollevò, poiché non c'era tempo da perdere, fra le sue braccia, e la portò, dopo aver tirato via il panno nero davanti al quadro, sul letto che stava nell'angolo della stanza. Fatto questo, andò a chiudere a chiave la porta, ma la trovò già chiusa; e, sicuro che, anche quando avesse ripreso i sensi, non avrebbe opposto resistenza alla sua fantastica apparizione, che aveva tutte le apparenze del soprannaturale, ritornò verso il giaciglio e cercò di risvegliarla con baci ardenti sul petto e sulle labbra. Ma la Nemesi, che segue da vicino il delitto, volle che Piachi, che il meschino credeva lontano per parecchi giorni, dovesse ritornare inaspettatamente a casa proprio in quel momento. Egli si avvicinò silenziosamente lungo il corridoio, poiché credeva Elvira già addormentata, e, avendo sempre con sé la chiave, entrò improvvisamente, senza essere annunciato dal minimo rumore, nella stanza.
Nicolò si alzò in piedi, come colpito dal fulmine, si gettò, non potendo mascherare in alcun modo la sua ribalderia, ai piedi del vecchio, e implorò, promettendo che non avrebbe mai più levato gli occhi su sua moglie, il suo perdono. E anche il vecchio era incline a risolvere ogni cosa senza tumulto. Muto, quale l'avevano reso alcune parole di Elvira, che, tra le sue braccia, era tornata in sé, e aveva gettato sul meschino uno sguardo terribile, tirò le cortine del letto sul quale era distesa, staccò dalla parete lo scudiscio, aperse la porta e gli indicò la strada che doveva prendere immediatamente.
Ma questi, in tutto degno di Tartufo, quando vide che per quella via non c'era nulla da ottenere, saltò di colpo in piedi e dichiarò che toccava a lui, al vecchio, lasciare la casa, poiché egli era il legittimo proprietario, in base a documenti pienamente validi, e avrebbe ben saputo far valere i suoi diritti contro chicchessia!
Piachi non credeva ai propri occhi. Disarmato da quell'inaudita impudenza, depose lo scudiscio, prese il cappello e il bastone, corse da un vecchio amico avvocato, il dottor Valerio svegliò una domestica, che venne ad aprire, e, non appena fu entrato in camera dell'amico, cadde svenuto ai piedi del suo letto, prima di aver pronunciato una parola.
Il dottor Valerio, che accolse in casa propria lui e poi anche Elvira, corse, il mattino seguente, a chiedere l'arresto del diabolico furfante, che aveva dalla sua non pochi vantaggi; ma, mentre Piachi muoveva le sue leve inerti, per spogliarlo degli averi che a suo tempo gli aveva intestato, questi, redatto un lascito generale, corse dai suoi amici, i frati Carmelitani, e chiese la loro protezione contro il vecchio pazzo, che voleva cacciarlo. In breve, poiché acconsentì a sposare Saveria, della quale il vescovo voleva sbarazzarsi, la malvagità vinse, e il Governo, per intromissione dell'alto prelato, emanò un decreto con il quale riconfermava la proprietà a Nicolò, e vietava a Piachi di molestarlo.
Piachi, che proprio il giorno prima aveva sepolto Elvira morta per i postumi di una violenta febbre provocata dagli eventi di quella notte, sospinto da un doppio dolore andò a casa con il decreto in tasca e, con la forza che gli dava il suo furore, si gettò su Nicolò, più debole di costituzione, e gli sfracellò la testa contro il muro. La gente di casa se ne accorse soltanto a fatto compiuto; lo trovarono con il capo di Nicolò fra le ginocchia, mentre gli ficcava in bocca il decreto. Fatto questo si alzò consegnò tutte le sue armi, fu messo in prigione, processato e condannato a morte per impiccagione.
Nello Stato della Chiesa vige una legge per la quale nessun colpevole di un delitto può essere messo a morte senza aver ricevuto l'assoluzione. Piachi, quando venne il giorno dell'esecuzione, rifiutò ostinatamente l'assoluzione. Dopo aver esperito invano tutti i mezzi previsti dalla religione per fargli sentire la colpevolezza del suo gesto, sperarono di atterrirlo e indurlo al pentimento con la vista della morte che l'attendeva, e lo condussero al patibolo. Qui c'era un sacerdote che gli descrisse con una voce da Ultimo Giorno, tutti gli orrori dell'Inferno, dove la sua anima stava per discendere, mentre un altro, tenendo in mano l'Ostia consacrata, il santo mezzo di riconciliazione, gli faceva le lodi delle dimore della pace eterna.
"Vuoi tu avere parte del beneficio della redenzione?", chiesero entrambi. "Vuoi ricevere la comunione?".
"No", rispose Piachi.
"Perché no?".
"Non voglio essere beato. Voglio scendere nel fondo più basso dell'Inferno. Voglio ritrovare Nicolò, che non può essere in cielo, e riprendere la mia vendetta, che qui ho potuto soddisfare solo in parte!".
E così dicendo salì la scala e invitò il boia a compiere il suo ufficio. In breve, ci si vide costretti a sospendere l'esecuzione e a riportare in carcere l'infelice, che la legge proteggeva. Per tre giorni consecutivi lo stesso tentativo fu ripetuto, sempre con lo stesso esito. Quando anche il terzo giorno dovette ridiscendere la scala senza essere appeso alla forca, Piachi levò le braccia con espressione truce e maledisse la legge disumana che non voleva farlo andare all'Inferno. Invocò tutta la schiera dei diavoli perché lo prendesse, giurò che il suo unico desiderio era di essere giustiziato e dannato, e assicurò che avrebbe strangolato il primo prete che gli si fosse parato d'innanzi, pur di rimettere le mani su Nicolò all'Inferno!
Quando le sue parole furono riferite al Papa, egli ordinò di giustiziarlo senza l'assoluzione; nessun prete l'accompagnò, e fu impiccato in silenzio sulla Piazza del Popolo.

SANTA CECILIA O LA FORMA DELLA MUSICA
(Leggenda)

Intorno alla fine del XVI secolo, quando nei Paesi Bassi infuriava l'iconoclastia, tre fratelli, giovani studenti a Vittemberga, si incontrarono con un quarto, che faceva il predicatore ad Anversa, nella città di Aquisgrana. Volevano prendere possesso di un'eredità lasciata da un vecchio zio, che nessuno di loro aveva conosciuto, e poiché in città non c'erano altre persone alle quali potessero rivolgersi, alloggiarono in una locanda. Trascorsi alcuni giorni, spesi ad ascoltare il predicatore sugli strani avvenimenti dei Paesi Bassi, avvenne che le monache del convento di Santa Cecilia, che allora sorgeva fuori dalle porte della città, dovessero celebrare solennemente il Corpus Domini; tanto che i quattro fratelli, eccitati dal fanatismo, dalla giovane età e dall'esempio dei Paesi Bassi, decisero di dare anche alla città di Aquisgrana lo spettacolo della distruzione delle immagini sacre. Il predicatore, che più volte aveva già guidato simili imprese, la sera della vigilia radunò un certo numero di giovani studenti e figli di commercianti, devoti alla nuova dottrina, che passarono la notte nella locanda, mangiando e bevendo vino, fra imprecazioni contro il papato; e, quando il sole sorse sui comignoli della città, si munirono di asce e strumenti di distruzione d'ogni genere, per mettere in atto il loro violento proposito. Concordarono esultanti un segno, al quale avrebbero cominciato a tirare sassi contro le vetrate, dipinte con storie della Bibbia e, certi di trovare un grande seguito fra il popolo, si recarono, decisi a non lasciare pietra su pietra, mentre cominciavano a suonare le campane, nella chiesa del convento.
La badessa, che alle prime luci del giorno era stata già informata da un amico del pericolo che sovrastava il monastero, mandò inutilmente più volte dall'ufficiale dell'Impero che aveva il comando della guarnigione, chiedendo un presidio armato che lo proteggesse; l'ufficiale, ostile egli stesso al papato, e come tale favorevole, almeno di nascosto, alla nuova dottrina, le negò il presidio, con il cinico pretesto che dava corpo agli spettri e che per il suo convento non c'era ombra di pericolo.
Venne l'ora in cui la cerimonia doveva cominciare e le monache si accinsero, fra paure e preghiere, nell'attesa angosciosa di ciò che stava per succedere, a dire la messa. Nessuno le proteggeva, all'infuori di un vecchio soprastante settantenne, che si mise, con alcuni servi armati, sul portale della chiesa. Nei conventi femminili le monache, come è noto, abituate a suonare ogni genere di strumenti, eseguono da sé le loro musiche, spesso con una precisione, un'intelligenza e un sentimento che mancano alle orchestre maschili (forse a causa della femminilità di quest'arte misteriosa). Ora avvenne, a raddoppiare la tribolazione, che la maestra di cappella, suor Antonia, che di solito dirigeva le musiche dall'orchestra, si fosse ammalata, pochi giorni prima, di una violenta febbre nervosa, tanto che, anche senza tener conto dei quattro sacrileghi fratelli, che già si scorgevano, avvolti nei mantelli, sotto i pilastri della chiesa, il convento era nel più vivo imbarazzo per eseguire le musiche adatte alla ricorrenza. La badessa, che la sera della vigilia aveva ordinato di eseguire un'antichissima messa italiana, di autore ignoto, con la quale, per la santità e magnificenza della composizione, l'orchestra del convento aveva già diverse volte ottenuto i più grandiosi effetti, più che mai risoluta a perseverare nella decisione mandò ancora una volta a chiedere come stava suor Antonia; ma la monaca incaricata ritornò dicendo che la sorella giaceva del tutto priva di conoscenza, e non si poteva pensare di affidarle la direzione della musica prescelta.
Nel frattempo la chiesa, nella quale si erano radunati a poco a poco più di cento ribaldi di ogni ceto ed età, armati di scuri e di sbarre di ferro, era già stata teatro delle scene più preoccupanti; alcuni servi messi a guardia del portale erano stati scherniti nel modo più volgare, e le monache isolate che erano comparse a più riprese nelle navate, intente alle loro pie occupazioni, erano state prese a bersaglio con gli epiteti più sfrontati e indecenti: tanto che il vecchio soprastante si recò in sacrestia e scongiurò in ginocchio la badessa di sospendere la cerimonia e di recarsi in città, e mettersi sotto la protezione del comandante. Ma la badessa fu irremovibile: la festa indetta a onore e gloria di Dio Onnipotente doveva essere celebrata; richiamò il soprastante al suo dovere di proteggere con il suo corpo e la sua vita la messa e il solenne corteo che avrebbe avuto luogo in chiesa e, poiché suonavano appunto le campane, diede ordine alle monache che la circondavano tremando di prendere un oratorio qualsiasi, non importa di quale valore, e di cominciare subito l'esecuzione.
Le monache, sulla balconata dell'organo, si accingevano a obbedire, lo spartito di una composizione già molte volte eseguita era stato distribuito, violini, oboi e contrabbassi erano accordati, quando d'un tratto suor Antonia, fresca e sana, un po' pallida in volto, apparve in cima alla scala, recando sotto braccio la partitura dell'antichissima messa italiana per la cui esecuzione la badessa aveva insistito tanto. Alla domanda stupita delle suore di dove venisse, e come si fosse improvvisamente ristabilita, rispose: "Non importa, care, non importa!", distribuì gli spartiti che aveva con sé e si sedette all'organo, ardente di entusiasmo, per dirigere la splendida composizione. Allora una sorta di meraviglioso, celeste conforto discese nei cuori delle pie sorelle; si misero immediatamente al leggio, con i loro strumenti, e l'angoscia stessa che le opprimeva venne a sollevare le loro anime, come su ali, nei cieli dell'armonia; la musica dell'oratorio fu suonata in modo stupendo, sublime; durante l'intera esecuzione nelle navate e fra i banchi non si mosse un alito, e soprattutto al "Salve regina" e al "Gloria in excelsis" fu come se la chiesa fosse stata popolata di morti; tanto che, a dispetto dei quattro fratelli sacrileghi e del loro codazzo, non fu neppure sollevata la polvere del pavimento, e il convento restò in piedi fino alla conclusione della guerra dei trent'anni, quando, in base a un articolo della pace di Westfalia, fu nondimeno secolarizzato.
Sei anni dopo, quando questi fatti erano dimenticati da un pezzo, arrivò dall'Aia la madre dei quattro giovani, la quale, dichiarando tristemente che essi erano svaniti nel nulla, avviò un'inchiesta giudiziaria, presso la magistratura di Aquisgrana, sulla via che potessero aver preso allontanandosi da quella città. L'ultima notizia che aveva avuto di essi nei Paesi Bassi, loro effettivo paese di residenza, era, riferì la donna, una lettera che risaliva a un periodo precedente, alla vigilia di una festa del Corpus Domini, scritta dal predicatore a un amico, maestro di scuola ad Anversa, nella quale, con molta allegria, per non dire sfrenatezza, lo informava in anticipo, in quattro fitte pagine dell'impresa progettata contro il convento di Santa Cecilia; impresa sulla quale la madre, tuttavia, non voleva fornire maggiori particolari.
Dopo svariati e faticosi tentativi di rintracciare le persone cercate da quella donna angosciata, rimasti senza risultato, ci si ricordò, alla fine, che da un certo numero di anni, che rispondeva all'incirca a quelli da lei indicati, quattro giovani dei quali erano ignote la patria e la provenienza si trovavano nel manicomio cittadino, recentemente fondato grazie alla sollecitudine dell'imperatore: ma essi soffrivano per un'esasperata fissazione religiosa, e il loro contegno, che, come il tribunale credeva di aver vagamente sentito dire, era estremamente triste e malinconico, corrispondeva troppo poco allo stato d'animo che la madre conosceva anche troppo bene nei suoi figli, perché potesse dare molto credito (tanto più che sembrava quasi certo che fossero cattolici) a un'indicazione come quella.
E tuttavia, singolarmente colpita da certi connotati di vario genere con i quali venivano descritti, la madre si recò un giorno, accompagnata da un ufficiale giudiziario, nel manicomio, e pregò i custodi che, per cortesia, le permettessero di farsi introdurre presso i quattro infelici alienati che vi si custodivano, per esaminarli. Ma chi descriverà l'orrore della povera donna quando al primo sguardo, non appena ebbe varcato la soglia, riconobbe i suoi figli: sedevano, in lunghi, neri abiti talari, intorno a un tavolo sul quale era ritto un crocifisso e, con le mani aperte appoggiate in silenzio sul piano di legno, sembravano adorarlo. Alla domanda della donna, la quale, priva di forze, si era lasciata cadere su una seggiola, che cosa facessero là, i custodi risposero che essi "non facevano altro che glorificare il Salvatore, del quale, a quanto essi stessi dicevano, credevano di aver compreso, meglio di altri, come fosse il vero Figlio dell'unico Iddio".
E aggiunsero che "da sei anni ormai i giovani conducevano quella vita spettrale, dormivano poco e prendevano poco cibo dalle loro labbra non giungeva alcun suono, ma soltanto all'ora della mezzanotte si alzavano dai loro seggi, e allora, con una voce che spaccava le finestre della casa, intonavano il "Gloria in excelsis"". E i custodi conclusero con l'assicurazione che, fisicamente, i giovani erano perfettamente sani, e nemmeno si poteva negare che manifestassero perfino una certa, per quanto seria e solenne, allegrezza; e quando si affermava che erano pazzi, alzavano le spalle con aria di compatimento, e più di una volta avevano detto che "se la buona città di Aquisgrana avesse saputo ciò che essi sapevano, avrebbe messo da parte i suoi affari e si sarebbe inginocchiata come loro davanti al Crocifisso del Signore, a cantare il "Gloria"".
La donna, che non poteva sostenere la vista raccapricciante di quegli infelici e poco dopo, con le ginocchia vacillanti, si era fatta ricondurre a casa, si recò il mattino seguente, per raccogliere informazioni sulle cause di quella mostruosa circostanza, presso il signor Veit Gotthelf, noto mercante di stoffe della città, poiché quest'uomo veniva nominato nella lettera scritta dal predicatore, e da essa risultava che costui aveva partecipato con entusiasmo al progetto di distruggere il convento di Santa Cecilia, nel giorno del Corpus Domini. Veit Gotthelf, il mercante di stoffe, che nel frattempo si era sposato, aveva messo al mondo numerosi figli ed era subentrato al padre nella sua cospicua attività, ricevette assai amabilmente la forestiera; quando venne a sapere quale richiesta la conduceva da lui, chiuse a chiave la porta e, dopo averla pregata di accomodarsi, venne a dire quanto segue:
"Sì, mia cara signora, sei anni or sono io fui in stretti rapporti con i vostri figli e, se non vorrete coinvolgermi per questo in un'inchiesta giudiziaria, ve lo confesserò a cuore aperto e senza reticenze: era nostro proposito fare ciò di cui parla la lettera! Per quale ragione l'impresa, per l'esecuzione della quale tutto era stato predisposto in ogni minimo particolare, con sagacia veramente empia, sia fallita, mi è incomprensibile, parrebbe che il cielo stesso avesse preso il convento delle pie donne sotto la sua santa protezione. Perché, sapete, i vostri figli si erano già lasciati andare a vari lazzi e ribalderie, che avevano disturbato il sevizio divino, e dovevano dare l'avvio alle scene decisive; e più di trecento malvagi, muniti di scuri e di torce intinte nella pece, tutti abitanti della nostra città, allora traviata, aspettavano soltanto il cenno che avrebbe dovuto dare il predicatore per radere al suolo la chiesa. E invece, all'attaccare della musica, i vostri figli all'improvviso, con movimento simultaneo, e in uno strano modo che ci colpì, si tolgono il cappello, si coprono, a poco a poco, come in preda a un'intensa, inesprimibile commozione, con le mani il volto chino, e il predicatore, voltandosi d'un tratto, dopo una pausa inquietante, grida a tutti noi, con voce forte e terribile, di scoprirci il capo! Invano alcuni compagni lo esortano con un sussurro, dandogli allegramente di gomito, a dare il segnale convenuto per l'assalto alle immagini sacre: invece di rispondere, il predicatore, incrociando le braccia sul petto, si lascia cadere in ginocchio e mormora, insieme ai fratelli, con la fronte devotamente premuta nella polvere, tutta la successione delle preghiere fino a poco prima derise. Con l'animo profondamente turbato da quella vista, la masnada dei miserabili esaltati, privata dei suoi capi, se ne resta indecisa e inattiva sino alla fine dell'oratorio, che echeggia, con mirabile fragore, giù dal presbiterio; e poiché proprio allora, per ordine del governatore, si procedeva a numerosi arresti, e alcuni malfattori che avevano fomentato i disordini venivano afferrati dalle guardie e condotti via, a quella schiera di sciagurati non rimane che allontanarsi il più rapidamente possibile, protetti dalla calca del popolo che andava verso l'uscita, dalla casa di Dio.
"Verso sera, dopo aver domandato invano più volte all'albergo notizie dei vostri figli, che non erano tornati, esco, nella più spaventosa agitazione, con alcuni amici per ritornare al convento e chiedere di loro agli inservienti che avevano dato man forte alle guardie imperiali. Ma come descrivervi il mio orrore, nobile signora, al vedere quei quattro uomini che continuano, con le mani giunte, baciando il suolo con il petto e con la fronte, a giacere prostrati e pieni di ardente fervore davanti all'altare della chiesa, come se si fossero mutati in pietra! Inutilmente il soprastante del monastero, che proprio in quel momento si era avvicinato, li esorta, tirandoli per il mantello e scuotendoli per il braccio, a lasciare il duomo, nel quale era ormai buio fitto e non era rimasto nessuno: non gli danno ascolto, alzandosi a metà, come trasognati, finché egli non li fa prendere sottobraccio dai servi e condurre fuori dal portale, dove finalmente, sia pure sospirando e voltandosi spesso verso la cattedrale, che splendeva magnifica alle nostre spalle, illuminata dal sole, con uno sguardo che straziava il cuore, ci seguono in città. Gli amici ed io domandiamo loro più volte, con affettuosa sollecitudine, sulla via del ritorno, che cosa fosse mai successo di tanto terribile da cambiare a tal punto il loro stato d'animo; essi, fissandoli con amicizia, ci stringono le mani, guardano pensierosi, verso terra e, di tanto in tanto, ah!, con un'espressione che ancora adesso mi spezza il cuore, si asciugano le lacrime dagli occhi.
"Poi, giunti alle loro stanze, si intrecciano con gesti delicati e carichi di significato una croce di verghe di betulla e, infilandola su un monticello di cera, la mettono sul grande tavolo che sta al centro della camera, tra i due lumi con i quali si è presentata la fantesca; e mentre gli amici, la cui schiera si ingrossa di ora in ora, restano in disparte torcendosi le mani e osservano in gruppi sparsi, muti per la disperazione, i loro movimenti silenziosi, spettrali, essi, come se i loro sensi fossero chiusi a ogni altra visione, prendono posto intorno al tavolo, disponendosi in silenzio, con le mani giunte, all'adorazione. Non manifestano desiderio né del cibo portato dalla fantesca, secondo le disposizioni da loro stessi date al mattino, per invitare a mensa i compagni, né, più tardi, quando cala la notte, del giaciglio apprestato, poiché sembrano stanchi, nella stanza attigua; gli amici, per non destare il disappunto dell'oste, stupito di quella condotta, devono sedersi a una tavola riccamente imbandita, che è stata preparata da una parte, e servirsi dei cibi cucinati per una numerosa compagnia, conditi con il sale delle loro lacrime amare.
"E, d'un tratto, suona l'ora della mezzanotte, i vostri quattro figli, dopo aver teso per un attimo l'orecchio al suono opaco della campana, si alzano d'un tratto, con movimento simultaneo, dai loro seggi, e mentre noi, posando i tovaglioli, guardiamo verso di loro, nell'attesa angosciosa di ciò che seguirà quei preparativi così strani e inquietanti, essi cominciano, con voce orribile, spaventosa, a cantare il "Gloria in excelsis". Così possono farsi udire leopardi e lupi, se nel più gelido inverno ruggiscono al firmamento: i muri maestri della casa, ve lo assicuro, tremavano, e i vetri delle finestre, colpite dai visibili fiati dei loro polmoni, tintinnavano, minacciando, come se qualcuno gettasse contro le loro superfici piene manciate di una pesante sabbia, di andare in pezzi. A quella scena raccapricciante ci precipitiamo senza riflettere, con i capelli ritti, in tutte le direzioni, ci disperdiamo, abbandonando i mantelli e i cappelli nelle strade adiacenti, che in breve tempo si riempiono, al nostro posto, di più di cento persone svegliate di soprassalto dal sonno; la gente, sfondata la porta, si accalca su per le scale, verso il salone, alla ricerca della fonte di quell'orrendo, intollerabile ruggito, che sembra innalzarsi, dalle labbra di peccatori dannati per l'eternità, dall'abisso più profondo dell'Inferno di fiamme, verso le orecchie di Dio, implorando miseramente la sua compassione. Finalmente, quando la campana batte l'una, senza aver dato ascolto alle grida irose dell'oste, né alle esclamazioni della gente sconvolta che li circonda, chiudono la bocca, si asciugano con un panno dalla fronte il sudore che gli cade a goccioloni sul mento e sul petto, allargano i mantelli e si coricano, per riposare un'ora da quell'occupazione così tormentosa, sulle assi del pavimento. L'oste li lascia fare, traccia, non appena li vede assopiti, su di essi il segno della croce e, contento di essere liberato, per il momento, da quelle miserie, assicurando che l'indomani avrebbe portato un mutamento salutare, convince l'assembramento dei presenti, che si sussurrano l'un l'altro con aria di mistero, a lasciare la stanza.
"Ma, purtroppo, già al primo canto del gallo gli infelici sono di nuovo in piedi e ricominciano, intorno alla croce piantata sulla tavola, la stessa desolata e spettrale vita monacale che solo lo sfinimento li aveva costretti, per pochi momenti, a interrompere. Dall'oste, che si sente stringere il cuore davanti a quel triste spettacolo, non accettano né ammonimenti né aiuti, lo pregano di allontanare affettuosamente gli amici, che prima erano abituati a raccogliersi intorno a loro ogni mattina, non desiderano nulla da lui, se non acqua, pane e un pagliericcio, se possibile, per la notte, così che quest'uomo, che prima cavava molti quattrini dalla loro allegria, si vede costretto a denunciare tutta la faccenda ai giudici, e a pregare di togliergli di torno quei quattro uomini, i quali, senza dubbio, dovevano essere posseduti dal Maligno. Dopo di che, per ordine del magistrato, furono sottoposti a esame medico e, essendo stati giudicati pazzi, vennero, come sapete, internati nei locali del manicomio che la clemenza dell'imperatore da poco venuto a mancare ha fondato, nella cerchia murata della nostra città, a beneficio degli infelici di questa sorta". Questo, e altro ancora, che noi qui tralasciamo, ritenendo di aver detto abbastanza per la comprensione di quello stato di cose, disse Veit Gotthelf, il mercante di panni; e pregò ancora una volta la donna, nel caso che sulla questione si dovesse riaprire l'inchiesta giudiziaria, di non implicarvelo in alcun modo.
Tre giorni dopo, quando la donna, profondamente scossa da questo racconto, uscì, al braccio di un'amica, per recarsi al convento, nel malinconico proposito di vedere con i propri occhi, durante una passeggiata, poiché il tempo era bello, lo spaventoso teatro sul quale Dio, quasi con folgori invisibili, aveva annientato i suoi figlioli, le due donne trovarono il duomo sbarrato all'ingresso da alcune assi, poiché vi si stavano compiendo dei lavori di muratura; e, sollevandosi faticosamente in punta di piedi, non poterono scorgere nulla del suo interno, attraverso le aperture fra le tavole, se non il magnifico rosone che scintillava in fondo alla chiesa. Molte centinaia di operai, intonando liete canzoni, erano occupati, su esili impalcature, in vario modo intrecciate, a innalzare di un buon terzo le torri e a rivestire tetti e pinnacoli, fino allora ricoperti di ardesia, con spessi e lucenti fogli di rame, che scintillavano ai raggi del sole. Sullo sfondo della costruzione si stagliava in quel momento, nerissimo con gli orli dorati, un temporale, che aveva già smesso di tuonare sulla regione di Aquisgrana e, dopo aver ancora scagliato alcuni fulmini senza forza in direzione del duomo, dissolvendosi in vapori calava verso oriente con un brontolio di disappunto. Avvenne che, mentre le donne, dalla scalinata del vasto edificio del convento, osservavano, assorte in diversi pensieri, quel doppio spettacolo, una suora che passava di 1ì venisse per caso a sapere chi era la donna in piedi sotto il portone così che la badessa, che aveva sentito parlare di una lettera, riguardante la festa del Corpus Domini, che la donna portava con sé, rimandò immediatamente da lei la suora, affinché pregasse la signora dei Paesi Bassi di salire da lei.
La donna restò per un attimo interdetta, ma nondimeno si accinse con deferenza a obbedire all'ordine che le era stato riferito; e, mentre l'amica, su invito della suora, si ritirava in una stanza laterale adiacente all'ingresso, alla forestiera, che aveva dovuto salire la scala, furono aperti i battenti delle stanze ben costruite del piano superiore. Là trovò la badessa, una nobildonna calma e regale nell'aspetto, seduta su una poltrona, con il piede appoggiato su uno sgabello i cui piedi erano artigli di drago; al suo fianco, su un leggìo, c'era una partitura musicale. La badessa, dopo aver ordinato di avvicinare una sedia alla forestiera, le rivelò che aveva già saputo dal sindaco del suo arrivo in città; e, dopo essersi informata con umanità di come stessero i suoi infelici figlioli, e averla anche incoraggiata ad accettare, per quanto le fosse possibile, il destino che li aveva colpiti, dal momento che non era possibile cambiarlo, le manifestò il desiderio di vedere la lettera scritta dal predicatore al suo amico, maestro ad Anversa. La donna, che aveva abbastanza esperienza per comprendere quali conseguenze avrebbe potuto avere quel passo, si sentì per un momento messa in grave imbarazzo dalla richiesta; ma poiché il venerabile viso della gran dama richiedeva incondizionata fiducia, e non sarebbe stato decoroso credere che potesse essere sua intenzione fare un uso pubblico del suo contenuto, si tolse, dopo una breve riflessione, la lettera dal seno, e la porse, posando un bacio ardente sulla sua mano alla regale signora.
La donna, mentre la badessa scorreva la lettera, lasciò cadere lo sguardo sullo spartito aperto a caso sul leggìo; e poiché il resoconto del mercante di panni le aveva fatto venire in mente che avrebbe potuto essere stata la potenza dei suoni, in quel giorno terribile, a turbare e sconvolgere l'animo dei suoi poveri figli, domandò alla suora che stava in piedi dietro la sua seggiola, rigirandosi timidamente verso di lei: "Era forse quella la musica eseguita sei anni prima nella cattedrale, al mattino di quella memorabile festa del Corpus Domini?". Alla risposta della giovane suora che, si, ricordava di averlo sentito dire e che, da allora, l'opera restava di solito, quando non era usata, nella stanza della Madre reverendissima, vivamente scossa la donna si alzò e, attraversata da svariati pensieri, si mise in piedi di fronte al leggìo. Osservò gli sconosciuti segni magici con i quali uno spirito terribile sembrava misteriosamente tracciare il suo cerchio, e le parve di cadere al suolo, poiché era aperto proprio al "Gloria in excelsis". Fu come se tutto l'orrore della musica che aveva rovinato i suoi figli passasse tuonando sopra il suo capo; credette, a quella sola vista, di perdere i sensi e, dopo che ebbe rapidamente, con un moto d'infinità umiltà e sottomissione all'onnipotenza divina, premuto le labbra sul foglio, tornò a sedersi sulla sua sedia.
Nel frattempo la badessa aveva letto tutta la lettera, e disse, ripiegandolo: "Dio stesso, in quel giorno mirabile, difese il convento contro la tracotanza dei vostri figli gravemente traviati. Di quali mezzi si sia servito può essere indifferente a voi, che siete protestante: difficilmente comprendereste ciò che su di essi potrei dirvi. Poiché sappiate che nessuno sa chi fu realmente, nell'incalzare dell'ora spaventevole in cui gli iconoclasti dovevano scatenarsi contro di noi, a dirigere tranquillamente dal sedile dell'organo, l'opera che vedete là aperta. Secondo una testimonianza resa il mattino del giorno seguente, alla presenza del soprastante del convento e di numerosi altri uomini e depositata nell'archivio, è dimostrato che suor Antonia, l'unica che potesse dirigere l'opera, per tutto il tempo dell'esecuzione giacque malata, incosciente e del tutto incapace di ogni movimento in un canto della sua cella; una suora che, essendo sua parente carnale, le era stata messa a fianco per assistere il suo corpo, durante tutta la mattinata nella quale si festeggiò il Corpus Domini nella cattedrale non si allontanò dal suo letto. E immancabilmente la stessa suor Antonia avrebbe confermato la verità del fatto che non fu lei a comparire, in modo così strano e sorprendente, sulla balconata dell'organo, se il suo stato di completa incoscienza avesse consentito d'interrogarla in proposito, e se la sera di quello stesso giorno la malata, a causa della febbre nervosa della quale soffriva, e che prima non era affatto sembrata pericolosa per la sua vita, non fosse spirata. L'arcivescovo di Treviri, al quale questi fatti vennero riferiti, ha già pronunciato le sole parole che possano spiegarli, e cioé che "Santa Cecilia stessa ha compiuto questo miracolo, a un tempo magnifico e terribile"; e proprio ora ho ricevuto dal Papa una Breve che ne dà conferma". E con questo, con la promessa che non ne avrebbe fatto uso alcuno, restituì alla donna la lettera che si era fatta dare soltanto per avere maggiori informazioni su ciò che già sapeva; e, dopo averle ancora domandato se vi era qualche speranza che i suoi figli si ristabilissero, e se poteva esserle in qualsiasi modo utile a quello scopo, con denaro o altri appoggi, al che la donna, baciandole la veste, rispose piangendo di no, la salutò gentilmente con la mano e la congedò.
Qui ha fine la leggenda. La donna, la cui presenza ad Aquisgrana era del tutto inutile, dopo aver lasciato presso il tribunale un piccolo capitale, a beneficio dei suoi figli, ritornò all'Aia, dove un anno dopo, profondamente colpita da quegli eventi ritornò in seno alla Chiesa cattolica. I suoi figli morirono invece in tarda età, di una morte serena e lieta, dopo aver cantato ancora una volta, secondo la loro abitudine, il "Gloria in excelsis".

IL DUELLO

Guglielmo, duca di Breysach, che, dal momento della sua segreta unione con una contessa di nome Caterina di Heersbruck, della casa di Alt-Hüningen, la quale sembrava inferiore al suo rango, viveva in inimicizia con il suo fratellastro, il conte Iacopo Barbarossa, ritornava, verso la fine del quattordicesimo secolo, quando cominciava a calare la notte di san Remigio, da un incontro avuto a Worms con l'imperatore tedesco, durante il quale era riuscito a ottenere dal suo sovrano, in mancanza di figli legittimi, i quali gli erano morti, che un suo figlio naturale, il conte Filippo di Hüningen, natogli dalla consorte prima del matrimonio, fosse legittimato. Guardando all'avvenire con una gioia maggiore di quella che avesse mai provata in tutto il suo governo, egli aveva già raggiunto il parco che si estendeva dietro il suo castello, quando a un tratto, dal buio della macchia, scoccò una freccia che lo passò da parte a parte, proprio sotto lo sterno. Messer Federico di Trota, il suo camerlengo, sconvolto dall'accaduto, lo portò, con l'aiuto di altri cavalieri, nel castello, dove ebbe soltanto la forza, tra le braccia della consorte sconvolta, di leggere a un'adunanza di vassalli dell'impero, convocata il più rapidamente possibile da quest'ultima, l'atto di legittimazione imperiale; e dopo che, non senza una vivace resistenza, poiché, a termini di legge, la corona sarebbe andata al suo fratellastro, il conte Iacopo Barbarossa, i vassalli ebbero adempiuto alla sua ultima precisa volontà e riconosciuto, riserbandosi il diritto di chiedere il consenso dell'imperatore, come erede al trono il conte Filippo, e la madre di lui, a causa della sua minore età, tutrice e reggente, egli ricadde indietro e morì.
La duchessa, dunque, salì senz'altro al trono, limitandosi a informare il cognato, il conte Iacopo Barbarossa, per mezzo di alcuni messaggeri; e quel che numerosi cavalieri della corte, i quali pretendevano di leggere nell'animo riservato di quest'ultimo, avevano predetto si verificò, almeno per quanto era delle apparenze esteriori: Iacopo Barbarossa, con intelligente ponderazione delle attuali circostanze, si consolò dell'ingiustizia che il fratello gli aveva fatta, o per lo meno si trattenne dal compiere qualunque passo per impugnare l'ultima volontà del duca, e augurò di cuore al giovane nipote una vita felice sul trono che gli era toccato. Ai messaggeri, che con grande allegria e gentilezza invitò alla sua mensa, descrisse come, dopo la morte della moglie, che gli aveva lasciato un patrimonio regale, vivesse libero e indipendente nel suo castello; come gli piacessero le donne della nobiltà confinante, il suo vino e la caccia, in compagnia di un'allegra brigata, e come una crociata in Palestina, con la quale pensava di espiare i peccati di una turbolenta gioventù, i quali purtroppo, ammetteva, erano ancora cresciuti con l'età, fosse l'unica impresa che, sul finire della vita, ancora si proponeva di realizzare. Invano i suoi due figli, che erano stati educati nella radicata speranza di salire al trono, gli fecero per l'indifferenza e l'insensibilità con cui, in modo del tutto inaspettato, acconsentiva a quell'irreparabile offesa alle loro pretese, i più amari rimproveri: egli li invitò, con poche sarcastiche parole di comando, a starsene tranquilli, da quei giovani imberbi che erano, li costrinse, nel giorno delle esequie solenni, a seguirlo in città e ad accompagnare, al suo fianco, al sepolcro, come si conveniva, il vecchio duca, loro zio e, dopo aver reso omaggio, nella sala del trono del palazzo ducale, al giovane principe, suo nipote, alla presenza della madre e reggente, insieme a tutti gli altri grandi della corte, se ne tornò, rinunciando a tutte le cariche e dignità che la reggente gli offriva e accompagnato dalle benedizioni del popolo, che lo venerava doppiamente per la sua magnanimità e moderazione, nel suo castello.
La duchessa, messo felicemente da parte, come non sperava, il primo affare, passò ad adempiere al suo secondo obbligo di reggente, cioé alle indagini per ritrovare gli assassini del consorte, dei quali, si pretendeva, era stata vista nel parco tutta una schiera; e, a tale scopo, esaminò lei stessa, insieme a messer Godvino di Herrthal, suo cancelliere, la freccia che aveva posto fine alla sua vita. Ma in essa non si trovò nulla che potesse tradirne il proprietario, se non forse che era ornata e lavorata con cura sorprendente. Piume resistenti, arricciate e lucenti erano infilate in un fusto ben tornito di scuro legno di noce, sottile e robusto; l'estremità anteriore era rivestita di ottone scintillante e solo la punta, affilata come una lisca di pesce, era d'acciaio. La freccia sembrava fabbricata per la sala d'armi di un uomo ricco e illustre, incline alle contese o grande amante della caccia; e poiché ci si avvide, dalla data incisa nella cocca, che era stata fatta da non molto tempo, la duchessa, consigliata dal cancelliere, inviò la freccia, munita del sigillo ducale, in tutte le officine della Germania, per trovare il mastro artigiano che l'aveva tornita e, se ciò fosse riuscito, venire a sapere da lui su commissione di chi fosse stato fatto il lavoro.
Cinque lune dopo, pervenne a messer Godvino, il cancelliere, al quale la duchessa aveva affidato le indagini, la dichiarazione di un armiere di Strasburgo, il quale diceva di aver fabbricato, tre anni prima, sessanta di quelle frecce, con relativa faretra, per il conte Iacopo Barbarossa. Il cancelliere, profondamente turbato da questa dichiarazione, la tenne per parecchie settimane chiusa nel suo scrigno segreto; gli era troppo nota, da un lato, così pensava, a dispetto del modo di vivere libero e licenzioso del conte, la sua nobiltà d'animo, per ritenerlo capace di un'azione così infame come l'assassinio di un fratello, e troppo poco, dall'altro lato, a dispetto di molte altre buone qualità, il senso di giustizia della reggente, per non procedere con la massima prudenza in un affare che avrebbe potuto costare la vita al peggior nemico di lei. Nel frattempo fece fare, copertamente, indagini in direzione di quello strano annuncio; e poiché, attraverso i funzionari della municipalità, accertò per caso che il conte, il quale di solito non lasciava mai, o molto raramente, il suo castello, nella notte dell'assassinio del duca ne era stato assente, ritenne suo dovere lascia cadere il segreto e informare dettagliatamente la duchessa, in una delle successive sedute del Consiglio di Stato, dello strano e inquietante sospeto che, con quei due capi d'accusa, veniva a cadere sopra suo cognato, il conte Iacopo Barbarossa.
La duchessa, che si considerava assai fortunata per essere con il conte, suo cognato, in rapporti così amichevoli, e nulla temeva più di urtare la sua suscettibilità con passi sconsiderati, non diede, con stupore del cancelliere, il minimo segno di gioia a quella ambigua rivelazione, ma, al contrario, dopo aver letto da cima a fondo due volte con attenzione le carte, manifestò vivamente il suo disappunto che di una faccenda così incerta e preoccupante si facesse parola pubblicamente in Consiglio di Stato. La sua opinione era che doveva trattarsi di un errore o di una calunnia, e diede ordine che della segnalazione non si facesse uso alcuno in tribunale. Anzi, data la straordinaria e quasi esaltata venerazione di cui il conte, per una svolta naturale delle cose, godeva presso il popolo, da quando era stato escluso dalla successione, le parve che anche soltanto l'averne parlato all'interno del Consiglio di Stato fosse stato estremamente pericoloso; e poiché prevedeva che, prima o poi, in città qualche mormorio gli sarebbe giunto all'orecchio, gli mandò, accompagnati da uno scritto pieno di nobiltà, i due capi d'accusa, che definiva il gioco di uno strano malinteso, insieme alle prove sulle quali avrebbero dovuto basarsi; con l'espressa preghiera, poiché era già convinta in anticipo della sua innocenza, di risparmiare ogni confutazione.
Il conte, che se ne stava per l'appunto a tavola in compagnia di amici, quando i cavaliere che portava il messaggio della duchessa entrò e si diresse verso di lui, si alzò cortesemente dalla sua seggiola; ma non appena, mentre gli amici stavano osservando quell'uomo dall'aria solenne, che non volle sedersi, ebbe letto tutta la lettera, nel vano della finestra, cambiò colore, e porse i fogli, con queste parole, agli amici: "Fratelli, guardate! Quale accusa infame, l'assassinio di mio fratello, è stata gettata contro di me!". E, presa dalla mano del cavaliere, con uno sguardo che mandava scintille, la freccia, nascondendo l'annientamento dell'anima, mentre gli amici si radunavano inquieti intorno a lui, aggiunse che, effettivamente, il dardo gli apparteneva, e anche la circostanza che nella notte di san Remigio fosse assente dal suo castello era fondata! Gli amici maledissero quell'ipocrita e spregevole perfidia, ritorsero il sospetto di assassinio sugli abbietti accusatori, e stavano già per diventare offensivi nei riguardi del messaggero, che prese le difese della duchessa, sua signora, quando il conte, che aveva letto ancora una volta le carte, entrando a un tratto in mezzo a loro gridò: "Calma, amici miei!", e, presa la spada, che era appoggiata in un canto, la consegnò al cavaliere con queste parole: "Sono vostro prigioniero!".
Alla domanda sgomenta del cavaliere se aveva udito bene, e se davvero riconoscesse i due capi d'accusa stilati dal cancelliere, il conte rispose: "Sì, sì, sì!". E sperava di essere dispensato dalla necessità di addurre le prove della sua innocenza in qualunque altro luogo se non davanti alla sbarra di un tribunale formalmente insediato dalla duchessa. Invano i cavalieri, estremamente scontenti della sua dichiarazione, gli dimostrarono che, se non altro, in quel caso non doveva rendere conto a nessuno di come si erano svolti i fatti, se non all'imperatore; il conte, che, in uno strano e improvviso capovolgimento dell'animo, si richiamò al senso di giustizia della reggente, insistette per mettersi a disposizione del tribunale del ducato; e già, strappandosi dalle loro braccia, chiedeva, gridando dalla finestra, i suoi cavalli, deciso, come disse, a seguire immediatamente l'inviato come prigioniero del cavaliere, quando i suoi compagni d'armi gli sbarrarono a viva forza la via, con una proposta che alla fine dovette accettare. Stesero, tutti insieme, una lettera alla duchessa, chiesero, come un diritto che spettava a ogni cavaliere, in un caso simile, un salvacondotto per lui e le offrirono, come garanzia che egli si sarebbe presentato davanti al tribunale da lei insediato e si sarebbe sottoposto a qualunque decisione esso potesse infliggergli, una cauzione di ventimila marchi d'argento.
La duchessa, a questa inaspettata e per lei incomprensibile dichiarazione, ritenne, poiché tra il popolo correvano già le voci più infami sui motivi di quell'accusa, che la cosa più saggia fosse ritirare del tutto la sua persona e portare ogni controversia davanti all'imperatore. Essa gli mandò, per consiglio del cancelliere, tutti gli atti che si riferivano all'episodio, e lo pregò, nella sua qualità di capo supremo dell'Impero, di avocare a sé l'indagine su una questione nella quale lei stessa era parte in causa. L'imperatore, che a causa di trattative con la Confederazione, si tratteneva proprio allora a Basilea, acconsentì a questo desiderio, insediò in quella città un tribunale costituito da tre conti, dodici cavalieri e due assessori di giustizia e, dopo aver concesso al conte Iacopo Barbarossa, conformemente alla richiesta dei suoi amici, e contro l'offerta garanzia di ventimila marchi d'argento, il salvacondotto, gli ingiunse di presentarsi al tribunale suddetto, e rendere ad esso risposta e ragione su questi due capi: come era giunta nelle mani dell'assassino la freccia che, per sua stessa ammissione, gli apparteneva? e ancora: in quale luogo si era trattenuto, la notte di san Remigio?
Era il lunedì successivo alla Trinità quando il conte Iacopo Barbarossa, con uno splendido seguito di cavalieri, conformemente all'ingiunzione che aveva ricevuto, comparve in Basilea davanti alla sbarra del tribunale e là, sorvolando sulla prima domanda, alla quale, disse, gli era del tutto impossibile dare risposta, si espresse riguardo alla seconda, che era decisiva per la causa, nel modo seguente: "Nobili signori!", e così dicendo appoggiò le mani alla balaustra, guardando, con i suoi piccoli occhi lampeggianti, ombreggiati dalle ciglia rossicce, l'assemblea, "voi accusate me, che ho dato prove sufficienti della mia indifferenza per lo scettro e la corona, dell'azione più detestabile che si possa commettere, l'assassinio di mio fratello, non molto ben disposto, è vero, verso di me, ma non per questo meno caro; e come uno dei fondamenti sui quali basate la vostra accusa affermate che nella notte di san Remigio, nella quale quel misfatto venne commesso, ero, contrariamente a un'abitudine osservata da anni, assente dal mio castello. Ora, a me è ben noto quale debito abbia un cavaliere nei confronti dell'onore delle dame che facciano a lui segretamente dono del loro favore; e, in verità, se il cielo non avesse addensato, da un'aria serena questa strana fatalità sul mio capo, il segreto che dorme nel mio petto sarebbe morto con me, si sarebbe disfatto in polvere, e soltanto al richiamo della tromba dell'angelo che schianterà i sepolcri sarebbe risorto con me davanti a Dio. Ma la domanda che per bocca vostra l'imperiale maestà rivolge alla mia coscienza distrugge, come voi stessi capirete, ogni riguardo e ogni scrupolo; e poiché volete sapere come mai non sia non solo verosimile ma neppure possibile che io abbia partecipato, personalmente o indirettamente, all'assassinio di mio fratello, sappiate che nella notte di san Remigio, cioé quando esso fu commesso, mi trovavo segretamente presso la bella figlia del balivo ducale Vinifredo di Breda, donna Littegarda vedova di Auerstein, che mi si dava per amore".
Ora, bisogna sapere che donna Littegarda vedova di Auerstein era non soltanto la più bella ma, fino al momento di quell'accusa vergognosa, la più irreprensibile e senza macchia fra le dame del ducato. Ella faceva, dalla morte del castellano di Auerstein, suo consorte, che aveva perso, poche lune dopo le nozze, per una febbre maligna, vita silenziosa e ritirata nel castello di suo padre, e solo per desiderio del vecchio, che si augurava di vederla rimaritata, si adattava a comparire, di quando in quando, alle feste di caccia e ai banchetti offerti dai cavalieri della regione circostante, e soprattutto da messer Iacopo Barbarossa. Molti conti e signori delle stirpi più nobili e ricche del paese le si facevano intorno, in simili circostanze, con le loro profferte, e fra questi messer Federico di Trota, il camerlengo, che una volta a caccia, di fronte all'assalto di un cinghiale ferito, le aveva coraggiosamente salvato la vita, le era il più caro e il più amato; e tuttavia, preoccupata di dispiacere ai suoi due fratelli, che facevano conto di ereditare il suo patrimonio, a dispetto di tutte le esortazioni del padre non si era ancora potuta risolvere a concedergli la sua mano. Anzi, quando Rodolfo, il fratello maggiore, sposò una ricca damigella del vicinato, che, dopo tre anni di matrimonio senza figli, con grande gioia della famiglia gli partorì un erede, Littegarda, sospinta da dichiarazioni esplicite e implicite, con uno scritto redatto fra molte lacrime disse formalmente addio a messer Federico, al quale voleva bene, e acconsentì, per mantenere l'unità del casato, alla proposta del fratello di prendere il posto di badessa in un monastero che sorgeva, non lontano dal castello paterno, sulle rive del Reno.
Fu proprio nel periodo in cui questo progetto veniva sottoposto all'arcivescovo di Strasburgo, e la cosa stava per essere portata a buon fine, che il balivo ducale, messer Vinifredo di Breda, ricevette, per mezzo del tribunale insediato dall'imperatore, la comunicazione dell'onta di sua figlia Littegarda, e l'intimazione a farla venire a Basilea per rispondere dell'accusa che il conte Iacopo aveva elevato contro di lei. Gli venivano descritti con precisione, nel seguito dello scritto, l'ora e il luogo nei quali il conte, secondo quanto asseriva, aveva fatto a donna Littegarda la sua visita segreta, e gli veniva inviato persino un anello del marito morto di lei, che egli, al momento del commiato, assicurava di aver ricevuto dalla sua mano, come ricordo della notte trascorsa. Ora, messer Vinifredo era sofferente, proprio il giorno dell'arrivo di questo scritto, per una grave e dolorosa indisposizione dell'età e barcollava, in uno stato di estrema agitazione, su e giù per la stanza, al braccio della figlia, con l'occhio già fisso alla meta che è posta a ogni vita; cosicché quando lesse lo spaventoso annuncio, ebbe subito un colpo e, lasciando cadere il foglio, si abbatté al suolo con le membra paralizzate. I fratelli, che erano presenti, lo sollevarono da terra sconvolti, e chiamarono un medico che, per curarlo, alloggiava nell'edificio attiguo; ma tutti gli sforzi per riportarlo in vita furono vani: mentre donna Littegarda giaceva senza conoscenza tra le braccia delle sue dame, egli rese l'anima, e quando lei riprese i sensi non ebbe neppure l'ultima, dolceamara consolazione di avergli rivolto, prima del viaggio eterno, una parola in difesa del proprio onore.
L'orrore dei due fratelli per l'evento infausto, e il loro furore per l'infamia attribuita alla sorella, e anche troppo verosimile, che l'aveva provocato, furono indescrivibili. Sapevano anche troppo bene che il conte Iacopo Barbarossa, per tutta l'estate passata, le aveva fatto con insistenza la corte, egli aveva allestito molti tornei e banchetti soltanto per farle onore e, in modo già allora assai sconveniente, l'aveva preferita a tutte le altre donne di cui frequentava la compagnia. E ricordavano perfino che Littegarda, proprio intorno al periodo di san Remigio, aveva detto di aver smarrito, durante una passeggiata, proprio quell'anello che era stato dato del suo consorte e che ora, stranamente, si ritrovava nelle mani del conte Iacopo; tanto che non dubitarono neppure per un attimo della veridicità della deposizione che il conte aveva reso, contro di lei, davanti al tribunale. Invano - mentre la salma del padre veniva portata via tra i lamenti dalla servitù - essa abbracciava, implorando solo un momento di ascolto, le ginocchia dei fratelli; Rodolfo, bruciando d'indignazione, le domandò, girandosi verso di lei, se pareva produrre un testimone che confermasse l'infondatezza dell'accusa, e quando lei, balbettando e tremando, replicò che, purtroppo, non poteva addurre null'altro che l'irreprensibilità della sua vita, poiché la sua cameriera, a causa di una visita che aveva fatto ai suoi genitori nella famosa notte, era assente dalla sua camera da letto, Rodolfo la respinse da sé con i piedi, sfoderò una spada che era appesa alla parete e le ingiunse, nella furia della sua scomposta passione, chiamando i cani e i servi, di lasciare immediatamente la casa e il castello. Littegarda si alzò, pallida come gesso, da terra e pregò, scansando in silenzio i maltrattamenti, che le fosse lasciato almeno il tempo necessario a preparare la partenza richiesta; ma Rodolfo non rispose altro se non, schiumando di rabbia: "Fuori! Via dal castello!". Tanto che, invece di dare retta alla propria moglie, che gli sbarrava il passo, implorando umanità e misericordia, la spinse furibondo da parte, dandole, con l'elsa della spada, un tale colpo da farla sanguinare. L'infelice Littegarda, più morta che viva, lasciò la stanza, avanzò vacillando, squadrata dalle occhiate degli abitanti di basso rango, attraverso il cortile, fino al portone del castello, dove Rodolfo le fece consegnare un fagotto di biancheria, nel quale aveva messo un po' di denaro, chiudendo lui stesso dietro di lei, fra imprecazioni e maledizioni, i battenti.
Questa improvvisa caduta da una serena e quasi imperturbata felicità nell'abisso di una miseria senza fondo e senza rimedio era più di quanto la povera donna potesse sopportare. Ignorando dove rivolgersi, scese vacillando, appoggiandosi alla ringhiera, il sentiero roccioso, per procurarsi almeno un ricovero per la notte imminente; ma prima di raggiungere l'entrata del villaggio che si estendeva irregolarmente nella valle cadde, smarrite le forze, al suolo. Poteva essere rimasta così distesa lontana da ogni pena terrena, una buona ora, e l'oscurità avvolgeva ormai completamente la regione, quando, circondata da numerosi compassionevoli abitanti del luogo, si destò: poiché un ragazzo che giocava sul pendio roccioso l'aveva notata, e aveva parlato in casa ai genitori di una così strana e sorprendente apparizione; e costoro, che erano stati più volte beneficati da Littegarda, sconvolti di saperla in una situazione così sconsolata, si mossero subito per darle tutto l'aiuto che le loro forze permettevano. Alle premure di quella gente lei si riebbe presto, e, alla vista del castello chiuso alle sue spalle, ricordò ogni cosa; rifiutò l'offerta di due donne di ricondurla su al castello, e chiese soltanto la cortesia di procurarle subito una guida per continuare il cammino. Invano la gente le mostrò come nel suo stato non potesse intraprendere un viaggio; Littegarda, con il pretesto che la sua vita era in pericolo, insistette per lasciare immediatamente i confini del feudo; e poiché l'assembramento intorno a lei aumentava sempre, senza darle aiuto, si preparò a liberarsene con la forza e a mettersi, nonostante l'oscurità della notte che si infittiva, in cammino da sola; tanto che la gente, per paura, se le fosse capitata una disgrazia, di doverne rispondere ai signori, fu costretta ad acconsentire al suo desiderio e a procurarle un carro, che, alla reiterata domanda quale direzione volesse dunque prendere, partì con lei per Basilea.
Ma, appena uscita dal villaggio, dopo aver soppesato più attentamente le circostanze, mutò decisione, e ordinò al conducente di voltare e portarla al castello dei Trota, che distava soltanto poche miglia. Poiché sentiva che, senza un aiuto, contro un avversario quale il conte Iacopo Barbarossa non avrebbe ottenuto nulla davanti al tribunale di Basilea; e nessuno le pareva più degno della fiducia di essere chiamato a difendere il suo onore del valoroso, e, come ben sapeva, ancora devoto e innamorato amico, l'ottimo camerlengo messer Federico di Trota. Poteva essere all'incirca la mezzanotte, e i lumi del castello luccicavano ancora, quando, sfinita dal viaggio, vi arrivò con il suo carro. Mandò un servo della casa, che le era venuto incontro, ad avvertire la famiglia del suo arrivo; ma, prima ancora che questi avesse portato a termine l'incarico, uscirono dal portone le damigelle Berta e Cunegonda, sorelle di messer Federico, che casualmente, occupate in faccende domestiche, si trovavano nell'anticamera, al pianterreno. Le amiche aiutarono Littegarda, che ben conoscevano, a scendere dal carro, salutandola con gioia, e la condussero, sia pure non senza qualche apprensione, dal fratello, che sedeva al tavolo, immerso negli atti di un processo che lo sommergevano. Ma chi descriverà lo sbalordimento di messer Federico, quando, al rumore fatto alle sue spalle, volse il viso, e vide donna Littegarda, pallida e sfigurata vero ritratto della disperazione, cadere in ginocchio davanti a lui.
"Mia carissima Littegarda", esclamò, alzandosi, e sollevandola da terra, "che cosa vi è successo?". Littegarda, dopo essersi lasciata cadere su una poltrona, gli narrò l'accaduto; quale infame dichiarazione il conte Iacopo Barbarossa, per liberarsi dal sospetto di aver assassinato il duca, avesse reso su di lei davanti al tribunale di Basilea; come la notizia avesse immediatamente causato al vecchio padre, in quel momento già malato e sofferente, un colpo apoplettico, in seguito al quale pochi minuti dopo, tra le braccia dei figli, era spirato, e come costoro, folli di indignazione, senza ascoltare ciò che potesse portare a sua difesa, si fossero scagliati contro di lei con i più orribili maltrattamenti, e alla fine l'avessero, come una criminale, cacciata di casa; pregò messer Federico di aiutarla a raggiungere Basilea con una scorta conveniente, e di indicarle colà un assistente legale che, nella sua comparsa davanti al tribunale insediato dall'imperatore, potesse starle a fianco con il suo saggio e ponderato consiglio, contro l'infame accusa; e assicurò che dalla bocca di un Parto, o di un Persiano, che i suoi occhi non avessero mai visto, una simile affermazione non le sarebbe potuta venire più inaspettata che dalla bocca del conte Iacopo Barbarossa poiché questi, sia per la sua cattiva fama, sia anche a causa del suo aspetto esteriore, le era sempre stato odioso fino in fondo all'anima, e i complimenti che egli, nelle feste della trascorsa estate, si era preso talora la libertà di rivolgerle li aveva sempre respinti con il massimo della freddezza e del disdegno.
"Basta, mia carissima Littegarda!", esclamò messer Federico prendendone con fervida nobiltà una mano e premendola alle sue labbra. "Non sprecate una parola a difesa e giustificazione della vostra innocenza! Nel mio petto parla per voi una voce molto più viva e convincente di tutte le assicurazioni, e perfino di tutte le ragioni di diritto e le prove che voi forse possiate, dall'intreccio dei fatti e delle circostanze, addurre in vostro favore davanti al tribunale di Basilea. Prendete me, poiché i vostri ingiusti e ingenerosi fratelli vi hanno abbandonata, per vostro amico e fratello, e concedetemi il vanto di essere il vostro avvocato in questa causa; restituirò al vostro onore il suo splendore davanti al tribunale di Basilea e al giudizio del mondo intero!". E con questo condusse Littegarda, che a così nobili parole piangeva calde lacrime di gratitudine e di commozione, da madonna Elena, sua madre, che si era già ritirata in camera da letto, presentandola alla degna e anziana signora, che sentiva un particolare affetto per lei, come un'amica e ospite che per un dissidio scoppiato nella sua famiglia, aveva deciso di soggiornare per qualche tempo nel suo castello; si liberò per lei quella stessa notte un'intera ala del vasto castello, si riempirono riccamente per lei, con il corredo delle sorelle, gli armadi che vi si trovavano di vestiti e di biancheria, le fu assegnata, come si conveniva al suo rango, una decorosa, anzi sontuosa servitù, e il terzo giorno messer Federico di Trota, senza pronunciarsi sul modo in cui pensava di addurre la sua prova davanti al tribunale, si trovava già, con un numeroso seguito di uomini a cavallo e di scudieri, sulla strada per Basilea.
Nel frattempo da parte dei signori di Breda, fratelli di Littegarda, era pervenuto al tribunale di Basilea uno scritto che riguardava gli eventi avvenuti al castello, nel quale essi, sia che la ritenessero veramente colpevole, sia che avessero altri motivi per rovinarlo, abbandonavano interamente la povera donna, come una criminale convinta, ai rigori della legge. Per lo meno chiamavano la sua cacciata dal castello, in modo ignobile e non veritiero, una fuga volontaria, descrivendo come, senza aver potuto addurre nulla a difesa della propria innocenza, ad alcune esclamazioni d'indignazione che ad essi erano sfuggite avesse immediatamente lasciato il castello; e, poiché erano state vane tutte le ricerche che assicuravano di aver disposto per rintracciarla, erano dell'opinione che, probabilmente, andasse errando al fianco di un altro avventuriero, per colmare la misura della sua vergogna. Per questa ragione facevano domanda, affinché fosse salvaguardato l'onore della famiglia, da lei offesa, di cancellare il suo nome dall'albero genealogico del casato dei Breda, chiedendo, con minuziose argomentazioni giuridiche, che, come castigo per colpe così inaudite, venisse dichiarata decaduta da ogni pretesa all'eredità del suo nobile padre, che la sua vergogna aveva portato alla tomba. Ora, i giudici di Basilea erano certo ben lontani dall'accogliere la loro istanza, per la quale, del resto, quel foro non era affatto competente; ma poiché nel frattempo il conte Iacopo, ricevuta questa notizia, diede le prove più evidenti e decisive della sua partecipazione al destino di Littegarda, e segretamente, come si venne a sapere, mandò uomini a cavallo alla sua ricerca e a offrirle di trattenersi nel suo castello, il tribunale non dubitò più affatto della veridicità della sua deposizione, e decise di cassare subito l'accusa per l'omicidio del duca che pendeva contro di lui. E anzi la partecipazione di cui diede prova verso la sventurata nel momento del bisogno influì in modo estremamente favorevole sull'opinione popolare, assai mutevole nel concedergli la sua benevolenza; si scusava, ora, ciò che prima era stato severamente biasimato, l'aver egli abbandonato al disprezzo universale una donna che gli si era data per amore, ritenendo che, in così straordinarie e mostruose circostanze, poiché ne andava niente meno che della vita e dell'onore, non gli fosse rimasta altra scelta che rivelare senza riguardi l'avventura che aveva avuto luogo nella notte di san Remigio.
Di conseguenza, per ordine espresso dell'imperatore, il conte Iacopo Barbarossa venne di nuovo convocato davanti al tribunale, per essere solennemente assolto, a porte aperte, dal sospetto di aver avuto parte nell'omicidio del duca. L'araldo aveva appena terminato, sotto le volte della vasta sala del giudizio, la lettura dello scritto dei signori di Breda, e la corte si preparava, in conformità alla decisione imperiale, a procedere, nei riguardi dell'accusato, ritto in piedi, da un lato, a una solenne dichiarazione d'onore, quando messer Federico di Trota si fece avanti, richiamandosi al generale diritto di ogni osservatore imparziale a dare per un momento un'occhiata alla lettera. Si acconsentì, mentre gli occhi di tutto il popolo erano puntati su di lui, al suo desiderio; ma, non appena messer Federico ebbe ricevuto lo scritto dalle mani dell'araldo, egli, dopo avervi gettato un fugace sguardo, lo lacerò dall'alto in basso e ne gettò i pezzi, avviluppati insieme a un suo guanto, in viso al conte Iacopo Barbarossa, dichiarando che questi era un infame e spregevole calunniatore, e che egli era deciso a provare davanti al mondo l'innocenza di donna Littegarda, dal misfatto che da lui le veniva rinfacciato, all'ultimo sangue, nel giudizio di Dio!
Il conte Iacopo Barbarossa, dopo aver raccolto, pallido in viso, il guanto, disse: "Come è vero che Dio, nel giudizio delle armi, decide secondo giustizia, così la veridicità di ciò che ho dovuto, per necessità, rivelare, riguardo a donna Littegarda, io te la proverò in cavalleresca e leale tenzone! Riferite, nobili signori", continuò, volgendosi verso i giudici, "a sua maestà l'imperatore l'opposizione di messer Federico, e pregatelo di fissare egli stesso il tempo e il luogo in cui potremo incontrarci, con la spada in pugno, per decidere la contesa!". Conformemente a ciò i giudici, sciolta la sessione, inviarono all'imperatore una delegazione con il resoconto dell'accaduto; e poiché questi, per la comparsa di messer Federico, quale difensore di Littegarda, era scosso non poco nella sua fede nell'innocenza del conte, convocò, come richiedevano le leggi dell'onore, donna Littegarda a Basilea per assistere alla tenzone e, per dissipare lo strano mistero che aleggiava su quei fatti, fissò il giorno di santa Margherita come tempo e la piazza del castello di Basilea come luogo nel quale i due, messer Federico di Trota e il conte Iacopo Barbarossa, avrebbero dovuto, alla presenza di donna Littegarda, incontrarsi.
Non appena, conformemente a questa decisione, il sole di mezzodì del giorno di santa Margherita ebbe illuminato le torri della città di Basilea, e una folla, per la quale erano state erette panche e tribune, si fu radunata a perdita d'occhio, sulla piazza del castello, al triplice grido dell'araldo ritto davanti all'altana dei giudici di combattimento, entrambi, coperti da capo a piedi di lucido ferro, messer Federico e il conte Iacopo, per risolvere la contesa con le armi entrarono nella lizza. Quasi tutti i cavalieri di Svevia e di Svizzera erano presenti, lungo la rampa che portava al castello, sul fondo; e, al balcone di questo, sedeva, circondato dai suoi cortigiani, l'imperatore in persona, accanto alla consorte, ai principi e alle principesse, ai figli e alle figlie. Poco prima dell'inizio del combattimento, mentre i giudici dividevano la luce e l'ombra fra i combattenti, donna Elena e le sue due figlie, Berta e Cunegonda, che avevano accompagnato Littegarda a Basilea, si presentarono ancora una volta alle porte della piazza, e chiesero alle guardie, in piedi accanto ad esse, il permesso di entrare e di dire a donna Littegarda, la quale, secondo un'antichissima consuetudine, sedeva su un'impalcatura all'interno del recinto, una parola. Poiché, sebbene tutta la vita di quella dama sembrasse esigere il più assoluto rispetto e un'illimitata fiducia nella veridicità delle sue assicurazioni, tuttavia l'anello che il conte Iacopo aveva potuto esibire, e ancor più la circostanza che Littegarda, nella notte di san Remigio, avesse messo in libertà la sua cameriera, l'unica persona che avrebbe potuto servirle da testimone, gettava il loro animo nella più viva apprensione; esse decisero dunque di mettere ancora una volta alla prova, nell'urgenza del momento decisivo, la sicurezza di coscienza che albergava nell'accusata, e di farle comprendere quanto fosse vano, anzi sacrilego, il tentativo, nel caso che realmente la sua anima fosse oppressa dalla colpa, di volersi purificare da essa mercé il santo giudizio delle armi, che avrebbe infallibilmente portato alla luce la verità. E in effetti Littegarda aveva tutte le ragioni di riflettere bene al passo che messer Federico faceva in sua difesa; il rogo attendeva sia lei, sia il suo amico, il cavaliere di Trota, nel caso che Dio, nel giudizio di ferro, non si fosse deciso per lui, bensì per il conte Iacopo Barbarossa e per la verità della deposizione che questi aveva reso contro di lei davanti al tribunale.
Donna Littegarda, quando vide entrare, da un lato, la madre e le sorelle di messer Federico, si alzò, con l'espressione di dignità che le era propria e che il dolore diffuso su tutta la sua persona rendeva ancora più commovente, dal suo seggio, e domandò, andando loro incontro, che cosa, in un momento così fatale, le guidasse da lei.
"Mia cara figliola", disse donna Elena, conducendola da parte, "volete risparmiare a una madre che non ha, nella sua desolata vecchiaia, altra consolazione che il possesso di suo figlio, il cruccio di doverlo piangere nella sua tomba e, prima che la tenzone abbia inizio, prendere posto, con ricchi doni e un ricco corredo, in una carrozza, accettando da noi, in regalo, una delle nostre terre, che si trova al di là del Reno e che vi accoglierà con decoro e premura?".
Littegarda, dopo che, mentre un pallore le trascorreva sul viso, l'ebbe fissata in volto per un attimo, non appena ebbe compreso il significato di quelle parole in tutta la loro portata piegò un ginocchio davanti a lei. "Veneranda ed eccellente signora", disse, "la preoccupazione che Dio, in quest'ora decisiva, si dichiari contro l'innocenza del mio animo viene forse dal cuore del vostro nobile figlio?".
"Perché", domandò donna Elena.
"Perché, in tal caso, lo scongiuro di non trarre una spada non guidata da una mano fiduciosa, e cedere, sotto qualsiasi conveniente pretesto, la lizza al suo avversario: ma di lasciare me, senza prestare un ascolto inopportuno al sentimento della compassione, dal quale nulla posso accettare, al mio destino, che metto nelle mani di Dio!".
"No", disse donna Elena, confusa, "mio figlio non ne sa nulla! Poco si converrebbe a lui, che ha dato al tribunale la sua parola di combattere per la vostra causa, venire a farvi, adesso che batte l'ora della decisione, una simile proposta. Con ferma fede nella vostra innocenza sta, come vedete, già in armi e pronto alla lotta, in faccia al conte, vostro avversario; era una proposta che noi, le mie figlie e io, abbiamo escogitato nell'angoscia del momento, in considerazione di tutti i suoi vantaggi, e per evitare ogni sventura".
"In questo caso", disse donna Littegarda, mentre, con un bacio ardente, inumidiva con le sue lacrime la mano della vecchia dama, "lasciate che tenga fede alla sua parola! Nessuna colpa macchia la mia coscienza; anche se scendesse in campo senza elmo e senza corazza, Dio e tutti i suoi angeli gli farebbero scudo!". E con queste parole si alzò da terra e condusse donna Elena e le sue figlie verso alcuni sedili che si trovavano all'interno della lizza, dietro il seggio, coperto di panno rosso, sul quale prese posto lei stessa.
Dopo di ciò l'araldo, al cenno dell'imperatore, chiamò con uno squillo alla lotta, e i due cavalieri, lo scudo e la spada in pugno, si scagliarono l'uno contro l'altro. Messer Federico ferì subito il conte, al primo colpo, lo colpì con la punta della spada, non molto lunga, là dove, tra il braccio e la mano, si sovrappongono le giunture dell'armatura; ma il conte, che, spaventato dalla fitta, fece un salto indietro ed esaminò la ferita, trovò, benché il sangue sgorgasse con violenza, che soltanto la pelle era stata graffiata in superficie: cosicché, al mormorio di biasimo dei cavalieri, disseminati lungo la rampa, sulla sconvenienza di un simile contegno, si lanciò di nuovo in avanti e riprese il combattimento con forze rinnovate, come un uomo pienamente sano. L'urto fra i due contendenti fluì e rifluì, come quando si scontrano due uragani, o due nubi temporalesche, scagliandosi i loro fulmini, cozzano l'una contro l'altra e senza confondersi, fra lo schianto di frequenti tuoni, si ergono come torri aggirandosi a vicenda.
Messer Federico, protendendo lo scudo e la spada, era piantato al suolo come se volesse mettervi radici; sepolto fino agli speroni, fino alle caviglie e ai polpacci, nel terreno, che era stato appositamente disselciato e reso morbido, stornava dal petto e dal capo i colpi insidiosi del conte, il quale, piccolo e agile, sembrava attaccare da tutti i lati allo stesso tempo. Il combattimento era già durato, includendovi gli attimi di riposo ai quali la spossatezza costringeva entrambi i contendenti, quasi un'ora, quando, tra gli spettatori che si trovavano sulle tribune, si udì di nuovo un mormorio. Sembrava che, questa volta, non fosse diretto contro il conte Iacopo, che non mancava di zelo per mettere fine alla lotta, ma contro quello stare impalato di messer Federico sempre nello stesso punto, contro la sua strana e in apparenza quasi timorosa, o quanto meno ostinata, rinuncia a ogni attacco. Messer Federico, per quanto il suo modo di procedere potesse riposare su buone ragioni, era troppo sensibile per non sacrificarlo immediatamente alla richiesta di coloro che, in quel momento, decidevano del suo onore; abbandonò con un passo ardito, la posizione scelta fin dal principio, quella specie di trincea naturale che gli si era formata intorno al piede, vibrando al capo dell'avversario, le cui forze cominciavano a cedere, una serie di rudi e vigorosi fendenti, che questi, tuttavia, riuscì a parare, con abili movimenti laterali dello scudo. Ma, sin dai primi momenti della lotta seguiti al mutamento di cui si è detto, messer Federico ebbe una sfortuna che non sembrava far pensare affatto alla presenza di forze superiori arbitre del combattimento; impigliandosi il piede nei propri speroni egli incespicò e precipitò in avanti, e mentre, sotto il peso dell'elmo e dell'armatura che gli gravava la parte superiore del corpo, cadeva in ginocchio, puntando la mano nella polvere, il conte Iacopo Barbarossa, con gesto né magnanimo né cavalleresco, gli vibrò la spada nel fianco in tal modo scoperto. Messer Federico, con un grido di momentaneo dolore, si risollevò con un balzo da terra. Si calò, bensì, l'elmo sugli occhi, e si accinse, volgendo rapidamente il viso all'avversario, a proseguire la lotta: ma, mentre egli, con il corpo piegato dal dolore, si appoggiava alla spada, e i suoi occhi si oscuravano, il conte gli trafisse ancora per due volte il petto, con la sua spada, lunga e sottile, proprio sotto il cuore, ed egli, fra lo strepito dell'armatura, rovinò al suolo, lasciando cadere accanto a sé la spada e lo scudo.
Il conte gli pose, dopo aver gettato da parte le armi, mentre echeggiava un triplice squillo di tromba, il piede sul petto; e, mentre tutti gli spettatori, l'imperatore per primo, con grida soffocate di orrore e di pietà si alzavano dai sedili, donna Elena si precipitò, seguita dalle due figlie, sul figlio diletto, che si rotolava nel sangue e nella polvere. "Federico mio!", gridò, inginocchiandosi piangente accanto al capo di lui, mentre donna Littegarda, svenuta, veniva sollevata dal pavimento della tribuna, sul quale era caduta, da due guardie, e portata in prigione.
"Oh, l'infame", aggiunse, "oh, l'abbietta, che, con la coscienza della sua colpa nel petto, osa farsi avanti qui, e armare il braccio del più fedele, del più nobile amico, per conquistarle il giudizio di Dio in un'ingiusta tenzone!". E con queste grida di dolore sollevò da terra il figlio amato, mentre le figlie lo liberavano dell'armatura, e cercò di arrestare il sangue che sgorgava dal suo nobile petto. Ma, per ordine dell'imperatore, le guardie si fecero avanti e, poiché era caduto sotto i rigori della legge, presero anche lui in custodia; fu messo, con l'assistenza di alcuni medici, su una barella, e anch'egli portato, con l'accompagnamento di una gran folla, in prigione, dove però donna Elena e le sue figlie ebbero il permesso di stare con lui fino alla morte della quale nessuno dubitava.
Presto, tuttavia, si palesò che le ferite di messer Federico, per quanto toccassero parti vitali e delicate, per una particolare disposizione del cielo non erano mortali; anzi, i medici che gli erano stati assegnati poterono dare già pochi giorni dopo alla famiglia la precisa assicurazione che sarebbe rimasto in vita, e che, per la robustezza della sua costituzione, in poche settimane, senza soffrire alcuna menomazione del corpo, si sarebbe ristabilito. Non appena ebbe ripreso conoscenza, della quale era stato a lungo privo per il dolore, la domanda che egli rivolse alla madre fu, incessantemente, che cosa facesse donna Littegarda. Non poteva trattenere le lacrime, quando la immaginava nella desolazione del carcere, preda della più spaventosa disperazione, e chiese alle sorelle, accarezzandole amorosamente sotto il mento, di farle visita e consolarla. Donna Elena, colpita dalle sue parole, lo pregò di dimenticare quella donna spregevole e svergognata; disse che il delitto di cui il conte Iacopo aveva fatto menzione davanti al tribunale, e che ora l'esito della tenzone aveva portato alla luce del giorno, poteva essere perdonato, ma non l'impudenza e la sfrontatezza con cui, in piena coscienza della sua colpa, senza riguardo al suo amico più nobile, che precipitava in tal modo nella rovina, aveva invocato per sé, come un'innocente, il santo giudizio di Dio.
"Ah, madre mia", disse il camerlengo, "dov'è il mortale, fosse anche in lui la saggezza di tutti i secoli, al quale sia lecito attentarsi a decifrare la misteriosa sentenza, pronunciata da Dio con questa tenzone?".
"Come?", esclamò donna Elena. "Il senso della sentenza divina ti è rimasto oscuro? Non hai forse dovuto soccombere, nel combattimento, in modo anche troppo dolorosamente chiaro e inequivocabile, alla spada del tuo avversario?".
"Sia pure!", replicò messer Federico. "Per un attimo ho dovuto soccombere. Ma sono stato forse vinto dal conte? Non vivo forse ancora? Non sto rifiorendo, come sotto il soffio del cielo, miracolosamente, per riprendere da capo, forse tra pochi giorni, con forze due, tre volte maggiori, il combattimento turbato da un caso da nulla?".
"Folle!", gridò la madre. "E non sai che esiste una legge, secondo la quale il combattimento che, per dichiarazione dei giudici di campo, è stato concluso, non può essere ripreso, per dirimere la stessa causa, davanti alla sbarra del tribunale divino?".
"Che m'importa?", ribatté sdegnosamente il camerlengo.
"Io non mi curo delle leggi arbitrarie degli uomini. Può un combattimento che non è stato proseguito sino alla morte di uno dei due contendenti, secondo ogni ragionevole valutazione delle cose, essere considerato concluso? E non potrei, se mi fosse consentito di riprenderlo, sperare di porre rimedi all'incidente che mi ha colpito, e conquistarmi, con la spada in pugno, ben altra sentenza divina di quella che ora, con visione miope e limitata, viene presa per tale?".
"Tuttavia", replicò pensierosa la madre, "queste leggi, delle quali pretendi di non curare, sono quelle che regnano e comandano; esse hanno, ragionevoli o no, il valore di un responso divino, e consegnano te e lei, come una coppia di esecrabili malfattori, a tutto il rigore della giustizia penale".
"Ah", esclamò messer Federico, "e appunto questo che mi getta, me infelice, nella disperazione! La verga della giustizia e stata spezzata su di lei, come su di una colpevole, e io, che volevo provare davanti al mondo la sua virtù e la sua innocenza, sono colui che l'ha gettata nella miseria: un irreparabile inciampo nella cinghia degli speroni, con il quale Dio, forse, ha voluto punirci per i peccati che racchiudo nel petto, del tutto indipendentemente dalla sua causa, abbandona le sue membra fiorenti alle fiamme, e la sua memoria a un'eterna vergogna!".
A quelle parole gli salirono agli occhi le lacrime di un cocente dolore virile, si volse, afferrando il fazzoletto, verso la parete, e donna Elena e le sue figlie si inginocchiarono con silenziosa commozione accanto al suo letto e mescolarono, baciandogli le mani, le loro lacrime alle sue. Nel frattempo era entrato nella sua stanza il carceriere, con cibi per lui e per i suoi, e messer Federico, avendogli domandato come stesse donna Littegarda, venne a sapere, dalle sue parole smozzicate e indifferenti, che giaceva su un mucchio di paglia, e, dal giorno in cui era stata rinchiusa, non aveva proferito parola. Messer Federico fu gettato da quella notizia in un'estrema apprensione, e l'incaricò di dire alla dama, per tranquillizzarla, che, per uno strano decreto del cielo, egli era in pieno miglioramento e le chiedeva il permesso, non appena la sua salute si fosse ristabilita, con l'autorizzazione del castaldo, di poterle far visita nella sua prigione. Ma la risposta che il carceriere, dopo averla più volte scossa per il braccio, poiché giaceva sulla paglia come una mentecatta, senza vedere né ascoltare, disse di aver ricevuto fu che, no, finché era su questa terra non voleva più vedere anima viva; anzi, si venne a sapere che, quel giorno stesso, lei aveva ordinato al castaldo, in uno scritto redatto di suo pugno, di non lascia entrare nessuno, chiunque fosse, e meno che mai il camerlengo di Trota; sicché messer Federico, spinto dalla più violenza preoccupazione per il suo stato, un giorno in cui sentì ritornare particolarmente vive le forze, con il permesso del castaldo prese l'iniziativa e, certo del suo perdono, senza farsi annunciare, accompagnato della madre e dalle sorelle si recò nella stanza di lei.
Ma chi descriverà l'orrore dell'infelice Littegarda, quando, al rumore che veniva dalla porta, con il petto semiscoperto e i capelli disciolti si sollevò dalla paglia ammucchiata sotto di lei, e invece del carceriere che aspettava, vide il camerlengo, il suo nobile ed eccellente amico, con le tracce delle sofferenze patite malinconica e toccante apparizione, entrare da lei, al braccio di Berta e di Cunegonda. "Vattene!", gridò, e si gettò di nuovo, voltandosi, sulle coperte del giaciglio, con una smorfia di disperazione, premendosi il volto con le mani. "Vattene, se ti cova nel petto una scintilla di misericordia!". "Come, mia carissima Littegarda?", rispose messer Federico. E, appoggiandosi alla madre, le si mise a fianco e si chinò con inesprimibile commozione su di lei, per afferrarne la mano. "Vattene!", gridò lei, arretrando in ginocchio sulla paglia di molti passi tremanti. "Non toccarmi, se non vuoi farmi impazzire! Ho orrore di te! Le lingue di fuoco mi sono meno spaventose di te!". "Orrore di me?", rispose messer Federico, colpito. "In che cosa, mia nobile Littegarda, il tuo Federico ha meritato questa accoglienza?". A queste parole Cunegonda gli avvicinò, a un cenno della madre, una sedia, e lo invitò, debole com'era, a sedervisi. "Gesù!", esclamò lei, mentre, nella più orribile angoscia, il viso contro il pavimento, si prostrava davanti a lui. "Esci da questa stanza, mio amato, e lasciami! Abbraccerò con tutto il mio ardore le tue ginocchia, laverò i tuoi piedi con le mie lacrime, ti imploro come un verme che si torce davanti a te nella polvere di un'unica misericordia: esci, mio signore e padrone, esci da questa stanza, esci immediatamente e lasciami!".
Messer Federico continuava a stare, sempre più scosso, davanti a lei. "La mia vista ti è così poco gradita, Littegarda?", domandò, chinando uno sguardo serio su di lei. "Orribile, insopportabile, mi annienta!", rispose Littegarda, nascondendo del tutto il volto, con le mani disperatamente protese, fra le piante dei piedi di lui. "L'inferno, con tutti i suoi orrori e i suoi terrori, mi è più dolce e più amabile da contemplare che la primavera del tuo volto, rivolto a me con benevolenza e amore!". "Dio del cielo!", esclamò il camerlengo. "Che cosa devo pensare di questo strazio dell'anima tua? Il giudizio di Dio, infelice, ha forse detto il vero, e tu sei, sei colpevole del delitto di cui il conte ti ha accusato davanti al tribunale?".
"Colpevole, convinta, reietta, bandita e condannata nel tempo e per l'eternità!", gridò Littegarda, battendosi il petto come un'invasata. "Dio è veritiero e non inganna; va', i miei sensi si smarriscono, e la mia forza si spezza. Lasciami sola, con il mio pianto e la mia disperazione!". A queste parole Federico cadde in deliquio; e, mentre Littegarda si copriva il capo con un velo, e, come se prendesse del tutto congedo dal mondo, si ritirava sul suo giaciglio, Berta e Cunegonda si gettarono piangendo sull'inanimato fratello, per richiamarlo in vita.
"Oh, sii maledetta!", gridò donna Elena, mentre il camerlengo riapriva gli occhi. "Maledetta in un eterno rimorso, al di qua della tomba, e, al di là di essa, in un'eterna dannazione! Non per la colpa che ora confessi, ma per la spietatezza, la disumanità di confessarla non prima di aver trascinato con te nella rovina il mio incolpevole figlio! Stolta che sono stata!", proseguì, voltandole con disprezzo le spalle. "Avessi prestato fede alle parole che, poco prima dell'apertura del giudizio di Dio, mi confidò il priore del convento degli Agostiniani, presso il quale il conte, preparandosi devotamente all'ora decisiva che lo attendeva, era andato a confessarsi! A lui egli aveva giurato, sull'ostia consacrata, la veridicità delle affermazioni rese davanti al tribunale a proposito di questa miserabile; gli parlò della porta del giardino alla quale lei, al calar della notte, l'aveva atteso e accolto, secondo gli accordi; gli descrisse la camera, una stanza laterale della torre disabitata del castello, nella quale, non vista dalle guardie, lo introdusse, e il giaciglio dai comodi cuscini, sormontato da un sontuoso baldacchino, sopra il quale, con sfrontata lussuria, si era coricata segretamente al suo fianco! Un giuramento reso in quell'ora non contiene menzogna: e se io, cieca, fosse pure nel momento in cui stava per essere vibrato il primo colpo, ne avessi fatto cenno a mio figlio, gli avrei aperto gli occhi, ed egli si sarebbe ritratto, tremando, dall'abisso che gli si apriva davanti. Ma vieni", gridò donna Elena, abbracciando teneramente messer Federico, e premendogli un bacio sulla fronte, "l'indignazione, degnandosi di rivolgerle la parola, la onora: veda soltanto la nostra schiena, e, annichilita dai rimproveri che le risparmiamo, disperi!".
"Il miserabile!", ribatté Littegarda, raddrizzandosi, provocata da quelle parole. E, appoggiando dolorosamente il capo sul ginocchio e versando lacrime cocenti nel fazzoletto, disse: "Ricordo che i miei fratelli e io, tre giorni prima della notte di san Remigio, eravamo nel suo castello; egli aveva allestito, come faceva spesso, una festa in mio onore, e mio padre, che si compiaceva a veder celebrate le attrattive della mia fiorente giovinezza, mi aveva spinto ad accettare, con l'accompagnamento dei miei fratelli, l'invito. A tarda ora, dopo la fine delle danze, salita nella mia camera, trovo sul tavolo un biglietto, che, scritto da mano ignota, e senza la firma del nome, contiene una vera e propria dichiarazione d'amore. Capito che i miei due fratelli, per prendere accordi sulla nostra partenza, che era fissata per l'indomani, fossero presenti nella stanza; e, poiché non ero avvezza ad avere segreti di alcun genere con essi, mostrai loro, senza parole per lo stupore, lo strano oggetto che avevo appena scoperto. Questi, che riconobbero immediatamente la mano del conte, schiumarono di rabbia, e il maggiore era deciso a recarsi immediatamente, con il foglio in mano, nella sua stanza; ma il più giovane gli fece presente quanto fosse pericoloso un simile passo, poiché il conte aveva preso la precauzione di non firmare il biglietto; dopo di che entrambi, nella più profonda indignazione per un contegno così offensivo, presero posto con me, in carrozza, quella stessa notte, e, decisi a non onorare mai più il suo castello della loro presenza, fecero ritorno al castello paterno... Questa è l'unica relazione", soggiunse, "che io abbia mai avuto con quell'uomo spregevole e indegno!".
"Che?", disse il camerlengo, volgendo verso di lei il viso rigato di lacrime. "Queste parole sono musica per il mio orecchio... Ripetimele!", disse, dopo una pausa, inginocchiandosi davanti a lei e giungendo le mani. "Non mi hai dunque tradito, a favore di quel miserabile, e sei pura della colpa di cui egli ti ha accusato davanti al tribunale?". "Caro!", sussurrò Littegarda, premendo alle labbra la mano di lui. "Lo sei?", gridò il camerlengo. "Lo sei?". "Come il petto di un bambino appena nato, come la coscienza di un uomo che ritorna dalla confessione, come la salma di una monaca morta, in sagrestia, nel momento della vestizione!". "Dio Onnipotente", gridò messer Federico, abbracciandola le ginocchia, "ti ringrazio! Le tue parole mi ridanno la vita; la morte non mi fa più paura, e l'eternità che or ora si estendeva, davanti a me, come un mare di sconfinata miseria, risorge come un regno di mille soli splendenti!".
"Infelice!", disse Littegarda, ritirandosi indietro. "Come puoi prestar fede a ciò che la mia bocca ti dice?". "Perché no?", chiese messer Federico empiendo. "Pazzo! Dissennato!", gridò Littegarda. "Il sacrosanto giudizio di Dio non ha forse deciso contro di me? Non sei stato sconfitto dal conte in quel fatale duello? Non ha il conte dimostrato con la spada la veridicità di ciò che aveva testimoniato contro di me in tribunale?".
"Mia carissima Littegarda", gridò il camerlengo, "preserva la mente dalla disperazione! Ergi, come una rupe, il sentimento che vive nel tuo petto, tienti forte ad esso, e non vacillare, neppure se terra e cielo crollassero, sotto e sopra di te! Di due pensieri che confondono la mente pensiamo quello più comprensibile e più ragionevole; e, piuttosto che tu creda te stessa colpevole, crediamo piuttosto che, nella tenzone che ho combattuto per te, io abbia vinto!... Dio, Signore della mia vita", aggiunse, in quel momento, mettendosi le mani davanti al viso, "preserva anche l'anima mia dalla confusione! Io credo, come è vero che vorrei essere salvato, di non essere stato vinto dalla spada del mio avversario, poiché, già calpestato nella polvere dal suo piede, sono risorto alla vita. Dov'è l'obbligo, per la suprema saggezza divina, di annunciare e pronunciare la verità nel momento stesso in cui viene fiduciosamente invocata? Oh, Littegarda!", concluse, premendole la mano tra le sue. "Guardiamo, nella vita, alla morte, e, nella morte, all'eternità, e serbiamo la fede salda, incrollabile che la tua innocenza sarà portata, e lo sarà proprio attraverso il duello che ho combattuto per te, alla limpida, chiara luce del sole!". A queste parole entrò il castaldo; e poiché egli ricordò a donna Elena, la quale sedeva a un tavolo piangendo, che tante emozioni potevano riuscire dannose a suo figlio, messer Federico, alle sollecitazioni dei suoi, ritornò, non senza la consapevolezza di aver dato e ricevuto qualche conforto, nella sua prigione.
Nel frattempo davanti al tribunale insediato dall'imperatore a Basilea venne intentata l'accusa contro messer Federico di Trota e contro la sua amica, donna Littegarda di Auerstein, per aver invocato in modo sacrilego l'arbitrato divino, ed entrambi, secondo la legge vigente, furono condannati a subire, sulla piazza stessa della tenzone, la morte infame del rogo. Si mandò una delegazione di giudici a darne l'annuncio ai prigionieri, e la sentenza, subito dopo che il camerlengo si fosse ristabilito, sarebbe stata senz'altro eseguita, se non fosse stata segreta intenzione dell'imperatore vedervi presenziare il conte Iacopo Barbarossa, contro il quale egli non sapeva reprimere un sorta di diffidenza. Ma questi continuava, in maniera, a dire il vero, assai strana e singolare, a giacere malato, per via della piccola e in apparenza insignificante ferita che aveva ricevuto, all'inizio del duello, da messer Federico; uno stato estremamente corrotto dei suoi umori ne impediva, di giorno in giorno, di settimana in settimana, la guarigione, e tutta l'arte dei medici, che, con l'andare del tempo, erano stati chiamati dalla Svevia e dalla Svizzera non era stata in grado di rimarginarla. Anzi, un pus venefico, di un genere ignoto a tutta la medicina del tempo, divorava come un cancro i tessuti circostanti, fino all'osso e all'intero sistema della mano, cosicché, con orrore di tutti i suoi amici, ci si vide costretti ad imputargli l'intera mano offesa, e, in seguito, poiché neppure con questo mezzo si era posto fine all'azione divoratrice del pus, il braccio stesso. Ma anche questo mezzo di guarigione, vantato come cura radicale, non fece che aggravare, come oggi si sarebbe facilmente capito, il male, anziché alleviano; e i medici, poiché tutto il suo corpo, a poco a poco, si disfaceva in pus e in cancrena, dichiararono che per lui non c'era salvezza e che, prima che finisse la settimana, doveva morire.
Invano il priore del convento degli Agostiniani, che in questa svolta inaspettata degli eventi credeva di scorgere la tremenda mano di Dio, lo esortò a confessare la verità, in relazione alla lite che lo opponeva alla duchessa reggente; il conte, sempre più scosso, prese ancora una volta il santo sacramento per confermare la veridicità della sua deposizione e, con tutti i segni della più orribile angoscia, disse che abbandonava, nel caso avesse lanciato contro donna Littegarda accuse calunniose, la propria anima alla dannazione eterna. Ora, si avevano, malgrado la scostumatezza delle sue abitudini, doppie ragioni per credere all'intima onestà di quell'assicurazione: da un lato perché all'infermo non mancava, in realtà, una certa devozione, che non sembrava permettere un falso giuramento in un momento simile; inoltre perché, da un interrogatorio al quale fu sottoposto il guardiano della torre del castello di Breda, che egli diceva di aver corrotto, al fine di entrare segretamente nella fortezza, risultò che la circostanza era fondata punto per punto, e che il conte, nella notte di san Remigio, era stato davvero all'interno del castello dei Breda.
In seguito a ciò, non rimase al priore quasi null'altro, se non credere che il conte fosse stato ingannato da una terza persona, a lui sconosciuta; e l'infelice, al quale, alla notizia della meravigliosa guarigione del camerlengo, era venuto in mente lo stesso pensiero terribile, non era ancora giunto alla fine della sua vita, quando questa idea, per sua disperazione, trovò piena conferma. Bisogna, infatti, sapere che il conte, già molto tempo prima che i suoi desideri si appuntassero su donna Littegarda, aveva una tresca con Rosalia, la sua cameriera; quasi a ogni visita che la padrona faceva nel suo castello, egli era solito attirare nottetempo nella propria camera quella ragazza, che era una creatura leggera e di facili costumi. Quando Littegarda, durante l'ultima visita che fece al suo castello, insieme ai fratelli, ricevette da lui quel biglietto affettuoso, nel quale le dichiarava la sua passione, il fatto suscitò il risentimento e la gelosia della ragazza, che egli aveva trascurato già da molte lune; e, alla partenza, subito dopo seguita, di Littegarda, che lei doveva accompagnare, essa lasciò, con il nome di lei, un biglietto per il conte, nel quale gli faceva sapere che l'indignazione dei suoi fratelli per il passo da lui compiuto non permetteva un incontro immediato, ma lo invitava, nella notte di san Remigio, a farle visita nelle stanze del castello di suo padre.
Il conte, pieno di gioia per la felice riuscita dell'impresa, scrisse immediatamente una seconda lettera a Littegarda, in cui le confermava il suo arrivo nella notte stabilita e la pregava soltanto, per evitare errori, di mandargli incontro una guida fidata, che potesse condurlo nelle sue stanze; e poiché la cameriera, abile in ogni sorta di intrighi, si aspettava quella comunicazione, le riuscì di intercettare lo scritto, e dirgli in una seconda falsa risposta che lei stessa l'avrebbe atteso alla porta del giardino. Poi, la sera della notte convenuta, con il pretesto che sua sorella era malata e che voleva farle visita, chiese a Littegarda il permesso di recarsi in campagna; lasciò infatti, ottenutolo, nel tardo pomeriggio il castello, portando un fagotto di biancheria sotto il braccio, e si mise, sotto gli occhi di tutti, per la via che portava all'abitazione di quella donna. Ma, invece di portare a termine il viaggio, sul far della notte si ritrovò, con il pretesto che stava per scoppiare un temporale, di nuovo al castello, e si fece preparare, per non disturbare, come disse, sua signoria, essendo sua intenzione riprendere il cammino l'indomani, nelle prime ore del mattino, un giaciglio per la notte in una delle stanze vuote della torre del castello, deserta e poco frequentata. Il conte, che era riuscito a ottenere dal custode, per denaro, di entrare nel castello, e, all'ora della mezzanotte, secondo gli accordi, era stato ricevuto alla porta del giardino da una persona velata, non immaginò, come è facile comprendere, nulla dell'inganno che gli veniva giocato; la ragazza gli diede un bacio fugace sulla bocca e lo condusse, per molte scale e corridoi dell'ala laterale, deserta, in una delle stanze più sontuose dell'edificio, della quale aveva in precedenza accuratamente chiuso le finestre. Qui, dopo che, tenendolo per mano, ebbe origliato alle porte con fare misterioso, e gli ebbe ordinato, con un sussurro, di stare zitto, con il pretesto che la stanza da letto del fratello era vicinissima, si coricò con lui sul letto, che stava da una parte; il conte, ingannato dalla sua figura e dall'altezza, sprofondò nel vortice del piacere di aver fatto ancora, alla sua età, una simile conquista; e quando lei, alle prime luci del mattino, lo lasciò, infilandogli al dito, in ricordo della notte trascorsa, un anello che Littegarda aveva ricevuto dal suo consorte, e che lei, la sera prima, le aveva sottratto a questo scopo, egli le promise, non appena fosse giunto a casa, di contraccambiarla con un altro anello, ricevuto, il giorno delle nozze, dalla sua defunta consorte.
Tre giorni dopo mantenne la parola, e le fece segretamente recapitare alla rocca quell'anello, che Rosalia, ancora una volta, fu così abile da intercettare; ma, probabilmente nel timore che quell'avventura lo portasse troppo oltre, non diede, poi, più notizie di sé, ed evitò, con vari pretesti, un secondo convegno. In seguito la ragazza, a causa di un furto i cui sospetti caddero su di lei quasi con certezza, venne licenziata, e rimandata presso la casa dei genitori, che abitavano sul Reno; e poiché, trascorsi nove mesi, divennero visibili le conseguenze di quella vita dissoluta, e la madre la interrogò con severità, lei confessò che era il conte Iacopo Barbarossa, rivelando tutta la storia segreta che aveva avuto con lui, il padre del bambino. Fortunatamente, per paura di essere presa per una ladra, aveva potuto offrire in vendita solo assai timidamente l'anello che le era stato inviato dal conte e, a causa del suo grande valore, non aveva trovato nessuno che fosse disposto a riscattarlo: sicché la veridicità del suo racconto non poté essere messa in dubbio, e i genitori, valendosi di quella prova evidente, citarono in giudizio il conte Iacopo Barbarossa, perché procedesse al mantenimento del bambino. I giudici, che avevano già udito della strana controversia intentata a Basilea, si affrettarono a portare la scoperta, che era della massima importanza per l'esito di quella causa, a conoscenza del tribunale di Basilea; e poiché un consigliere doveva recarsi in quella città per un pubblico incarico, gli diedero, per risolvere il terribile enigma, che occupava tutta la Svevia e la Svizzera, una lettera con la deposizione giudiziaria della ragazza, alla quale unirono l'anello, per il conte Iacopo Barbarossa.
Era il giorno fissato per l'esecuzione di messer Federico e di Littegarda, che l'imperatore, all'oscuro dei dubbi che erano sorti nell'animo del conte stesso, non riteneva di poter ulteriormente rinviare, quando il consigliere entrò, con lo scritto, nella camera dell'infermo, che si torceva sul suo giaciglio tra disperati lamenti. "Basta!", esclamò questi, quando ebbe letto la lettera e ricevuto l'anello. "Sono stanco di vedere la luce del sole! Procuratemi", disse rivolto al priore, "una barella, e portate questo meschino, le cui forze si riducono in polvere, sul piazzale dell'esecuzione: non voglio morire senza aver compiuto un atto di giustizia!". Il priore, profondamente scosso dall'evento lo fece immediatamente deporre da quattro servi su una lettiga come desiderava, e, insieme a una folla smisurata, che il suono delle campane aveva adunato attorno alla pira, sulla quale messer Federico e Littegarda erano già saldamente legati, giunse con l'infelice, che teneva in mano un crocefisso, sulla piazza. "Fermi!", gridò il priore, mentre faceva deporre la barella di fronte al balcone dell'imperatore. "Prima di appiccare il fuoco a quella pira, ascoltate le parole che deve rivolgervi la bocca di questo peccatore!". "Come?", esclamò il sovrano, alzandosi dal suo seggio pallido come un cadavere. "Il sacrosanto giudizio di Dio non ha già deciso per la giustezza della sua causa, ed è permesso, dopo quanto e accaduto, anche soltanto pensare che Littegarda sia innocente del misfatto che egli le ha attribuito?". E, con queste parole, scese sconvolto dal palco, mentre più di mille cavalieri, seguiti da tutto il popolo, che saltava le panche e le staccionate, si accalcavano intorno al giaciglio dell'infermo.
"Innocente", rispose questi, mentre, sorretto dal priore, si tirava su a metà, "come la sentenza del sommo Iddio, in quel giorno fatale, decise, davanti agli occhi di tutti i cittadini riuniti di Basilea! Poiché egli, colpito da tre ferite, ciascuna mortale, e, come vedete, fiorente di forze e pienezza di vita, mentre un colpo della sua mano, che non sembrò neppure sfiorare l'involucro esterno della mia esistenza, con azione lenta, continuata, terribile ne ha intaccato il nocciolo stesso, e ha abbattuto la mia forza come il vento di tempesta abbatte una quercia. Ma qui, se un incredulo dovesse nutrire ancora qualche dubbio, ecco le prove: Rosalia, la sua cameriera, fu colei che mi ricevette in quella notte di san Remigio, mentre io, meschino, nell'accecamento dei miei sensi, pensavo di stringere tra le mie braccia colei che aveva sempre respinto con disprezzo le mie profferte!".
A queste parole, l'imperatore s'irrigidì, come se fosse fatto di pietra. Egli mandò, voltandosi verso la pira, un cavaliere, con l'ordine di salire egli stesso la scala e slegare il camerlengo e la dama, che giaceva già, priva di conoscenza, tra le braccia di sua madre, e di condurli presso lui. "Dunque un angelo veglia su ogni capello del vostro capo!", esclamò il sovrano, quando Littegarda, con il petto semiscoperto e i capelli disciolti, tenuta per mano da messer Federico, il suo amico, che aveva egli stesso le ginocchia tremanti, per l'emozione di quella miracolosa salvezza, attraverso il cerchio del popolo, che cedeva, con venerazione e sbalordimento, il passo, gli si fu avvicinata. Egli baciò a entrambi, che si erano inginocchiati davanti a lui, la fronte e, dopo aver pregato la sua consorte di porgergli l'ermellino che indossava, e averlo gettato sulle spalle di Littegarda, le porse, sotto gli occhi di tutti i cavalieri radunati, il braccio, con l'intenzione di condurla egli stesso nelle stanze del palazzo imperiale. Poi si volse, mentre il camerlengo veniva anch'egli adornato, al posto del saio di peccatore che lo copriva, con il cappello piumato e il mantello di cavaliere, verso il conte, che si torceva penosamente sulla barella: e, mosso da un sentimento di compassione, poiché questi, dopo tutto, non aveva affrontato il duello che l'aveva portato alla rovina in modo scellerato e sacrilego, domandò al medico che gli stava a fianco se per l'infelice non ci fosse salvezza.
"È inutile", rispose Iacopo Barbarossa, appoggiandosi, con fremiti spaventosi, in grembo al suo medico. "La morte che soffro l'ho meritata. Sappiate, dunque, poiché il braccio della giustizia di questo mondo non può più raggiungermi, che io sono l'assassino di mio fratello, il nobile duca Guglielmo di Breysach: il malvagio che lo abbatté, con la freccia della mia sala d'armi, sei settimane prima era stato, per compiere quel gesto, che avrebbe dovuto procurarmi la corona, assoldato da me!". E, con questa dichiarazione, ricadde sulla barella ed esalò la sua anima nera.
"Ah, il mio consorte, il duca stesso, l'aveva intuito!", esclamò la reggente, ritta accanto all'imperatore, poiché anch'essa era scesa dal balcone del palazzo, al seguito dell'imperatrice, per recarsi sulla piazza. "Me l'aveva detto, con parole spezzate, che allora intesi solo imperfettamente, quando era in punto di morte!".
"Ebbene, il braccio della giustizia raggiungerà almeno il tuo cadavere!", soggiunse l'imperatore, con sdegno. "Prendetelo", gridò, volgendosi verso le guardie, "e consegnatelo subito, giudicato com'è, alle mani del boia: sia consumato, a onta della sua memoria, su quello stesso rogo sul quale eravamo in procinto, per causa sua, di sacrificare due innocenti!".
E con ciò, mentre il cadavere dello sciagurato crepitava tra le fiamme rossastre, e poi veniva disperso e dissipato ai quattro venti dal soffio della tramontana, condusse donna Littegarda, con il seguito di tutti i suoi cavalieri, a palazzo. La reintegrò, con decreto imperiale, nell'eredità paterna, della quale i fratelli, nella loro ignobile avidità, avevano già preso possesso, e tre settimane dopo, nel castello di Breysach, furono celebrate le nozze dei due eccellenti sposi, durante le quali la duchessa reggente, assai lieta della piega che avevano preso le cose, fece dono nuziale a Littegarda di una gran parte dei possedimenti del conte, caduti, per legge, sotto sequestro. L'imperatore, dopo la cerimonia, cinse il collo di messer Federico con una collana d'onore; e, non appena, portati a termine i suoi affari in Svizzera, fu ritornato a Worms, fece inserire negli statuti che regolavano il sacrosanto giudizio di Dio mediante duello, dovunque fosse scritto che la colpa, attraverso di esso, viene immediatamente portata alla luce del giorno, le seguenti parole: "Se questa è la volontà di Dio".