USA INTERNET EXLORER O PER GLI ALTRI BROWSER IL CHARACTER CODING WESTERN (MAC ROMAN)

GABRIELE D'ANNUNZIO

L'innocente
SECONDA PARTE

X.

 

Ella aveva ricuperata in breve la conoscenza. Appena in grado di reggersi, aveva voluto sùbito montare in carrozza per tornare alla Badiola.

Ora, coperta dei nostri plaids, stava rannicchiata nel suo posto, silenziosa. Io e mio fratello di tratto in tratto ci guardavamo inquieti. Il cocchiere sferzava i cavalli. E il trotto serrato risonava forte su la strada che le siepi qua e là fiorite limitavano, in una sera d'aprile mitissima, sotto un cielo puro.

Di tratto in tratto io e Federico domandavamo:

- Come ti senti, Giuliana?

Ella rispondeva:

- Eh, così... un po' meglio...

- Hai freddo?

- Sì... un poco.

Rispondeva con uno sforzo manifesto. Pareva quasi che le nostre domande la irritassero; tanto che, insistendo Federico a muovere qualche discorso, ella disse alfine:

- Scusa, Federico... Mi dà fastidio parlare.

Essendo spiegato il mantice, ella stava nell'ombra, nascosta, immobile sotto le coperte. Più d'una volta io mi chinai verso di lei per scorgerle il viso, o credendo ch'ella si fosse assopita o temendo ch'ella fosse ricaduta nel deliquio. Tutte le volte ebbi la stessa sensazione inaspettata di sgomento, accorgendomi ch'ella teneva nell'ombra gli occhi sbarrati e fissi.

Seguì un lungo intervallo di silenzio. Anche io e Federico ammutolimmo. Il trotto dei cavalli non mi pareva a bastanza rapido. Avrei voluto ordinare al cocchiere di spingerli al galoppo.

- Sferza, Giovanni!

Erano quasi le dieci quando giungemmo alla Badiola.

Mia madre ci aspettava, in pena per l'indugio. Quando vide Giuliana in quello stato, disse:

- Me l'imaginavo io, che lo strapazzo ti avrebbe fatto male...

Giuliana volle rassicurarla.

- Non è nulla, mamma... Vedrai che domattina starò bene. Un po' di stanchezza...

Ma guardandola alla luce, mia madre esclamò spaventata:

- Dio mio! Dio mio! Tu hai un viso che fa paura... Tu non ti reggi in piedi... Edith, Cristina, presto, correte su a scaldare il letto. Vieni, Tullio, che la portiamo su...

- Ma no, ma no, - insisteva Giuliana, opponendosi - non ti spaventare, mamma, che non è nulla...

- Io vado a Tussi con la carrozza a prendere il medico - propose Federico. - Tra mezz'ora son qui.

- No, Federico, no! - gridò Giuliana; quasi con violenza, come esasperata. - Non voglio. Il medico non può farmi nulla. So io quel che debbo prendere. Ho tutto, su. Andiamo, mamma. Dio mio! Come v'allarmate sùbito! Andiamo, andiamo...

Ed ella parve aver riacquistata la forza a un tratto. Diede alcuni passi, franca. Su per le scale, io e mia madre la sorreggemmo. Nella stanza, ella fu assalita da un vomito convulso che le durò alcuni minuti. Le donne incominciavano a spogliarla.

- Va, Tullio, va - ella mi pregò. - Tornerai dopo a vedermi. Resta qui la mamma, intanto. Non ti prender pena...

Uscii. Rimasi in una di quelle stanze attigue, seduto su un divano, ad aspettare. Ascoltavo il passo delle donne di casa affaccendate; mi rodevo d'impazienza. “Quando potrò rientrare? Quando potrò rimanere solo con lei? La veglierò; starò tutta la notte al suo capezzale. Forse fra qualche ora ella si calmerà, si sentirà bene. Accarezzandole i capelli, forse riescirò ad addormentarla. Chi sa! Dopo un poco, tra la veglia ed il sonno, mi dirà: - Vieni.” Avevo una strana fede nella virtù delle mie carezze. Speravo ancóra che quella notte potesse avere una dolce fine. E come sempre, tra le angosce che mi dava il pensiero delle sofferenze di Giuliana, l'imagine sensuale si determinava diventando una visione lucida e durevole. “Pallida come la sua camicia, al chiaror della lampada che arde dietro le cortine dell'alcova, ella si sveglia dopo il primo sonno breve, mi guarda con gli occhi semiaperti, languida, mormorando: - Vieni a dormire anche tu..”

Entrò Federico.

- Ebbene? - disse affettuosamente. - Pare che non sia nulla. Ho parlato con Miss Edith or ora, per le scale. Non vuoi scendere a mangiar qualche cosa? Giù, hanno preparato...

- No, non ho appetito, ora. Forse più tardi... Aspetto che mi chiamino dentro...

- Intanto io vado, se non c'è bisogno di me.

- Va pure, Federico. Scenderò poi. Grazie.

Lo seguii con lo sguardo, mentre s'allontanava. E ancóra una volta mi venne dal buon fratello un sentimento di confidenza; ancóra una volta mi s'allargò il cuore.

Passarono tre minuti circa. L'orologio a pendolo, ch'era su la parete di contro a me, li misurò col suo ticchettio. Le sfere segnavano le dieci e tre quarti. Mentre io mi levavo impaziente per andare verso la stanza di Giuliana, entrò mia madre commossa dicendo sottovoce:

- S'è calmata. Ora ha bisogno di riposo. Povera figliuola!

- Posso andare? - le domandai.

- Sì, va; ma lasciala riposare.

Come io mi mossi, ella mi richiamò.

- Tullio!

- Che vuoi, mamma?

Ella pareva esitante.

- Dimmi... Dal tempo dell'operazione, hai più parlato col dottore?

- Ah, sì, qualche volta... Perché?

- T'ha rassicurato sul pericolo...

Ella esitava.

- ... sul pericolo che potrebbe correre Giuliana, in un altro parto?

Io non avevo parlato col dottore; non sapevo che rispondere. Confuso, ripetei:

- Perché?

Ella esitava ancóra.

- Non ti sei accorto che Giuliana è incinta?

Percosso come da un colpo di maglio nel mezzo del petto, da prima non afferrai la verità.

- Incinta! - balbettai.

Mia madre mi prese le mani.

- Ebbene, Tullio?

- Non sapevo...

- Ma tu mi fai paura. Il dottore dunque...

- Già, il dottore...

- Vieni, Tullio, siediti.

E mi fece sedere sul divano. Mi guardava sbigottita, aspettando che io parlassi. Per qualche attimo, benché io l'avessi lì davanti agli occhi, non la vidi più. Una luce violentissima si fece nel mio spirito, a un tratto; e mi si presentò il dramma.

Chi mi diede la forza di resistere? Chi mi conservò la ragione? Forse nell'eccesso medesimo del dolore e dell'orrore io trovai il sentimento eroico che mi salvò.

Appena riacquistai la sensibilità fisica, la percezione delle cose esteriori, e vidi mia madre che mi guardava da presso con ansia, compresi che prima di tutto bisognava assicurare mia madre.

Le dissi:

- Non sapevo... Giuliana non m'ha detto nulla. Non mi sono accorto di nulla... È una sorpresa... Il dottore, sì, mi parlò di qualche pericolo... Perciò la notizia mi fa quest'impressione... Sai, Giuliana ora è così debole... Ma veramente il dottore non accennò a nulla di troppo grave; perché, essendo riescita l'operazione... Vedremo. Lo chiameremo qui; lo consulteremo...

- Sì, sì; è necessario.

- Ma tu, mamma, sei sicura della cosa? Te l'ha confessata Giuliana, forse? Oppure...

- Io me ne sono accorta, sai, dai soliti segni. È impossibile ingannarsi. Fino a due o tre giorni fa, Giuliana negava o almeno diceva di non esserne certa... Sapendoti così apprensivo, m'ha pregata di non parlartene per ora. Ma io ho voluto avvisarti... Giuliana, tu la conosci, è così trascurata per la sua salute! Vedi: qui, invece di migliorare, mi sembra che vada ogni giorno peggiorando; mentre prima bastava una settimana di campagna per farla rifiorire. Ti ricordi?

- Sì, è vero.

- Le precauzioni, in questi casi, non sono mai troppe. Bisogna che tu ne scriva subito al dottor Vebesti.

- Sì, sùbito.

E, poiché sentivo che non avrei potuto dominarmi più oltre, mi alzai soggiungendo:

- Vado da Giuliana.

- Va; ma stasera lasciala riposare, lasciala tranquilla. Io scendo e poi torno su.

- Grazie, mamma.

E le sfiorai la fronte con le labbra.

- Figlio benedetto! - ella mormorò, allontanandosi.

Su la soglia della porta opposta mi fermai e mi volsi; e vidi sparire quella dolce figura ancóra diritta, così nobile nella veste nera.

Ebbi una sensazione indescrivibile, simile forse a quella che avrei avuta dal crollo fulmineo di tutta la casa. Tutto crollò, ruinò, dentro di me, intorno a me, irresistibilmente.

 

 

XI.

 

Chi non ha udito qualche volta proferire da uomini sventurati una frase di questo genere? “In un'ora ho vissuto dieci anni.” Una tal cosa è inconcepibile. Bene, io la comprendo. Nei pochi minuti di quel dialogo quasi pacato tra me e mia madre, io non vissi più di dieci anni? L'accelerazione della vita umana interiore è il più meraviglioso e il più spaventoso fenomeno dell'universo.

Ora, che doveva io fare? Impeti folli mi venivano, di fuggire lontano nella notte, o di correre alle mie stanze per chiudermi, per rimaner solo a considerare la mia ruina, a conoscerla tutta quanta. Ma seppi resistere. La superiorità della mia natura si mostrò in quella notte. Seppi svincolare dall'atroce torsione qualcuna delle mie facoltà più virili. E pensai: “È necessario che nessuno dei miei atti apparisca singolare, inesplicabile, a mia madre, a mio fratello, a qualunque persona di questa casa”.

Innanzi all'uscio della stanza di Giuliana m'arrestai, impotente a frenare il tremore fisico che mi scoteva. Udendo giungere pel corridoio suono di passi, entrai risoluto.

Miss Edith usciva dall'alcova su la punta dei piedi. Mi accennò di non far rumore. Mi disse sottovoce:

- Sta per addormentarsi.

Se ne andò, socchiudendo l'uscio dietro di sé, pianamente. La lampada ardeva sospesa nel mezzo della volta, con un chiarore placido eguale. Su una sedia era posato il mantello amaranto; su un'altra sedia, il busto di raso nero, il busto che Giuliana s'era tolto a Villalilla nella mia breve assenza; su un'altra sedia, l'abito grigio, quel medesimo ch'ella aveva portato con tanta finezza tra i fiori di lilla eleganti. La vista di quelle cose mi diede un tale spasimo che di nuovo ebbi l'impeto di fuggire. Mi volsi all'alcova, discostai le cortine; vidi il letto, vidi sul guanciale la macchia cupa dei capelli, non la faccia: vidi il rilievo del corpo rattratto sotto le coperte. Mi si presentò allo spirito la verità brutale in tutta la sua più ignobile brutalità. “Ella è stata posseduta da un altro, ha ricevuta l'escrezione di un altro, porta nel ventre il seme di un altro.” E una serie d'imagini fisiche odiose mi si svolse davanti agli occhi dell'anima, che io non potevo serrare. E non furono soltanto le imagini di ciò che era accaduto, ma anche quelle di ciò che doveva necessariamente accadere. Bisognò anche ch'io vedessi, con una precisione inesorabile, Giuliana nel futuro (il mio Sogno, la mia Idealità!) difformata da un ventre enorme, gravida d'un feto adulterino...

Chi avrebbe potuto imaginare un castigo più feroce? E tutto era vero, tutto era certo!

Quando il dolore eccede le forze, istintivamente l'uomo cerca nel dubbio un'attenuazione momentanea della sofferenza insofferibile; pensa: “Forse io m'inganno; forse la mia sciagura non è quale mi appare; forse tutto questo dolore è irragionevole”. E, per protrarre la tregua, intende lo spirito perplesso ad acquistare una nozione più esatta della realtà. Ma a me il dubbio non si presentò neppure per un attimo; io non ebbi neppure un attimo d'incertezza. M'è impossibile esplicare il fenomeno che si svolse nella mia conscienza divenuta straordinariamente lucida. Pareva che per un segreto spontaneo processo, compiutosi in una sfera interiore oscura, tutti gli inavvertiti indizii relativi alla cosa tremenda si fossero coordinati tra loro formando una nozione logica, completa, coerente, definitiva, irrefragabile; la quale ora mi si manifestasse d'un tratto assorgendo nella mia conscienza con la rapidità di un oggetto che, non più trattenuto al fondo da legami ignoti, venga su la linea dell'acqua a galleggiare e vi rimanga insommergibile. Tutti gli indizii, tutte le prove erano là, in ordine. Io non dovevo compiere alcuno sforzo per ricercarli, per sceglierli, per riunirli. Fatti insignificanti, lontani, s'illuminavano nella nuova luce; lembi di vita recente si ricolorivano. E l'avversione insolita di Giuliana per i fiori, per gli odori, i suoi turbamenti singolari, le sue nausee mal dissimulate, i suoi pallori subitanei, quella specie di nube continua tra ciglio e ciglio, quella stanchezza immensa di certe sue attitudini; e le pagine segnate con l'unghia nel libro russo, il rimprovero del vecchio al conte Besoukhow, la domanda estrema della piccola principessa Lisa, e quel gesto con cui ella mi aveva tolto di mano il libro; e poi le scene di Villalilla, le lacrime, i singhiozzi, le frasi ambigue, i sorrisi sibillini, i quasi lugubri ardori, le volubilità quasi folli, le evocazioni della morte, tutti gli indizii si aggruppavano intorno alle parole di mia madre incise nel centro della mia anima.

Mia madre aveva detto: “È impossibile ingannarsi. Fino a due o tre giorni fa, Giuliana negava o almeno diceva di non esserne certa... Sapendoti così apprensivo, m'ha pregata di non parlartene...”. La verità non poteva essere più chiara. Tutto, dunque, ormai era certo!

Entrai nell'alcova; m'appressai al letto. Dietro di me le cortine ricaddero; la luce divenne più fievole. L'ansietà mi tolse il respiro, tutto il sangue mi si fermò nelle arterie, quando io giunsi al capezzale e mi chinai per guardare più da vicino la testa di Giuliana, quasi celata dal lenzuolo. Io non so che sarebbe avvenuto s'ella avesse alzato la faccia ed avesse parlato, in quel momento.

Dormiva ella? Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta.

Rimasi là qualche minuto, in piedi, aspettando. Ma dormiva ella? Non si moveva, giacendo sul fianco. La bocca nascosta dal lenzuolo non dava segno di respirazione al mio udito. Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta.

Come mi sarei contenuto s'ella si fosse accorta della mia presenza? Non era quella l'ora delle interrogazioni, l'ora del colloquio. S'ella avesse sospettato che tutto m'era noto, a quali estremità si sarebbe spinta in quella notte? Avrei io dunque dovuto simulare un'ingenua tenerezza, avrei dovuto mostrarmi perfettamente ignaro, persistere nella espressione del sentimento che m'aveva dettato le dolci parole, quattro ore innanzi, a Villalilla. “Stasera, stasera, nel tuo letto... Vedrai come saprò tenerti. Ti addormenterò. Mi dormirai tutta la notte sul cuore...”

Girando lo sguardo intorno smarrito, scorsi sul tappeto gli scarpini lucidi e sottili, su la spalliera d'una sedia le lunghe calze di seta cinerina, le giarrettiere d'amoerro, un altro oggetto di segreta eleganza, tutte cose di cui i miei occhi d'amante s'erano già dilettati nelle intimità recenti. E la gelosia dei sensi mi morse con tanta furia che fu un prodigio se io mi trattenni dal gittarmi su Giuliana per risvegliarla e per gridarle le parole folli e crude che mi suggeriva la collera subitanea.

Mi ritrassi vacillando, uscii dall'alcova. Pensai con un cieco sgomento: “Come finiremo?”.

Mi disponevo ad andarmene. “Scenderò. Dirò a mia madre che Giuliana dorme, che ha un sonno molto calmo; le dirò che anch'io ho bisogno di riposo. Mi ritirerò nella mia stanza. Domattina poi...” Ma rimanevo là perplesso, incapace di varcare la soglia, assalito da mille paure. Mi volsi ancóra verso l'alcova, con un moto repentino, come se avessi sentito uno sguardo sopra di me. Mi parve che le cortine ondeggiassero; ma fu un abbaglio. Eppure qualche cosa come un'onda magnetica a traverso le cortine veniva a penetrarmi; qualche cosa a cui non resistevo. Entrai nell'alcova una seconda volta, rabbrividendo.

Giuliana giaceva nella medesima attitudine. Dormiva? Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta. Mi sedetti, presso al capezzale; ed aspettai. Guardavo quella fronte pallida come il lenzuolo, tenue e pura come una particola, sororale, che tante volte le mie labbra avevano baciata religiosamente, che tante volte avevano baciata le labbra di mia madre.

Non v'appariva segno di contaminazione; alla vista era sempre la stessa, là nulla al mondo poteva ormai cancellare la macchia che vedevano su quel pallore gli occhi della mia anima!

Alcune parole, proferite da me nell'ultima ebrezza, mi tornarono alla memoria. “Io ti veglierò, ti leggerò sul viso i sogni che sognerai.” Ripensai: “Ella ripeteva ad ogni tratto: - Sì, sì”. Domandai a me medesimo: “Di che vita ella vive, entro di sé? Quali sono i suoi propositi? Che ha ella risoluto?”. E guardavo la sua fronte, là non più considerai il mio dolore; ma mi piegai tutto a raffigurare il suo dolore, a comprendere il suo dolore.

Certo, doveva essere una disperazione inumana, la sua; senza tregua, senza limite. Il mio castigo era anche il suo castigo, ed era per lei forse un castigo anche più terribile. Laggiù, a Villalilla, pel viale, sul sedile, nella casa, ella aveva certo sentita la verità nelle mie parole, aveva certo letta la verità nella mia faccia. Ella aveva creduto al mio amore immenso.

“... Tu eri nella mia casa mentre io ti cercavo lontano. Ah, dimmi tu: questa rivelazione non vale tutte le tue lacrime? Non vorresti averne versate anche più, anche più, per una tale prova?

- Sì, anche più!...

Così aveva ella risposto, così tutta la sua anima aveva risposto, con un soffio che veramente m'era parso divino. “Sì, anche più!...

Ella avrebbe voluto aver versato altre lacrime, avrebbe voluto aver sofferto un altro martirio per quella rivelazione! E, vedendo ai suoi piedi appassionato come non mai l'uomo da anni perduto e pianto, vedendo aprirsi d'innanzi a sé un gran paradiso ignoto, ella s'era sentita impura, aveva avuta la sensazione materiale della sua impurità, aveva dovuto sopportare la mia testa sul grembo fecondato dal seme di un altro uomo.. Ah, come mai, veramente le sue lacrime non mi avevano piagata la faccia? Come mai avevo potuto io beverle senza avvelenarmi?

Rivissi in un attimo tutta la nostra giornata d'amore. Rividi tutte le espressioni, anche le più fuggevoli, apparse sul volto di Giuliana dal momento del nostro ingresso a Villalilla; e tutte le compresi. Una gran luce s'era fatta in me. “Ah quando io le parlavo del domani, le parlavo dell'avvenire!... Che spaventosa parola doveva essere per lei quel Domani su le mie labbra!...” E mi tornò alla memoria il breve dialogo avvenuto sul limitare del balcone al conspetto del cipresso. Ella aveva ripetuto sommessamente, con un sorriso tenue: “Morire!”. Aveva parlato di fine prossima. Aveva domandato: “Che faresti tu se io ti morissi, all'improvviso? Se, per esempio, domani io fossi morta?”. Più tardi, nella nostra stanza, ella aveva gridato stringendosi a me: “No, no, Tullio; non si parla dell'avvenire... Pensa a oggi, all'ora che passa!”. Non tradivano tali atti, tali parole un proposito di morte, una risoluzione tragica? Era manifesto ch'ella aveva risoluto di uccidersi, ch'ella si sarebbe uccisa, forse in quella notte medesima, prima del domani indifferibile, non essendoci per lei altro scampo.

Quando cessò il raccapriccio che mi venne dal pensiero del pericolo imminente, io considerai in me stesso: “Sarebbero più gravi le conseguenze della morte di Giuliana o quelle della sua incolumità? Poiché la ruina è senza riparo e l'abisso è senza fondo, una catastrofe immediata è forse preferibile alla prolungazione indefinita del dramma spaventevole”. E la mia imaginazione mi faceva assistere alle fasi della nuova maternità di Giuliana, mi faceva vedere il nuovo essere procreato, l'intruso che avrebbe portato il mio nome, che sarebbe stato il mio erede, che avrebbe usurpato le carezze di mia madre, delle mie figliuole, di mio fratello. “Certo, soltanto la morte può interrompere il corso fatale di questi eventi. Ma il suicidio resterebbe segreto? Con qual mezzo Giuliana si ucciderebbe? Accertata la morte volontaria, che penserebbero mia madre, mio fratello? Qual colpo ne riceverebbe mia madre? E Maria? E Natalia? E che farei allora io della mia vita?”

Non riuscivo, veramente, a concepire la mia vita senza Giuliana. Io amavo quella povera creatura anche nella sua impurità. Tranne quell'impeto subitaneo di collera suscitatomi dalla gelosia carnale, io non avevo ancor provato contro di lei un senso d'odio o di rancore o di disdegno. Non m'era balenato alcun pensiero di vendetta. Invece, io avevo di lei una misericordia profonda. Io accettavo, fin da principio, tutta la responsabilità della sua caduta. Un sentimento fiero e generoso mi sollevò, mi esaltò. “Ella ha saputo chinare il capo sotto i miei colpi, ha saputo soffrire, ha saputo tacere; mi ha dato l'esempio del coraggio virile, dell'abnegazione eroica. Ora è venuta la mia volta. Io le debbo il contraccambio. Debbo salvarla ad ogni costo.” E questa sollevazione dell'anima, questa cosa buona, mi veniva da lei.

La guardai da presso. Rimaneva ancóra immobile, nella medesima attitudine, con la fronte scoperta. Pensai: “Ma dorme? Se invece fingesse di dormire per allontanare ogni sospetto, per farsi credere calma, per esser lasciata sola? Certo, se il suo proposito è di non arrivare a domani, ella cerca di favorirne l'esecuzione con ogni mezzo. Ella simula il sonno. Se il sonno fosse reale, non sarebbe così tranquillo, così fermo, in lei che ha i nervi sovreccitati. Ora la scuoto...”. Ma esitai: “Se realmente dormisse? Talvolta, dopo una grande dispersione di forza nervosa, anche in mezzo alle più fiere inquietudini morali il sonno piomba grave come una sincope. Oh le durasse questo sonno fino a domani e potesse ella domani levarsi rinfrancata, a bastanza forte per sostenere il colloquio tra noi inevitabile!”. Guardavo fissamente quella fronte pallida come il lenzuolo; e, chinandomi un poco più, m'accorsi che diveniva madida. Una stilla di sudore spuntava sul sopracciglio. E quella stilla mi suscitò l'idea del sudor freddo che annuncia l'azione dei veleni narcotici. Sùbito mi balenò un sospetto. “La morfina!” E per istinto il mio sguardo corse al tavolo da notte, di là dal capezzale, come a cercarvi la fiala di vetro contrassegnata dal piccolo teschio nero, dal noto simbolo mortuario.

Erano su quel tavolo una boccia d'acqua, un bicchiere, un candeliere, un fazzoletto, alcune forcine che rilucevano; non v'era altro. Feci un esame rapido di tutta l'alcova. Un'ansietà angosciosa mi stringeva. “Giuliana ha la morfina. Ne ha sempre avuta una certa quantità, liquida, per le iniezioni. Son sicuro che ha pensato di avvelenarsi con quella. Dove tiene nascosta la bottiglietta?” Io avevo fissa dentro le pupille l'imagine della piccola fiala di vetro veduta una volta tra le mani di Giuliana, distinta da quel segno sinistro che usano i farmacisti per distinguere un tossico. La fantasia eccitata mi suggerì: “E se ella avesse già bevuto?... Quel sudore...”. Tremavo, su la sedia; e un dibattito rapido si agitava dentro di me. “Ma quando? Ma come? Ella non è rimasta mai sola. - Basta un attimo per vuotare una fiala. - Ma in lei non sarebbe forse mancato il vomito... E quell'accesso di vomito convulso, dianzi, appena ella è giunta qui? Avendo premeditato il suicidio, forse ella portava seco la morfina. Non può essere ch'ella l'abbia bevuta prima di giungere alla Badiola, in carrozza, nell'ombra? Infatti, ella ha impedito che Federico andasse a chiamare il medico..” Io non conoscevo bene i sintomi dell'avvelenamento per morfina. Nel dubbio, la fronte bianca e madida, la immobilità perfetta di Giuliana mi atterrivano. Stavo per scuoterla. “Ma se m'inganno? Ella si sveglia ed io che cosa le dico?” Mi pareva che la prima parola di lei, il primo sguardo scambiato tra lei e me, la prima comunicazione diretta tra lei e me, dovessero cagionarmi un effetto straordinario, d'una violenza imprevedibile, inimaginabile. Mi pareva che non avrei potuto dominarmi, dissimulare, e che ella sùbito, guardandomi, avrebbe indovinata la mia consapevolezza. E allora?

Tesi l'orecchio, sperando e temendo che sopraggiungesse mia madre. Poi (non avrei tremato così nel sollevare il lembo d'un lenzuolo funebre per rivedere la sembianza di una persona estinta) scopersi a poco a poco il volto di Giuliana.

Ella aprì gli occhi.

- Ah, Tullio, sei tu?

Ella aveva la sua voce naturale. Cosa inaspettata: io potevo parlare.

- Dormivi? - le dissi, evitando di guardarla nelle pupille.

- Sì, m'ero assopita.

- Io dunque t'ho svegliata... Perdonami... Volevo scoprirti la bocca. Temevo che tu non respirassi bene... che le coperte ti affogassero...

- Sì, è vero. Ora ho caldo, troppo caldo... Levami qualcuna di queste coperte; ti prego.

E io mi alzai per alleggerirla di qualche coperta. M'è ora impossibile definire il mio stato di conscienza relativo a quegli atti che io facevo, a quelle parole che io dicevo e udivo, a quelle cose che accadevano naturalmente come se nulla fosse mutato, come se io e Giuliana fossimo ignari e immuni, come se là dentro non fossero l'adulterio, il disinganno, il rimorso, la gelosia, la paura, la morte, tutte le atrocità umane, in quell'alcova tranquilla.

Ella mi domandò:

- È molto tardi?

- No, non è ancóra mezzanotte.

- La mamma è andata a letto?

- Non ancóra.

Dopo una pausa:

- E tu... non vai? Devi essere stanco...

Non seppi rispondere. Dovevo rispondere che rimanevo? pregarla di lasciarmi rimanere? ripeterle le parole tenere proferite su la poltrona, nella nostra stanza, a Villalilla? Ma, rimanendo, in che modo avrei passata la notte? Là, su la sedia, a vegliare, o nel letto accanto a lei? In che modo mi sarei condotto? Avrei potuto simulare sino in fondo?

Ella soggiunse:

- È meglio che tu vada, Tullio... per questa sera... Io non ho bisogno più di nulla; non ho bisogno d'altro che di riposo. Se tu rimanessi... sarebbe male... È meglio che tu vada, per questa sera, Tullio.

- Ma tu potresti aver bisogno...

- No. E poi, in ogni caso, c'è Cristina che dorme qui accanto.

- Io mi stendo là, sul canapè, con una coperta...

- Perché vuoi soffrire? Tu sei molto stanco: si vede dalla faccia... E poi, se io ti sapessi là, non dormirei. Sii buono, Tullio! Domattina, presto, tu verrai a vedermi. Ora abbiamo bisogno di riposo, tutt'e due: d'un riposo completo...

Ella aveva la voce fioca e carezzevole, senza alcun accento insolito. Tranne l'insistenza nel persuadermi ad andarmene, null'altro accusava in lei il proposito funesto. Ella pareva prostrata di forze ma calma. Di tratto in tratto chiudeva gli occhi, come se il sonno le aggravasse le palpebre. - Che fare? Lasciarla? Ma la sua calma appunto mi spaventava. Una tale calma non poteva venirle che dalla fermezza del proposito. Che fare? Tutto considerato, anche la mia presenza durante la notte sarebbe stata vana. Ella avrebbe potuto benissimo mandare ad effetto il suo pensiero, essendosi preparata, avendo pronto il mezzo. Questo mezzo era veramente la morfina? E dove teneva ella nascosta la fiala? Sotto il guanciale? Nel cassetto del tavolo da notte? In che modo farne ricerca? Bisognava palesare tutto, dire all'improvviso: “Io so che tu ti vuoi uccidere”. Ma quale scena sarebbe seguita? Non sarebbe stato possibile nascondere il resto. E che notte, allora, sarebbe stata quella? - Tante perplessità esaurivano ogni mia energia, mi dissolvevano. I miei nervi si rilasciavano. La stanchezza fisica diveniva sempre più grave. Tutto il mio organismo entrava in quello stato di sfinimento estremo in cui ogni funzione volontaria sta per essere sospesa, in cui azioni e reazioni non si corrispondono più o non si compiono. Io mi sentivo incapace di resistere più oltre, di lottare, di operare in una qualunque maniera utile. Il sentimento della mia debolezza, il sentimento della necessità di ciò che accadeva ed era per accadere mi paralizzavano. Il mio essere pareva colpito come da una paralisia repentina. Io provavo Un bisogno cieco di sfuggire anche a quell'ultima oscura conscienza dell'essere. E finalmente tutte le mie ansietà si risolsero in un pensiero disperato. “Avvenga che può, c'è anche per me la morte.”

- Sì, Giuliana, - dissi - ti lascio in pace. Dormi. Ci vedremo domani.

- Non ti reggi!

- Già, è vero; non mi reggo... Addio. Buona notte!

- Non mi dai un bacio, Tullio?

Un brivido di ripugnanza istintiva mi attraversò. Esitai. In quel punto entrava mia madre.

- Come, sei sveglia? - esclamò mia madre.

- Sì, ma ora mi riaddormento.

- Sono stata a vedere le bambine. Natalia era desta. M'ha domandato sùbito: “È tornata la mamma?”. Voleva venire...

- Perché non dici a Edith che me la porti? S'è messa a letto Edith?

- No.

- Addio, Giuliana - interruppi.

E m'appressai, e mi chinai a baciarle la guancia ch'ella mi porgeva sollevandosi un poco su i gomiti.

- Addio, mamma. Vado a coricarmi perché ho un sonno che m'acceca.

- E non prendi nulla? Federico è rimasto giù ad aspettarti...

- No, mamma; non ho voglia. Buona notte!

E baciai su la guancia anche lei. Ed uscii senza indugio, senza volgere uno sguardo a Giuliana; raccolsi le poche forze che mi restavano e, appena fuori della soglia, mi misi a correre verso le mie stanze, per tema di cadere prima di aver raggiunta la mia porta.

Mi gettai bocconi sul letto. M'agitava quell'orgasmo che precede i grandi scoppi di pianto, quando il nodo dell'angoscia sta per disciogliersi, quando la tensione sta per allentarsi. Ma l'orgasmo durava, e il pianto non veniva. La sofferenza era orribile. Un peso enorme mi gravava in tutto il corpo, un peso che io sentivo non sopra ma dentro di me come se le mie ossa e i miei muscoli fossero divenuti di piombo compatto. E il mio cervello pensava ancóra! E la mia conscienza era ancóra vigile!

“No, non dovevo lasciarla, non dovevo consentire ad andarmene così. Certo, quando mia madre si sarà ritirata, ella si ucciderà. Il suono della sua voce quando ha espresso il desiderio di rivedere Natalia!..” Un'allucinazione s'impadronì di me, subitamente. - Mia madre usciva dalla stanza. Giuliana si levava a sedere sul letto, si metteva in ascolto. Poi, sicura d'essere alfine sola, prendeva dal cassetto del tavolo da notte la bottiglia della morfina; non esitava un attimo; con un gesto risoluto, la vuotava d'un fiato; si ritraeva sotto le coperte; si metteva supina, ad aspettare... - La visione imaginaria del cadavere giunse a una tale intensità che io, come un ossesso, m'alzai; girai tre o quattro volte intorno alla stanza urtando contro i mobili, inciampando nei tappeti, gesticolando paurosamente. Aprii una finestra.

La notte era tranquilla, piena d'un gracidare di rane monotono e continuo. Le stelle palpitavano.

L'Orsa brillava incontro, distinta. Il tempo fluiva.

Rimasi alcuni minuti al davanzale, in attesa, fissando la grande costellazione che pareva alla mia vista perturbata avvicinarsi. Non sapevo, veramente, che attendessi. Mi smarrivo. Avevo un sentimento particolare della vacuità di quel cielo immenso. All'improvviso, in quella specie di pausa dubitosa, come se un qualche influsso oscuro avesse operato sul mio essere nella profondità dell'inconscienza, risorse spontanea la domanda non ancóra bene compresa: “Che avete fatto di me?”. E la visione del cadavere, per poco interrotta, si riaffacciò.

L'orrore fu tale che io, pur non sapendo quale azione volessi compiere, mi volsi, uscii senza esitare, mi diressi verso la stanza di Giuliana. Incontrai Miss Edith nell'andito.

- Di dove venite, Edith? - le chiesi.

M'accorsi ch'ella si stupì del mio aspetto.

- Ho portato Natalia dalla signora che la voleva vedere; ma ho dovuto lasciarla là. Non è stato possibile persuaderla a tornarsene nel suo letto. Ha pianto tanto che la signora ha consentito a tenerla con sé. Speriamo che Maria non si svegli ora...

- Ah, dunque...

Il cuore mi batteva con tal veemenza, che non potevo parlare di seguito.

- Ah, dunque, Natalia è rimasta nel letto della madre...

- Sì, signore.

- E Maria... Andiamo a vedere Maria.

La commozione mi soffocava. Giuliana per quella notte era salva! Non era possibile ch'ella pensasse a morire in quella notte, avendo la bambina al suo fianco. Per miracolo, il tenero capriccio di Natalia aveva salvato la madre. “Benedetta! Benedetta!” Prima di guardare Maria addormentata, io guardai il piccolo letto vuoto dov'era rimasto un piccolo solco. Strane voglie mi venivano, di baciare il guanciale, di sentire se il solco fosse ancóra tiepido. La presenza di Edith mi teneva in disagio. Mi volsi a Maria, mi chinai trattenendo il respiro, la contemplai a lungo, ricercai a una a una le note somiglianze ch'ella aveva con me, quasi numerai le vene tenui che le trasparivano nella tempia, nella guancia, nella gola. Dormiva sul fianco, tenendo la testa abbandonata indietro così che tutta la gola rimaneva scoperta sotto il mento alzato. I denti, minuti come grani di riso mondi, lucevano nella bocca socchiusa. I cigli, lunghi come quelli della madre, spandevano dal cavo degli occhi un'ombra che toccava il sommo delle gote. Una gracilità di fiore prezioso, una finezza estrema distinguevano quella forma infantile in cui io sentivo fluire il mio sangue assottigliato.

Quando mai, da che le due creature vivevano, quando mai avevo provato per loro un sentimento così profondo, così dolce e così triste?

Mi tolsi di là a fatica. Avrei voluto sedermi tra i due piccoli letti e riposare il capo su la sponda di quello vuoto, aspettando il domani.

- Buona notte, Edith - dissi uscendo; e la mia voce tremava d'un tremito diverso.

Come giunsi alla mia stanza, di nuovo mi gittai bocconi sul letto. E ruppi alfine in singhiozzi, perdutamente.

 

 

XII.

 

Quando mi svegliai dal sonno greve e quasi direi brutale che a una certa ora della notte m'era piombato sopra di schianto, durai fatica a ricuperare la nozione esatta della realtà.

Dopo un poco, al mio spirito scevro dalle eccitazioni notturne la realtà si presentò fredda, nuda, incommutabile. Che erano le angosce recenti al paragone dello sgomento che allora m'invase? - Bisogna vivere! Ed era come se qualcuno mi presentasse una coppa profonda, dicendomi: “Se tu vuoi bere, oggi, se tu vuoi vivere, bisogna che tu sprema qui dentro, fino all'ultima goccia, il sangue del tuo cuore”. Una ripugnanza, un disgusto, un ribrezzo indefinibili mi salirono dall'intimo dell'essere. E, intanto, bisognava vivere, bisognava accettare anche in quel mattino la vita! E bisognava, sopra tutto, agire!

Il confronto ch'io feci dentro di me, tra quel risveglio reale e il risveglio sognato e sperato a Villalilla il giorno innanzi, aumentò la mia insofferenza. Pensai: “È impossibile che io accetti un tale stato; è impossibile che io mi levi, che io mi vesta, che io esca di qui, che io riveda Giuliana, che io le parli, che io seguiti a dissimulare innanzi a mia madre, che io aspetti l'ora opportuna per un colloquio definitivo, che in quel colloquio io stabilisca le condizioni della nostra esistenza avvenire. È impossibile. E allora? La distruzione assoluta istantanea di tutto ciò che in me soffre... Liberarmi, sfuggire... Non c'è altro”. E, considerando la facilità della cosa, imaginando l'azione rapida, lo scatto dell'arma, l'effetto immediato del piombo, l'oscurità consecutiva, io provai in tutto il corpo una tensione particolare, angosciosa e pur mista d'un senso di sollievo, quasi di dolcezza. “Non c'è altro.” E, benché l'ansia di sapere mi agitasse, pensai con sollievo che non avrei saputo più nulla di nulla, che quella stessa ansia sarebbe d'un tratto cessata, che tutto insomma avrebbe avuto fine.

Udii battere alla porta. E la voce di mio fratello gridò:

- Tullio, non ti sei ancóra levato? Sono le nove. Posso entrare?

- Entra, Federico.

Egli entrò.

- Sai che è tardi? Sono passate le nove...

- Mi sono addormentato tardi, ed ero stanchissimo.

- Come stai?

- Così...

- La mamma è levata. M'ha detto che Giuliana sta a bastanza bene. Vuoi che t'apra la finestra? È una mattina stupenda.

Spalancò la finestra. Un flutto d'aria fresca inondò la stanza; le tende si gonfiarono come due vele; apparve nel vano l'azzurro.

- Vedi?

La luce viva scoprì forse nel mio volto i segni dello strazio, perché egli soggiunse:

- Ma anche tu stanotte ti sei sentito male?

- Credo d'aver avuto qualche po' di febbre.

Federico mi guardava con i suoi limpidi occhi glauchi; e in quel momento mi parve di avere su l'anima tutto il peso delle menzogne e delle dissimulazioni future. Oh, s'egli avesse saputo!

Ma, come sempre, la sua presenza fugò da me la viltà che già mi teneva. Una energia fittizia, come dopo un sorso di cordiale, mi rialzò. Pensai: “In che modo si condurrebbe egli nel mio caso?”. Il mio passato, la mia educazione, l'essenza stessa della mia natura contrastavano qualunque riscontro probabile; però questo almeno era certo: - in caso di sciagura, simile o dissimile, egli si sarebbe condotto da uomo forte e caritatevole, avrebbe affrontato il dolore eroicamente, avrebbe preferito al sacrificio degli altri il sacrificio di sé.

- Fammi sentire... - disse, accostandosi.

E mi toccò la fronte con la palma della mano, mi prese il polso.

- Ora sei libero, mi sembra. Ma che polso ineguale!

- Lasciami levare, Federico, che è tardi.

- Oggi, dopo mezzogiorno, vado al bosco d'Assòro. Se tu vuoi ventre, faccio sellare per te Orlando. Ti ricordi tu del bosco? Peccato che Giuliana non stia bene! Altrimenti, condurremmo anche lei... Vedrebbe le carbonare accese.

Quando nominava Giuliana, pareva che la sua voce divenisse più affettuosa, più dolce, quasi direi più fraterna. Oh, s'egli avesse saputo!

- Addio, Tullio. Vado a lavorare. Quando comincerai ad aiutarmi?

- Oggi stesso, domani, quando vorrai.

Egli si mise a ridere.

- Che ardore! Basta: ti vedrò alla prova. Addio.

Ed uscì con quel suo passo alacre e franco, poiché lo sollecitava di continuo l'esortazione inscritta nel quadrante solare: - Hora est benefaciendi.

 

 

XIII.

 

Erano le dieci quando uscii. La gran luce di quel mattino d'aprile, che inondava la Badiola per le finestre e per i balconi spalancati, m'intimidiva. Come portare la maschera sotto quella luce?

Cercai di mia madre, prima d'entrare nelle stanze di Giuliana.

- Ti sei levato tardi - ella disse, vedendomi. - Come stai?

- Bene.

- Sei pallido.

- Credo d'aver avuto un po' di febbre, stanotte, ma ora sto bene.

- Hai veduta Giuliana?

- Non ancóra.

- Ha voluto levarsi, quella benedetta figliuola! Dice che non si sente più nulla; ma ha un viso...

- Vado da lei.

- E bisogna che tu non trascuri di scrivere al dottore. Non dar retta a Giuliana. Scrivi oggi stesso.

- Tu le hai detto... che io so?

- Sì, le ho detto che tu sai.

- Vado, mamma.

La lasciai davanti ai suoi grandi armarii di noce, profumati d'ireos, dove due donne accumulavano la bella biancheria di bucato, l'opulenza di Casa Hermil. Maria, nella sala del pianoforte, prendeva la lezione da Miss Edith; e le scale cromatiche si succedevano rapide ed eguali. Passava Pietro, il più fedele dei servitori, canuto, un po' curvo, portando un vassoio pieno di cristalli che tintinnivano poiché le braccia tremavano di vecchiaia. Tutta la Badiola, inondata d'aria e di luce, aveva un aspetto di letizia tranquilla. V'era non so qual sentimento di bontà diffuso per ogni dove: qualche cosa come il sorriso tenue e inestinguibile dei Lari.

Mai quel sentimento, quel sorriso m'avevano penetrata l'anima così a dentro. Tanta pace, tanta bontà circondavano l'ignobile segreto che io e Giuliana dovevamo custodire in noi senza morirne.

“Ed ora?” pensai, al colmo dell'angoscia, girando per l'andito come un estraneo smarrito, non potendo dirigere il mio passo verso il luogo temuto, quasi che il mio corpo si rifiutasse d'obedire all'impulso della volontà. “Ed ora? Ella sa che io conosco il vero. Tra noi due ogni dissimulazione è omai inutile. Ed è necessario che noi ci guardiamo in faccia, che noi parliamo della cosa tremenda. Ma non è possibile che questo duello avvenga stamani. Le conseguenze sono imprevedibili. Ed è necessario, ora più che mai, è necessario che nessuno dei nostri atti apparisca singolare, inesplicabile a mia madre, a mio fratello, a qualunque persona di questa casa. Il mio turbamento di iersera, le mie inquietudini, le mie tristezze si possono spiegare con la preoccupazione del pericolo a cui Giuliana va incontro essendo incinta; ma logicamente, agli occhi altrui, questa preoccupazione deve rendermi verso di lei più tenero, più sollecito, più premuroso che mai. La mia prudenza oggi dev'essere estrema. Bisogna che io eviti ad ogni costo una scena tra me e Giuliana, oggi. Bisogna che io sfugga l'occasione di rimaner solo con lei, oggi. Ma bisogna anche ch'io trovi sùbito il modo di farle comprendere il sentimento che determina queste mie attitudini verso di lei, il proposito che regola la mia condotta. E se ella persistesse nella volontà di uccidersi? Se ella avesse soltanto differita di qualche ora l'esecuzione? Se ella stesse già aspettando l'opportunità?” Questo timore troncò gli indugi e mi spinse ad agire. Somigliavo quei soldati orientali che erano spinti alla battaglia a colpi di frusta.

Mi diressi verso la sala del pianoforte. Vedendomi, Maria interruppe i suoi esercizi e corse a me tutta leggera e allegra, come a un liberatore. Ella aveva la grazia, l'agilità, la leggerezza delle creature alate. La sollevai tra le mie braccia per baciarla.

- Mi porti con te? - mi chiese ella. - Sono stanca. È un'ora che Miss Edith mi tiene qui... Non ne posso più. Portami con te, fuori! Let us take a walk before breakfast.

- Dove?

- Where you please, it is the same to me.

- Ma andiamo prima dalla mamma...

- Eh, ieri voi ve n'andaste a Villalilla e noi rimanemmo alla Badiola. Fosti tu, proprio tu, che non volesti condurci; perché la mamma voleva. Cattivo! We should like to go there. Tell me how you amused yourselves...

Ella cantava come un uccello, in quella lingua non sua, deliziosamente. Quel cinguettio non intermesso accompagnava la mia ansietà, mentre andavamo verso le stanze di Giuliana. Poiché io esitavo, Maria batté alla porta chiamando:

- Mamma!

Giuliana aprì, ella medesima, non sospettando la mia presenza. Mi vide. Sussultò forte come se avesse veduto un fantasma, uno spettro, qualche cosa di terrifico.

- Sei tu? balbettò, tanto piano che appena l'udii, mentre le labbra nel muoversi le si scoloravano: divenuta a un tratto, dopo il sussulto, più rigida di un'erma.

E ci guardammo, là, su la soglia; ci fissammo; fissammo per un istante l'uno su l'altra la nostra stessa anima. Tutto disparve intorno; tutto fra noi due fu detto, fu compreso, fu risoluto, in un istante.

Dopo, che avvenne? Non so bene, non ricordo bene. Ricordo che per qualche tempo ebbi di ciò che avveniva una conscienza quasi direi intermittente, come per una successione di brevi eclissi. Era, credo, un fenomeno simile in parte a quello prodotto dall'indebolimento dell'attenzione volontaria in certi infermi. Smarrivo la facoltà dell'attenzione: non vedevo, non udivo, non afferravo più il senso delle parole, non comprendevo più. Poi, dopo un poco, ricuperavo quella facoltà, esaminavo d'intorno a me le cose e le persone, ridiventavo attento e consciente.

Giuliana era seduta; aveva Natalia su le ginocchia. Anch'io ero seduto. E Maria andava da lei a me e da me a lei, con una mobilità continua, parlando senza posa, incitando la sorella, rivolgendoci una quantità di domande a cui non rispondevamo se non con qualche cenno del capo. Quel favellio vivace riempiva il nostro silenzio. In uno dei frammenti che io udii, Maria diceva alla sorella:

- Ah, tu hai dormito con la mamma, stanotte. È vero?

E Natalia:

- Sì, perché io sono piccola.

- Ah, ma la notte che viene, sai, tocca a me. È vero, mamma? Prendi me nel tuo letto, la notte che viene...

Giuliana taceva, non sorrideva, assorta. Poiché Natalia le stava su le ginocchia volgendole le spalle, ella la teneva cinta con le braccia alla vita; e le sue mani posavano nel grembo della figliuola congiunte, più bianche della vestetta bianca su cui posavano, e affilate, e dolenti, così dolenti che rivelavano esse sole una immensità di tristezza. Giungendole la testa di Natalia a fiore del mento, ella reclinata pareva premere la bocca su quei riccioli; così che quando io le gettavo uno sguardo, non vedevo la parte inferiore del volto, non le vedevo l'espressione della bocca. Né incontravo mai gli occhi. Ma ogni volta vedevo le palpebre abbassate, un poco rosse, che ogni volta mi turbavano a dentro come se lasciassero trasparire la fissità della pupilla che coprivano.

Aspettava ella che io dicessi qualche parola? Salivano intanto alla sua bocca nascosta parole improfferibili?

Quando alfine con uno sforzo mi riuscì di sottrarmi a quello stato d'inazione in cui s'erano avvicendate lucidità e oscurità straordinarie, io dissi (ed ebbi, credo, l'accento che avrei avuto nel continuare un dialogo già iniziato, nell'aggiungere nuove parole alle dette) io dissi piano:

- La mamma vuole che io avvisi il dottore Vebesti. Le ho promesso di scrivere. Scriverò.

Ella non sollevò le palpebre; rimase muta. Maria, nella sua profonda inconsapevolezza, la guardò attonita; poi guardò me.

Io m'alzai, per uscire.

- Oggi, dopo mezzogiorno, andrò al bosco d'Assòro, con Federico. Ci vedremo stasera, al ritorno?

Poiché ella non accennava a rispondere, ripetei con una voce che significava tutte le cose non espresse:

- Ci vedremo stasera, al ritorno?

Le sue labbra tra i riccioli di Natalia spirarono:

- Sì.

 

 

XIV.

 

Nella violenza delle mie agitazioni diverse e contrarie, nel primo tumulto del dolore, sotto la minaccia dei pericoli imminenti, io non m'era ancóra fermato a considerare l'Altro. Ma anche, fin dal principio, non avevo avuto neppur l'ombra di un dubbio su la giustezza del mio antico sospetto. Sùbito, nel mio spirito, l'Altro aveva preso l'imagine di Filippo Arborio; e, al primo impeto di gelosia carnale che m'aveva assalito dentro l'alcova, l'imagine abominevole s'era accoppiata con quella di Giuliana in una serie di visioni orrende.

Ora, mentre io e Federico andavamo cavalcando verso la foresta, lungo quel fiume tortuoso che io avevo contemplato nel torbido pomeriggio del Sabato Santo, l'Altro veniva con noi. Tra me e mio fratello s'intrapponeva la figura di Filippo Arborio, vivificata dal mio odio, resa dal mio odio così intensamente viva che io provavo, guardandola, in sensazione reale, un orgasmo fisico, qualche cosa di simile al fremito selvaggio da cui ero stato preso talvolta trovandomi sul terreno, di fronte all'avversario spogliato di camicia, al segnale dell'attacco.

La vicinanza di mio fratello aumentava straordinariamente il mio male. Al paragone di Federico, la figura di quell'uomo, così fine, così nervosa, così feminea, si rimpiccioliva, s'immiseriva, diveniva spregevole per me ed ignobile. Sotto l'influsso del nuovo ideale di forza e di semplicità virile, ispiratomi dall'esempio fraterno, io non soltanto odiavo ma disprezzavo quell'essere complicato ed ambiguo che pure apparteneva alla mia stessa razza e aveva comuni con me alcune particolarità di constituzione cerebrale, come appariva dalla sua opera d'arte. Io me lo imaginavo, a simiglianza d'uno dei suoi personaggi letterarii, affetto dalle più tristi malattie dello spirito, obliquo, doppio, crudelmente curioso, isterilito dall'abitudine dell'analisi e dell'ironia riflessa, di continuo occupato a convertire i più caldi e spontanei moti dell'animo in nozioni chiare e glaciali, avvezzo a considerare qualunque creatura umana come un soggetto di pura speculazione psicologica, incapace d'amore, incapace d'un atto generoso, d'una rinuncia, d'un sacrificio, indurito nella menzogna, ottuso dal disgusto, lascivo, cinico, vile.

Da un tale uomo Giuliana era stata sedotta, era stata posseduta: certo, non amata. La maniera non appariva anche in quella dedica scritta sul frontespizio del Segreto, in quella dedica enfatica che era l'unico documento a me noto risguardante la relazione passata tra il romanziere e mia moglie? Certo, ella era stata nelle mani di colui una cosa di voluttà, non altro. Espugnare la Torre d'avorio, corrompere una donna publicamente vantata incorruttibile, esperimentare un metodo di seduzione sopra un soggetto tanto raro: - impresa ardua ma piena di attrattive, degna in tutto di un artista raffinato, del difficile psicologo che aveva scritto La Cattolicissima e Angelica Doni.

Come più riflettevo, i fatti mi apparivano nella loro crudità bruta. Certo, Filippo Arborio aveva incontrata Giuliana in uno di quei periodi in cui la donna così detta “spirituale”, che ha sofferta una lunga astinenza, è commossa da aspirazioni poetiche, da desiderii indefiniti, da languori vaghi; i quali non sono se non le larve di cui si mascherano i bassi stimoli dell'appetito sessuale. Filippo Arborio, esperto, avendo indovinato la special condizione fisica della donna ch'egli voleva possedere, s'era servito del metodo più conveniente e più sicuro, che è questo: - parlare d'idealità, di zone superiori, di alleanze mistiche, ed occupare nel tempo medesimo le mani alla scoperta d'altri misteri; unire insomma un brano di pura eloquenza a una delicata manomessione. - E Giuliana, la Turris eburnea, la grande taciturna, la creatura composta d'oro duttile e d'acciaio, l'Unica, s'era prestata a quel vecchio giuoco, s'era lasciata prendere a quel vecchio inganno, aveva anch'ella obedito alla vecchia legge della fragilità muliebre. E il duetto sentimentale era finito con una copula disgraziatamente feconda...

Un orribile sarcasmo mi torceva l'anima. Mi pareva d'avere non nella bocca ma dentro di me la convulsione provocata da quell'erba che ci fa morire a modo di chi ride.

Spronai il cavallo; e lo misi al galoppo, lungo l'argine del fiume.

L'argine era periglioso, strettissimo nelle lunate, minacciato di frana in taluni punti, in altri ingombrato dai rami di qualche grosso albero torto, in altri attraversato da radici a fior di terra enormi. Io avevo perfetta conscienza del pericolo a cui mi esponevo; e, invece di trattenere, spingevo sempre più il cavallo, non con l'intenzione d'incontrare la morte ma volendo trovare in quell'ansietà una tregua allo spasimo intollerabile. Conoscevo già l'efficacia di una tale follia. Dieci anni fa, quando ero assai giovine, addetto all'ambasciata in Costantinopoli, per sfuggire a certi accessi di tristezza prodotti da ricordi recenti di passione, nelle notti di luna entravo a cavallo in uno di quei cimiteri musulmani densi di tombe, su le pietre lisce in pendio, correndo mille volte il rischio di uccidermi in una caduta. Stando con me in groppa, la morte cacciava ogni altra cura.

- Tullio! Tullio! Férmati! - mi gridava Federico a distanza. - Férmati!

Io non gli davo ascolto. Più d'una volta, per prodigio, evitai di battere la fronte contro qualche ramo orizzontale. Più d'una volta per prodigio impedii al cavallo di urtare contro un tronco. Più d'una volta, nei passi angusti, vidi certa la caduta nel fiume che mi luccicava sotto. Ma quando udii dietro di me un altro galoppo e m'accorsi che Federico m'inseguiva alla gran carriera, temendo per lui, con una strappata violenta arrestai il povero animale che s'impennò, rimase un istante inalberato come per precipitarsi nell'acqua, poi ricadde. Io ero incolume.

- Ma sei impazzito? - mi gridò Federico, sopraggiungendo, pallidissimo.

- T'ho fatto paura? Perdonami. Credevo che non ci fosse pericolo. Volevo provare il cavallo... Poi non lo potevo più fermare... È un po' duro, di bocca...

- Duro di bocca Orlando!

- Non ti pare?

Egli mi guardò fiso, con un'espressione inquieta. Io tentai di sorridere. Il suo pallore insolito mi faceva pena e tenerezza.

- Non so come tu non ti sia spezzato il capo contro uno di questi alberi; non so come tu non sia precipitato...

- E tu?

Per inseguirmi egli aveva corso lo stesso pericolo, forse anche maggiore perché il suo cavallo era più pesante ed egli aveva dovuto metterlo a tutta carriera volendo raggiungermi in tempo. Ambedue considerammo la via dietro di noi.

- È un miracolo - egli disse. - Già, salvarsi dall'Assòro è quasi impossibile. Non vedi?

Ambedue considerammo sotto di noi il fiume mortifero. Cupo, luccicante, rapido, pieno di mulinelli e di gorghi, l'Assòro correva tra gli argini cretacei con un silenzio che lo rendeva più torvo. Il paesaggio rispondeva a quell'aspetto di perfidia e di minaccia. Il cielo pomeridiano s'era impregnato di vapori e biancheggiava stancamente con un riverbero diffuso, sopra una distesa di macchioni rossastri che la primavera non aveva ancor vinti. Le foglie morte si mescevano quivi con le viventi nuove, gli stecchi aridi con i virgulti, i cadaveri coi neonati vegetali, in un denso intrico allegorico. Su la turbolenza del fiume, sul contrasto della boscaglia biancheggiava il cielo stancamente, dissolvendosi.

“Un tonfo improvviso; e non avrei più pensato, non avrei più sofferto, non avrei più portato il peso della mia carne miserabile. Ma forse avrei trascinato con me nel precipizio mio fratello: una forma nobile di vita, un Uomo. Io sono salvo per miracolo com'egli è salvo per miracolo. La mia follia lo ha esposto al rischio estremo. Un mondo di cose belle e di cose buone sarebbe scomparso con lui. Quale fatalità vuole che io sia così nocivo alle persone che mi amano?”

Guardai Federico. Egli era divenuto pensoso e grave. Non osai interrogarlo; ma provai un acuto rammarico d'averlo contristato. - Che pensava egli? Qual pensiero alimentava il suo turbamento? Aveva forse indovinato che io dissimulavo una sofferenza inconfessabile e che soltanto l'aculeo d'una idea fissa m'aveva spinto alla corsa mortale?

Seguitammo lungo l'argine, l'uno dietro l'altro, al passo. Poi volgemmo per un sentiero che s'inoltrava nella macchia; e, come il sentiero era a bastanza largo, di nuovo cavalcammo l'uno a fianco dell'altro mentre i cavalli sbuffavano avvicinando le froge come per parlarsi in segreto e mescolavano la schiuma dei loro freni.

Pensavo, gittando di tratto in tratto un'occhiata a Federico e vedendolo ancóra severo: “Certo, se io gli rivelassi la verità, egli non mi crederebbe. Egli non potrebbe credere al fallo di Giuliana, alla contaminazione della sorella. Io non so decidere veramente, tra l'affetto di lui e l'affetto di mia madre per Giuliana, quale sia più profondo. Non ha egli sempre tenuto sul suo tavolo il ritratto della nostra povera Costanza e il ritratto di Giuliana riuniti come in un dittico per la stessa adorazione? Anche stamani, come s'addolciva la sua voce nominandola!”. Subitamente, per contrasto, la bruttura mi si ripresentò anche più turpe. Era il corpo intraveduto nello spogliatoio della sala d'armi quello che si atteggiava nelle mie visioni. E il mio odio purtroppo operava su quell'imagine come l'acido nitrico su i tratti segnati nella lastra di rame. L'incisione diveniva sempre più netta.

Allora, mentre mi durava nel sangue l'eccitamento della corsa, per quell'esuberanza di coraggio fisico, per quell'istinto di combattività ereditario che tanto spesso si risvegliava in me al rude contatto degli altri uomini, io sentii che non avrei potuto rinunziare ad affrontare Filippo Arborio. “Andrò a Roma, cercherò di lui, lo provocherò in qualche modo, lo costringerò a battersi, farò di tutto per ucciderlo o per renderlo invalido.” Io me lo imaginavo pusillanime. Mi tornò alla memoria una mossa un po' ridicola che gli era sfuggita, nella sala d'armi, al ricevere in pieno petto una botta dal maestro. Mi tornò alla memoria la sua curiosità nel chiedermi notizia del mio duello: quella curiosità puerile che fa spalancare gli occhi a chi non s'è trovato mai nel cimento. Mi ricordai che, durante il mio assalto, egli aveva tenuto lo sguardo sempre fisso su me. La conscienza della mia superiorità, la certezza di poterlo sopraffare mi sollevarono. Nella mia visione, un rivo rosso rigò quella sua pallida carne ributtante. Alcuni frammenti di sensazioni reali, provate in altri tempi a fronte di altri uomini, concorsero a particolarizzare quello spettacolo imaginario nel quale m'indugiavo. E vidi colui sanguinoso e inerte su un pagliericcio, in un casale lontano, mentre i due medici accigliati gli si curvavano sopra.

Quante volte io, ideologo e analista e sofista in epoca di decadenza, m'ero compiaciuto d'essere il discendente di quel Raimondo Hermil De Penedo che alla Goletta operò prodigi di valore e di ferocia sotto gli occhi di Carlo Quinto! Lo sviluppo eccessivo della mia intelligenza e la mia multanimità non avevano potuto modificare il fondo della mia sostanza, il substrato nascosto in cui erano inscritti tutti i caratteri ereditarii della mia razza. In mio fratello, organismo equilibrato, il pensiero s'accompagnava sempre all'opera; in me il pensiero predominava ma senza distruggere le mie facoltà di azione che anzi non di rado si esplicavano con una straordinaria potenza. Io ero insomma un violento e un appassionato consciente, nel quale l'ipertrofia di alcuni centri cerebrali rendeva impossibile la coordinazione necessaria alla vita normale dello spirito. Lucidissimo sorvegliatore di me stesso, avevo tutti gli impeti delle nature primitive indisciplinabili. Più d'una volta io ero stato tentato da improvvise suggestioni delittuose. Più d'una volta ero rimasto sorpreso dall'inurrezione spontanea d'un istinto crudele.

- Ecco le carbonare - disse mio fratello, mettendo il cavallo al trotto.

Si udivano i colpi delle scuri nella foresta e si vedevano le spire del fumo salire tra gli alberi. La colonia dei carbonai ci salutò. Federico interrogava i lavoratori intorno all'andamento delle opere, li consigliava, li ammoniva, osservando con occhio esperto i fornelli. Tutti stavano davanti a lui in attitudini di reverenza e lo ascoltavano attenti. Il lavoro d'intorno pareva esser divenuto più fervido, più facile, più giocondo, come il crepitio del fuoco efficace. Gli uomini correvano qua e là a gittar terra dove il fumo usciva con troppa copia, a chiudere con zolle i varchi aperti dalle esplosioni; correvano e vociavano. Gridi gutturali d'abbattitori si mescevano a quelle voci rudi. Rimbombava nell'interno lo schianto di qualche albero caduto. Fischiavano, in qualche pausa, i merli. E la grande foresta immobile contemplava i roghi alimentati dalle sue vite.

Mentre mio fratello compiva l'esame delle opere, io mi allontanai lasciando al cavallo la scelta dei sentieri che si diramavano pel folto. I rumori si affiochivano dietro di me, gli echi morivano. Un silenzio grave scendeva dalle cime. Io pensavo: “Come farò per risollevarmi? Quale sarà la mia vita da domani in poi? Potrò seguitare a vivere nella casa di mia madre col mio segreto? Potrò accomunare la mia esistenza con quella di Federico? Chi mai, che cosa mai al mondo potrà risuscitare nella mia anima una scintilla di fede?”. Lo strepito delle opere si spegneva dietro di me; la solitudine diventava perfetta. “Lavorare, praticare il bene, vivere per gli altri... Potrei ora ritrovare in queste cose il vero senso della vita? E veramente il senso della vita non si ritrova pieno nella felicità personale ma in queste cose soltanto? L'altro giorno, mentre mio fratello parlava, io credevo di comprendere la sua parola; credevo che la dottrina della verità mi si rivelasse per la sua bocca. La dottrina della verità, secondo mio fratello, non sta nelle leggi, non sta nei precetti, ma semplicemente e unicamente nel senso che l'uomo dà alla vita. Mi pareva d'aver compreso. Ora, d'un tratto, sono ritornato nel buio; sono ridiventato cieco. Non comprendo più nulla. Chi mai, che cosa mai al mondo mi potrà consolare del bene che ho perduto?” E l'avvenire mi apparve spaventoso, senza speranza. L'imagine indeterminata del nascituro crebbe, si dilatò, come quelle orribili cose informi che noi vediamo talvolta negli incubi, ed occupò tutto il campo. Non si trattava d'un rimpianto, d'un rimorso, d'un ricordo indistruttibile, d'una qualunque più amara cosa interiore, ma di un essere vivente. Il mio avvenire era legato a un essere vivente d'una vita tenace e malefica; era legato a un estraneo, a un intruso, a una creatura abominevole contro di cui non soltanto la mia anima ma la mia carne, tutto il mio sangue e tutte le mie fibre votavano un'avversione bruta, feroce, implacabile fino alla morte, oltre la morte. Pensavo: “Chi avrebbe potuto imaginare un supplizio peggiore per torturarmi insieme l'anima e la carne? Il più ingegnosamente efferato dei tiranni non saprebbe concepire certe crudeltà ironiche, le quali sono soltanto del Destino. Era presumibile che la malattia avesse resa sterile Giuliana. Orbene, ella si dà a un uomo, commette il suo primo fallo, e rimane incinta, ignobilmente, con la facilità di quelle femmine calde che i villani sforzano dietro le siepi, su l'erba in tempo di foia. E, appunto mentre ella è piena delle sue nausee, io mi pasco di sogni, m'abbevero d'ideale, ritrovo le ingenuità della mia adolescenza, non m'occupo di altro che di cogliere fiori... (Oh quei fiori, quegli stomachevoli fiori, offerti con tanta timidezza!) E, dopo una grande ubriacatura tra sentimentale e sensuale, ricevo la dolce notizia - da chi? - da mia madre! E, dopo la notizia, ho un'esaltazione generosa, faccio in buona fede una parte nobile, mi sacrifico in silenzio, come un eroe di Octave Feuillet! Che eroe! Che eroe!”. Il sarcasmo mi torceva l'anima, mi contraeva tutte le fibre. E di nuovo, allora, mi prese la follia della fuga.

Guardai davanti a me. In vicinanza, tra i fusti, irreale come un inganno di occhi allucinati, brillava l'Assòro. “Strano!” pensai, provando un brivido particolare. Non m'ero accorto, prima di quel momento, che il cavallo senza guida s'era inoltrato per un sentiere che conduceva al fiume. Pareva quasi che l'Assòro mi avesse attirato.

Stetti in forse, per un istante, tra il proseguire sino alla riva e il ritornare indietro. Scossi da me il fascino dell'acqua e il cattivo pensiero. Voltai il cavallo.

Un grave accasciamento succedeva alla convulsione interna. Mi sembrò che a un tratto la mia anima fosse divenuta una povera cosa gualcita, avvizzita, rimpicciolita, una cosa miserabile. Mi ammollii; ebbi pietà di me, ebbi pietà di Giuliana, ebbi pietà di tutte le creature su cui il dolore imprime le sue stimate, di tutte le creature che tremano abbrancate dalla vita come trema un vinto sotto il pugno del vincitore inesecrabile. “Che siamo noi? Che sappiamo noi? Che vogliamo? Nessuno mai ha ottenuto quel che avrebbe amato; nessuno otterrà quel che amerebbe. Cerchiamo la bontà, la virtù, l'entusiasmo, la passione che riempirà la nostra anima, la fede che calmerà le nostre inquietudini, l'idea che difenderemo con tutto il nostro coraggio, l'opera a cui ci voteremo, la causa per cui moriremo con gioia. E la fine di tutti gli sforzi è una stanchezza vacua, il sentimento della forza che si disperde e del tempo che si dilegua...” E la vita m'apparve in quell'ora come una visione lontana, confusa e vagamente mostruosa. La demenza, l'imbecillità, la povertà, la cecità, tutti i morbi, tutte le disgrazie; l'agitazione oscura continua di forze inconscienti, ataviche e bestiali nell'intimo della nostra sostanza; le più alte manifestazioni dello spirito instabili, fugaci, sempre subordinate a uno stato fisico, legate alla funzione d'un organo; le transfigurazioni istantanee prodotte da una causa impercettibile, da un nulla; la parte immancabile di egoismo nei più nobili atti; la inutilità di tante energie morali dirette verso uno scopo incerto, la futilità degli amori creduti eterni, la fragilità delle virtù credute incrollabili, la debolezza delle più sane volontà, tutte le vergogne, tutte le miserie m'apparvero in quell'ora. “Come si può vivere? Come si può amare?”

Risonavano le scuri nella foresta: un grido breve e selvaggio accompagnava ogni colpo. Qua e là negli spiazzi i grandi mucchi, in forma di coni tronchi o di piramidi quadrangolari, fumigavano. Le colonne del fumo si levavano dense e diritte come i fusti arborei, nell'aria senza vento. Per me tutto era simbolo, in quell'ora.

Diressi il cavallo verso una carbonara vicina, avendo riconosciuto Federico.

Egli era smontato; e parlava con un vecchio di alta statura, dalla faccia rasa.

- Oh, finalmente! - mi gridò, vedendomi. - Temevo che tu ti fossi smarrito.

- No, non sono andato molto lontano...

- Vedi qui Giovanni di Scòrdio, un Uomo - disse, mettendo una mano su la spalla del vecchio.

Guardai il nominato. Un sorriso singolarmente dolce apparve su la bocca appassita di colui. Non avevo mai veduto sotto una fronte umana occhi tanto tristi.

- Addio, Giovanni. Coraggio! - soggiunse mio fratello con quella voce che pareva avere talvolta, come certi liquori, la potenza d'elevare il tono vitale. - Noi, Tullio, possiamo riprendere la via della Badiola. È già tardi. Ci aspettano.

Rimontò a cavallo. Salutò di nuovo il vecchio. Passando presso ai fornelli, dava qualche avvertimento ai lavoratori per le operazioni della notte prossima in cui doveva apparire il gran fuoco. Ci allontanammo, cavalcando l'uno a fianco dell'altro.

Il cielo si apriva sul nostro capo, lentamente. I veli dei vapori fluttuavano, si disperdevano, si ricomponevano, così che l'azzurro pareva di continuo impallidire come se nella sua liquidità un latte di continuo si diffondesse e si dileguasse. Era vicina quell'ora medesima in cui, il giorno innanzi, a Villalilla, io e Giuliana avevamo guardato il giardino ondeggiante in una luce ideale. La boscaglia intorno cominciava a dorarsi. Gli uccelli cantavano, invisibili.

- Hai osservato bene Giovanni di Scòrdio, quel vecchio? - mi chiese Federico.

- Sì - risposi. - Credo che non dimenticherò il suo sorriso e i suoi occhi.

- Quel vecchio è un santo - soggiunse Federico. - Nessun uomo ha lavorato e sofferto quanto quel vecchio. Ha quattordici figliuoli e tutti a uno a uno si sono distaccati da lui come i frutti maturi si distaccano dall'albero. La moglie, una specie di carnefice, è morta. Egli è rimasto solo. I figli l'hanno spogliato e rinnegato. Tutta l'ingratitudine umana s'è accanita contro di lui. Egli non ha esperimentata la perversità degli estranei ma quella delle sue creature. Intendi? Il suo stesso sangue s'è inviperito in altri esseri ch'egli ha sempre amato ed aiutato, che ama ancóra, che non sa maledire, che certamente benedirà nell'ora della morte, anche se lo lasceranno morir solo. Non è straordinaria, quasi incredibile, questa pertinacia d'un uomo nella bontà? Dopo tutto quel che ha sofferto, egli ha potuto conservare il sorriso che tu gli hai veduto! Farai bene, Tullio, a non dimenticare quel sorriso...

 

 

XV.

 

L'ora della prova, l'ora temuta e desiderata a un tempo, si approssimava. Giuliana era pronta. Ella aveva resistito fermamente al capriccio di Maria; aveva voluto rimanere sola nella sua stanza ad aspettarmi. “Che le dirò? Che mi dirà ella? Quale sarà la mia attitudine verso di lei?” Tutte le prevenzioni, tutti i propositi si disperdevano. Non mi restava se non un'ansietà intollerabile. Chi avrebbe potuto prevedere l'esito del colloquio? Io non mi sentivo padrone di me, non delle mie parole, non dei miei atti. Soltanto sentivo in me un viluppo di cose oscure e contrarie che al minimo urto dovevano insorgere. Mai come in quell'ora avevo avuto chiara e disperata la conscienza delle discordie intestine che mi straziavano, la percezione degli elementi irreconciliabili che si agitavano nel mio essere e si soverchiavano e si distruggevano a vicenda in un perpetuo conflitto, ribelli a qualunque dominio. Alla commozione del mio spirito si aggiungeva un particolare turbamento del senso, promosso dalle imagini che in quel giorno mi avevano torturato senza tregua. Io conoscevo bene, troppo bene, quel turbamento che meglio d'ogni altro rimescola il fango infimo nell'uomo; conoscevo troppo bene quella bassa specie di concupiscenza da cui nulla ci può difendere, quella tremenda febbre sessuale che per alcuni mesi m'aveva tenuto avvinto a una donna odiata e disprezzata, a Teresa Raffo. Ed ora i sentimenti di bontà, di pietà e di forza, che m'erano necessari per sostenere il confronto con Giuliana e per insistere nel proposito primitivo, si movevano in me come vapori vaghi su un fondo limaccioso, pieno di gorgogli sordi, infido.

Mancava poco a mezzanotte, quando io uscii dalla mia stanza per andare verso quella di Giuliana. Tutti i rumori erano cessati. La Badiola riposava in un silenzio profondo. Stetti in ascolto; e mi parve quasi di sentir salire nel silenzio la respirazione calma di mia madre, di mio fratello, delle mie figliuole, degli esseri inconsapevoli e puri. Mi riapparve il volto di Maria addormentata, quale io l'avevo veduto la notte innanzi. Mi apparvero anche gli altri volti; e in ciascuno era un'espressione di riposo, di pace, di bontà. Un intenerimento subitaneo m'invase. La felicità, nel giorno innanzi per un momento intraveduta e scomparsa, ribalenò al mio spirito immensa. Se nulla fosse accaduto, se io fossi rimasto nella piena illusione, che notte sarebbe stata quella! Sarei andato verso Giuliana come verso una persona divina. E quale cosa avrei potuto desiderare più dolce di quel silenzio intorno all'ansietà del mio amore?

Passai per la stanza dove la sera innanzi avevo ricevuto dalla bocca di mia madre la rivelazione improvvisa. Riudii l'orologio a pendolo che aveva segnata l'ora, e, non so perché, quel tic tac sempre eguale aumentò la mia ambascia. Non so perché, mi parve di sentir rispondere alla mia l'ambascia di Giuliana, a traverso lo spazio che ancóra ci divideva, con un'accelerazione di palpiti concorde. Camminai diretto, senza più soffermarmi, senza evitare lo strepito dei passi. Non picchiai all'uscio ma d'un tratto l'apersi; entrai. Giuliana era là, davanti a me, in piedi, con una mano poggiata all'angolo di un tavolo, immobile, più rigida di un'erma.

Vedo ancóra tutto. Nulla mi sfuggì allora; nulla mi sfugge. Il mondo reale era completamente svanito. Non restava più se non un mondo fittizio in cui respiravo ansioso, col cuore compresso, incapace di profferire una sillaba, ma pur tuttavia singolarmente lucido, come davanti a una scena di teatro. Una candela ardeva sul tavolo, aggiungendo evidenza a quell'aspetto di finzione scenica poiché la fiammella mobile pareva agitare intorno a sé quel vago orrore che lasciano nell'aria con un gran gesto disperato o minaccioso gli attori d'un dramma.

La strana sensazione si dissipò quando alfine, non potendo più sopportare quel silenzio e l'immobilità marmorea di Giuliana, proferii le prime parole. Il suono della mia voce fu diverso da quel che credevo al momento d'aprire le labbra. Involontariamente, la mia voce fu dolce, tremula, quasi timida.

- M'aspettavi?

Ella teneva le palpebre abbassate. Senza sollevarle, rispose:

- Sì.

Io guardavo il suo braccio, quel braccio immobile come un puntello, che pareva sempre più irrigidirsi su la mano poggiata all'angolo del tavolo. Temevo che quel sostegno fragile, a cui era affidata tutta la persona, da un momento all'altro cedesse ed ella stramazzasse di schianto.

- Tu sai perché io sono venuto - soggiunsi, con estrema lentezza, svellendomi dal cuore le parole a una a una.

Ella tacque.

- È vero - seguitai - è vero... quel che ho saputo da mia madre?

Ancóra tacque. Parve raccogliere tutte le sue forze. Strana cosa: in quell'intervallo io non credetti assolutamente impossibile che ella rispondesse no.

Rispose (piuttosto che udire le parole io le vidi disegnarsi su le labbra esangui):

- È vero.

Ricevei in mezzo al petto un urto che forse fu più fiero di quel che m'avevan dato le parole di mia madre. Già tutto io sapevo; avevo già vissuto ventiquattro ore nella certezza; eppure quella conferma così chiara e precisa mi atterrò, come se per la prima volta mi si rivelasse la verità incommutabile.

- È vero! - ripetei, istintivamente, parlando a me stesso, avendo una sensazione simile forse a quella che avrei avuta se mi fossi ritrovato vivo e conscio in fondo a una voragine.

Allora Giuliana sollevò le palpebre; fissò le sue pupille nelle mie con una specie di spasmodica violenza.

- Tullio, - disse - ascoltami.

Ma la soffocazione le spense la voce nella gola.

- Ascoltami. Io so quel che debbo fare. Ero risoluta a tutto per risparmiarti quest'ora: ma il destino ha voluto che fino a quest'ora io vivessi per soffrire la cosa più orribile, la cosa di cui avevo uno spavento folle (ah, tu m'intendi) mille volte più che della morte: Tullio, Tullio, il tuo sguardo...

Un'altra soffocazione l'arrestò, nel punto in cui la sua voce diveniva così straziante che mi dava l'impressione fisica d'un dilaceramento delle fibre più segrete. Io mi lasciai cadere su una sedia, accanto al tavolo; e mi presi la testa fra le palme, aspettando ch'ella seguitasse.

- Dovevo morire, prima di giungere a quest'ora. Da tanto tempo dovevo morire! Sarebbe stato meglio, certo, che io non fossi venuta qui. Sarebbe stato meglio che, tornando da Venezia, tu non m'avessi più trovata. Io sarei morta, e tu non avresti conosciuta questa vergogna; mi avresti rimpianta, forse mi avresti sempre adorata. Io sarei rimasta forse per sempre il tuo grande amore, il tuo unico amore, come dicevi ieri... Non avevo paura della morte, sai; non ho paura. Ma il pensiero delle nostre bambine, di nostra madre, m'ha fatto differire di giorno in giorno l'esecuzione. Ed è stata un'agonia, Tullio, un'agonia inumana, dove ho consumato non una ma mille vite. E sono ancóra viva!

Soggiunse, dopo una pausa:

- Com'è possibile che, con una salute così miserabile, io abbia tanta resistenza a soffrire? Sono disgraziata anche in questo. Vedi: io pensavo, consentendo a venire qui con te, io pensavo: “Certamente mi ammalerò; quando sarò giunta là, mi dovrò mettere a letto; e non mi leverò più. Sembrerà che io muoia di morte naturale. Tullio non saprà mai nulla, non sospetterà mai di nulla. Tutto sarà finito”. Invece, mi veggo ancóra in piedi; e tu sai ogni cosa; e tutto è perduto, senza riparo.

Era sommessa la sua voce, debolissima, eppure lacerante come un grido acuto e iterato. Io mi stringevo le tempie e sentivo il battito così forte che n'avevo quasi ribrezzo come se le arterie fossero scoppiate fuori della cute e aderissero nude alle mie palme con la loro tunica molle e calda.

- La mia unica preoccupazione era di nasconderti la verità, non per me, ma per te, per la tua salvezza. Tu non saprai mai quali terrori mi abbiano agghiacciata, quali angosce mi abbiano soffocata. Tu, dal giorno che siamo giunti qui fino a ieri, hai sperato, hai sognato, sei stato quasi felice. Ma imagina la mia vita qui, col mio segreto, accanto a tua madre, in questa casa benedetta! Mi dicesti ieri a Villalilla, mentre eravamo a tavola, raccontandomi quelle cose tanto dolci che mi straziavano, mi dicesti: “Tu non sapevi nulla, non t'accorgevi di nulla”. Ah, non è vero! Tutto sapevo, tutto indovinavo. E, quando sorprendevo nei tuoi occhi la tenerezza, mi sentivo cadere l'anima. Ascoltami, Tullio. Ho nella bocca la verità, la pura verità. Io sono qui, davanti a te, come una moribonda. Non potrei mentire. Credi a quel che ti dico. Non penso a discolparmi, non penso a difendermi. Oramai tutto è finito. Ma voglio dirti una cosa che è la verità. Tu sai come ti ho amato dal primo giorno che ci vedemmo. Per anni, per anni, ti sono stata devota, ciecamente, e non negli anni della felicità soltanto ma in quelli della sventura, quando in te s'era stancato l'amore. Tu lo sai, Tullio. Hai potuto sempre fare di me quel che hai voluto. Hai trovato sempre in me l'amica, la sorella, la moglie, l'amante, pronta a qualunque sacrificio per il tuo piacere. Non credere, Tullio, non credere che io ti ricordi la mia lunga devozione per accusarti; no, no. Neppure una stilla di amarezza ho nell'anima per te; intendi? neppure una stilla. Ma lascia, in quest'ora, che io ti ricordi la devozione e la tenerezza durate per tanti anni e che io ti parli d'amore, del mio amore non interrotto, non cessato mai, intendi? non cessato mai. Credo che la mia passione per te non sia stata mai così intensa come in queste ultime settimane. Tu mi raccontavi ieri tutte quelle cose... Ah se io potessi raccontarti la mia vita di questi ultimi giorni! Tutto sapevo di te, tutto indovinavo; ed ero costretta a fuggirti. Più di una volta sono stata per caderti nelle braccia, per chiudere gli occhi e lasciarmi prendere da te, nei momenti di debolezza e di stanchezza estrema. L'altra mattina, la mattina di sabato, quando tu entrasti qui con quei fiori, io ti guardai e mi sembrasti quello d'una volta, così acceso, com'eri, sorridente, gentile, con gli occhi lucidi. E mi mostrasti le scalfitture che avevi nelle mani! Un impeto mi venne, di prenderti le mani e di baciartele... Chi mi diede la forza di contenermi? Non mi sentivo degna. E vidi in un lampo tutta la felicità che tu mi offrivi con quei fiori, tutta la felicità a cui dovevo rinunziare per sempre. Ah, Tullio, il mio cuore è a tutta prova se ha potuto resistere a certe strette. Ho la vita tenace.

Ella pronunziò quest'ultima frase con una voce più sorda, con un accento indefinibile, quasi d'ironia e d'ira. Io non osavo alzare il viso e guardarla. Le sue parole mi davano un'atroce sofferenza; eppure io tremavo quando ella faceva una pausa. Temevo che ad un tratto le mancassero le forze e che ella non potesse più continuare. E io aspettavo dalla sua bocca altre confessioni, altri lembi d'anima.

- Grande errore - ella continuò - grande errore non esser morta prima del tuo ritorno da Venezia. Ma la povera Maria, ma la povera Natalia, come le avrei lasciate?

Ella esitò un poco.

- Te anche, forse, avrei lasciato male... Ti avrei lasciato qualche rimorso. La gente ti avrebbe accusato. Non avremmo potuto nascondere a nostra madre... Ella ti avrebbe domandato: “Perché ha voluto morire?”. Sarebbe giunta a conoscere la verità che le abbiamo nascosta fino ad ora... Povera santa!

Le si chiudeva la gola, forse; perché la sua voce si affiochiva, prendeva un tremolio di pianto contenuto. Lo stesso nodo serrava la mia gola.

- Ci pensai. Anche pensai, quando tu volesti condurmi qui, che ero divenuta indegna di lei, indegna d'essere baciata su la fronte, d'essere chiamata figliuola. Ma tu sai come noi siamo deboli, come facilmente ci abbandoniamo alla forza delle cose. Io non speravo più nulla; sapevo bene che, fuori della morte, non c'era altro scampo per me; sapevo bene che ogni giorno più il cerchio si stringeva. Eppure, lasciavo passare i giorni a uno a uno, senza risolvermi. E avevo un mezzo sicuro per morire!

Ella s'arrestò. Obedendo a un impulso repentino, io levai il viso e la guardai fissamente. Un gran fremito la scosse. E tanto fu manifesto il male che io le facevo guardandola, che di nuovo abbassai la fronte. Ripresi la mia attitudine.

Ella stava ancóra in piedi. Sedette.

Seguì un intervallo di silenzio.

- Credi tu - ella mi domandò, con una timidezza penosa - credi tu che la colpa sia grave, quando l'anima non consente?

Bastò quell'accenno alla colpa per rimescolare in me d'un tratto il torbido fondo che s'era quietato; e una specie di rigurgito amaro mi salì alla bocca. Involontariamente mi uscì dalle labbra il sarcasmo. Dissi, facendo segno di sorridere:

- Povera anima!

Apparve sul volto di Giuliana un'espressione di dolore così intensa che io subito provai una fitta di pentimento acutissima. M'accorsi che non avrei potuto farle una ferita più cruda e che l'ironia in quell'ora, contro quella creatura sommessa, era la peggiore delle viltà.

- Perdonami, - ella disse con l'aspetto di una donna colpita a morte (e mi parve proprio ch'ella avesse l'occhio dolce, triste, quasi infantile che avevo veduto qualche volta ai feriti adagiati nelle barelle) - perdonami. Anche tu ieri parlasti di anima... Tu pensi ora: “Queste sono le cose che le donne dicono, per farsi perdonare”. Ma io non cerco di farmi perdonare. So che il perdono è impossibile, che l'oblio è impossibile. So che non c'è scampo. Intendi? Volevo soltanto farmi perdonare da te i baci che ho presi da tua madre...

Ancóra era sommessa la sua voce, debolissima, eppure lacerante come un grido acuto e iterato.

- Mi sentivo su la fronte un peso di dolore così grande che non per me, Tullio, ma per quel dolore, soltanto per quel dolore accettavo su la fronte i baci di tua madre. E se io ero indegna, quel dolore era degno: Tu puoi perdonarmi.

Ebbi un moto di bontà, di pietà, ma non cedetti. Io non la guardavo negli occhi. Il mio sguardo andava involontariamente al grembo, come per scoprire i segni della cosa tremenda; e facevo sforzi enormi per non contorcermi negli accessi di spasimo, per non darmi ad atti insensati.

- Certi giorni differivo d'ora in ora l'esecuzione del mio proposito; e il pensiero di questa casa, di ciò che sarebbe accaduto dopo in questa casa, mi toglieva il coraggio. E così svanì anche la speranza di poterti nascondere la verità, di poterti salvare; perché fin dai primi giorni la mamma indovinò il mio stato. Ti ricordi tu di quel giorno che là alla finestra, per l'odore delle violacciocche, ebbi un disturbo? Fin da allora, la mamma se ne accorse. Imagina i miei terrori! Io pensavo: “Se mi uccido, Tullio avrà la rivelazione dalla madre. Chi sa fin dove giungeranno le conseguenze del male che ho fatto!”. E mi divoravo l'anima, giorno e notte, per trovare il modo di salvarti. Quando tu domenica mi domandasti: “Vuoi che andiamo martedì a Villalilla?” io acconsentii senza riflettere, mi abbandonai al destino, mi affidai alla forza del caso, alla ventura. Ero certa che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno. Questa certezza mi esaltava, mi dava una specie di demenza. Ah, Tullio, ripensa alle tue parole di ieri e dimmi se comprendi ora il mio martirio... Lo comprendi?

Ella si chinò, si protese verso di me, come per spingermi dentro l'anima la sua domanda angosciosa; e, tenendo le dita intrecciate, si torceva le mani.

- Non m'avevi mai parlato così; non avevi mai avuta quella voce. Quando là, al sedile, tu mi domandasti: “È troppo tardi, forse?” io ti guardai e il tuo viso mi fece paura. Potevo risponderti: “Sì, è troppo tardi”? Potevo spezzarti il cuore a un tratto? Che sarebbe accaduto di noi? E allora volli concedermi l'ultima ebrezza, diventai folle, non vidi più che la morte e la mia passione.

Ella era divenuta stranamente rauca. Io la guardavo; e mi pareva di non riconoscerla, tanto era trasfigurata. Una convulsione contraeva tutte le linee del suo viso; il labbro inferiore le tremava forte; gli occhi le ardevano d'un ardore febrile.

- Mi condanni? - domandò rauca ed acre. - Mi disprezzi per quel che feci ieri?

Si coprì il viso con le mani. Poi, dopo una pausa, con un accento indefinibile di strazio, di voluttà e di orrore, con un accento venutole chi sa da quale abisso dell'essere, ella soggiunse:

- Iersera, per non distruggere quel che di te m'era rimasto nel sangue, indugiavo a prendere il veleno.

Le mani le ricaddero. Ella scosse da sé la debolezza, con un atto risoluto. La sua voce divenne più ferma.

- Il destino ha voluto che io vivessi fino a quest'ora. Il destino ha voluto che tu sapessi da tua madre la verità: da tua madre! Iersera, quando tu rientrasti qui, sapevi tutto. E tacesti, e davanti a tua madre mi baciasti la guancia che io ti offrivo. Lascerai che prima di morire io ti baci le mani. Non ti chiedo altro. T'ho aspettato per obedirti. Sono pronta a tutto. Parla.

Io dissi:

- È necessario che tu viva.

- Impossibile, Tullio; impossibile - ella esclamò. Hai tu pensato a quel che accadrebbe se io vivessi?

- Ho pensato. È necessario che tu viva.

- Orrore!

Ed ella ebbe un sussulto violento, un moto istintivo di raccapriccio, forse perché sentì nelle sue viscere quell'altra vita, il nascituro.

- Ascoltami, Tullio. Oramai tu sai tutto; oramai non debbo uccidermi per nasconderti una vergogna, per evitare di ritrovarmi innanzi a te. Tu sai tutto; e siamo qui, e possiamo ancóra guardarci, possiamo ancóra parlare! Si tratta di ben altro. Io non penso di eludere la tua vigilanza per darmi la morte. Io voglio anzi che tu mi aiuti a scomparire nel modo più naturale che sia possibile per non destare sospetti qui nella casa. Ho due veleni: la morfina e il sublimato corrosivo. Forse non servono. Forse è difficile tener celato un avvelenamento. E bisogna che la mia morte sembri involontaria, cagionata da un caso qualunque, da una disgrazia. Intendi? In questo modo noi raggiungeremo lo scopo. Il segreto rimarrà fra noi due...

Ella ora parlava rapidamente, con una espressione di serietà ferma, come se ragionasse per persuadermi ad accettare un accordo utile, non un patto di morte, non una parte di complice nell'attuazione d'un proposito insensato. Io lasciavo ch'ella continuasse. Una specie di fascino strano mi faceva rimaner là a guardare, ad ascoltare quella creatura così fragile, così pallida, così malata, in cui entravano onde di energia morale così veementi.

- Ascoltami, Tullio. Ho un'idea. Federico m'ha raccontato la tua follia di oggi, il pericolo che hai corso oggi su l'argine dell'Assòro, m'ha raccontato tutto. Io pensavo, tremando: “Chi sa per quale impeto di dolore s'è gittato a quel rischio!”. E, ancóra pensando, m'è parso di comprendere. Ho avuta una divinazione. E tutte le altre tue sofferenze future mi si sono affacciate all'anima: sofferenze da cui nulla ti potrebbe difendere, sofferenze che aumenterebbero di giorno in giorno, inconsolabili, intollerabili. Ah, Tullio, certo tu le hai già presentite e pensi che non potresti sostenerle. Un solo mezzo c'è per salvare te, me, le nostre anime, il nostro amore; sì, lasciami dire: il nostro amore. Lasciami ancóra credere alle tue parole di ieri e lasciami ripetere che io ti amo ora come non t'ho amato mai. Appunto per questo, appunto perché noi ci amiamo, bisogna che io sparisca dal mondo, bisogna che tu non mi veda più.

Fu straordinaria l'elevazione morale che rialzò la voce, tutta la persona di lei, in quell'istante. Un gran fremito mi agitò; un'illusione fugace s'impadronì del mio spirito. Credetti che veramente in quell'istante il mio amore e l'amore di quella donna si trovassero di fronte alti d'una smisurata altezza ideale e scevri di miseria umana, non macchiati di colpa, intatti. Riebbi per pochi attimi la stessa sensazione provata in principio quando il mondo reale m'era parso completamente vanito. Poi, come sempre, il fenomeno inevitabile si compì. Quello stato di conscienza non mi appartenne più, si fece obbiettivo, mi diventò estraneo.

- Ascoltami - seguitò ella, abbassando la voce, come per tema che qualcuno udisse. - Ho mostrato a Federico un gran desiderio di rivedere il bosco, le carbonare, tutti quei luoghi. Domattina Federico non potrà accompagnarci perché dovrà tornare a Casal Caldore. Andremo noi due soli. Federico m'ha detto che potrò montare Favilla. Quando saremo su l'argine... farò quel che tu hai fatto stamani. Accadrà una disgrazia. Federico m'ha detto che è impossibile salvarsi dall'Assòro... Vuoi?

Sebbene ella proferisse parole coerenti, sembrava in preda a una specie di delirio. Un rossore insolito le accendeva la sommità delle gote, e gli occhi le splendevano straordinariamente.

Una visione del fiume sinistro mi passò nello spirito, rapida.

Ella ripeté, tendendosi verso di me:

- Vuoi?

Io m'alzai, le presi le mani. Volevo calmare la sua febbre. Una pena e una pietà immense mi premevano. E la mia voce fu dolce, fu buona; tremò di tenerezza.

- Povera Giuliana! Non t'agitare così. Tu soffri troppo; il dolore ti fa insensata, povera anima! Bisogna che tu abbia molto coraggio; bisogna che tu non pensi più alle cose che hai dette... Pensa a Maria, a Natalia... Io ho accettato questo castigo. Per tutto il male che ho fatto, forse meritavo questo castigo. L'ho accettato; lo sopporterò. Ma è necessario che tu viva. Mi prometti, Giuliana, per Maria, per Natalia, per quanto hai cara la mamma, per le cose che io ti dissi ieri, mi prometti che in nessun modo cercherai di morire?

Ella teneva il capo chino. E d'un tratto, liberando le sue mani, afferrò le mie e si mise a baciarmele furiosamente; e io sentii su la mia pelle il caldo della sua bocca, il caldo delle sue lacrime. E, come io tentavo di sottrarmi, ella dalla sedia cadde in ginocchio, senza lasciarmi le mani, singhiozzando, mostrandomi la sua faccia sconvolta, dove il pianto colava a rivi, dove la contrazione della bocca rivelava l'indicibile spasimo da cui tutto l'essere era convulso. E, senza poterla rialzare, senza poter più parlare, soffocato da un accesso violento d'ambascia, soggiogato dalla forza dello spasimo che contraeva quella povera bocca smorta, abbandonato da qualunque rancore, da qualunque orgoglio, non provando se non la cieca paura della vita, non sentendo nella donna prostrata e in me se non la sofferenza umana, l'eterna miseria umana, il danno delle trasgressioni inevitabili, il peso della nostra carne bruta, l'orrore delle fatalità inscritte nelle radici stesse del nostro essere e inabolibili, tutta la corporale tristezza del nostro amore, anch'io caddi in ginocchio d'innanzi a lei per un bisogno istintivo di prostrarmi, di uguagliarmi anche nell'attitudine alla creatura che soffriva e che mi faceva soffrire. E anch'io ruppi in singhiozzi. E ancóra una volta, dopo tanto, rimescolammo le nostre lacrime, ahimè! che erano così cocenti e che non potevano mutare il nostro destino.

 

 

XVI.

 

Chi saprà mai rendere con le parole quel senso di aridità desolata e di stupore, che resta nell'uomo dopo uno spargimento inutile di pianto, dopo un parosismo d'inutile disperazione? Il pianto è un fenomeno passeggero, ogni crisi deve risolversi, ogni eccesso è breve; e l'uomo si ritrova esausto, quasi direi disseccato, più che mai convinto della propria impotenza, corporalmente stupido e triste, d'innanzi alla realtà impassibile.

Io primo terminai di piangere; io primo riebbi negli occhi la luce; io primo feci attenzione alla positura della mia persona, a quella di Giuliana, alle cose circostanti. Eravamo ancóra in ginocchio l'uno di fronte all'altra, sul tappeto; e ancóra qualche singulto scoteva Giuliana. La candela ardeva sul tavolo, e la fiammella si moveva a quando a quando come inchinata da un soffio. Nel silenzio il mio orecchio percepì il piccolo rumore d'un orologio che doveva essere nella stanza, posato in qualche luogo. La vita scorreva, il tempo fuggiva. La mia anima era vuota e sola.

Passata la veemenza del sentimento, passata quell'ebrietà di dolore, le nostre attitudini non avevano più significato, non avevano più ragion d'essere. Bisognava che io mi alzassi, che io sollevassi Giuliana, che io dicessi qualche cosa, che quella scena avesse una chiusura definitiva; ma io provavo per tutto ciò una strana ripugnanza. Mi pareva di non essere più capace del minimo sforzo materiale e morale. M'incresceva di trovarmi là, in quelle necessità, in quelle difficoltà, costretto a quella continuazione. E una specie di rancore sordo incominciò a muoversi vagamente in fondo a me, contro Giuliana.

M'alzai. L'aiutai ad alzarsi. Ciascun singulto, che ancóra a quando a quando la scoteva, aumentava in me quel rancore inesplicabile.

È proprio vero dunque che qualche parte d'odio si cela in fondo ad ogni sentimento che accomuna due creature umane, cioè che ravvicina due egoismi. È proprio vero dunque che questa parte d'odio immancabile disonora sempre i nostri più teneri abbandoni, i nostri migliori impeti. Tutte le belle cose dell'anima portano in loro un germe di corruzione latente, e devono corrompersi.

Io dissi (e temevo che la voce mio malgrado non fosse a bastanza dolce):

- Càlmati, Giuliana. Ora bisogna che tu sii forte. Vieni, siedi qui. Càlmati. Vuoi un poco d'acqua da bere? Vuoi qualche cosa da odorare? Dimmi tu.

- Sì, un poco d'acqua. Cerca là, nell'alcova, sul tavolo da notte.

Ella aveva ancóra una voce di pianto; e si asciugava la faccia con un fazzoletto, seduta su un divano basso, di contro al grande specchio d'un armario. Il singulto le durava ancóra.

Entrai nell'alcova per prendere il bicchiere. Nella penombra scorsi il letto. Era già preparato: un lembo delle coperte era rialzato e discostato, una lunga camicia bianca era posata presso il guanciale. Sùbito il mio senso acuto e vigile percepì il fievole odore della batista, un odore svanito d'ireos e di mammola che conoscevo. La vista del letto, l'odore noto mi diedero un turbamento profondo. In fretta versai l'acqua ed uscii per portare il bicchiere a Giuliana che aspettava.

Ella bevve qualche sorso, a riprese, mentre io, in piedi davanti a lei, la guardavo notando l'atto della sua bocca. Disse:

- Grazie, Tullio.

E mi rese il bicchiere non vuotato se non a metà. Come avevo sete, io bevvi il resto dell'acqua. Bastò quel piccolo fatto irriflessivo per aumentare in me il turbamento. Sedetti anch'io sul divano. E tacemmo, ambedue assorti nel nostro pensiero, separati da un breve spazio.

Il divano con le nostre figure si rifletteva nello specchio dell'armario. Senza guardarci noi potevamo vedere i nostri volti ma non bene distinti perché la luce era scarsa e mobile. Io consideravo fissamente nel fondo vago dello specchio la figura di Giuliana che prendeva a poco a poco nella sua immobilità un aspetto misterioso, l'inquietante fascino di certi ritratti feminili oscurati dal tempo, l'intensa vita fittizia degli esseri creati da una allucinazione. Ed accadde che a poco a poco quell'imagine discosta mi sembrò più viva della persona reale. Accadde che a poco a poco in quell'imagine io vidi la donna delle carezze, la donna di voluttà, l'amante, l'infedele.

Chiusi gli occhi. L'Altro comparve. Una delle note visioni si formò.

Io pensavo: “Ella non ha finora mai alluso direttamente alla sua caduta, al modo della sua caduta. Una sola frase significante ella ha proferito: - Credi tu che la colpa sia grave, quando l'anima non consente? - Una frase! E che ha voluto ella significare? Si tratta d'una delle solite distinzioni sottili che servono a scuotere e ad attenuare tutti i tradimenti e tutte le infamie. Ma, insomma, quale specie di relazione è corsa tra lei e Filippo Arborio, oltre quella carnale innegabile? E in quali circostanze ella s'è abbandonata?”. Un'atroce curiosità mi pungeva. Le suggestioni mi venivano dalla mia stessa esperienza. Mi tornavano alla memoria, precise, certe particolari maniere di cedere usate da alcune delle mie antiche amanti. Le imagini si formavano, si mutavano, si succedevano lucide e rapide. Rivedevo Giuliana, quale l'avevo veduta in giorni lontani, sola nel vano d'una finestra, con un libro su le ginocchia, tutta languida, pallidissima, nell'attitudine di chi sia per venir meno, mentre un'alterazione indefinibile, come una violenza di cose soffocate, passava ne' suoi occhi troppo neri. - Era stata sorpresa da colui in uno di quei languori, nella mia casa stessa, ed aveva patita la violazione in una specie d'inconsapevolezza, e risvegliandosi aveva provato orrore e disgusto dell'atto irreparabile, e aveva scacciato colui e non l'aveva più riveduto? Oppure aveva consentito a recarsi in qualche luogo segreto, in un piccolo appartamento remoto, forse in una delle camere mobiliate per ove passano le sozzure di cento adulterii, e aveva ricevuto e prodigato sul medesimo guanciale tutte le carezze, non una sola volta, ma più volte, ma molti giorni di seguito, ad ore stabilite, nella sicurtà procuratale dalla mia incuranza? - E rividi Giuliana davanti allo specchio nel giorno di novembre, la sua attitudine nell'appuntare il velo al cappello, il colore del suo abito, e poi il suo passo leggero “sul marciapiede dalla parte del sole”. Quella mattina era andata a un ritrovo forse?

Io soffrivo una tortura senza nome. La smania di sapere mi torceva l'anima; le imagini fisiche mi esasperavano. Il rancore contro Giuliana diveniva più acre; e il ricordo delle voluttà recenti, il ricordo del letto nuziale di Villalilla, quel che di lei m'era rimasto nel sangue, alimentavano una cupa fiamma. Dalla sensazione che mi dava la vicinanza del corpo di Giuliana, da uno speciale tremito io m'accorsi che ero già caduto in preda alla ben nota febbre della gelosia sessuale e che per non cedere a un impeto odioso bisognava fuggire. Ma la mia volontà pareva colpita da paralisi; io non ero padrone di me. Rimanevo là, tenuto da due forze contrarie, da una repulsione e da una attrazione interamente fisiche, da una concupiscenza mista di disgusto, da un oscuro contrasto che io non potevo sedare perché si svolgeva nell'infimo della mia sostanza bruta.

L'Altro, dall'istante in cui era comparso, era rimasto di continuo innanzi a me. Era Filippo Arborio? Avevo proprio indovinato? Non m'ingannavo?

Mi voltai verso Giuliana all'improvviso. Ella mi guardò. La domanda repentina mi rimase strozzata nella gola. Abbassai gli occhi, piegai il capo: e, con la stessa tensione spasmodica che avrei provato nello strapparmi da una parte del corpo un lembo di carne viva, osai chiedere:

- Il nome di quell'uomo?

La mia voce era tremante e roca, e faceva male a me medesimo.

Alla domanda inaspettata, Giuliana trasalì; ma tacque.

- Non rispondi? - incalzai, sforzandomi di comprimere la collera che stava per invasarmi, quella collera cieca che già la notte innanzi nell'alcova era passata sul mio spirito come una raffica.

- Oh mio Dio! - ella gemette angosciosamente, abbattendosi sul fianco, nascondendo la faccia in un cuscino. - Mio Dio, mio Dio!

Ma io volevo sapere; io volevo strapparle la confessione ad ogni costo.

- Ti ricordi - seguitai - ti ricordi tu di quella mattina che entrai nella tua stanza all'improvviso, su i primi di novembre? Ti ricordi? Entrai non so perché: perché tu cantavi. Cantavi l'aria di Orfeo. Eri quasi pronta per uscire. Ti ricordi? Io vidi un libro su la tua scrivania, l'apersi, lessi sul frontespizio una dedica... Era un romanzo: Il Segreto... Ti ricordi?

Ella rimaneva abbattuta sul cuscino, senza rispondere. Mi chinai verso di lei. Tremavo d'un ribrezzo simile a quello che precede il freddo della febbre. Soggiunsi:

- È forse colui?

Ella non rispose, ma si sollevò con un impeto disperato. Pareva demente. Fece l'atto di gettarsi su di me, poi si trattenne.

- Abbi pietà! Abbi pietà! - proruppe. - Lasciami morire! Questo che tu mi fai soffrire è peggiore di qualunque morte. Tutto ho sopportato, tutto potrei sopportare; ma questo non posso, non posso... Se io vivrò, sarà per noi un martirio di tutte l'ore, ed ogni giorno più sarà terribile. E tu mi odierai: tutto il tuo odio mi verrà sopra. Lo so, lo so. Ho già sentito l'odio nella tua voce. Abbi pietà! Lasciami prima morire!

Pareva demente. Aveva il bisogno smanioso di aggrapparsi a me; e, non osando, si torceva le mani per trattenersi, con un orgasmo di tutta la persona. Ma io la presi per le braccia, l'attirai a me.

- Non saprò dunque nulla? - le dissi quasi su la bocca, divenuto anch'io demente, incitato da un istinto crudele che rendeva rudi le mie mani.

- T'amo, t'ho amato sempre, sono stata sempre tua, sconto con quest'inferno un minuto di debolezza, intendi? un minuto di debolezza... È la verità. Non senti che è la verità?

Ancóra un attimo lucido; e poi l'effetto d'un impulso cieco, selvaggio, inarrestabile.

Ella cadde sul cuscino rovescia. Le mie labbra soffocarono il suo grido.

 

 

XVII.

 

Molte cose quella stretta violenta aveva soffocate. “Selvaggio! Selvaggio!” Io rivedevo le lacrime mute che avevano riempito a Giuliana il cavo degli occhi; riudivo il rantolo ch'ella aveva emesso nel sussulto supremo, un rantolo d'agonizzante. E mi ripassava per l'anima un'onda di quella tristezza, non somigliante a nessun'altra, che dopo l'atto m'era piombata sopra. “Ah, veramente selvaggio!” La prima suggestione del delitto non era entrata in me proprio allora? Non s'era affacciata alla mia conscienza, durante la furia, un'intenzione micidiale?

E ripensavo alle amare parole di Giuliana: “Ho la vita tenace”. Non la tenacità della sua vita mi pareva straordinaria ma quella dell'altra vita ch'ella portava dentro; e contro quella appunto io m'esasperavo, contro quella incominciavo a macchinare.

Non erano ancóra manifesti nella persona di Giuliana i segni esterni: l'allargamento dei fianchi, l'aumento del volume nel ventre. Ella si trovava dunque ancóra ai primi mesi: forse al terzo, forse al principio del quarto. Le aderenze che univano il feto alla matrice dovevano esser deboli. L'aborto doveva essere facilissimo. Come mai le violente commozioni della giornata di Villalilla e di quella notte, gli sforzi, gli spasimi, le contratture, non l'avevano provocato? Tutto m'era avverso, tutti i casi congiuravano contro di me. E la mia ostilità diveniva più acre.

Impedire che il figlio nascesse era il mio segreto proposito. Tutto l'orrore della nostra condizione veniva dalla antiveggenza di quella natività, dalla minaccia dell'intruso. Come mai Giuliana, al primo sospetto, non aveva tentato ogni mezzo per distruggere il concepimento infame? Era stata ella trattenuta da un pregiudizio, da una paura, da una ripugnanza instintiva di madre? Aveva ella un senso materno anche per il feto adulterino?

E io consideravo la vita avvenire, divinata con una specie di chiaroveggenza. - Giuliana dava alla luce un maschio, unico erede del nostro antico nome. Il figliuolo non mio cresceva, incolume; usurpava l'amore di mia madre, di mio fratello; era careggiato, adorato a preferenza di Maria e di Natalia, delle mie creature. La forza dell'abitudine quietava i rimorsi in Giuliana, ed ella si abbandonava al suo sentimento materno, senza ritegno. E il figliuolo non mio cresceva protetto da lei, per le cure assidue di lei; si faceva robusto e bello; diveniva capriccioso come un piccolo despota; s'impadroniva della mia casa. - Queste visioni a poco a poco si particolarizzavano. Certe rappresentazioni fantastiche assumevano il rilievo e il movimento di una scena reale; e qualche tratto d'una tal vita fittizia s'imprimeva così forte nella mia conscienza da restarvi notato per un certo tempo con tutti i caratteri di una realtà. La figura del fanciullo era infinitamente variabile; i suoi atti, i suoi gesti erano diversissimi. Ora io me lo figuravo esile, pallido, taciturno, con una grossa testa pesante inchinata sul petto; ora tutto roseo, rotondo, gaio, loquace, pieno di vezzi e di blandizie, singolarmente amorevole verso di me, buono; ora invece tutto nervi, bilioso, un po' felino, pieno d'intelligenza e d'istinti malvagi, duro con le sorelle, crudele verso gli animali, incapace di tenerezze, indisciplinabile. A poco a poco questa ultima figurazione si sovrappose alle altre, le eliminò permanendo, si raffermò in un tipo preciso, si animò di una intensa vita fittiva, prese perfino un nome: il nome già da tempo stabilito per l'erede mascolino, il nome di mio padre: Raimondo.

Il piccolo fantasma perverso era una emanazione diretta del mio odio; aveva contro di me la stessa inimicizia che io avevo contro di lui; era un nemico, un avversario col quale stavo per impegnare la lotta. Egli era la mia vittima ed io ero la sua. Ed io non potevo sfuggirgli, egli non poteva sfuggirmi. Eravamo ambedue chiusi in un cerchio d'acciaio.

I suoi occhi erano grigi come quelli di Filippo Arborio. Tra le varie espressioni del suo sguardo una mi colpiva più spesso, in una scena imaginaria che ogni tanto si ripeteva. La scena era questa: - Io entrava senza sospetto in una stanza immersa nell'ombra, piena d'un silenzio singolare. Credevo d'esser solo, là dentro. A un tratto, volgendomi, m'accorgevo della presenza di Raimondo che mi guardava fiso con i suoi occhi grigi e malvagi. M'assaliva subitamente la tentazione del delitto, così forte che, per non gittarmi sul piccolo essere malefico, fuggivo.

 

 

XVIII.

 

Il patto dunque tra me e Giuliana pareva concluso. Ella viveva. Ambedue seguitavamo a vivere simulando, dissimulando. Avevamo, come i dipsomani, due vite alterne: una tranquilla, tutta composta di dolci apparenze, di tenerezze filiali, di affetti puri, di atti benigni; l'altra agitata, febrile, torbida, incerta, senza speranza, dominata dall'idea fissa, incalzata sempre da una minaccia, precipitante verso una catastrofe ignota.

Io avevo qualche raro momento in cui l'anima, sfuggendo all'assedio di tante cattive cose, liberandosi dal male che la avvolgeva come di mille tentacoli, si slanciava con un grande anelito verso l'alto ideale di bontà più volte intraveduto. Mi tornavano alla memoria le singolari parole di mio fratello dette sul limite del bosco d'Assòro, riguardanti Giovanni di Scòrdio: “Farai bene, Tullio, a non dimenticare quel sorriso”. E quel sorriso su la bocca appassita del vecchio prendeva un significato profondo, diventava straordinariamente luminoso, m'esaltava come la rivelazione d'una suprema verità.

Quasi sempre, in quei rari momenti, un altro sorriso mi riappariva: quello di Giuliana ancóra inferma su i guanciali, il sorriso impreveduto che “s'attenuava, s'attenuava senza estinguersi”. E il ricordo del lontano pomeriggio quieto in cui avevo inebriato d'un'ebrezza ingannevole la povera convalescente dalle mani così bianche; il ricordo della mattina in cui ella s'era levata per la prima volta e a mezzo della stanza m'era caduta fra le braccia ridendo e ansando; il ricordo del gesto veramente divino con cui ella m'aveva offerto l'amore, l'indulgenza, la pace, il sogno, l'oblio, tutte le cose belle e tutte le cose buone, mi davano rimpianti e rimorsi senza fine disperati. La dolce e terribile domanda che Andrea Bolkonsky aveva letto sul viso estinto della principessa Lisa, io la leggevo di continuo sul viso ancor vivente di Giuliana: “Che avete fatto di me?”. Nessun rimprovero era uscito dalla sua bocca; per diminuire la gravità della sua colpa ella non aveva saputo rinfacciarmi nessuna delle mie infamie, ella era stata umile d'innanzi al suo carnefice, non una stilla di amaro aveva inasprito le sue parole; eppure i suoi occhi mi ripetevano: “Che hai tu fatto di me?”.

Uno strano ardore di sacrificio m'infiammava subitamente, mi spingeva ad abbracciare la mia croce. La grandezza dell'espiazione mi pareva degna del mio coraggio. Mi sentivo una sovrabbondanza di forze, l'anima eroica, l'intelletto illuminato. Andando verso la sorella dolorosa, io pensavo: “Troverò la buona parola per consolarla, troverò l'accento fraterno per mitigare il suo dolore, per rialzare la sua fronte”. Ma, giunto alla presenza di lei, non parlavo più. Le mie labbra parevano premute da un suggello infrangibile; tutto il mio essere pareva colpito da un malefizio. La luce interiore si spengeva a un tratto, come per un soffio gelido, d'ignota origine. E nella oscurità incominciava a muoversi, vagamente, quel sordo rancore che io già troppo conoscevo e non potevo reprimere.

Era l'indizio d'un accesso. Balbettavo qualche parola, smarrito, evitando di guardare Giuliana negli occhi; e andavo via, fuggivo.

Più d'una volta rimasi. Perdutamente, quando l'orgasmo diventava insostenibile, io cercavo la bocca di Giuliana; ed erano baci prolungati fino alla soffocazione, erano strette quasi rabbiose, che ci lasciavano più affranti, più tristi, divisi da un abisso più cupo, avviliti da una macchia di più.

“Selvaggio! Selvaggio!” Un'intenzione micidiale era in fondo a quegli impeti, un'intenzione che non osavo confessare a me stesso. - Se una volta alfine le contratture dello spasmo, in una di quelle strette, avessero distaccato dalla matrice il germe tenace! - Io non consideravo il mortale pericolo a cui esponevo Giuliana. Era evidente che, se un caso simile fosse avvenuto, la vita della madre avrebbe corso un grave rischio. Ebbene io da prima, nella mia demenza, non pensai se non alla probabilità di distruggere il figlio. Soltanto più tardi considerai che l'una vita era schiava dell'altra e che con i miei folli tentativi insidiavo l'una e l'altra insieme.

Giuliana infatti, che forse sospettava di quali elementi ignobili si formasse il mio desiderio, non mi resisteva. Le mute lacrime dell'anima calpestata non più le riempivano il cavo degli occhi. Ella rispondeva al mio ardore con un ardore quasi lugubre. Veramente ella aveva talvolta “sudori d'agonizzante e aspetti di cadavere”, che mi atterrivano. E una volta mi gridò, fuori di sé, con la voce soffocata:

- Sì, sì, uccidimi!

Compresi. Ella sperava la morte, l'aspettava da me.

 

 

XIX.

 

Era incredibile la sua forza nel dissimulare, alla presenza degli inconsapevoli. Ella riusciva ancóra a sorridere! I noti timori per la salute di lei mi davano modo di giustificare certe tristezze che non sapevo nascondere. Tali timori appunto, comuni a mia madre e a mio fratello, facevano sì che nella casa la nuova concezione non fosse festeggiata come le altre e fossero evitati i soliti pronostici ed ogni discorso allusivo. Ed era fortuna.

Ma giunse finalmente alla Badiola il dottor Vebesti.

La sua visita fu rassicurante. Egli trovò Giuliana molto indebolita, osservò in lei qualche disordine nervoso, l'impoverimento del sangue, un disturbo nutritivo generale dell'organismo; ma affermò che il processo della gravidanza non presentava anomalie notevoli e che, migliorate le condizioni generali, anche il processo del parto avrebbe potuto compiersi regolarmente. Inoltre egli mostrò di confidar molto nella tempra eccezionale di Giuliana, dalla quale anche pel passato aveva avuto prove straordinarie di resistenza. Ordinò una cura igienica e dietetica atta a ricostituirla, approvò il soggiorno alla Badiola, raccomandò il metodo, l'esercizio moderato, la tranquillità di spirito.

- Conto specialmente su voi - mi disse, con serietà. Io rimasi deluso. Avevo riposta in lui una speranza di salvezza ed ecco, la perdevo. Prima del suo arrivo, avevo sperato: “Se dichiarasse necessario, per guarentire la madre, sacrificare il figlio ancóra informe e non vitale! Se dichiarasse necessario provocare ad arte l'aborto per evitare la catastrofe sicura all'epoca della maturità!... Giuliana sarebbe salva, guarirebbe; ed io anche sarei salvo, mi sentirei rinascere. Credo che potrei quasi dimenticare, o, almeno, rassegnarmi. Il tempo chiude tante piaghe e il lavoro consola di tante tristezze. Credo che potrei conquistare la pace, a poco a poco, ed emendarmi, seguire l'esempio di mio fratello, diventar migliore, diventare un Uomo, vivere per gli altri, abbracciare la religione nuova. Credo che potrei ritrovare in questo stesso dolore la mia dignità. - L'uomo a cui è dato soffrire più degli altri, è degno di soffrire più degli altri. - Non è un versetto del vangelo di mio fratello? C'è dunque una elezione di dolore. Giovanni di Scòrdio, per esempio, è un eletto. Chi possiede quel sorriso possiede un dono divino. Credo che potrei meritare quel dono...”. Avevo sperato. Contraddicendo al mio fervore espiatorio, avevo sperato in una diminuzione di pena!

In fatti, volendo rigenerarmi nella sofferenza, avevo paura di soffrire: un'atroce paura d'affrontare il vero dolore. La mia anima era già sfinita; e, pur avendo intraveduta la grande via ed essendo agitata da aspirazioni cristiane, si metteva per un sentiero obliquo in fondo al quale era l'abisso inevitabile.

Parlando col dottore, mostrando un po' d'incredulità per le sue previsioni rassicuranti, mostrando qualche inquietudine, io trovai il modo di esporgli il mio pensiero. Gli feci intendere che desideravo allontanato per Giuliana il pericolo a qualunque costo e che, se fosse stato necessario, avrei rinunziato al terzogenito senza rammarico. Lo pregai di non nascondermi nulla.

Egli di nuovo mi rassicurò. Mi dichiarò che, anche in un caso disperato, non avrebbe ricorso all'aborto perché, nelle condizioni in cui trovavasi Giuliana, una emorragia sarebbe stata perniciosissima. Mi ripeté che bisognava anzitutto promuovere e sostenere la rigenerazione del sangue, ricostruire l'organismo infiacchito, cercare con ogni mezzo che l'incinta giungesse all'epoca del parto restaurata di forze, fiduciosa, tranquilla. Soggiunse:

- Credo che la signora abbia specialmente bisogno di consolazioni morali. Io sono un vecchio amico. So che ella ha molto sofferto. Voi potrete sollevarla.

 

 

XX.

 

Mia madre rianimata moltiplicò verso Giuliana le sue tenerezze. Manifestò il suo caro sogno e il suo presentimento. Ella aspettava il nipote, il piccolo Raimondo. Era sicura, questa volta.

Mio fratello anche aspettava Raimondo.

Maria e Natalia rivolgevano spesso a me, alla madre, alla nonna, domande ingenue e graziose sul compagno futuro.

Così con presagi, con augurii, con speranze l'amor familiare incominciava ad avvolgere il frutto invisibile, l'essere ancóra informe.

E i fianchi di Giuliana incominciavano ad ingrossarsi.

Un giorno eravamo rimasti io e Giuliana seduti sotto gli olmi. Mia madre ci aveva lasciati da poco. Nei suoi discorsi affettuosi ella aveva nominato Raimondo; aveva anzi rinnovato il diminutivo: Mondino, richiamando lontanissimi ricordi di mio padre morto. Io e Giuliana le avevamo sorriso. Ella aveva creduto che il suo sogno fosse il nostro sogno. Ci aveva lasciati là perché continuassimo a sognare.

Era l'ora che segue lo scomparire del sole, un'ora lucida e calma. I fogliami sul nostro capo non si movevano. A quando a quando uno stormo di rondini veemente fendeva l'aria con un rombo d'ali, con uno scoppio di gridi come a Villalilla.

Seguimmo con gli occhi la santa finché disparve. Allora ci guardammo, in silenzio, costernati. Rimanemmo in silenzio per qualche tempo, oppressi dall'immensità della nostra tristezza. E io, con una terribile intensione di tutto il mio essere, astraendo da Giuliana, sentii vivere accanto a me la creatura isolata come se null'altro in quel momento vivesse accanto a me, null'altro. E non fu una sensazione illusoria ma reale e profonda. Fu un raccapriccio che mi pervase tutte le fibre. Sussultai forte; e levai di nuovo lo sguardo al viso della mia compagna, per dissipare quella sensazione d'orrore. Ci guardammo, perduti, non sapendo che dire, che fare contro l'eccesso di spasimo. E io vedevo nel viso di lei riflessa la mia angoscia, indovinavo il mio aspetto. E, poiché i miei occhi andarono istintivamente al grembo, come li rialzai scorsi nel viso di lei quell'espressione di terror pànico che hanno gli infermi d'una infermità mostruosa quando qualcuno osserva la parte difformata dal male incurabile.

Ella disse, a voce bassa, dopo un intervallo in cui ambedue avevamo tentato di misurare la nostra pena e non avevamo trovato un termine; ella disse:

- Hai tu pensato che questo potrebbe durare tutta la vita?

Io non aprii le labbra; ma la risposta sonò dentro di me risoluta: “No, questo non durerà”.

Ella soggiunse:

- Ricòrdati che con una parola tu puoi troncare ogni cosa, liberarti. Io sono pronta. Ricordatene.

Ancóra tacqui; ma pensai: “Non tu devi morire”.

Ella soggiunse, con una voce che tremava di desolata tenerezza:

- Io non posso consolarti! Non c'è consolazione per te né per me; non ci potrà essere mai... Hai tu pensato che qualcuno starà sempre fra noi due? Se il vóto di tua madre fosse esaudito... Pensa! Pensa!

Ma la mia anima fremeva sotto il balenio sinistro d'un solo pensiero. Io dissi:

- Tutti già l'amano.

Esitai. Guardai Giuliana rapidamente. Riabbassando sùbito le palpebre, chinando il capo, le chiesi con una voce che mi si spense fra le labbra:

- L'ami tu?

- Ah, che mi domandi!

Non potei non insistere, sebbene soffrissi fisicamente come per riconficcare l'unghia in una lacerazione viva.

- L'ami?

- No no. L'ho in orrore.

Ebbi un moto istintivo di gioia come se per quella confessione avessi ottenuto il consenso al mio pensiero segreto e quasi la complicità. Ma aveva ella risposto il vero? O aveva mentito per misericordia di me?

M'assalì una cruda smania d'insistere ancóra, di costringerla a una confessione lunga ed intera, di penetrarla bene a dentro. Ma il suo aspetto mi trattenne. Rinunziai. Mi sentivo ora disacerbato verso di lei, benché ella portasse dentro di sé la vita su cui pendeva la mia condanna. Inclinavo ora verso di lei con un sentimento di gratitudine. Mi pareva che quell'orrore, da lei confessato con un fremito, la distaccasse dalla creatura che ella nutriva e la ravvicinasse a me. E provavo il bisogno di farle intendere queste cose, di aumentare in lei l'avversione contro il nascituro come contro un nemico d'entrambi inconciliabile.

Io le presi una mano; le dissi:

- Tu mi sollevi un poco. Ti son grato. Tu intendi...

Soggiunsi, mascherando di speranza cristiana la mia intenzione micidiale:

- C'è una Provvidenza. Chi sa! Ci può essere per noi una liberazione... Tu intendi quale. Chi sa! Prega Iddio.

Era un augurio di morte al nascituro; era un vóto. E, inducendo Giuliana a pregare Iddio che l'esaudisse, io la preparavo all'avvenimento funebre, ottenevo da lei una specie di complicità spirituale. Perfino pensai: “Se, dopo le mie parole, entrasse in lei la suggestione del delitto e divenisse a poco a poco tanto forte da trascinarla!... Certo, ella potrebbe convincersi della terribile necessità, esaltarsi al pensiero di liberarmi, avere un impeto di energia selvaggia, compiere il sacrifizio estremo. Non ha ripetuto anche dianzi che ella è pronta sempre a morire? La sua morte implica la morte del fanciullo. Ella dunque non è trattenuta da un pregiudizio religioso, dalla paura del peccato; perché, essendo disposta a morire, ella è disposta a commettere un delitto duplice, contro sé stessa, e contro il frutto del suo ventre. Ma ella è convinta che la sua esistenza è utile su la terra, anzi necessaria, alle persone che l'amano e ch'ella ama; ed è convinta che l'esistenza del figliuolo non mio renderà la nostra vita un supplizio insostenibile. Anche sa che noi potremmo ricongiungerci, che potremmo forse nel perdono e nell'oblio ritrovare qualche dolcezza, che potremmo sperare dal tempo la guarigione della piaga, se tra me e lei non si levasse l'intruso. Basterebbe dunque che ella considerasse queste cose perché un vóto inutile, una preghiera inefficace si mutassero a un tratto in un proposito e in un'azione”. Pensavo; ed ella anche taceva e pensava, a capo chino, tenendo ancóra la sua mano nella mia, mentre cadeva su noi l'ombra dai grandi olmi immobili.

Che pensava ella? La sua fronte era pur sempre tenue e pallida come un'ostia. Cadeva forse su lei un'altra ombra, oltre quella della sera?

Io vedevo Raimondo: non più in forma del fanciullo perverso e felino dagli occhi grigi ma in forma d'un corpicciuolo rossiccio e molle, appena appena respirante, che una lieve pressione poteva far morire.

La campana della Badiola diede il primo tocco dell'Angelus. Giuliana ritrasse la sua mano dalla mia; e si fece il segno della croce.

 

 

XXI.

 

Passato il quarto mese, passato il quinto, la gravidanza si svolgeva rapidamente. La figura di Giuliana, alta, snella e flessibile, s'ingrossava, si difformava come quella d'una idropica. Ella n'era umiliata, innanzi a me, come d'una infermità vergognosa. Un'acuta sofferenza appariva nel suo volto, quando ella sorprendeva i miei occhi fissi sul suo ventre gonfio.

Io mi sentivo sfinito, incapace di trascinare più oltre il peso di quell'esistenza miserabile. Ogni mattina, veramente, quando aprivo gli occhi dopo un sonno agitato, era come se qualcuno mi presentasse una coppa profonda, dicendomi: “Se tu vuoi bere, oggi, se tu vuoi vivere, bisogna che tu sprema qui dentro, fino all'ultima goccia, il sangue del tuo cuore”. Una ripugnanza, un disgusto, un ribrezzo indefinibili mi salivano dall'intimo dell'essere, a ogni risveglio. E, intanto, bisognava vivere!

I giorni erano d'una lentezza crudele. Il tempo non fluiva ma stillava, pigro e pesante. E avevo ancóra d'innanzi a me l'estate, una parte dell'autunno, una eternità. Mi sforzavo di seguire mio fratello, d'aiutarlo nella grande opera agraria ch'egli aveva intrapreso, d'infiammarmi alla sua fede. Rimanevo a cavallo intere giornate come un buttero; mi stancavo in un lavoro manuale, in qualche bisogna facile e monotona; cercavo di ottundere l'acuità della mia conscienza stando a contatto con la gente della gleba, con gli uomini semplici e diritti, con quelli in cui poche norme morali ereditate compivano le loro funzioni naturalmente come gli organi del corpo. Più d'una volta visitai Giovanni di Scòrdio, il santo solitario; e volli udire la sua voce, volli interrogarlo su le sue sciagure, volli rivedere i suoi occhi tanto tristi e il suo sorriso tanto dolce. Ma egli era taciturno, un poco timido verso di me; rispondeva appena qualche parola vaga, non amava parlare di sé, non amava lamentarsi, non interrompeva il lavoro a cui era intento. Le sue mani ossute, asciutte, brune, che parevano fuse in un bronzo animato, non si fermavano mai, non conoscevano forse la stanchezza. Un giorno esclamai:

- Ma quando si riposeranno le tue mani?

L'uomo probo se le guardò, sorridendo; ne considerò il dorso e il cavo, rivolgendole prone e poi supine al sole. Quello sguardo, quel sorriso, quel sole, quel gesto conferivano a quelle grosse mani incallite una nobiltà sovrana. Incallite su gli strumenti dell'agricoltura, santificate dal bene che avevano sparso, dalla vasta opera che avevano fornita, ora quelle mani erano degne di portare la palma.

Il vecchio le incrociò sul suo petto, secondo l'uso mortuario cristiano; e rispose, pur sempre sorridendo:

- Fra poco, signore, se Dio vorrà. Quando me le metteranno così, nella cassa. Così sia.

 

 

XXII.

 

Tutti i rimedi erano vani. Il lavoro non mi giovava, non mi consolava; perché era eccessivo, ineguale, disordinato, febrile, interrotto spesso da periodi d'inerzia invincibile, d'abbattimento, d'aridità. Mio fratello ammoniva:

- Non è questa la regola. Tu consumi in una settimana l'energia di sei mesi; poi ti lasci ricadere nell'indolenza; poi di nuovo ti getti alla fatica, senza ritegno. Non è questa la regola. Bisogna che la nostra opera sia calma, concorde, armonica, per essere efficace. Intendi? Bisogna che noi ci prescriviamo un metodo. Ma già tu hai il difetto di tutti i novizii: un eccesso di ardore. Ti calmerai, in seguito.

Mio fratello diceva:

- Tu non hai ancóra trovato l'equilibrio. Tu non ti senti ancóra sotto i piedi la terra ferma. Non temere di nulla. O prima o poi tu potrai afferrare la tua legge. Questo t'accadrà all'improvviso, inaspettatamente, nel tempo.

Anche diceva:

- Giuliana questa volta, certo, ti darà un erede: Raimondo. Io ho già pensato al patrino. Tuo figlio sarà tenuto a battesimo da Giovanni di Scòrdio. Non potrebbe avere un patrino più degno. Giovanni gli infonderà la bontà e la forza. Quando Raimondo potrà comprendere, noi gli parleremo di questo gran vecchio. E tuo figlio sarà quel che noi non abbiamo potuto e saputo essere.

Egli tornava spesso su l'argomento; nominava spesso Raimondo; augurava che il nascituro incarnasse l'ideal tipo umano da lui meditato, l'Esemplare. Non sapeva che ognuna delle sue parole era per me una fitta e rendeva più acre il mio odio e più violenta la mia disperazione.

Inconsapevoli, tutti congiuravano contro di me, tutti facevano a gara nel ferirmi. Quando mi avvicinavo a qualcuno dei miei, mi sentivo ansioso e pauroso come se fossi costretto a rimanere al fianco d'una persona che, avendo tra le mani armi terribili, non ne conoscesse l'uso e la terribilità. Stavo in continua attesa d'un colpo. Dovevo cercare la solitudine, fuggire lontano da tutti, per avere un po' di tregua; ma nella solitudine mi ritrovavo a faccia a faccia col mio nemico peggiore: con me medesimo.

Mi sentivo segretamente perire; mi pareva di perdere la vita da tutti i pori. Si riproducevano in me talvolta sofferenze appartenute al periodo più oscuro del mio passato omai remotissimo. Non altro conservavo in me talvolta se non il sentimento della mia esistenza isolata tra i fantasmi inerti di tutte le cose. Per lunghe ore non altro sentivo se non la fissità grave, schiacciante, della vita e il piccolo battito di un'arteria nella mia testa.

Poi sopravvenivano le ironie, i sarcasmi contro me stesso, improvvise smanie di demolire e di distruggere, derisioni spietate, malignità feroci, un fermento acre del fecciume più basso. Mi pareva di non saper più che cosa fossero indulgenza, misericordia, tenerezza, bontà. Tutte le buone sorgenti interiori si chiudevano, s'inaridivano, come fonti colpite di maledizione. E allora in Giuliana non vedevo più se non il fatto brutale, il ventre gonfio, l'effetto dell'escrezione d'un altro maschio; non vedevo in me se non il ridicolo, il marito gabbato, lo stupido eroe sentimentale d'un cattivo romanzo. Il sarcasmo interiore non risparmiava nessuno dei miei atti, nessuno degli atti di Giuliana. Il dramma si mutava per me in una comedia amara e beffarda. Nulla più mi riteneva; tutti i legami si spezzavano; avveniva un distacco violento. E io pensavo: “Perché rimaner qui a recitare questa parte odiosa? Me ne andrò, tornerò al mondo, alla vita di prima, alla licenza. Mi stordirò, mi perderò. Che importa? Non voglio essere se non quel che sono: fango nel fango. Puah!”.

 

 

XXIII.

 

In uno di tali accessi risolsi di lasciare la Badiola, di partire per Roma, di andare alla ventura.

Mi si offriva il pretesto. Non prevedendo un'assenza tanto lunga, noi avevamo lasciata la casa in condizioni provvisorie. Bisognava dare assetto a molte cose; bisognava disporre tutto in modo che la nostra assenza potesse prolungarsi fuor d'un termine fisso.

Annunziai la mia partenza. Persuasi di questa necessità mia madre, mio fratello, Giuliana. Promisi di sbrigarmi in pochi giorni. Mi preparai.

Alla vigilia, la sera, tardi, mentre chiudevo una valigia, udii battere all'uscio della camera. Gridai:

- Avanti!

Vidi entrare Giuliana, sorpreso.

- Oh, sei tu?

Le mossi incontro. Ella ansava un poco, forse affaticata dalle scale. La feci sedere. Le offersi una tazza di tè freddo con un sottile disco di limone, una bevanda a lei grata un tempo, che era pronta per me. Ella vi bagnò appena le labbra e me la rese. I suoi occhi rivelavano l'inquietudine. Disse alfine, timidamente:

- Dunque parti?

- Sì, - io risposi - domattina, come sai.

Seguì un intervallo di silenzio, lungo. Dalle finestre aperte entrava una frescura deliziosa; su i davanzali batteva la luna piena; giungeva il canto corale dei grilli, simile al suono d'un flauto un po' roco e indefinitamente lontano.

Ella mi domandò, con la voce alterata:

- Quando tornerai? Dimmi la verità.

- Non so - risposi.

Seguì un'altra pausa. Il vento leggero ricorreva a volta a volta, e le tende si gonfiavano. Ogni àsolo recava nella stanza, fino a noi, la voluttà della notte d'estate.

- Mi abbandoni?

Nella sua voce era uno scoramento così profondo che i nodi aspri dentro di me si sciolsero a un tratto; e il rammarico e la pietà mi invasero.

- No, - risposi - non temere, Giuliana. Ma ho bisogno di una tregua. Non ne posso più. Ho bisogno d'un respiro.

Ella disse:

- Hai ragione.

- Credo che tornerò presto, come ho promesso. Ti scriverò. Anche tu, forse, non vedendomi soffrire, avrai un sollievo.

Ella disse:

- Nessun sollievo mai.

Un pianto soffocato tremava nelle sue parole. Ella soggiunse a un tratto, con un accento di lacerante angoscia:

- Tullio, Tullio, dimmi la verità. Mi odii? Dimmi la verità!

Ella m'interrogava con gli occhi, assai più angosciosi delle sue parole. Parve fissare in me per un istante la sua stessa anima. E quei poveri occhi dilatati, quella fronte così pura, quella bocca convulsa, quel mento smagrito, tutto quel tenue viso dolente a contrasto con la difformità inferiore ignominiosa, e quelle mani, quelle tenui mani dolenti che si tendevano verso di me con un gesto supplichevole, mi fecero pena come non mai, e m'impietosirono e m'intenerirono.

- Credimi, Giuliana, credimi per sempre. Non ho nessun rancore contro di te, non ne avrò mai. Non dimentico che ti debbo il contraccambio; non dimentico nulla. Non ne hai già le prove? Rassicurati. Pensa ora a liberarti. E poi... chi sa! Ma, in qualunque caso, io non ti mancherò, Giuliana. Ora lascia che io parta. Forse qualche giorno di lontananza mi farà bene. Tornerò calmato. Sarà necessaria molta calma, poi. Tu avrai bisogno di tutto il mio aiuto...

Ella disse:

- Grazie. Farai di me quel che vorrai.

Un canto umano ora giungeva nella notte, coprendo il suono roco del flauto silvestre: - forse un coro di trebbiatori, da qualche aia remota, sotto la luna.

- Senti? - io dissi.

Ascoltammo. Il vento asolava. Tutta la voluttà della notte d'estate veniva a gonfiarmi il cuore.

- Vuoi che andiamo a sedere di là, sul terrazzo? - chiesi a Giuliana dolcemente.

Ella acconsentì, si levò. Passammo nell'altra stanza, ove non era altro lume che quello del plenilunio. Un gran flutto candido, qualche cosa come un latte immateriale, inondava il pavimento. In quel flutto ella camminò davanti a me, per uscire sul terrazzo; e io potei vedere la sua ombra difforme disegnarsi cupa nel chiarore.

Ah dov'era la creatura esile e pieghevole che avrei stretta fra le mie braccia? Dov'era l'amante che avevo rinvenuta sotto i fiori di lilla in un meriggio d'aprile? - Ebbi nel cuore, in un attimo, tutti i rimpianti, tutti i desiderii, tutte le disperazioni.

Giuliana s'era seduta e aveva poggiata la testa al ferro della ringhiera. La sua faccia illuminata in pieno era più bianca di qualunque cosa intorno, più bianca del muro. Ella teneva le palpebre socchiuse. I cigli le spandevano a sommo delle gote un'ombra che mi turbava più d'uno sguardo.

Come avrei potuto parlare?

Mi volsi verso la valle, mi piegai su la ringhiera stringendo il ferro freddo tra le dita. Vidi sotto di me un'immensa massa di apparenze confuse, dove non distinsi se non lo scintillio dell'Assòro. Il canto giungeva or si or no, secondo l'alito della frescura; e nelle pause si riudiva il suono di quel flauto un po' roco e indefinitamente lontano. Nessuna notte m'era parsa mai tanto piena di dolcezza e d'affanno. Dall'estremo fondo della mia anima irruppe un grido, altissimo sebbene non udibile, verso la felicità perduta.

 

 

XXIV.

 

Appena giunsi in Roma, mi pentii d'esser partito. Trovai la città infocata, fiammeggiante, quasi deserta; e n'ebbi sgomento. Trovai la casa muta come un sepolcro, dove le medesime cose, le cose da me ben conosciute, avevano un aspetto diverso, strano; e n'ebbi sgomento. Mi sentii solo, in una solitudine spaventevole; ma non andai in cerca di amici, non volli ricordare né riconoscere amici. Solo mi misi alla caccia di un uomo contro il quale mi spingeva un odio implacabile: alla caccia di Filippo Arborio.

Speravo d'incontrarlo sùbito in qualche luogo publico. Andai alla trattoria che sapevo da lui frequentata. L'aspettai tutta una sera premeditando il modo dell'affronto. Il passo d'ogni nuovo venuto mi rimescolava il sangue. Ma egli non comparve. Interrogai i camerieri. Da lungo tempo non l'avevano visto.

Feci una visita alla sala d'armi. La sala era vuota, immersa nell'ombra verdognola prodotta dalle persiane chiuse, piena di quel particolare odore che l'innaffio solleva da un pavimento di tavole. Il maestro, abbandonato dagli allievi, mi accolse con grandi effusioni di benevolenza. Io ascoltai attentamente il racconto minuto dei trionfi riportati nelle gare dell'ultima academia. Poi gli chiesi notizie di alcuni amici frequentatori della sala; infine gli chiesi notizie di Filippo Arborio.

- Non è più a Roma, da quattro o cinque mesi - mi rispose il maestro. - Ho sentito dire che è malato, d'una malattia nervosa molto grave, e che difficilmente guarirà. Lo diceva il conte Galiffa. Ma non so altro.

Soggiunse:

- Era molto fiacco, infatti. Qui da me ha preso poche lezioni. Temeva la stoccata; non poteva vedersi la punta davanti agli occhi...

- È ancóra a Roma Galiffa? - gli domandai.

- No, è a Rimini.

Dopo alcuni momenti mi accomiatai.

La notizia inaspettata mi aveva colpito. Pensai: “Fosse vera!”. E m'augurai che si trattasse d'una di quelle terribili malattie del midollo spinale o della sostanza cerebrale, che conducono un uomo alle infime degradazioni, all'idiotismo, alle più tristi forme della follia e quindi alla morte. Le nozioni apprese dai libri di scienza, i ricordi d'una visita a un manicomio, le imagini anche più precise lasciatemi impresse dal caso speciale di un mio amico, del povero Spinelli, ora mi tornavano alla memoria rapidamente. E rivedevo il povero Spinelli seduto su la gran poltrona di cuoio rosso, pallido d'un pallor terreo, con tutti i lineamenti della faccia irrigiditi, con la bocca dilatata e aperta, piena di saliva e d'un balbettio incomprensibile. E rivedevo il gesto ch'egli faceva ad ogni tratto per raccogliere nel fazzoletto quella saliva continua che gli colava dagli angoli della bocca. E rivedevo la figura bionda e smilza e dolente della sorella che metteva all'infermo un tovagliolo sotto il mento, come a un bambino, e con la sonda faringea gli introduceva nello stomaco i cibi ch'egli non avrebbe potuto inghiottire.

Pensavo: “Ho tutto da guadagnare. Se avessi un duello con un avversario così celebre, se lo ferissi gravemente, se l'uccidessi, il fatto, certo, non rimarrebbe segreto; correrebbe su tutte le bocche, sarebbe divulgato, comentato da tutte le gazzette. E potrebbe anche venire in chiaro la causa vera del duello! Invece questa malattia provvidenziale mi salva da ogni pericolo, da ogni fastidio, da ogni pettegolezzo. Io posso ben rinunziare a una voluttà sanguinaria, a un castigo inflitto con la mia mano (e sono poi certo dell'esito?), quando so paralizzato dalla malattia, ridotto all'impotenza l'uomo che detesto. Ma la notizia sarà vera? E se si trattasse d'un disturbo transitorio?”. Mi venne una buona idea. Saltai in una vettura e mi feci condurre alla libreria dell'editore. Nella strada consideravo mentalmente (con un vóto sincero) i due disturbi cerebrali più terribili per un uomo di lettere, per un artefice della parola, per uno stilista: - l'afasia e l'agraria. E avevo la visione fantastica dei sintomi.

Entrai nella libreria. Da prima non distinsi nulla, con gli occhi abbacinati dalla luce esterna. Udii una voce nasale, dall'accento straniero, che mi chiedeva:

- Il signore desidera?...

Scorsi dietro il banco un uomo d'età inconoscibile, biondiccio, scarno, dilavato, una specie d'albino; e mi rivolsi a lui, indicandogli i titoli di alcuni libri. Ne comprai parecchi. Poi domandai l'ultimo romanzo di Filippo Arborio. L'albino mi porse Il Segreto. Allora m'atteggiai ad ammiratore fanatico del romanziere.

- Questo è l'ultimo?

- Sì, signore. La nostra casa ne ha annunziato uno nuovo, da qualche mese: - Turris eburnea.

- Ah, Turris eburnea!

Il cuore mi diede un balzo.

- Ma credo che non potremo publicarlo.

- Perché mai?

- Il romanziere è molto malato!

- Malato! Di che male?

- D'una paralisi bulbare progressiva - rispose l'albino distaccando le tre parole terribili l'una dall'altra, con una certa affettazione di saccente.

“Ah, il male di Giulio Spinelli!”

- Il caso è grave, dunque.

- Gravissimo - sentenziò l'albino. - Ella sa che la paralisi non si arresta.

- Ma ora è al principio.

- Al principio; ma su la natura del male non c'è più dubbio. L'ultima volta che fu qui, io l'udii parlare. Già pronunziava con difficoltà alcune parole.

- Ah, voi l'udiste?

- Sì, signore. Aveva già la pronunzia indecisa, un po' tremolante in alcune parole...

Io incitavo l'albino con l'estrema attenzione, quasi ammirativa, che prestavo alle sue risposte. Credo ch'egli mi avrebbe volentieri distinte le consonanti contro le quali s'era incagliata la lingua del romanziere illustre.

- E ora dov'è?

- È a Napoli. I medici l'hanno sottoposto a una cura elettrica.

- Ah, a una cura elettrica! - ripetevo io con uno stupore ingenuo, come un uomo ignaro, volendo solleticare la vanità dell'albino e prolungare la conversazione.

Veramente, nella libreria stretta e lunga come un corridoio spirava un filo di frescura, per un riscontro. La luce era mite. Un commesso dormiva in pace, su una sedia, col mento sul petto, all'ombra d'un globo terraqueo. Nessuno entrava. Il libraio aveva qualche lato ridicolo che mi divertiva, così bianchiccio com'era, con quella bocca di rosicante, con quella voce nasale. E in una quiete di biblioteca era assai gradevole sentir dichiarare con tanta sicurezza l'infermità incurabile dell'uomo detestato.

- I medici hanno dunque speranza di salvarlo - dicevo, per incitare l'albino.

- Impossibile.

- Dobbiamo sperare che sia possibile, per la gloria delle lettere...

- Impossibile.

- Ma io credo che, nella paralisi progressiva, si dieno casi di guarigione.

- No, signore, no. Egli potrà vivere ancora due, tre, quattro anni; ma non guarire.

- Eppure, io credo...

Non so da che mi venissero quella leggerezza d'animo nel prendermi gioco del mio informatore e quella curiosa compiacenza nell'assaporare un mio sentimento crudele. Certo, io godevo. E l'albino, punto dalla mia contraddizione, senza opporre altro, montò su una scaletta di legno posta contro uno scaffale elevato. Gracile com'era, pareva uno di quei gatti randagi, scarsi di carne e di pelo, che si spenzolano all'orlo dei tetti. Montando, urtò col capo un nastro ch'era teso da un angolo all'altro della libreria pel riposo delle mosche. Un nuvolo di mosche gli turbinò intorno con un ronzio fierissimo. Egli discese portando un volume: l'autorità da addurre in favore della morte. E le mosche implacabili discendevano con lui.

Mi mostrò il frontespizio. Era un trattato di patologia speciale medica.

- Ora sentirà.

Cercò nelle pagine. Poiché il volume era intonso, discostò con le dita due fogli congiunti; e aguzzando i suoi occhi bianchicci, lesse per entro: “La prognosi della paralisi bulbare progressiva è sfavorevole...”. Soggiunse:

- Ora è persuaso?

- Sì. Ma che peccato! Un'intelligenza così rara!

Le mosche non si quietavano. Facevano tutte insieme un ronzio irritante. Assalivano me, l'albino, il commesso addormentato sotto il globo terraqueo.

- Quanti anni aveva? - chiesi io, sbagliando involontariamente il tempo del verbo, come se parlassi d'un defunto.

- Chi, signore?

- Filippo Arborio.

- Trentacinque anni, credo.

- Così giovine!

Avevo una strana voglia di ridere, una voglia puerile di ridere sul naso all'albino e di lasciarlo là stupefatto. Era una eccitazione singolarissima, un po' convulsiva, non mai provata, indefinita. Mi agitava lo spirito qualche cosa di simile a quella ilarità bizzarra e irrefrenabile che ci agita qualche volta tra le sorprese d'un sogno incoerente. Il trattato era rimasto aperto sul banco; e io mi chinai a guardare su una pagina una vignetta: un volto umano contorto da una smorfia atroce e grottesca. “Emiatrofia sinistra della faccia.” E le mosche implacabili ronzavano, ronzavano senza posa.

Ma una preoccupazione mi tornò. Domandai:

- L'editore non ha ricevuto ancóra il manoscritto della Turris eburnea?

- No, signore. L'annunzio fu dato; ma non esiste se non il titolo.

- Solo il titolo?

- Sì, signore. L'annunzio infatti è stato soppresso.

- Grazie. Vi prego di mandarmi questi libri a casa, dentr'oggi.

Diedi il mio indirizzo e uscii.

Sul marciapiede ebbi una sensazione particolare di smarrimento. Mi pareva d'aver lasciato dietro di me un lembo di vita artificiale, fittizia, falsa. Quel che avevo fatto, quel che avevo detto, quel che avevo provato, e la figura dell'albino, e la sua voce, e il suo gesto: tutto mi pareva artificiale, assumeva l'inesistenza d'un sogno, il carattere d'una impressione avuta da una lettura recente, non dal contatto della realtà.

Montai in vettura; tornai a casa. La sensazione vaga si dissipò. Mi raccolsi per riflettere. Mi assicurai che tutto era reale, indubitabile. Si formarono facilmente dentro di me imagini dell'infermo a similitudine di quelle che mi dava il ricordo del povero Spinelli. Mi punse una nuova curiosità. “Se andassi a Napoli per vederlo?” E mi rappresentai lo spettacolo miserevole di quell'uomo intellettuale degradato dal morbo, balbuziente come un mentecatto. Non provavo più alcuna gioia. Ogni eccitazione d'odio era estinta. Una tristezza cupa mi piombò sopra. - La ruina di quell'uomo non influiva sul mio stato, non riparava alla mia ruina. Nulla era mutato in me, nella mia esistenza, nella previsione del mio avvenire.

E ripensai il titolo dell'annunziato libro di Filippo Arborio: Turris eburnea. I dubbii mi si affollarono nello spirito. - Si trattava d'un riscontro puramente casuale con l'appellativo della nota dedica? O lo scrittore aveva inteso creare un personaggio letterario a simiglianza di Giuliana Hermil, narrare la sua avventura recente? - E di nuovo la torturante interrogazione mi si ripresentò. - In che modo s'era svolta quell'avventura dal principio alla fine?

E riudii le parole gridate da Giuliana nella notte indimenticabile: “T'amo, t'ho amato sempre, sono stata sempre tua, sconto con quest'inferno un minuto di debolezza, intendi? un minuto di debolezza... È la verità. Non senti che è la verità?”.

Ahimè, quante volte noi crediamo sentire la verità in una voce che mentisce! Nulla ci può difendere dall'inganno. Ma se quella che io avevo sentita nella voce di Giuliana era la verità pura, allora dunque veramente ella era stata sorpresa da colui in un languore dei sensi, nella mia casa stessa, ed aveva patita la violazione in una specie d'inconsapevolezza, e risvegliandosi aveva provato orrore e disgusto dell'atto irreparabile, e aveva scacciato colui e non l'aveva più riveduto?

Questa imaginazione, infatti, non aveva contro di sé nessuna delle apparenze; le quali appunto davano a supporre che qualunque legame tra Giuliana e colui fosse stato troncato da gran tempo decisamente.

“Nella mia casa stessa!” io ripensavo, intanto. E nella casa muta come un sepolcro, nelle stanze deserte e piene d'afa, ero perseguitato dall'imagine inevitabile.

 

 

XXV.

 

Che fare? Rimanere ancóra in Roma ad aspettare un'esplosione di follia dal mio cervello, in mezzo a quel fuoco, sotto quella rabbiosa canicola? Partire per il mare, per la montagna, andare a bevere l'oblio fra la gente, nei ritrovi eleganti d'estate? Risvegliare in me l'antico uomo voluttuario, alla ricerca di un'altra Teresa Raffo, di una qualunque amante vana?

Due o tre volte m'indugiai nel ricordo della biondissima; che pure m'era caduta interamente dal cuore e anche, per un lungo periodo, dalla memoria. “Dove sarà ella? Sarà ancóra legata con Eugenio Egano? Che proverei nel rivederla?” Era una curiosità fiacca. M'accorsi che il mio desiderio unico e profondo e invincibile era di tornare laggiù, alla mia casa di pena, al supplizio.

Presi con la massima sollecitudine i provvedimenti necessarii; feci una visita al dottor Vebesti, telegrafai alla Badiola il mio ritorno; e partii.

L'impazienza mi divorava; un'ansia acuta mi pungeva, quasi che io andassi incontro a straordinarie novità. Il viaggio mi parve interminabile. Disteso su i cuscini, oppresso dal caldo, soffocato dalla polvere che penetrava per gli interstizi, mentre il romore monotono del treno si accordava al canto monotono delle cicale senza sopire il mio fastidio, io pensavo agli eventi prossimi, consideravo le possibilità future, cercavo di scrutare la grande ombra. Il padre era mortalmente colpito. Quale sorte attendeva il figlio?

 

 

XXVI.

 

Nessuna novità, alla Badiola. La mia assenza era stata brevissima. Il mio ritorno fu festeggiato. Il primo sguardo di Giuliana mi espresse un'infinita gratitudine.

- Hai fatto bene a tornar sùbito - mi disse mia madre sorridendo. - Giuliana non aveva requie. Ora non ti moverai più, speriamo.

Soggiunse, accennando al ventre dell'incinta:

- Non vedi un progresso? Oh, a proposito, ti sei ricordato dei merletti? No? Smemorato!

Sùbito, fin dai primi momenti, ricominciava il supplizio. Appena io e Giuliana rimanemmo soli, ella mi disse:

- Non speravo che tu tornassi tanto presto. Come ti sono grata!

Nell'attitudine, nella voce ella era timida, umile, teneramente. Mi apparve anche più vivo il contrasto fra il suo volto e il resto della sua persona. Era per me visibile di continuo sul suo volto una particolare espressione penosa che rivelava in lei la continua insofferenza della deturpante e disonorante gravezza da cui il suo corpo era afflitto. Quell'espressione non l'abbandonava mai; era visibile anche a traverso le altre espressioni transitorie che, per quanto forti, non valevano a cancellarla; era inerente e fissa; e m'impietosiva, e mi scioglieva i rancori, e mi velava la brutalità troppo talora manifesta nei momenti d'ironica perspicacia.

- Che hai fatto in questi giorni? - io le chiesi.

- T'ho aspettato. E tu?

- Nulla. Ho desiderato di tornare.

- Per me? - ella mi domandò, timida e umile.

- Per te.

Ella socchiuse le palpebre, e un barlume di sorriso le tremolò sul volto. Sentii che io non ero mai stato amato come in quell'ora.

Disse, dopo una pausa, guardandomi con gli occhi umidi:

- Grazie.

L'accento, il sentimento espresso mi ricordarono un altro grazie: quello da lei proferito in un mattino lontanissimo della convalescenza, nel mattino del mio primo delitto.

 

 

XXVII.

 

E così ricominciò la mia fatica alla Badiola e continuò trista, senza episodii notevoli, mentre l'ora s'indugiava nel quadrante solare aggravata dalla monotonia delle cicale che frinivano su gli olmi. Hora est benefaciendi!

E nel mio spirito si avvicendarono i soliti fermenti, le solite inerzie, i soliti sarcasmi, le solite vane aspirazioni, le solite crisi contraddittorie: l'abondanza e l'aridità. E più d'una volta, considerando quella cosa grigia neutra mediocre fluida e onnipossente che è la vita, pensai: “Chi sa! L'uomo è, sopra tutto, un animale accomodativo. Non c'è turpitudine o dolore a cui non s'adatti. Può anche essere che io finisca con un accomodamento. Chi sa!”.

Mi sterilivo a furia d'ironie. “Chi sa che il figlio di Filippo Arborio non sia, come si dice, tutto il mio ritratto. L'accomodamento allora sarà anche più facile.” E ripensavo alla triste voglia di ridere che m'era venuta una volta sentendo dire d'un bimbo (che io sapevo sicuramente adulterino) alla presenza dei legittimi coniugi: - Tutto suo padre! - E la somiglianza era straordinaria, per quella misteriosa legge che i fisiologi chiamano eredità d'influenza.

Per quella legge il figlio talvolta non somiglia né al padre né alla madre, ma somiglia all'uomo che ha avuto con la madre un contatto anteriore alla fecondazione. Una donna maritata in seconde nozze, tre anni dopo la morte del primo marito, genera figli che hanno tutti i lineamenti del marito defunto e non somigliano in nulla a colui che li ha procreati.

“Può essere dunque che Raimondo porti la mia impronta e sembri un Hermil autentico” pensavo. “Può essere che io riceva speciali congratulazioni per avere impresso con tanto vigore all'Erede il suggello gentilizio!”

“E se l'aspettazione di mia madre, di mio fratello fosse delusa? Se Giuliana desse alla luce una terza femmina?” Questa probabilità mi quietava. Mi pareva che avrei avuta una repulsione minore verso la neonata e che avrei potuto forse anche sopportarla. Ella col tempo si sarebbe allontanata dalla mia casa, avrebbe preso un altro nome, avrebbe vissuto in mezzo a un'altra famiglia.

Intanto, come più s'avvicinava il termine, l'impazienza diveniva più fiera. Ero stanco di aver sempre avanti agli occhi quel ventre enorme che cresceva senza misura. Ero stanco di dibattermi sempre nella medesima sterile agitazione, tra i medesimi timori e le medesime perplessità. Avrei voluto che gli eventi precipitassero, che infine una qualunque catastrofe si producesse. Qualunque catastrofe era preferibile a quell'orribile agonia.

Un giorno, mio fratello domandò a Giuliana:

- Ebbene? Quanto tempo ancóra?

Ella rispose:

- Ancóra un mese!

Io pensai: “Se la storia del minuto di debolezza è vera, ella deve conoscere il giorno preciso del concepimento”.

Eravamo in settembre. L'estate era per morire. Era prossimo l'equinozio d'autunno, il più dolce tempo dell'anno, quel tempo che sembra portare in sé una specie di ebrietà aerea diffusa dalle uve mature. L'incanto mi penetrava a poco a poco, mi ammolliva l'anima; qualche volta mi dava un bisogno smanioso di tenerezze, di espansioni delicate. Maria e Natalia passavano lunghe ore con me, sole con me, nelle mie stanze o fuori per la campagna. Io non le avevo mai amate d'un amore così profondo e così gentile. Da quegli occhi impregnati di pensiero appena consciente mi scendeva qualche volta nell'intimo spirito un raggio di pace.

 

 

XXVIII.

 

Un giorno andavo in cerca di Giuliana, per la Badiola. Erano le prime ore del pomeriggio. Non avendola trovata nelle sue stanze, non avendola trovata altrove, entrai nell'appartamento di mia madre. Le porte erano aperte; non si udivano voci né rumori; le tende leggere delle finestre palpitavano; s'intravedeva pei vani il verde degli olmi; una lene aura di rezzo spirava fra le pareti chiare.

Mi avanzai verso il santuario, con cautela. Prevedendo il caso che mia madre dormisse, camminavo piano per non disturbarla. Discostai le portiere, mi affacciai dalla soglia. Udii infatti un respiro di dormiente. Vidi mia madre addormentata su una poltrona accanto alla finestra; vidi, fuor della spalliera d'un'altra poltrona, i capelli di Giuliana. Entrai.

Stavano l'una di contro all'altra, e in mezzo a loro stava un tavolo basso con sopra una canestra piena di cuffie minuscole. Mia madre teneva ancóra fra le dita una di quelle cuffie, in cui riluceva un ago. Il sonno era venuto a inchinarle il capo, nell'atto del lavoro. Col mento sul petto, ella dormiva; sognava forse. La gugliata bianca era rimasta a mezzo, ma ella filava forse nel sogno un filo più prezioso.

Giuliana anche dormiva, ma con la testa abbandonata alla spalliera, con le mani posate lungo i bracciuoli. I suoi lineamenti s'erano come distesi nella dolcezza del sonno; ma la sua bocca conservava una piega triste, un'ombra d'afflizione: socchiusa, mostrava un poco della gengiva esangue; ma alla radice del naso, tra i sopraccigli, rimaneva il piccolo solco scavato dal grande dolore. E la fronte era madida: una stilla rigava lenta una tempia. E le mani, più bianche della mussolina da cui escivano, parevano confessare con la loro posa esse sole una immensa stanchezza. Su nessuna di queste spirituali apparenze io mi fermai come sul grembo che conteneva omai l'essere già completo. E ancóra una volta, astraendo da quelle apparenze, astraendo da Giuliana, sentii vivere quella creatura isolata come se null'altro in quel momento vivesse accanto a me, intorno a me, null'altro. E ancóra una volta non fu una sensazione illusoria ma reale e profonda; fu un raccapriccio che mi agitò tutte le fibre.

Girai gli occhi; e rividi tra le dita di mia madre la cuffia in cui riluceva l'ago; rividi nella canestra tutti quei merletti leggeri e quei nastri rosei e cilestri che tremolavano al soffio del vento. Mi si strinse il cuore così forte che credetti mancare. Quanta tenerezza rivelavano le dita di mia madre sognante su quella gentile cosa bianca che doveva coprire il capo del figliuolo non mio!

Restai là qualche minuto. Quel luogo era veramente il santuario della casa, il penetrale. Su una parete pendeva il ritratto di mio padre, che somigliava molto a Federico; su l'altra, il ritratto di Costanza, che somigliava un poco a Maria. Le due figure, esistenti dell'esistenza superiore che dànno le memorie dei cari ai cari scomparsi, avevano gli occhi magnetici e seguaci, una specie d'onniveggenza. Altre reliquie dei due scomparsi santificavano quel luogo. In un angolo, su un plinto, stava chiusa in cristalli, coperta d'un velo nero, la maschera formata sul cadavere dell'uomo che mia madre amava d'un amore più forte della morte. Eppure nulla era lugubre là dentro. Una sovrana pace vi regnava e pareva diffondersi per tutta la casa come da un cuore si diffonde la vita, armonicamente.

 

 

XXIX.

 

Ricordo la gita a Villalilla, con Maria e Natalia e Miss Edith, in una mattina un po' velata. È un ricordo velato, infatti, indistinto, confuso, come d'un lungo sogno straziante e dolce.

Il giardino non aveva più le sue miriadi di grappoli turchinicci, non aveva più la sua delicata selva di fiori né il suo profumo triplice armonioso come una musica, né il suo riso aperto, né il clamore continuo delle sue rondini. Non altro aveva di lieto se non le voci e le corse delle due bambine inconsapevoli. Molte rondini erano partite; altre partivano. Eravamo giunti in tempo per salutare l'ultimo stormo.

Tutti i nidi erano abbandonati, vacui, esanimi. Qualcuno era infranto, e su gli avanzi della creta tremolava qualche piuma esile. L'ultimo stormo era adunato sul tetto lungo le gronde, e aspettava ancóra qualche compagna dispersa. Le migratrici stavano in fila su l'orlo del canale, talune rivolte col becco altre col dorso, per modo che le piccole code forcute e i piccoli petti candidi si alternavano. E, così aspettando, gittavano nell'aria calma i richiami. E di tratto in tratto, a due, a tre, giungevano le compagne in ritardo. E s'approssimava l'ora della dipartita. I richiami cessavano. Un occhiata di sole languida scendeva su la casa chiusa, su i nidi deserti. Nulla era più triste di quelle esili piume morte che qua e là, trattenute dalla creta, tremolavano.

Come sollevato da un colpo di vento subitaneo, da una raffica, lo stormo si levò con un gran frullo di ali, sorse nell'aria in guisa d'un vortice, rimase un istante a perpendicolo su la casa; poi, senza incertezze, quasi che davanti gli si fosse disegnata una traccia, si mise compatto in viaggio, si allontanò, si dileguò, disparve.

Maria e Natalia, ritte in piedi su un sedile per seguire più a lungo con lo sguardo le fuggitive, tendevano le braccia e gridavano:

- Addio, addio, addio, rondinelle!

Ho di tutto il resto un ricordo indistinto, come d'un sogno.

Maria volle entrare nella casa. Io stesso aprii la porta. Là, su per quei tre gradini, Giuliana m'aveva seguito furtiva, leggera come un'ombra, e m'aveva allacciato e m'aveva bisbigliato: “Entra, entra”. Nell'andito ancóra pendeva il nido fra le grottesche della volta. “Ora sono tua, tua, tua!” ella aveva bisbigliato, senza distaccarsi dal mio collo ma girando flessuosamente per venirmi sul petto, per incontrare la mia bocca. - L'andito era muto, le scale erano mute; il silenzio occupava tutta la casa. Là avevo udito il rombo cupo e remoto, simile a quello che conservano in loro certe conchiglie profonde. Ma ora il silenzio era simile a quello delle tombe. Là stava sepolta la mia felicità.

Maria, Natalia cianciavano senza tregua, non cessavano mai d'interrogarmi, si mostravano curiose di tutto, andavano ad aprire i cassetti dei canterani, gli armarii. Miss Edith le seguiva per moderarle.

- Guarda, guarda che ho trovato! - gridò Maria correndomi incontro.

Aveva trovato in fondo a un cassetto un mazzo di spigo e un guanto. Era un guanto di Giuliana; era macchiato di nero su la punta delle dita; nel rovescio, presso all'orlo, portava una scritta ancóra leggibile: “Le more: 27 agosto 1880. Memento!”. Mi tornò chiaro alla memoria, in un lampo, l'episodio delle more, uno dei più lieti episodii della nostra felicità primitiva, un frammento d'idillio.

- Non è un guanto della mamma? - mi domandò Maria. - Rendimelo, rendimelo. Voglio portarlo io alla mamma...

Ho di tutto il resto un ricordo indistinto, come d'un sogno.

Calisto, il vecchio guardiano, mi parlò di tante cose; e io non capii quasi nulla. Più volte mi ripeté un augurio:

- Un maschio, un bel maschio, e Dio lo benedica! Un bel maschio!

Quando noi fummo fuori, Calisto chiuse la casa.

- E questi benedetti nidi? - egli disse scotendo la bella testa canuta.

- Non li toccare, Calisto.

Tutti i nidi erano abbandonati, vacui, esanimi. Le ultime ospiti erano partite. Un'occhiata di sole languida scendeva su la casa chiusa, su i nidi deserti. Nulla era più triste di quelle esili piume morte che qua e là, trattenute dalla creta, tremolavano.

 

 

XXX.

 

Il termine s'approssimava. La prima metà di ottobre era trascorsa. Il dottor Vebesti era stato avvertito. Da un giorno all'altro potevano sopraggiungere le doglie estreme.

La mia ansietà cresceva di ora in ora, diveniva intollerabile. Spesso ero assalito da qualche impeto di follia simile a quello che un giorno mi aveva travolto su l'argine dell'Assòro. Fuggivo lontano dalla Badiola, restavo lunghe ore a cavallo, costringevo Orlando a saltare le siepi e i fossi, lo spingevo al galoppo per sentieri perigliosi. Tornavamo, io e il povero animale, grondanti, sfiniti, ma sempre incolumi.

Il dottor Vebesti giunse. Tutti, alla Badiola, trassero un respiro, ripresero fiducia, sperarono bene. Giuliana soltanto non si rianimò. Più d'una volta io sorpresi nei suoi occhi il passaggio d'un pensiero sinistro, la cupa luce dell'idea fissa, l'orrore d'un presentimento lugubre.

Le doglie del parto incominciarono; durarono per un giorno intero con qualche intervallo di riposo, ora più forti ora più deboli, ora sopportabili ora laceranti. Ella stava in piedi appoggiata a un tavolo, addossata a un armario, stringendo i denti per non gridare; o si sedeva su una poltrona e rimaneva là quasi immobile, col viso tra le mani, emettendo di tratto in tratto un gemito fioco: o mutava continuamente di luogo, andava da un angolo all'altro, si soffermava qua e là per stringere un qualunque oggetto tra le dita convulse. Lo spettacolo della sua sofferenza mi dilaniava. Non potendo più reggere, uscivo dalla stanza, mi allontanavo per qualche minuto; poi rientravo, quasi involontariamente, attirato; e restavo là a guardarla soffrire, senza poterla aiutare, senza poterle dire una parola di conforto.

- Tullio, Tullio, che cosa orribile! Ah, che cosa orribile! Non ho mai sofferto tanto, mai, mai.

Era verso sera. Mia madre, Miss Edith, il dottore erano discesi nella sala da pranzo. Io e Giuliana eravamo rimasti soli. Non avevano ancóra portato i lumi. Entrava il crepuscolo violaceo d'ottobre; il vento scoteva i vetri a quando a quando.

- Aiutami, Tullio! Aiutami! - ella gridò, fuori di sé per lo spasimo, tendendo le braccia verso di me, guardandomi con gli occhi dilatati ove il bianco era straordinariamente bianco in quella penombra che rendeva livido il viso.

- Dimmi tu! Dimmi tu! Come potrei fare per aiutarti? - balbettavo, smarrito, non sapendo che fare, accarezzandole i capelli su le tempie con un gesto in cui avrei voluto mettere un potere soprannaturale. - Dimmi tu! Dimmi tu! Che cosa?

Ella non si lamentava più; mi guardava, mi ascoltava, come dimentica del suo dolore, quasi attonita, colpita forse dal suono della mia voce, dall'espressione del mio smarrimento e della mia angoscia, dal tremito delle mie dita su i suoi capelli, dalla desolata tenerezza di quel gesto inefficace.

- Tu mi ami; è vero? - ella disse, non cessando di guardarmi come per non perdere nessun segno della mia commozione. - Tu mi perdoni tutto.

Ella proruppe, esaltandosi di nuovo:

- Bisogna che tu mi ami, bisogna che tu mi ami molto, ora, perché domani non ci sarò più, perché stanotte morirò, forse stasera morirò; e tu ti pentiresti di non avermi amata, di non avermi perdonata, oh certo ti pentiresti...

Ella pareva tanto sicura di morire che io rimasi agghiacciato dal terrore subitamente.

- Bisogna che tu mi ami. Vedi: può essere che tu non abbia creduto a quel che ti dissi una notte, può essere che tu non mi creda ora; ma certo mi crederai quando non ci sarò più. Allora ti si farà la luce, allora conoscerai la verità; e ti pentirai di non avermi amata a bastanza, di non avermi perdonata...

Un nodo di pianto la soffocò.

- Sai tu perché mi dispiace di morire? Perché muoio senza che tu sappia quanto t'ho amato... quanto t'ho amato dopo, specialmente... Ah che castigo! Meritavo questa fine?

Ella si nascose la faccia tra le mani. Ma sùbito si scoperse. Mi fissò, pallidissima. Pareva che un'idea più terribile ancóra l'avesse fulminata.

- E se io morissi - balbettò - se io morissi lasciando vivo...

- Taci!

- Tu intendi...

- Taci, Giuliana!

Io ero più debole di lei. Il terrore m'aveva sopraffatto e non mi lasciava neppure la forza di proferire una parola consolante, di opporre a quelle imaginazioni di morte una parola di vita. Anch'io ero sicuro dell'atroce fine. Guardavo, nell'ombra violacea, Giuliana che mi guardava; e mi parve di scorgere in quel povero viso estenuato i segni dell'agonia, i segni d'un disfacimento già avanzato e inarrestabile. Ed ella non poté soffocare una specie di ululo che non aveva nulla di umano; e si aggrappò al mio braccio.

Aiutami, Tullio! Aiutami!

Stringeva forte, assai forte, ma non a bastanza per me che avrei voluto sentirmi penetrare nel braccio le sue unghie, smanioso di uno spasimo fisico che mi accomunasse allo spasimo di lei. E, tenendo puntata la fronte contro il mio omero, metteva un mugolio continuo. Era quel suono che rende irriconoscibile la voce nostra nell'eccesso della sofferenza corporea, quel suono che agguaglia l'uomo che soffre al bruto che soffre: il lamento istintivo d'ogni carne addolorata, umana o bestiale.

Ogni tanto ella ritrovava la sua voce per ripetere:

- Aiutami!

E mi comunicava le vibrazioni violente del suo strazio. E io sentivo il contatto del suo ventre ove il piccolo essere malefico si agitava contro la vita della madre, implacabile, senza darle tregua. Un'onda di odio mi sorse dalle radici più profonde, mi parve affluire alle mani tutta con un impulso micidiale. Era intempestivo l'impulso; ma la visione del delitto già consumato mi balenò dentro. “Tu non vivrai.”

- Oh, Tullio, Tullio, soffocami, fammi morire! Non posso, non posso, intendi? non posso più reggere; non voglio più soffrire.

Ella gridava esasperata, guardandosi intorno con occhi di pazza, come per cercare qualche cosa o qualcuno che le desse l'aiuto che io non potevo darle.

- Càlmati, càlmati, Giuliana... Forse è venuto il momento. Coraggio! Siediti qui. Coraggio, anima. Ancóra un poco! Sono io qui, con te. Non aver paura.

E corsi a suonare il campanello.

- Il dottore! Che venga sùbito il dottore!

Giuliana non si lamentava più. Ella pareva a un tratto aver cessato di soffrire o almeno d'accorgersi del suo male, colpita da un nuovo pensiero. Visibilmente, ella considerava qualche cosa dentro di sé; era assorta. Io ebbi appena il tempo di notare la mutazione istantanea.

- Ascolta, Tullio. Se mi venisse il delirio...

- Che dici?

- Se dopo, nella febbre, mi venisse il delirio e io morissi delirando...

- Ebbene?

Ella aveva tale accento di terrore, le sue reticenze erano così affannose che io tremavo a verga a verga come preso dal pànico, non comprendendo ancóra dove ella volesse giungere.

- Ebbene?

- Tutti saranno là, intorno a me... Se nel delirio io parlassi, io rivelassi... Intendi? Intendi? Una parola basterebbe. E nel delirio non si sa quel che si dice. Tu dovresti...

Mia madre, il dottore, la levatrice sopraggiunsero, in quel punto.

- Ah dottore, - sospirò Giuliana - credevo di morire.

- Coraggio, coraggio! - fece il dottore, con la sua voce cordiale. - Senza paura. Tutto andrà bene.

E mi guardò.

- Credo - soggiunse sorridendo - che vostro marito stia peggio di voi.

E mi accennò la porta.

- Via, via. Non bisogna star qui.

Incontrai gli occhi inquieti, sbigottiti e pietosi di mia madre.

- Sì, Tullio; è meglio che tu vada - ella disse. - Federico t'aspetta.

Guardai Giuliana. Senza curarsi degli altri, ella mi guardava fissamente, con gli occhi lucidi, pieni d'un bagliore straordinario. Era in quello sguardo tutta l'intensione dell'anima disperata.

- Non mi moverò dalla stanza accanto - dichiarai con fermezza, seguitando a guardare Giuliana.

Mentre uscivo, scorsi la levatrice che disponeva i guanciali sul letto del travaglio, sul letto di miseria; e rabbrividii, come a un soffio di morte.

 

 

XXXI.

 

Fu tra le quattro e le cinque del mattino. Le doglie s'erano protratte fino a quell'ora, con qualche intervallo di riposo. Verso le tre il sonno m'aveva colto, all'improvviso, sul divano dove stavo seduto, nella stanza contigua. Cristina mi svegliò; mi disse che Giuliana voleva vedermi.

Nella confusione del risveglio, balzai in piedi ancóra abbacinato dal sonno.

- Ho dormito? Che accade mai? Giuliana...

- Non si spaventi. Non è accaduto nulla. I dolori si sono calmati. Venga a vedere

Entrai. Vidi sùbito Giuliana.

Ella era adagiata su i guanciali, pallida come la sua camicia, quasi esanime. Incontrai sùbito i suoi occhi, perché erano volti alla porta in attesa di me. I suoi occhi mi sembrarono più larghi, più profondi, più cavi, cerchiati d'un maggior cerchio d'ombra.

- Vedi, - ella disse con una voce spirante - sto ancora così.

E non cessò di guardarmi. I suoi occhi, come quelli della principessa Lisa, dicevano: “Aspettavo un aiuto da te, e tu non mi aiuti, neppur tu!”.

- Il dottore? - domandai a mia madre, ch'era là con un'aria abbattuta.

Ella mi accennò una porta. Io mi diressi verso quella. Entrai. Vidi il dottore presso a un tavolo su cui erano varii medicinali, una busta nera, un termometro, fasce, compresse, fiaschi, alcuni tubi di forma speciale. Il dottore aveva tra le mani un tubo elastico a cui stava adattando un catètere; e dava istruzioni a Cristina, sottovoce.

- Ma dunque? - io gli chiesi bruscamente. - Che c'è?

- Nulla di allarmante, per ora.

- E tutti questi preparativi?

- Precauzioni.

- Ma quanto durerà ancóra quest'agonia?

- Siamo alla fine.

- Parlatemi franco; vi prego. Prevedete una disgrazia? Parlatemi franco.

- Non si annuncia per ora nessun pericolo grave. Temo però una emorragia; e prendo le mie precauzioni. L'arresterò. Abbiate fiducia in me e siate calmo. Ho notato che la vostra presenza agita molto Giuliana. In quest'ultimo breve periodo ella ha bisogno di tutte le forze che le rimangono. È necessario che voi vi allontaniate. Promettetemi d'obedirmi. Entrerete quando vi chiamerò.

Ci giunse un grido.

- Ricominciano i dolori - egli disse. - Ci siamo. Calma, dunque!

E si diresse verso la porta. Io lo seguii. Ambedue ci avvicinammo a Giuliana. Ella m'afferrò il braccio e me lo strinse come in una morsa. Le restava dunque ancóra quella forza?

- Coraggio! Coraggio! Ci siamo. Tutto andrà bene. È vero, dottore? - balbettai.

- Sì, sì. Non c'è tempo da perdere. Lasciate, Giuliana, che vostro marito esca di qui.

Ella guardò il dottore e me, con gli occhi spalancati. Lasciò il mio braccio.

- Coraggio! - ripetei soffocato.

La baciai su la fronte molle di sudore, mi volsi per andarmene.

- Ah, Tullio! - Ella gridò dietro di me con un grido lacerante che segnificava: “Non ti vedrò più”.

Io feci l'atto di tornare a lei.

- Via, via - ordinò il dottore, con un gesto imperioso.

Volli obedire. Qualcuno serrò l'uscio dietro di me. Rimasi qualche minuto là, in piedi, ad ascoltare; ma le ginocchia mi vacillavano, ma il battito del cuore soverchiava qualunque altro strepito. Andai a gittarmi sul divano; mi misi il fazzoletto tra i denti, affondai la faccia in un cuscino. Soffrivo anch'io uno strazio fisico, simile forse a quello d'un'amputazione mal praticata e lentissima. Gli urli della partoriente mi giungevano a traverso l'uscio. E ad ognuno di quegli urli io pensavo: “Questo è l'ultimo”. Negli intervalli udivo un mormorio di voci feminili: forse i conforti di mia madre, della levatrice. Un urlo più acuto e più inumano degli altri. “Questo è l'ultimo.” E balzai in piedi esterrefatto.

Non potevo dare un passo. Alcuni minuti trascorsero; trascorse un tempo incalcolabile. Come lampi velocissimi, m'attraversarono il cervello pensieri, imagini. “È nato? E se ella fosse morta? E se ambedue fossero morti? la madre e il figlio? No, no. Ella certamente è morta; ed egli è vivo. Ma perché nessun vagito? L'emorragia, il sangue...” Vidi il lago rosso, e, in mezzo, Giuliana boccheggiante. Vinsi il terrore che m'irrigidiva e mi slanciai contro l'uscio. L'apersi, entrai.

Udii sùbito la voce del chirurgo che mi gridava aspra:

- Non v'accostate! Non la scuotete! Volete ucciderla?

Giuliana pareva morta, più pallida del suo guanciale, immobile. Mia madre stava china sopra di lei reggendo una compressa. Grandi macchie di sangue rosseggiavano sul letto, macchie di sangue tingevano il pavimento. Il chirurgo preparava un “irrigatore” con una sollecitudine calma ed esatta: - le sue mani non tremavano, sebbene la sua fronte fosse corrugata. Un bacino d'acqua bollente fumigava in un angolo. Cristina aggiungeva acqua con una brocca in un altro bacino, tenendovi immerso il termometro. Un'altra donna portava nella stanza contigua un fascio d'ovatta. C'era nell'aria l'odore dell'ammoniaca e dell'aceto.

Le minime particolarità della scena, abbracciata con un solo sguardo, mi rimasero impresse indelebilmente.

- A cinquanta gradi - disse il dottore, volgendosi verso Cristina. - Attenta!

Io cercavo intorno, non udendo il vagito. Qualcuno mancava là dentro.

- E il bambino? - chiesi tremando.

- È di là, nell'altra stanza. Andate a vederlo - mi rispose il dottore. - Rimanete là.

Gli indicai Giuliana con un gesto disperato.

- Non temete. Qua l'acqua, Cristina.

Entrai nell'altra stanza. Mi giunse all'orecchio un vagito fievolissimo, appena udibile. Vidi su uno strato d'ovatta un corpicciuolo rossastro, qua e là violaceo, sotto le mani scarne della levatrice, che lo stropicciavano nel dorso e nelle piante dei piedi.

- Venga, venga, signore; venga a vedere - disse la levatrice continuando a stropicciare. - Venga a vedere che bel maschio. Non respirava; ma ora non c'è più pericolo. Guardi che maschio!

Ella rivoltò il bambino, lo coricò sul dorso, mi mostrò il sesso.

- Guardi!

Afferrò il bambino e lo agitò nell'aria. I vagiti divennero un po' più forti.

Ma io avevo negli occhi uno scintillio strano che m'impediva di veder bene; avevo in tutto l'essere una ottusità strana che m'impediva la percezione esatta di tutte quelle cose reali e violente.

- Guardi! - mi ripeté ancóra la levatrice coricando di nuovo su l'ovatta il bambino che vagiva.

Ora vagiva forte. Respirava, viveva! Mi chinai su quel corpicciuolo palpitante che odorava di licopodio; mi chinai a guardarlo, a esaminarlo, per riconoscere la somiglianza aborrita. Ma la piccola faccia turgida, ancóra un po' livida, con i globi oculati sporgenti, con la bocca gonfia, col mento obliquo, difforme, quasi non aveva aspetto umano; e non m'ispirò se non ribrezzo.

- Appena nato - balbettai - appena nato, non respirava...

- No, signore. Un po' d'apoplessia...

- Come mai?

- Aveva il cordone attorcigliato intorno al collo. E poi, forse il contatto del sangue nero...

Ella parlava attendendo alla cura del bambino; e io guardavo quelle mani scarne che lo avevano salvato e che ora avviluppavano delicatamente il cordone ombelicale in una pezzetta spalmata di burro.

- Giulia, dammi la fascia.

E, fasciando il ventre del bambino, soggiunse:

- Questo oramai è assicurato. Dio lo benedica!

E le sue mani esperte presero la testina molliccia come per plasmarla. Il bambino vagiva sempre più forte; vagiva con una specie di rabbia, agitandosi tutto, conservando quell'apparenza apoplettica, quel rossore paonazzo, quell'aspetto di cosa ributtante. Vagiva sempre più forte come per darmi una prova della sua vitalità, come per provocarmi, per esasperarmi.

Viveva, viveva. E la madre?

Rientrai nell'altra stanza, all'improvviso, demente.

- Tullio!

Era la voce di Giuliana, debole come quella d'un'agonizzante.

 

 

XXXII.

 

La corrente continua di acqua ad alta temperatura aveva arrestata l'emorragia, in circa dieci minuti. Ora la puerpera riposava nel suo letto, dentro l'alcova. Era giorno chiaro.

Io stavo seduto al capezzale; e la consideravo in silenzio, dolorosamente. Ella non dormiva, forse. Ma l'estrema debolezza le toglieva ogni moto, ogni segno di vita; la faceva sembrare esanime. Considerando il suo funereo pallore di cera, io vedevo ancóra quelle macchie di sangue, tutto quel povero sangue sparso che aveva inzuppato i lenzuoli, attraversato i materassi, arrossato le mani del chirurgo. “Chi le renderà tutto quel sangue?” Iniziavo un gesto istintivo per toccarla, poiché mi pareva che ella dovesse essere diventata fredda, di gelo. Ma mi tratteneva il timore di disturbarla. Più d'una volta, nella mia contemplazione continua, assalito da una paura repentina, feci l'atto di levarmi per andare a chiamare il dottore. Pensando, rivolgevo tra le dita un fiocco di bambagia, lo disfilavo minutamente; e, di tratto in tratto, per una inquietudine invincibile, lo avvicinavo con infinita cautela alle labbra di Giuliana e dal palpito dei fili leggeri misuravo la forza del respiro.

Ella giaceva supina, con la testa su un guanciale basso. I capelli castagni un poco rilasciati le circondavano il volto, rendevano più tenui e più cerei i lineamenti. Aveva una camicia chiusa intorno al collo, chiusa intorno ai polsi; e le sue mani posavano sul lenzuolo, prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino. Una bontà soprannaturale emanava da quella povera creatura dissanguata e immobile; una bontà che mi penetrava tutto l'essere, mi colmava il cuore. Ed ella pareva ripetere: “Che hai tu fatto di me?”. La sua bocca disfiorata, dagli angoli cadenti, rivelatrice d'una mortale stanchezza, e arida, che tanti spasimi avevano tòrta, che avevano sforzata tanti gridi, sempre pareva ripetere: “Che hai tu fatto di me?”.

Io consideravo l'esilità della persona che appena formava rilievo sul piano del letto. Poiché l'evento s'era compiuto, poiché ella s'era alfine liberata dell'orribile peso, poiché alfine l'altra vita s'era distaccata dalla sua vita per sempre, quei moti istintivi di repulsione, quelle improvvise ombre di rancore non più sorgevano a turbare la mia tenerezza e la mia pietà. Ora non avevo per lei se non un sentimento di tenerezza immensa, d'immensa pietà, come per la più buona e per la più sventurata delle creature umane. Ora tutta la mia anima era sospesa a quelle povere labbra che da un momento all'altro avrebbero potuto rendere il respiro estremo. Con una sincerità profonda pensavo, guardando quel pallore: “Come sarei felice se potessi trasfondere la metà del mio sangue nelle sue vene!”.

Pensavo, udendo il battito lieve d'un orologio posato sul tavolo da notte, sentendo il tempo scorrere per quella fuga di minuti eguali: “Ma egli vive”. E la fuga del tempo mi dava un'ansietà singolare, assai diversa da quella altre volte provata, indefinibile.

Pensavo: “Egli vive, e la sua vita è tenace. Appena nato, non respirava. Aveva ancóra sul corpo, quando io l'ho veduto, tutti i segni dell'asfissia. Se le cure della levatrice non l'avessero salvato, ora non sarebbe più se non un piccolo cadavere livido, una cosa innocua, trascurabile, forse dimenticabile. Io non d'altro dovrei occuparmi che della guarigione di Giuliana. Non mi moverei di qui, sarei il più assiduo e il più dolce degli infermieri, riuscirei a compiere la trasfusione vitale, a compiere il miracolo, per forza d'amore. Ella non potrebbe non guarire. Ella risorgerebbe a poco a poco, rigenerata, con un sangue nuovo. Parrebbe una creatura nuova, scevra d'ogni impurità. Ambedue ci sentiremmo purificati, degni l'uno dell'altra, dopo una espiazione così lunga e così dolorosa. La malattia, la convalescenza darebbero al triste ricordo una lontananza indefinita. E io vorrei cancellare dall'anima di lei perfino l'ombra del ricordo; vorrei darle il perfetto oblio, nell'amore. Qualunque altro amore umano parrebbe futile al confronto del nostro, dopo questa grande prova”. Io m'esaltavo nella luce quasi mistica di quell'avvenire imaginato, mentre sotto il mio sguardo fisso il volto di Giuliana assumeva una specie d'immaterialità, un'espressione di bontà soprannaturale, quasi che ella fosse già distaccata dal mondo, quasi che con quel gran flutto di sangue ella avesse espulso quanto ancóra eravi d'acre e d'impuro nella sua sostanza e si fosse ridotta a una mera essenza spirituale in conspetto della morte. La muta domanda non più mi feriva, non più mi sembrava terribile: “Che hai tu fatto di me?”. Io rispondevo: “Non sei tu divenuta, per opera mia, la sorella del Dolore? Non è salita la tua anima, nella sofferenza, a un'altezza vertiginosa da cui ha potuto vedere il mondo in una luce insolita? Non hai tu avuta da me la rivelazione della verità suprema? Che valgono i nostri errori, le nostre cadute, le nostre colpe, se siamo giunti a strappare dai nostri occhi qualche velo, se siamo giunti a sprigionare quanto v'è di men basso nella nostra sostanza miserabile? A noi sarà dato il più alto gaudio a cui possano ambire su la terra gli eletti: rinascere conscientemente”.

Io m'esaltavo. L'alcova era silenziosa, l'ombra era misteriosa, il volto di Giuliana mi pareva trasumanato; e la mia contemplazione mi pareva solenne, poiché sentivo nell'aria la presenza della morte invisibile. Tutta la mia anima era sospesa a quelle pallide labbra che da un attimo all'altro avrebbero potuto rendere il respiro estremo. E quelle labbra si contrassero, misero un gemito. La contrattura dolorosa alterò le linee del volto, vi si fermò per qualche tempo. Le pieghe della fronte si approfondirono, la pelle delle palpebre ebbe un tremolio leggero, un po' del bianco apparve tra i cigli.

Io mi chinai su la sofferente. Ella aprì gli occhi e li richiuse sùbito. Pareva ch'ella non mi avesse veduto. Gli occhi non avevano avuto sguardo, come colpiti da cecità. Era sopravvenuta forse l'amaurosi anemica? Era ella diventata cieca a un tratto?

M'accorsi che entrava gente nella stanza: “Fosse il dottore!”. Uscii dall'alcova. Vidi infatti il dottore, mia madre e la levatrice che entravano adagio. Li seguiva Cristina.

- Riposa? - mi domandò il dottore sottovoce.

- Si lagna. Chi sa quanto soffre ancóra!

- Ha parlato?

- No.

- Non bisogna in nessun modo eccitarla. Ricordatevene.

- Ha aperto gli occhi, dianzi, per un momento. Pareva che non ci vedesse.

Il dottore entrò nell'alcova, accennandoci di restare indietro. Mia madre mi disse:

- Vieni. Ora debbono rinnovare le medicature. Vieni via. Andiamo a vedere Mondino. C'è di là Federico.

Ella mi prese una mano. Mi lasciai condurre.

- S'è addormentato - soggiunse. - Dorme placidamente. Oggi, dopo mezzogiorno, arriverà la nutrice.

Benché ella fosse triste e inquieta per lo stato di Giuliana, gli occhi le sorridevano mentre parlava del bambino; tutto il viso le s'illuminava di tenerezza.

Per ordine del dottore era stata scelta una stanza lontana da quella della puerpera: una grande stanza ariosa che custodiva molte memorie della nostra infanzia. Entrando, vidi sùbito intorno alla culla Federico, Maria e Natalia, che insieme chini guardavano il piccolo dormente. Federico si volse e mi domandò, prima d'ogni altra cosa:

- Come sta Giuliana?

- Male.

- Non riposa?

- Soffre.

Rispondevo quasi duramente, mio malgrado. Una specie d'aridità m'aveva d'un tratto occupata l'anima. Non altro provavo se non un'avversione indomabile e innascondibile contro l'intruso, e rammarico e impazienza per la tortura che le persone inconsapevoli m'infliggevano. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a dissimulare. Eravamo ora io, mia madre, Federico, Maria e Natalia, intorno alla culla, a guardare il sonno di Raimondo.

Egli era stretto nelle fasce ed aveva la testa coperta d'una cuffia ornata di pizzi e di nastri. Il viso appariva meno gonfio ma ancóra rossiccio, lucido su le gote come la cuticola delle piaghe cicatrizzate di recente. Un po' di bava gli usciva dagli angoli della bocca chiusa; le palpebre senza cigli, enfiate agli orli, coprivano i globi oculari sporgenti; una lividura segnava la radice del naso ancóra deforme.

- Ma a chi somiglia? - disse mia madre.

- Non so ancóra trovare una somiglianza...

- È troppo piccolo - disse Federico. - Bisogna aspettare qualche giorno.

Mia madre due o tre volte guardò me e il bambino, come per meglio confrontarne le fattezze.

- No - disse. - Somiglia forse più a Giuliana.

- Ora non somiglia a nessuno - interruppi. - È orribile. Non vedi?

- Orribile! È bellissimo! Guarda quanti capelli!

Ed ella sollevò con le dita la cuffia, adagio adagio, e scoprì il cranio molliccio su cui stavano appiccicati pochi capelli bruni.

- Lasciami toccare, nonna! - pregò Maria, stendendo la mano verso il capo del fratello.

- No, no. Vuoi svegliarlo?

Quel cranio pareva composto d'una cera un po' ammollita dal calore, untuosa, nerigna; e pareva che il minimo tócco vi avrebbe lasciata una traccia. Mia madre lo ricoprì. Poi si chinò a baciare la fronte, con infinita delicatezza.

- Anch'io, nonna - pregò Maria.

- Ma piano, per carità!

La culla era troppo alta.

- Tirami su! - disse Maria a Federico.

Federico la sollevò nelle sue braccia; e io vidi la bella bocca rosea di mia figlia atteggiarsi al bacio prima di giungere a sfiorare quella fronte, e vidi i lunghi riccioli piovere su le fasce bianche.

Anche Federico depose il suo bacio. Poi mi guardò. Non sorrisi.

- E io? E io?

Era Natalia, che s'attaccava alla sponda della culla.

- Piano, per carità!

Federico sollevò anche lei. E di nuovo io vidi i lunghi riccioli piovere su le fasce bianche, in quell'ultima dolce reclinazione. Stavo là quasi irrigidito: e il mio sguardo doveva certo esprimere il sentimento cupo che mi possedeva. Quei baci di labbra a me tanto care non avevano tolto all'intruso quell'aspetto di cosa ributtante ma me l'avevano anzi reso più odioso. Io sentivo che mi sarebbe stato impossibile toccare quella carne estranea, piegarmi a un qualunque atto apparente di amore paterno. Mia madre mi guardava, inquieta.

- Tu non lo baci? - mi domandò.

- No, mamma, no. Ha fatto troppo male a Giuliana. Non so perdonargli...

E mi ritrassi, con un moto istintivo, con un moto di manifesta ripugnanza. Mia madre restò un momento attonita, senza parola.

- Ma che dici, Tullio? Che colpa ne ha questo povero bambino? Sii giusto!

Mia madre aveva certo notata la sincerità della mia avversione. Non riuscivo a dominarmi. Tutti i miei nervi si ribellavano.

- Non posso ora, non posso... Lasciami stare, mamma. Mi passerà.

La mia voce era aspra e risoluta. Io ero tutto convulso. Un nodo mi serrava la gola, i muscoli della faccia mi si contraevano. Dopo tante ore d'orgasmo violento, tutto il mio essere aveva bisogno di una distensione. Credo che un grande scoppio di pianto mi avrebbe giovato: ma il nodo era durissimo.

- Mi fai molta pena, Tullio - disse mia madre.

- Vuoi che lo baci? - ruppi io, fuori di me.

E m'accostai alla culla, mi chinai sul bambino, lo baciai.

Il bambino si svegliò; si mise a vagire, da prima fioco, poi con una specie di furore crescente. Vidi che la pelle del volto gli diveniva più rossa e gli si raggrinzava nello sforzo, mentre la lingua bianchiccia gli tremolava nella bocca dilatata. Benché fossi al colmo della disperazione, m'accorsi dell'errore commesso. Sentii gli sguardi di Federico, di Maria, di Natalia fissi sopra di me, intollerabili.

- Perdonami, mamma - balbettai. - Non so più quel che faccio. Sono irragionevole. Perdonami.

Ella aveva tolto dalla culla il bambino e lo reggeva su le braccia, senza poterlo quietare. I vagiti mi ferivano acutamente, mi laceravano.

- Andiamo, Federico.

Uscii in fretta. Federico mi seguì.

- Giuliana sta molto male. Non comprendo come si possa pensare ad altri che a lei, in questi momenti - dissi, come per giustificarmi. - Tu non l'hai veduta. Sembra che muoia.

 

 

XXXIII.

 

Per alcuni giorni Giuliana vacillò tra la vita e la morte. La sua debolezza era tale che qualunque più lieve sforzo era seguito da un deliquio. Ella doveva mantenersi costantemente supina, in una immobilità perfetta. Qualunque tentativo di sollevarsi provocava segni di anemia cerebrale. Nulla valeva a vincere le nausee da cui ella era assalita, a toglierle di sul petto l'incubo, ad allontanare il rombo che ella udiva di continuo.

Io rimasi giorno e notte al suo capezzale, sempre vigile, tenuto in piedi da una energia instancabile di cui ero meravigliato io stesso. Con tutte le potenze della mia vita io sostenni quella vita che stava per spengersi. Mi pareva che dall'altra parte del capezzale fosse la Morte in agguato pronta a cogliere l'attimo opportuno per strappare la preda. Io aveva talora veramente la sensazione di trasfondermi nel corpo fragile dell'inferma, di comunicarle un po' della mia forza, di dare un impulso al suo cuore stanco. Le miserie della malattia non m'ispirarono mai alcuna ripugnanza, mai alcun disgusto. Nessuna materialità offese mai la delicatezza dei miei sensi. I miei sensi acutissimi non ad altro erano intenti che a percepire le più piccole mutazioni nello stato dell'inferma. Prima ch'ella proferisse una parola, prima ch'ella facesse un cenno, io indovinavo il suo desiderio, il suo bisogno, il grado della sua sofferenza. Per divinazione, fuori d'ogni suggerimento del medico, ero giunto a trovare modi nuovi e ingegnosi di alleviarle un dolore, di calmarle uno spasimo. Io solo sapevo persuaderla al cibo, persuaderla al sonno. Ricorrevo a tutte le arti della preghiera e della blandizia per farle inghiottire qualche sorso di cordiale. L'assediavo così ch'ella, non potendo più rifiutarsi, doveva risolversi allo sforzo salutare, vincere la nausea. E nulla era per me più dolce del sorriso tenuissimo con cui ella si piegava alla mia volontà. Ogni suo più piccolo atto d'obedienza mi dava al cuore una commozione profonda. Quando ella diceva con quella voce tanto debole: - Va bene così? Sono buona? - la gola mi si chiudeva, gli occhi mi si velavano.

Spesso ella si lamentava d'un dolore pulsatile alle tempie, che non le dava tregua. Io le passavo lungo le tempie l'estremità delle mie dita, per magnetizzare il suo dolore. Le accarezzavo piano piano i capelli, per addormentarla. Quando m'accorgevo che ella dormiva, dal suo respiro, io avevo una sensazione illusoria di ristoro quasi che il beneficio del sonno si spandesse anche su me. D'innanzi a quel sonno io diventavo religioso, ero invaso da un fervore indefinito, provavo il bisogno di credere in un qualche Essere superiore, onniveggente, onnipotente, a cui rivolgevo i miei voti. Salivano spontanei dall'intimo della mia anima preludii di orazioni, nella forma cristiana. Talvolta l'eloquenza interiore m'esaltava fino alle sommità della vera Fede. Si risvegliavano in me tutte le tendenze mistiche trasmessemi da un lungo ordine di progenitori cattolici.

Mentre si svolgeva la mia orazione interna, io contemplavo la dormente. Ella era pur sempre pallida come la sua camicia. Per la trasparenza della pelle, io avrei potuto numerar le sue vene su le guance, sul mento, sul collo. La contemplavo quasi sperando di cogliere gli effetti benefici del riposo, il diffondersi lento del sangue nuovo generato dal cibo, i primi segni iniziali della guarigione. Avrei voluto per una facoltà soprannaturale assistere al misterioso lavorio riparatore che si compieva in quel corpo affranto. E speravo sempre: “Quando si sveglierà, si sentirà più forte”.

Pareva ch'ella provasse un gran sollievo quando teneva fra le sue mani fredde la mia mano. Talvolta ella me la prendeva e la metteva sul guanciale e sopra ci posava la gota, con un atto infantile; e, così rimanendo, a poco a poco si assopiva. Ero capace di conservare a lungo a lungo l'immobilità del braccio intormentito, per non risvegliarla.

Talvolta ella diceva:

- Perché non dormi anche tu qui, con me? Tu non dormi mai!

E voleva che io posassi la testa sul suo guanciale.

- Dormiamo dunque.

Io fingevo di addormentarmi, per darle il buon esempio. Quando riaprivo gli occhi, incontravo i suoi occhi sbarrati che mi guardavano.

- Ebbene? - esclamavo. - Che fai?

- E tu? - rispondeva ella.

Nei suoi occhi era un'espressione di tenerezza così buona che io mi sentivo struggere dentro. Tendevo le labbra e la baciavo su le palpebre. Ella voleva fare la stessa cosa a me.

Poi ripeteva:

- Ora dormiamo.

E scendeva un velo d'oblio su la nostra sventura, talvolta.

Spesso i suoi poveri piedi erano gelati. Io li toccavo, di sotto alle coperte, e mi parevano di marmo. Ella diceva infatti:

- Sono morti.

Erano scarni, sottili, così minuti che quasi mi entravano nel pugno. Avevo per loro una grande pietà. Io stesso riscaldavo per loro sul braciere il panno di lana, non mi stancavo di prenderne cura. Avrei voluto intiepidirli con l'alito, coprirli di baci. Si mescolavano alla mia nuova pietà ricordi lontani d'amore, ricordi del tempo felice quando io non tralasciavo mai di calzarli al mattino e di nudarli a sera con le mie proprie mani per una consuetudine quasi votiva, stando in ginocchio.

Un giorno, dopo lunghe veglie, ero così stanco che un sonno irresistibile mi colse appunto mentre tenevo le mani sotto le coperte e avvolgevo nel panno caldo i piccoli piedi morti. Reclinai la testa, e restai là addormentato nell'atto.

Come mi svegliai, vidi nell'alcova mia madre, mio fratello, il dottore, che mi guardavano sorridendo. Rimasi confuso.

- Povero figliuolo! Non ne puoi più - disse mia madre ravviandomi i capelli con uno dei suoi gesti più affettuosi.

E Giuliana:

- Mamma, portalo via tu. Federico, portalo via.

- No, no, non sono stanco - io ripetevo. - Non sono stanco.

Il dottore annunziò la sua partenza. Dichiarò la puerpera fuor di pericolo, in via di miglioramento accertato. - Bisognava seguitare a promuovere con tutti i mezzi la rigenerazione del sangue. Il suo collega Jemma di Tussi, col quale aveva conferito e s'era trovato d'accordo, avrebbe seguitata la cura, che, del resto, era semplicissima. Più che nei medicinali egli aveva fiducia nell'osservanza rigorosa delle diverse norme igieniche e dietetiche da lui stabilite.

- In verità - soggiunse accennando a me - non potrei desiderare un infermiere più intelligente, più vigile, più devoto. Ha fatto miracoli e ne farà ancóra. Io parto tranquillo.

Mi sembrò che il cuore mi balzasse alla gola e mi soffocasse. L'elogio inaspettato di quell'uomo severo, alla presenza di mia madre, di mio fratello, mi diede una commozione profonda; fu un compenso straordinario. Guardai Giuliana e vidi che i suoi occhi s'erano empiti di lacrime. E, sotto il mio sguardo, all'improvviso ella ruppe in un pianto. Feci uno sforzo sovrumano per frenarmi, ma non riuscii. Mi parve che l'anima mi si stemprasse. Tutte le bontà del mondo erano nel mio petto, raccolte, in quell'ora indimenticabile.

 

 

XXXIV.

 

Giuliana andava ricuperando le forze di giorno in giorno, con lentezza. La mia assiduità non veniva meno. Delle dichiarazioni fatte dal dottor Vebesti io anzi mi valevo per moltiplicare le mie vigilanze, per non lasciare che altri prendesse le mie veci, per resistere a mia madre e a mio fratello che mi consigliavano il riposo. Il mio corpo s'era oramai abituato alla dura disciplina e non si stancava quasi più. Tutta la mia vita era tra le pareti di quella stanza, nell'intimità di quell'alcova, nel cerchio in cui respirava la cara malata.

Avendo ella bisogno d'una calma assoluta, dovendo ella parlar poco per non stancarsi, io m'adoperavo ad allontanar dal suo letto anche le persone familiari. Quell'alcova dunque rimaneva segregata dal resto della casa. Per ore ed ore io e Giuliana rimanemmo soli. E poiché ella era tenuta dal male ed io ero intento al mio ufficio pietoso, talvolta ci avveniva di dimenticare la nostra sventura, di smarrire la nozione della realtà e di non serbare altra conscienza che quella del nostro immenso amore. Mi pareva talvolta che nulla più esistesse di là dalle cortine, tanta era l'intensione di tutto il mio essere verso la sofferente. Nulla veniva a ricordarmi la cosa tremenda. Io vedevo d'innanzi a me una sorella che soffriva e non avevo altra sollecitudine che di alleggerire la sua pena.

Non di rado questi veli d'oblio furono lacerati con violenza. Mia madre parlò di Raimondo. Le cortine si aprirono per lasciar passare l'intruso.

Lo portò mia madre sulle braccia. Ed io ero là. Sentii d'esser divenuto pallido, perché tutto il sangue m'affluì al cuore. Che provò Giuliana?

Io guardavo quel viso rossiccio, grosso come il pugno di un uomo, mezzo nascosto dalla cuffia trapunta; e con un'avversione feroce, che annullava nella mia anima qualunque altro sentimento, pensai: “Come farò a liberarmi di te? Perché non moristi soffocato?”. Il mio odio non aveva ritegno; era istintivo, cieco, indomabile, quasi direi carnale; pareva infatti che avesse la sua sede nella mia carne, che sorgesse da tutte le mie fibre, da tutti i miei nervi, da tutte le mie vene. Nulla poteva reprimerlo, nulla poteva distruggerlo. Bastava la presenza dell'intruso, in qualunque ora, in qualunque congiuntura, perché dentro di me avvenisse una specie d'annullazione istantanea ed io fossi posseduto da un solo unico sentimento: dall'odio contro di lui.

Disse mia madre a Giuliana:

- Guarda, in pochi giorni, come è già mutato! Somiglia più a te che a Tullio; ma non molto a nessuno dei due. È ancóra troppo piccolo. Vedremo in seguito... Gli vuoi dare un bacio?

Ella accostò la fronte del bambino alle labbra dell'inferma. Che provò Giuliana?

Ma il bambino cominciò a piangere. Io ebbi la forza di dire a mia madre, senza acredine:

- Portalo via; ti prego. Giuliana ha bisogno di calma. Queste scosse le fanno molto male.

Mia madre uscì dall'alcova. I vagiti crescevano e mi davano pur sempre la stessa sensazione di laceramento doloroso e la voglia di correre a soffocarli per non udirli più. Li udimmo per qualche istante mentre si allontanavano. Quando alfine cessarono, il silenzio mi parve enorme; mi cadde sopra come un macigno, mi oppresse. Ma non m'indugiai in quella pena, perché sùbito pensai che Giuliana aveva bisogno di soccorso.

- Ah, Tullio, Tullio, non è possibile...

- Taci, taci, se tu mi ami, Giuliana. Taci; ti prego.

Io la supplicavo, con la voce, col gesto. Tutto il mio orgasmo ostile era caduto; e io non d'altro mi dolevo se non del dolore di lei, non altro temevo se non il danno recato all'inferma, l'urto ricevuto da quella vita così fragile.

- Se tu mi ami, non devi pensare a null'altro che a guarire. Vedi? Io non penso che a te, non soffro che per te. Bisogna che tu non ti tormenti; bisogna che tu ti abbandoni tutta alla mia tenerezza, per guarire”.

Ella disse con la sua voce tremante e fievole:

- Ma chi sa quel che tu provi dentro! Povera anima!

- No, no, Giuliana, non ti tormentare! Io non soffro che per te, nel vederti soffrire. Io dimentico tutto, se tu sorridi. Se tu ti senti bene, io sono felice. Se tu mi ami, dunque, devi guarire, devi essere calma, ubbidiente, paziente. Quando sarai guarita, quando sarai più forte, allora... chi sa! Dio è buono.

Ella mormorò:

- Dio, abbi misericordia di noi.

“In che modo?” Io pensai: “Facendo morire l'intruso”. Ambedue alzavamo dunque un augurio di morte, anch'ella dunque non vedeva altro scampo che nella distruzione del figliuolo. Non v'era altro scampo. E mi tornò alla memoria il breve dialogo che avevamo avuto in un tramonto lontano, sotto gli olmi; e mi tornò alla memoria la confessione dolorosa. “Ma ora ch'egli è nato, l'aborre ella ancóra? Può ella provare un'avversione sincera contro la carne della sua carne? Prega ella sinceramente Iddio perché si riprenda la sua creatura?” E mi tornò la folle speranza che mi era balenata in quella sera tragica: “Se entrasse in lei la suggestione del delitto e divenisse a poco a poco tanto forte da trascinarla!...”. Non avevo io pensato per un attimo a un mal riuscito tentativo delittuoso, vedendo la levatrice stropicciare sul dorso e su le piante dei piedi il corpicciuolo paonazzo del bimbo tramortito? Era stato, anche quello, un pensiero folle. Certo Giuliana non avrebbe mai osato...

E io guardai le sue mani lungo il lenzuolo, prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino.

 

 

XXXV.

 

Uno strano rammarico mi pungeva, ora che l'inferma andava di giorno in giorno migliorando. Mi si moveva in fondo al cuore un vago rimpianto verso i tristi giorni grigi passati dentro l'alcova, mentre giungeva cupa dalle campagne autunnali la monotonia della pioggia. Quelle mattine, quelle sere, quelle notti, benché penose, avevano una loro grave dolcezza. La mia opera di carità mi pareva ogni giorno più bella. Un'abondanza d'amore m'inondava l'anima e sommergeva talvolta i pensieri oscuri, mi dava talvolta l'oblio della cosa tremenda, mi suscitava qualche illusione consolante, qualche sogno indefinito. Provavo io talvolta là dentro un sentimento simile a quello che si prova nell'ombra delle cappelle segrete: mi sentivo in un rifugio contro le violenze della vita, contro le occasioni del peccato. Mi pareva talvolta che le cortine leggere mi separassero da un abisso. M'assalivano repentine paure dell'ignoto. Ascoltavo nella notte il silenzio di tutta la casa intorno a me; e vedevo, con gli occhi dell'anima, in fondo a una stanza remota, al lume d'una lampada, la culla ove dormiva l'intruso, il diletto di mia madre, il mio erede. Mi scoteva un gran brivido di orrore; e rimanevo a lungo sbigottito sotto il balenio sinistro d'un solo pensiero. Le cortine mi separavano da un abisso.

Ma ora che Giuliana di giorno in giorno andava migliorando, venivano a mancare le ragioni dell'isolamento; e a poco a poco la comune vita domestica invadeva la stanza tranquilla. Mia madre, mio fratello, Maria, Natalia, Miss Edith entravano assai più spesso, si trattenevano assai più a lungo. Raimondo s'imponeva alla tenerezza materna. Non era più possibile né a me né a Giuliana evitarlo. Bisognava prodigargli i baci, sorridergli. Bisognava simulare e dissimulare con arte, patire tutte le più raffinate crudeltà del caso, lentamente perire.

Nutrito d'un latte sano e sostanziale, circondato d'infinite cure, Raimondo perdeva a poco a poco quel suo aspetto di cosa ributtante, incominciava a ingrossarsi, a sbiancarsi, a prendere forme più chiare, a tenere bene aperti i suoi occhi grigi. Ma tutti i suoi moti m'erano odiosi, dall'atto delle labbra intorno al capezzolo all'agitazione confusa delle piccole mani. Mai gli riconobbi una grazia, un vezzo; mai ebbi per lui un pensiero che non fosse ostile. Quando ero costretto a toccarlo, quando mia madre me lo porgeva perché io lo baciassi, provavo per tutta la pelle lo stesso raccapriccio che m'avrebbe dato il contatto d'un animale immondo. Tutte le fibre si ribellavano; e i miei sforzi erano disperati.

Ogni giorno mi recava un supplizio nuovo; e mia madre era il gran carnefice. Una volta, rientrando nella stanza all'improvviso e discostando le cortine dell'alcova, scorsi sul letto il bambino posato a fianco di Giuliana. Non c'era nessuno presente. Eravamo là riuniti noi tre soli. Il bambino, stretto nelle fasce bianche, dormiva tranquillo.

- L'ha lasciato qui la mamma - balbettò Giuliana.

Io fuggii come un pazzo.

Un'altra volta Cristina venne a chiamarmi. La seguii nella camera della culla. Mia madre stava là seduta tenendo su le ginocchia il bambino ignudo.

- Te l'ho voluto far vedere prima d'infasciarlo - ella mi disse. - Guarda!

Il bambino sentendosi libero agitava le gambe e le braccia, stravolgeva in qua e in là gli occhi, si ficcava le dita nella bocca sbavazzando. Ai polsi, ai malleoli, dietro le ginocchia, su gli inguini la carne si arrotondava in anelli, velata di cipria; sul ventre gonfio l'ombelico era ancóra sporgente, deforme, bianco di cipria. Le mani di mia madre palpavano con delizia le minute membra, mi mostravano a una a una tutte le particolarità, s'indugiavano su quella pelle nitida e liscia pel bagno recente. E pareva che il bambino ne godesse.

- Senti, senti com'è già sodo! - diceva ella, invitandomi a palparlo.

E bisognò ch'io lo toccassi.

- Senti come pesa!

E bisognò che io lo sollevassi, che io sentissi palpitare quel corpicciuolo tiepido e morbido tra le mie mani invase da un tremito che non era di tenerezza.

- Guarda!

E mia madre sorridendo strinse tra l'indice e il pollice le papille su quel petto delicato che chiudeva la vita tenace degli esseri malefici.

- Amore, amore, amore della nonna! - ella ripeteva, vellicando con un dito il mento del bambino che non sapeva ridere.

La cara testa grigia, che s'era già reclinata col medesimo atto su due culle benedette, ora un poco più canuta si reclinava inconsapevole sul figliuolo d'un altro, su un intruso. Mi pareva che ella non si fosse mostrata così tenera verso Maria, verso Natalia, verso le vere creature del mio sangue.

Ella stessa volle fasciarlo. Gli fece sul ventre il segno della croce.

- Non sei ancóra cristiano!

E volgendosi a me:

- Bisogna che fissiamo oramai il giorno del battesimo.

 

 

XXXVI.

 

Il dottor Jemma, cavaliere del Sacro Sepolcro di Gerusalemme, un bel vecchio gioviale, portò a Giuliana in dono matutino un mazzo di crisantemi bianchi.

- Oh, i fiori che io prediligo! - disse Giuliana. - Grazie.

Prese il mazzo, lo guardò a lungo insinuandovi le dita affilate: e una triste rispondenza correva tra il suo pallore e il pallore dei fiori autunnali. Erano crisantemi ampli come rose aperte, folti, grevi; avevano il colore delle carni malaticce, esangui, quasi disfatte, la bianchezza livida che copre le guance delle piccole mendicanti intirizzite dal gelo. Alcuni portavano lievissime venature violacee, altri pendevano un poco nel giallo, delicatamente.

- Tieni - ella mi disse. - Mettili nell'acqua.

Era di mattina; era di novembre; era di poco trascorso l'anniversario d'un giorno nefasto che quei fiori rammemoravano.

 

Che farò senza Euridice?...

 

Mi sonò nella memoria l'aria di Orfeo, mentre mettevo in un vaso i crisantemi bianchi. Si risollevarono nel mio spirito alcuni frammenti della scena singolare accaduta un anno innanzi; e rividi Giuliana in quella luce dorata e tepida, in quel profumo così molle, in mezzo a tutti quegli oggetti improntati di grazia feminile, dove il fantasma della melodia antica pareva mettere il palpito d'una vita segreta, spandere l'ombra d'un non so che mistero. - Avevano suscitato anche in lei qualche ricordo quei fiori?

Una mortale tristezza mi pesava su l'anima, una tristezza d'amante inconsolabile. L'Altro ricomparve. I suoi occhi erano grigi come quelli dell'intruso.

Il dottore mi disse, dall'alcova:

- Potete aprire la finestra. È bene che la stanza sia molto aerata, che entri molto sole.

- Oh, sì, sì, apri! - esclamò l'inferma.

Apersi. In quel punto entrò mia madre con la nutrice che portava su le braccia Raimondo. Io restai fra le tende, mi chinai sul davanzale, guardai la campagna. Udivo dietro di me le voci familiari.

Era sul finire di novembre, era già passata anche l'estate dei morti. Una grande chiarità vacua si spandeva su la campagna umida, sul lineamento nobile e pacato dei colli. Sembrava che per le cime degli oliveti indistinte vagasse un vapore argenteo. Qualche filo di fumo qua e là biancicava al sole. Ora sì ora no il vento portava un crepito di foglie labili. Il resto era silenzio e pace.

Io pensavo: “Perché ella cantava, quella mattina? Perché udendola provai quel turbamento, quell'ansietà? Ella mi pareva un'altra donna. Amava ella dunque colui? A quale stato del suo animo rispondeva quell'effusione insolita? Ella cantava, perché amava. Forse anche m'inganno. Ma non saprò mai il vero!”. Non era più la torbida gelosia dei sensi ma un rammarico più alto, che mi si partiva dal centro dell'anima. Pensavo: “Quale ricordo ha ella di colui? Quante volte il ricordo l'ha punta? Il figlio è un legame vivente. Ella ritrova in Raimondo qualche cosa dell'uomo che l'ha posseduta: ella ritroverà somiglianze più certe. Non è possibile ch'ella dimentichi il padre di Raimondo. Forse ella lo ha sempre davanti agli occhi. Che proverebbe se lo sapesse condannato?”.

E m'indugiai nell'imaginare i progressi della paralisi, nel formare dentro di me imagini di colui a similitudine di quelle che mi dava il ricordo del povero Spinelli. E me lo rappresentavo seduto su una gran poltrona di cuoio rosso, pallido d'un pallor terreo, con tutti i lineamenti della faccia irrigiditi, con la bocca dilatata e aperta, piena di saliva e d'un balbettio incomprensibile. E lo vedevo fare ad ogni tratto sempre il medesimo gesto per raccogliere in un fazzoletto quella saliva continua che gli colava dagli angoli della bocca...

- Tullio!

Era la voce di mia madre. Mi volsi, andai verso l'alcova.

Giuliana stava supina, molto abbattuta, silenziosa. Il dottore esaminava sul capo del bambino un principio di crosta lattea.

- Faremo dunque il battesimo dopo domani - disse mia madre: - Il dottore crede che Giuliana dovrà rimanere ancora qualche tempo a letto.

- Come la trovate, dottore? - domandai al vecchio, accennando l'inferma.

- Mi pare che ci sia un po' di sosta nel miglioramento - rispose, scotendo la bella testa canuta. - La trovo debole, molto debole. Bisogna accrescere la nutrizione, fare qualche sforzo...

Giuliana interruppe, guardandomi con un sorriso stanchissimo:

- M'ha ascoltato il cuore.

- Ebbene? - io chiesi, volgendomi sùbito al vecchio.

Mi parve di vedergli passare su la fronte un'ombra.

- È un cuore sanissimo - rispose sùbito. - Non ha bisogno che di sangue... e di tranquillità. Su, su, animo! Come va l'appetito stamani?

L'anemica mosse le labbra a un atto quasi di disgusto. Fissava la finestra aperta, quel lembo di cielo delicato.

- È una giornata fredda, oggi? - domandò con una specie di timidezza, ritraendo le mani sotto le coperte.

E rabbrividì visibilmente.

 

 

XXXVII.

 

Il giorno dopo, io e Federico andammo a visitare Giovanni di Scòrdio. Era l'ultimo pomeriggio di novembre. Andammo a piedi, a traverso i campi arati.

Camminavamo in silenzio, pensosi. Il sole inclinava all'orizzonte, lento. Una polvere d'oro impalpabile fluttuava nell'aria quieta sul nostro capo. La terra umida aveva un color bruno vivace, un aspetto di possanza tranquilla, quasi direi una pacata consapevolezza della sua virtù. Dalle glebe saliva un fiato visibile, simile a quello spirante dalle narici dei buoi. Le cose bianche in quella luce mite assumevano una straordinaria bianchezza, una candidezza di neve. Una vacca di lontano, la camicia d'un agricoltore, un telo spaso, le mura d'una cascina risplendevano come in un plenilunio.

- Sei triste - mi disse Federico dolcemente.

- Sì, amico mio: molto triste. Dispero.

Seguì ancóra un lungo silenzio. Dalle fratte stormi d'uccelli si levavano frullando. Giungeva fioco lo scampanio d'una mandra lontana.

- Di che disperi? - mi chiese mio fratello, con la stessa benignità.

- Della salvezza di Giuliana, della mia salvezza.

Egli tacque; non proferì nessuna parola di consolazione. Forse il dolore lo stringeva, dentro.

- Ho un presentimento - soggiunsi. - Giuliana non si leverà.

Egli tacque. Passavamo per un sentiero alberato; e le foglie cadute stridevano sotto i nostri piedi; e, dove le foglie non erano, il suolo risonava come per cavità sotterranee, cupo.

- Quando ella sarà morta, - soggiunsi - io che farò?

Uno sgomento repentino m'assalse, una specie di pànico; e guardai mio fratello che taceva accigliato, mi guardai d'intorno per la muta desolazione di quell'ora diurna; e mai come in quell'ora sentii il vuoto spaventevole della vita.

- No, no, Tullio, - disse mio fratello - Giuliana non può morire.

Egli affermava una cosa vana, senza valore alcuno d'innanzi alla condanna del Destino. Eppure egli aveva pronunziato quelle parole con una semplicità che mi scosse, tanto mi parve straordinaria. Così talvolta i fanciulli pronunziano a un tratto parole inaspettate e gravi che ci colpiscono nel mezzo dell'anima; e pare che una voce fatidica parli per le loro labbra inconsapevoli.

- Leggi nel futuro? - gli domandai, senz'ombra d'ironia.

- No. Ma questo è il mio presentimento; e io ci credo.

Ancóra una volta mi venne dal buon fratello un lampo di confidenza; ancóra una volta per lui s'allargò un poco il duro cerchio che mi serrava il cuore. Il respiro fu breve. Nel resto del cammino egli mi parlò di Raimondo.

Come giungemmo in vicinanza del luogo ove abitava Giovanni di Scòrdio, egli scorse nel campo la figura alta del vecchio.

- Guarda! È là. Va seminando. Gli portiamo l'invito in un'ora solenne.

Ci appressammo. Io tremavo forte, dentro di me, come se mi accingessi a una profanazione. Andavo infatti a profanare una bella e grande cosa; andavo a chiedere la paternità spirituale di quel vecchio venerabile per un figliuolo adulterino.

- Guarda che figura! - esclamò Federico soffermandosi e indicando il seminatore. - Ha l'altezza d'un uomo, eppure sembra un gigante.

Ci soffermammo dietro un albero, sul limite del campo, a guardare. Intento all'opera, Giovanni non ci aveva ancóra veduti.

Egli avanzava pel campo dirittamente, con una lentezza misurata. Gli copriva il capo una berretta di lana verde e nera con due ali che scendevano lungo gli orecchi all'antica foggia frigia. Un sàccolo bianco gli pendeva dal collo per una striscia di cuoio, scendendogli davanti alla cintura pieno di grano. Con la manca egli teneva aperto il sàccolo, con la destra prendeva la semenza e la spargeva. Il suo gesto era largo, gagliardo e sapiente, moderato da un ritmo eguale. Il grano involandosi dal pugno brillava talvolta nell'aria come faville d'oro, e cadeva su le porche umide egualmente ripartito. Il seminatore avanzava con lentezza, affondando i piedi nudi nella terra cedevole, levando il capo nella santità della luce. Il suo gesto era largo, gagliardo e sapiente; tutta la sua persona era semplice, sacra e grandiosa.

Entrammo nel campo.

- Salute, Giovanni! - esclamò Federico, andando incontro al vecchio. - Sia benedetta la tua semenza. Sia benedetto il tuo pane futuro.

- Salute! - io ripetei.

Il vecchio tralasciò l'opera; si scoperse il capo.

- Copriti, Giovanni, se non vuoi che ci scopriamo - disse Federico.

Il vecchio si coprì, confuso, quasi timido, sorridendo. Domandò, umile:

- Perché tanto onore?

Io dissi, con una voce che mi sforzai di rendere ferma:

- Sono venuto a pregarti di tenere a battesimo il mio figliuolo.

Il vecchio mi guardò attonito, poi guardò mio fratello. La sua confusione crebbe. Egli mormorò:

- A me tanto onore!

- Che mi rispondi?

- Sono il tuo servo. Dio ti renda merito dell'onore che vuoi farmi oggi e Dio sia lodato per questa gioia che dà alla mia vecchiaia. Tutte le benedizioni del cielo scendano sul tuo figliuolo.

- Grazie, Giovanni.

E gli stesi la mano. E vidi che quei tristi occhi profondi s'inumidirono di tenerezza. Il cuore mi si gonfiò d'un'angoscia smisurata.

Il vecchio mi domandò:

- Come lo chiami?

- Raimondo.

- Come tuo padre, di felice memoria. Quello era un uomo! E voi gli somigliate.

Disse mio fratello:

- Sei solo a seminare il grano.

- Solo. Io lo getto e io lo ricopro.

E indicò l'erpice e il bidente che rilucevano su la terra bruna. D'intorno si vedevano i semi non anche ricoperti, i buoni germi delle spiche future.

Disse mio fratello:

- Continua dunque. Ti lasciamo alla tua opera. Tu verrai domattina alla Badiola. Addio, Giovanni. Sia benedetta la tua semenza.

Ambedue stringemmo quelle mani infaticabili, santificate dalla semenza che spargevano, dal bene che avevano sparso. Il vecchio fece l'atto d'accompagnarci verso la callaia. Ma si soffermò, esitante. Disse:

- Vi chiedo una grazia.

- Parla, Giovanni.

Egli apri il sacco che gli pendeva dal collo.

- Prendete un pugno di grano e gettatelo nel mio campo.

Io pel primo affondai la mano nel frumento, ne presi quanto potei, lo sparsi. Mio fratello m'imitò.

- Questo ora vi dico - soggiunse Giovanni di Scòrdio con la voce commossa, guardando la terra seminata. - Dio voglia che il mio figlioccio sia buono come il pane che nascerà da questa semenza. Così sia.

 

XXXVIII.

 

La mattina dopo, la cerimonia del battesimo si compì senza festa, senza pompa, per riguardo allo stato di Giuliana. Il bambino fu portato nella cappella per la comunicazione interna. Mia madre, mio fratello, Maria, Natalia, Miss Edith, la levatrice, la nutrice, il cavaliere Jemma andarono ad assistere. Io rimasi al capezzale dell'inferma.

Una grave sonnolenza la teneva. Il respiro le esciva affannato dalla bocca semiaperta, pallida come la più pallida delle rose fiorite all'ombra. L'ombra occupava l'alcova. Io pensavo, guardandola: “Dunque non la salverò? Avevo allontanata la morte; ed ecco, la morte ritorna. Certo, se non accade un mutamento repentino, ella morirà. Prima, quando riuscivo a tener lontano da lei Raimondo, quando riuscivo a darle qualche illusione e qualche oblio con la mia tenerezza, pareva ch'ella volesse guarire. Ma da che ella vede il figliuolo, da che è ricominciato il supplizio, va di giorno in giorno perdendosi, dissanguandosi peggio che se l'emorragia le continuasse. Io assisto alla sua agonia. Ella non mi ascolta più, non m'obbedisce più, come prima. Da chi le verrà la morte? Da lui. Egli, egli l'ucciderà, sicuramente...”.

Un'onda di odio mi sorse dalle radici più profonde, mi parve affluire alle mani tutta con un impulso micidiale. Vidi il piccolo essere malefico che si gonfiava di latte, che prosperava in pace, senza alcun pericolo, circondato d'infinite cure. “Mia madre ama più lui che Giuliana! Mia madre si occupa più di lui che di questa povera morente! Ah, bisogna che io lo tolga di mezzo, ad ogni costo.” E la visione del delitto già consumato mi balenò dentro: la visione del morticino in fasce, del piccolo cadavere innocuo su la bara. “Il battesimo e il suo viatico. E Giovanni lo regge su le sue braccia...”

Una curiosità subitanea mi punse. Lo spettacolo doloroso mi attirò. Giuliana era ancora assopita. Uscii dall'alcova adagio; uscii dalla stanza; chiamai Cristina, la misi a guardia; poi mi diressi verso il coretto, a passo veloce, con un'ansia che mi soffocava.

L'usciuolo era aperto. Scorsi un uomo inginocchiato d'innanzi alla grata. Riconobbi Pietro, il vecchio servitore fedele, quello che m'aveva veduto nascere ed aveva assistito al mio battesimo. Egli si levò, con un po' di pena.

- Rimani, rimani, Pietro - gli dissi sottovoce, mettendogli una mano su la spalla per costringerlo a inginocchiarsi di nuovo.

E m'inginocchiai al suo fianco, appoggiai la fronte alla grata, guardai nella cappella sottoposta. Vedevo tutto, con una chiarezza perfetta; udivo le formule rituali.

La cerimonia era già incominciata. Seppi da Pietro che il bambino aveva già ricevuto il sale. Era ministro il parroco di Tussi, don Gregorio Artese. Questi e il patrino recitavano ora il Credo: l'uno a voce alta, l'altro a voce bassa di seguito. Giovanni reggeva il bambino sul braccio destro, su la mano che il giorno innanzi aveva seminato il frumento. La sinistra posava tra i nastri e i merletti candidi. E quelle mani ossute, asciutte, brune, che parevano fuse in un bronzo animato, quelle mani incallite su gli strumenti dell'agricoltura, santificate dal bene che avevano sparso, dalla vasta opera che avevano fornita, ora nel reggere quell'infante avevano una delicatezza e quasi una timidezza così gentili che io non potevo desistere dal guardarle. Raimondo non piangeva; moveva di continuo la bocca piena d'una bava liquida che gli colava pel mento sul bavaglio trapunto.

Dopo l'esorcismo, il parroco bagnò il dito nella saliva e toccò i piccoli orecchi rosei proferendo la parola miracolosa:

- Ephpheta.

Quindi toccò le nari dicendo:

- In odorem suavitatis...

Quindi intinse il pollice nell'olio dei Catecumeni; e, mentre Giovanni teneva supino su le sue braccia l'infante, unse a questi in modo di croce il sommo del petto; e, come Giovanni lo rivolse prono, unse il sommo del dorso tra le scapole, in modo di croce, dicendo:

- Ego te linio oleo salutis in Christo Jesu Domino nostro...

E con un fiocco di bambagia deterse le parti che aveva unte.

Allora depose la stola paonazza, il colore della doglia e della tristezza; e prese la stola bianca in segno di gioia, ad annunziare che la macchia originale stava per essere cancellata. E chiamò Raimondo per nome, e gli rivolse le tre domande solenni. E il patrino rispose:

- Credo, credo, credo.

La cappella era singolarmente sonora. Da una delle alte finestre ovali entrava una zona di sole andando a ferire una lapide marmorea del pavimento sotto il quale erano i sepolcri profondi ove molti dei miei maggiori dormivano in pace. Mia madre e mio fratello stavano l'una accanto all'altro, dietro a Giovanni; Maria e Natalia si sollevavano su la punta dei piedi per giungere a vedere il piccolo, curiose, di tratto in tratto sorridendo e bisbigliando fra loro. Giovanni si volgeva un poco, qualche volta, a quei bisbigli, con un atto benigno in cui si mostrava tutta l'ineffabile tenerezza senile verso i fanciulli traboccante da quel gran cuore di avo abbandonato.

- Raymunde, vis baptizari? - domandò il ministro.

- Volo - rispose il patrino, ripetendo la parola suggerita.

Il chierico presentò il bacile d'argento ove luccicava l'acqua battesimale. Mia madre tolse la cuffia al battezzando, mentre il patrino lo porgeva prono all'abluzione. Il capo rotondo, su cui potei distinguere le eruzioni biancastre della crosta lattea, penzolò verso il bacile. E il parroco, attingendo l'acqua con un vàscolo, la versò tre volte su quel capo, facendo ogni volta il segno della croce.

- Ego te baptizo in nomine Patris, et Filii, et Spiritus sancti.

Raimondo si mise a vagire forte; più forte mentre gli asciugavano il capo. E, come Giovanni lo risollevò, io vidi quel viso arrossato dall'afflusso di sangue e dallo sforzo, aggrinzato dai moti della bocca, macchiato di bianchiccio anche su la fronte. Ed ebbi dai vagiti pur sempre la stessa sensazione di laceramento doloroso, la stessa esasperazione d'ira. Nulla di lui m'irritava quanto la voce, quanto quel miagolio ostinato che mi aveva ferito così crudamente la prima volta nell'alba lugubre d'ottobre. Era per i miei nervi un urto intollerabile.

Il prete intinse il pollice nel sacro Crisma ed unse la fronte al battezzato, recitando la formula rituale che i vagiti coprivano. Quindi gli impose la veste bianca, il simbolo dell'Innocenza.

- Accipe vestem candidant...

Diede quindi al pattino il cero benedetto.

- Accipe lampadem ardentem...

L'Innocente si quietò. I suoi occhi si fissarono su la fiammella che tremolava in cima al lungo cero dipinto. Giovanni di Scòrdio reggeva sul braccio destro il nuovo cristiano e nella mano sinistra il simbolo del fuoco divino, con un'attitudine semplice e grave, guardando il sacerdote che recitava la formula. Egli avanzava di tutto il capo gli astanti. Nessuna cosa d'intorno era candida come la sua canizie, neppure la veste dell'Innocente.

- Vade in pace, et Dominus sit tecum.

- Amen.

Mia madre prese dal braccio del vecchio l'Innocente, se lo strinse al petto, lo baciò. Mio fratello anche lo baciò. Tutti gli astanti, l'un dopo l'altro, lo baciarono.

Pietro, al mio fianco, ancóra in ginocchio, piangeva. Sconvolto, fuori di me, balzai in piedi, uscii, attraversai di corsa gli anditi, entrai all'improvviso nella stanza di Giuliana.

Cristina mi domandò sottovoce, sbigottita:

- Che è accaduto, signore?

- Nulla, nulla. È sveglia?

- No, signore. Pare che dorma.

Discostai le cortine, entrai adagio nell'alcova. Da prima nell'ombra non scorsi se non il biancore del guanciale. M'appressai, mi chinai. Giuliana teneva gli occhi aperti, e mi guardava fissamente. Forse indovinò al mio aspetto tutte le mie angosce; ma non parlò. Richiuse gli occhi, come per non riaprirli più.

 

 

XXXIX.

 

Incominciò da quel giorno l'ultimo periodo precipitoso di quella lucida demenza che doveva condurmi al delitto. Incominciò da quel giorno la premeditazione del mezzo più facile e più sicuro per far morire l'Innocente.

Fu una premeditazione fredda, acuta e assidua che assorbì tutte le mie facoltà interiori. L'idea fissa mi possedeva intero, con una forza e una tenacità incredibili. Mentre tutto il mio essere si agitava in un orgasmo supremo, l'idea fissa lo dirigeva allo scopo come su per una lama d'acciaio chiara, rigida, senza fallo. La mia perspicacia pareva triplicata. Nulla mi sfuggiva, dentro e fuori di me. La mia circospezione non si rilasciò mai un istante. Nulla io dissi, nulla io feci che potesse destare sospetto, muovere stupore. Simulai, dissimulai senza tregua, non soltanto verso mia madre, mio fratello, gli altri inconsapevoli, ma anche verso Giuliana.

Io mi mostrai a Giuliana rassegnato, pacificato, talvolta quasi immemore. Evitai studiosamente qualunque allusione all'intruso. Cercai in tutti i modi rianimarla, inspirarle fiducia, indurla all'osservanza delle norme che dovevano renderle la salute. Moltiplicai le mie premure. Volli avere per lei tenerezze così profonde e così obliose che ella potesse in quelle rigustare i sapori della vita più freschi e più sinceri. Ancóra una volta ebbi la sensazione di trasfondermi nel corpo fragile dell'inferma, di comunicarle un po' della mia forza, di dare un impulso al suo debole cuore. Pareva che io la spingessi a vivere di giorno in giorno, quasi insuffiandole un vigore fittizio, nell'attesa dell'ora tragica e liberatrice. Ripetevo dentro di me: “Domani!”. E il domani giungeva, trascorreva, si dileguava senza che l'ora fosse scoccata. Ripetevo: “Domani!”.

Ero convinto che la salvezza della madre stesse nella morte del figliuolo. Ero convinto che, scomparso l'intruso, ella sarebbe guarita. Pensavo: “Ella non potrebbe non guarire. Ella risorgerebbe a poco a poco, rigenerata, con un sangue nuovo. Parrebbe una creatura nuova, scevra d'ogni impurità. Ambedue ci sentiremmo purificati, degni l'uno dell'altra, dopo una espiazione così lunga e così dolorosa. La malattia, la convalescenza darebbero al triste ricordo una lontananza indefinita. E io vorrei cancellare dall'anima di lei perfino l'ombra del ricordo; vorrei darle il perfetto oblio, nell'amore. Qualunque altro amore umano parrebbe futile al confronto del nostro, dopo questa grande prova”. La visione dell'avvenire m'accendeva d'impazienza. L'incertezza mi diveniva intollerabile. Il delitto mi appariva scevro di orrore. Io mi rimproveravo acremente le perplessità nelle quali m'indugiavo con troppa prudenza; ma nessun lampo ancóra aveva attraversato il mio cervello, non ero ancor riuscito a trovare il mezzo sicuro.

Bisognava che Raimondo sembrasse morire di morte naturale. Bisognava che anche al medico non potesse balenare alcun sospetto. Dei diversi metodi studiati nessuno mi parve eligibile, praticabile. E intanto, mentre aspettavo il lampo rivelatore, la trovata luminosa, io mi sentivo attratto da uno strano fascino verso la vittima.

Spesso entravo all'improvviso nella stanza della nutrice, palpitando così forte che temevo ella udisse i battiti. Si chiamava Anna; era una femmina di Montegorgo Pausula, esciva da una grande razza di viragini alpestri. Aveva talvolta l'aspetto d'una Cibele di rame, a cui mancasse la corona di torri. Portava la foggia del suo paese: una gonna di scarlatto a mille pieghe diritte e simmetriche, un busto nero a ricami d'oro, da cui pendevano due maniche lunghe dove ella di rado introduceva le braccia. Il suo capo si levava su dalla camicia bianchissima, oscuro; ma il bianco degli occhi e il bianco dei denti vincevano d'intensità il candore del lino. Gli occhi parevano di smalto, rimanevano quasi sempre immobili, senza sguardo, senza sogno, senza pensiero. La bocca era larga, socchiusa, taciturna, illustrata da una chiostra di denti fitti ed eguali. I capelli, così neri che davano riflessi di viola, partiti su la fronte bassa, terminavano in due trecce dietro gli orecchi attorte come le corna dell'ariete. Ella stava quasi di continuo assisa, reggendo il poppante, in attitudini statuarie, né triste né lieta.

Io entrava. La stanza per lo più era nell'ombra. Io vedevo biancheggiare le fasce di Raimondo su le braccia della cupa femmina possente che mi fissava con quegli occhi d'idolo inanimato senza parlare e senza sorridere.

Rimanevo là, talvolta, a guardare il poppante appeso alla mammella rotonda, singolarmente chiara in confronto del viso, rigata di vene azzurrognole. Poppava ora piano ora forte, ora svogliato ora mosso da un'avidità subitanea. La guancia molle secondava il moto delle labbra, la gola palpitava ad ogni sorso, il naso quasi scompariva premuto dalla mammella gonfia. Mi pareva visibile il benessere sparso per quel tenero corpo dall'onda di quel latte fresco, sano e sostanziale. Mi pareva che ad ogni nuovo sorso la vitalità dell'intruso divenisse più tenace, più resistente, più malefica. Provavo un sordo rammarico nel notare ch'egli cresceva, ch'egli fioriva, ch'egli non portava in sé alcun indizio d'infermità tranne quelle lievi croste biancastre innocue. Pensavo: “Ma tutte le agitazioni, tutte le sofferenze della madre, mentre egli era ancóra nel ventre, non gli hanno nociuto? O egli ha veramente qualche vizio organico non ancóra manifesto, che potrebbe svilupparsi in seguito e ucciderlo?”.

Un giorno, vincendo la ripugnanza, avendolo trovato senza fasce nella culla, lo palpai, lo esaminai dal capo alle piante, misi l'orecchio sul suo petto per ascoltargli il cuore. Egli ritraeva le piccole gambe e poi spingeva forte; agitava le mani piene di fossette e di pieghe; si ficcava in bocca le dita terminate da unghie minuscole che sporgevano in fuori per un cerchiolino chiaro. Gli anelli della carne si arrotondavano morbidi ai polsi, ai malleoli, dietro i ginocchi, su le cosce, su gli inguini, sul pube.

Più volte lo guardai anche mentre dormiva, lo guardai a lungo, pensando e ripensando al mezzo, distratto dalla visione interiore del morticino in fasce disteso su la bara tra corone di crisantemi bianchi, tra quattro candele accese. Egli aveva il sonno calmissimo. Giaceva supino, tenendo le mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A quando a quando le sue labbra umide facevano l'atto di poppare. Se mi giungeva al cuore l'innocenza di quel sonno, se l'atto inconscio di quelle labbra m'impietosiva, io dicevo a me stesso, come per raffermare il mio proposito: “Deve morire”. E mi rappresentavo le sofferenze già patite per lui, le sofferenze recenti, le menti, e quanto d'affetto egli usurpava a danno delle mie creature, e l'agonia di Giuliana, e tutti i dolori e tutte le minacce che chiudeva la nuvola ignota sul nostro capo. E così rinfocolavo la mia volontà micidiale, così rinnovavo sul dormente la condanna. In un angolo, all'ombra, stava seduta a custodia la femina di Montegorgo, taciturna, immobile come un idolo; e il bianco degli occhi e il bianco dei denti non lucevano meno dei larghi cerchi d'oro.

 

 

XL.

 

Una sera (fu il 14 di dicembre), mentre io e Federico tornavamo alla Badiola, scorgemmo d'innanzi a noi sul viale un uomo che riconoscemmo per Giovanni di Scòrdio.

- Giovanni! - gridò mio fratello.

Il vecchio si fermò. Noi ci avvicinammo.

- Buona sera, Giovanni. Che novità?

Il vecchio sorrideva peritoso, impacciato, quasi che noi l'avessimo còlto in fallo.

- Venivo - balbettò - venivo... pel mio figlioccio.

Era timidissimo. Pareva che stesse lì lì per chiedere perdono di quell'ardire.

- Vorresti vederlo? - gli chiese Federico, a bassa voce, come per fargli una proposta in confidenza, avendo certo compreso il sentimento dolce e triste che moveva il cuore di quell'avo abbandonato.

- No, no... Venivo soltanto per domandare...

- Non vuoi vederlo dunque.

- No... sì... troppo disturbo forse... a quest'ora...

- Andiamo - concluse Federico, prendendolo per la mano come un fanciullo. - Vieni a vederlo.

Rientrammo. Salimmo fino alla stanza della nutrice.

Mia madre era là. Sorrise con benignità a Giovanni. Ci accennò di non far rumore.

- Dorme - disse.

Volgendosi a me, soggiunse con inquietudine:

- Oggi, verso sera, ha tossito un poco.

La notizia mi turbò; e il mio turbamento apparve così che mia madre credette di rassicurarmi soggiungendo:

- Ma poco, sai? appena appena; una cosa da nulla.

Federico e il vecchio già s'erano appressati alla culla e guardavano il piccolo dormente, alla luce della lampada. Il vecchio stava tutto chino. E nessuna cosa d'intorno era candida come la sua canizie.

- Bacialo - gli bisbigliò Federico.

Egli si sollevò, guardò me e mia madre con un'aria smarrita; poi si passò una mano su la bocca, sul mento dove la barba era mal rasa.

Disse sottovoce a mio fratello col quale aveva maggior confidenza:

- Se lo bacio, lo pungo. Certo, si sveglia.

Mio fratello, vedendo che il povero vecchio diserto si struggeva dal desiderio di baciare il bambino, lo incorò con un gesto. E allora quel grosso capo canuto si piegò su la culla piano piano, piano piano.

 

 

XLI.

 

Quando rimanemmo soli io e mia madre nella stanza, davanti alla culla dove Raimondo ancóra dormiva col bacio in fronte, ella disse pietosa:

- Povero vecchio! Sai tu che viene quasi tutte le sere? Ma di nascosto. Me l'ha detto Pietro che l'ha veduto gironzare intorno alla casa. Il giorno del battesimo, volle che gli indicassero di fuori la finestra di questa stanza, forse per venire a guardarla... Povero vecchio! Come mi fa pena!

Io ascoltavo il respiro di Raimondo. Non mi parve mutato. Il suo sonno era tranquillo. Dissi:

- Dunque oggi ha tossito...

- Sì, Tullio, un poco. Ma non t'impensierire.

- Ha preso freddo, forse...

- Non mi par possibile che abbia preso freddo; con tante cautele!

Un lampo mi attraversò il cervello. Un gran tremito interno mi assalì all'improvviso. La vicinanza di mia madre mi divenne a un tratto insopportabile. Mi smarrii, mi confusi, ebbi paura di tradirmi. Il pensiero mi balenava dentro con tale lucidità, con tale intensità che io temetti: “Qualche cosa dalla mia faccia deve trasparire”. Era un timore vano, ma non riuscivo a dominarmi. Feci un passo avanti, e mi chinai su la culla.

Di qualche cosa mia madre s'accorse ma in mio favore, perché soggiunse:

- Come sei apprensivo tu! Non senti che respiro calmo? Non vedi come dorme bene?

Ma pur dicendomi questo, ella aveva nella voce l'inquietudine e non sapeva nascondermi la sua apprensione.

- Sì, è vero; non sarà nulla - risposi comprimendomi. - Rimani qui?

- Finché non torna Anna.

- Io vado.

Me n'andai. Andai da Giuliana. Ella m'aspettava. Tutto era pronto per la sua cena a cui solevo prender parte affinché la piccola tavola da malata le sembrasse meno uggiosa e il mio esempio e le mie premure la spingessero a mangiare. Io mi mostrai negli atti, nelle parole, eccessivo, quasi allegro, diseguale. Ero in preda a una particolare sovreccitazione, e n'avevo un'esatta conscienza, e potevo sorvegliarmi ma non moderarmi. Bevvi, contro la mia consuetudine, due o tre bicchieri del vino di Borgogna prescritto a Giuliana. Volli che ella anche bevesse qualche sorso di più.

- Ti senti un poco meglio; è vero?

- Sì, sì.

- Se tu sarai obediente, io ti prometto che per Natale ti farò levare. Ci sono ancóra dieci giorni. In dieci giorni, se tu vorrai, diventerai forte. Bevi ancóra un sorso, Giuliana!

Ella mi guardava un po' attonita, un po' curiosa, facendo qualche sforzo per prestarmi tutta la sua attenzione. Ella era già affaticata, forse; le palpebre incominciavano forse a pesarle. Quella positura elevata, dopo un certo tempo, provocava in lei ancóra talvolta i sintomi dell'anemia cerebrale.

Bagnò le labbra nel bicchiere che le porgevo.

- Dimmi, - io seguitai - dove ti piacerebbe di passare la convalescenza?

Ella sorrise debolmente.

- Su la Riviera? Vuoi che scriva ad Augusto Arici perché ci trovi una villa? Se Villa Ginosa fosse disponibile! Ti ricordi?

Ella sorrise più debolmente ancóra.

- Sei stanca? T'affatica forse la mia voce...

M'avvidi ch'ella stava per cadere in deliquio. La sostenni, le tolsi i guanciali che la rialzavano, l'adagiai mettendole il capo più basso, la soccorsi nei modi consueti. Dopo un poco, parve ch'ella riacquistasse i sensi. Mormorò come in sogno:

- Sì, sì, andiamo...

 

 

XLII.

 

Un'irrequietudine strana mi teneva. Talvolta era come un godimento, come un assalto di gioia confusa. Talvolta era come un'impazienza acutissima, una smania insofferibile. Talvolta era come un bisogno di vedere qualcuno, d'andare in cerca di qualcuno, di parlare, di espandermi. Talvolta era come un bisogno di solitudine, di correre a rinchiudermi in un luogo sicuro per rimanere solo con me stesso, per guardarmi bene a dentro, per sviluppare il mio pensiero, per considerare e studiare tutte le particolarità dell'evento prossimo, per prepararmi. Questi moti diversi e contrarii, ed altri innumerevoli moti indefinibili inesplicabili, si avvicendavano nel mio spirito rapidamente, con una straordinaria accelerazione della mia vita interiore.

Il lampo che aveva attraversato il mio cervello, quel guizzo di luce sinistra, pareva che avesse illuminato a un tratto uno stato di conscienza preesistente sebbene immerso nell'oscurità, pareva che avesse risvegliato uno strato profondo della mia memoria. Sentivo di ricordarmi ma, per quanti sforzi io facessi, non giungevo a rintracciare le origini del ricordo né a scoprirne la natura. Certo, mi ricordavo. Era il ricordo d'un lettura lontana? Avevo trovato descritto in qualche libro un caso analogo? 0 qualcuno, un tempo, m'aveva narrato quel caso come occorso nella vita reale? Oppure quel sentimento del ricordo era illusorio, non era se non l'effetto d'una associazione d'idee misteriosa? Certo, mi pareva che il mezzo mi fosse stato suggerito da qualcuno estraneo. Mi pareva che qualcuno a un tratto fosse venuto a togliermi da ogni perplessità dicendomi: “Bisogna che tu faccia così, come fece quell'altro nel tuo caso”. Ma chi era quell'altro? In qualche modo, certo, io dovevo averlo conosciuto. Ma, per quanti sforzi io facessi, non riuscivo a distaccarlo da me, a rendermelo obiettivo. M'è impossibile definire con esattezza il particolare stato di conscienza in cui mi trovavo. Io avevo la nozione completa d'un fatto in tutti i punti del suo svolgimento, avevo cioè la nozione d'una serie di azioni per cui era passato un uomo nel ridurre ad effetto un dato proposito. Ma quell'uomo, il predecessore, m'era ignoto; e io non potevo associare a quella nozione le imagini relative senza mettere me stesso nel luogo di colui. Io dunque vedevo me stesso compiere quelle speciali azioni già compiute da un altro, imitare la condotta tenuta da un altro in un caso simile al mio. Il sentimento della spontaneità originale mi mancava.

Quando uscii dalla stanza di Giuliana, passai qualche minuto nell'incertezza girando per gli anditi alla ventura. Non incontrai nessuno. Mi diressi verso la stanza della nutrice. Origliai alla porta; udii la voce sommessa di mia madre; mi allontanai.

Ella non s'era mossa forse di là? Il bambino aveva avuto forse qualche accesso di tosse più grave? Io conoscevo bene il catarro bronchiale dei neonati, la malattia terribile dalle apparenze ingannevoli. Mi ricordai del pericolo corso da Maria nel suo terzo mese di vita, mi ricordai di tutti i sintomi. Anche Maria da principio aveva alcune volte sternutato, tossito leggermente: aveva mostrato molta tendenza al sonno. Pensai: “Chi sa! Se aspetto, se non mi lascio trascinare, forse il buon Dio interviene a tempo, io sono salvo”.

Tornai indietro; origliai di nuovo; udii ancóra la voce di mia madre; entrai.

- Dunque, come sta Raimondo? - chiesi, senza nascondere il mio tremito.

- Bene. È quieto; non ha più tossito: ha il respiro regolare, il calore naturale. Guarda. Sta poppando.

Mia madre mi parve infatti rassicurata, tranquilla.

Anna, seduta sul letto, dava il latte al bambino che lo beveva con avidità, mettendo di tratto in tratto un piccolo rumore con le labbra nel suggere. Anna aveva il volto reclinato, gli occhi fissi al pavimento, un'immobilità bronzea. La fiammella oscillante della lampada le gittava luci ed ombre su la gonna rossa.

- Non fa troppo caldo qui dentro? - dissi, provando un po' di soffocazione.

La camera infatti era caldissima. In un angolo, su la cupola d'un braciere si scaldavano alcune pezzuole, una fascia. Si udiva anche un gorgoglio d'acqua in bollore. Si udiva a quando a quando il tintinno dei vetri sotto le ventate che fischiavano o rugghiavano.

- Senti che tramontana si rivolta! - mormorò mia madre. Io non avvertii più gli altri rumori. Ascoltai il vento, con un'attenzione ansiosa. Mi corse qualche brivido per le ossa, quasi che m'avesse penetrato un filo di quel freddo. Andai verso la finestra. Nell'aprire uno scuretto, le dita mi tremavano. Appoggiai la fronte contro il vetro gelido e guardai di fuori, ma l'appannatura prodotta sùbito dall'alito m'impediva di vedere. Levai gli occhi e scorsi a traverso il vetro più alto scintillare il cielo stellato.

- È sereno - dissi, uscendo dal vano della finestra. Avevo dentro di me l'imagine della notte adamantina e micidiale, mentre gli occhi mi correvano a Raimondo che pendeva ancóra dalla poppa.

- Ha mangiato stasera Giuliana? - mi domandò mia madre, con un accento amorevole.

- Sì - le risposi, senza dolcezza; e pensai: “In tutta la sera tu non hai trovato un minuto per venire a vederla! Non è la prima volta che la trascuri. Hai dato il cuore a Raimondo”.

 

 

XLIII.

 

La mattina dopo, il dottor Jemma osservò il bambino e lo dichiarò perfettamente sano. Non diede alcuna importanza al fatto della tosse addotto da mia madre Pur sorridendo delle cure e delle apprensioni eccessive, raccomandò la cautela in quei giorni di freddo crudo, raccomandò la massima prudenza per le lavande e pel bagno.

Ero presente mentre egli parlava di queste cose davanti a Giuliana. Due o tre volte i miei occhi s'incontrarono con quelli di lei, in lampi fuggevoli.

Dunque non veniva aiuto dalla Provvidenza. Bisognava operare, bisognava profittare del momento opportuno, affrettare l'evento. Io mi risolsi. Aspettai la sera deliberato a compiere il delitto.

Raccolsi quanto di energia ancóra mi rimaneva, aguzzai la mia perspicacia, studiai tutte le mie parole, tutti i miei atti. Nulla io dissi, nulla io feci che potesse destare sospetto, muovere stupore. La mia circospezione non si rilasciò mai un istante. Non ebbi un istante di debolezza sentimentale. La mia sensibilità interiore era compressa, soffocata. Il mio spirito concentrava tutte le sue facoltà utili nel preparativo per arrivare allo scioglimento di un problema materiale. Bisognava che nella sera per alcuni minuti io fossi lasciato solo con l'intruso, e in certe date condizioni di sicurtà.

Durante il giorno entrai più volte nella stanza della nutrice. Anna era sempre al suo posto, come una custode impassibile. Se io le rivolgevo qualche domanda, ella mi rispondeva con monosillabi. Aveva una voce roca, d'un timbro singolare. Il suo silenzio, la sua inerzia mi irritavano.

Per lo più ella non s'allontanava se non nell'ora dei suoi pasti. Ma era sostituita per lo più da mia madre o da Miss Edith o da Cristina o da qualche altra donna di servizio. In quest'ultimo caso io avrei potuto facilmente liberarmi della testimone, dandole un ordine. Ma rimaneva sempre il pericolo che qualcuno sopraggiungesse all'improvviso nel frattempo. E inoltre io ero in balia della ventura, non potendo io stesso scegliere la persona subentrante. Era probabile che tanto in quella sera quanto nelle sere successive fosse mia madre. D'altronde, mi pareva impossibile prolungare indefinitamente le mie vigilanze e le mie ansietà, stare in agguato per un tempo incerto, vivere nell'aspettazione continua dell'ora funesta.

Mentre ero là perplesso, entrò Miss Edith con Maria e Natalia. Le due piccole Grazie, animate dalla corsa all'aria aperta, chiuse nei loro mantelli di zibellino, con su' capelli il tòcco della stessa pelliccia, con le mani guantate, con le guance invermigliate dal freddo, appena mi videro si gettarono su di me allegre e leggere. E per alcuni minuti la stanza fu piena del loro cinguettio.

- Sai, sono arrivati i montanari - m'annunziò Maria. - Stasera comincia la novena di Natale, nella cappella. Se tu vedessi il presepe che ha fatto Pietro! Sai che la nonna ci ha promesso l'Albero? È vero, Miss Edith? Bisogna metterlo nella stanza della mamma... La mamma sarà guarita per Natale; è vero? Oh, falla guarire!

Natalia s'era fermata a guardare Raimondo; e di tratto in tratto rideva alle smorfie di lui che agitava le gambe senza posa come se volesse liberarsi dalle fasce. Le venne un capriccio.

- Voglio tenerlo in braccio!

E strepitò per averlo. Raccolse tutta la sua forza per reggere il peso; e il suo volto divenne grave, come quando ella faceva da madre alla sua bambola.

- Ora io! - gridò Maria.

E il fratellastro passò dall'una all'altra, senza piangere. Ma a un certo punto, mentre Maria lo portava in giro sorvegliata da Edith, pericolò, fu per sfuggirle dalle mani. Edith lo sostenne, lo riprese, lo restituì alla nutrice che pareva profondamente assorta, lontanissima dalle persone e dalle cose che la circondavano.

Seguendo un mio pensiero segreto, io dissi:

- Dunque stasera comincia la Novena...

- Sì, sì, stasera.

Io guardavo Anna che parve scuotersi e prestare un'attenzione insolita al discorso.

- Quanti sono i montanari?

- Cinque - rispose Maria che sembrava minutamente informata di tutto. - Due cornamuse, due ceramelle e un piffero.

E si mise a ridere ripetendo molte volte di seguito l'ultima parola per incitare la sorella.

- Vengono dalla tua montagna - dissi volgendomi ad Anna. - Ce n'è forse qualcuno di Montegorgo...

Gli occhi di lei avevano perduta la loro durezza di smalto, s'erano animati, rilucevano umidi e tristi. Tutto il volto appariva alterato dall'espressione d'un sentimento straordinario. E io compresi ch'ella soffriva e che la nostalgia era il suo male.

 

 

XLIV.

 

S'approssimava la sera. Scesi alla cappella, vidi i preparativi della Novena; il presepe, i fiori, le candele vergini. Uscii senza sapere perché; guardai la finestra della stanza di Raimondo. Camminai a passi rapidi su e giù per lo spiazzo, sperando di domare il tremore convulso, il freddo acuto che mi penetrava le ossa, le contratture che mi serravano lo stomaco vacuo.

Era un crepuscolo glaciale, polito, quasi direi tagliente. Un lividore verdastro si dilatava su l'orizzonte lontano, in fondo alla valle plumbea ove s'internava l'Assòro tortuoso. Il fiume luccicava, solo.

Uno sgomento repentino m'invase. Pensai: “Ho paura?”. Mi pareva che qualcuno, invisibile, mi guardasse l'anima. Provavo lo stesso malessere che dànno talvolta gli sguardi troppo fissi, magnetici. Pensai: “Ho paura? Di che? Di compiere l'atto o di essere scoperto da qualcuno?”. Mi sgomentavano le ombre dei grandi alberi, l'immensità del cielo, i luccichii dell'Assòro, tutte quelle voci vaghe della campagna. Sonò l'Angelus. Rientrai, quasi di fuga, come inseguito.

Incontrai mia madre nell'andito non ancóra illuminato.

- Di dove vieni, Tullio?

- Di fuori. Ho passeggiato un poco.

- Giuliana t'aspetta.

- A che ora comincia la Novella?

- Alle sei.

Erano le cinque e un quarto. Mancavano tre quarti d'ora. Bisogna vigilare.

- Vado, mamma.

Dopo qualche passo la richiamai.

- Federico non è tornato?

- No.

Salii alla stanza di Giuliana. Ella m'aspettava. Cristina preparava la piccola tavola.

- Dove sei stato fino a ora? - mi chiese la povera malata, con un lieve tono di rimprovero.

- Sono stato là, con Maria, con Natalia... Sono stato a vedere la cappella.

- Già, stasera comincia la Novena - ella mormorò tristamente, accorata.

- Di qui potrai sentire forse i suoni.

Ella restò pensosa per qualche istante. Mi sembrò molto triste, d'una di quelle tristezze un po' molli che rivelano un cuore gonfio di pianto, un bisogno di lacrime.

- A che pensi? - le chiesi.

- Mi ricordo del mio primo Natale alla Badiola. Te ne ricordi tu?

Ella era tenera e commossa; e richiamava la mia tenerezza, si abbandonava a me per essere blandita, per essere cullata, perché io le premessi il cuore e le bevessi le lacrime. Conoscevo quei suoi languori dolenti, quei suoi affanni indefiniti. Ma pensavo, ansioso: “Bisogna che io non la secondi. Bisogna che io non mi lasci legare. Il tempo fugge. Se ella mi prende, mi sarà difficile distaccarmi da lei. Se ella piange, io non potrò allontanarmi. Bisogna che io mi contenga. Il tempo precipita. Chi rimarrà a guardia di Raimondo? Non mia madre, certo. Probabilmente la nutrice. Tutti gli altri si raccoglieranno nella cappella. Qui metterò Cristina. Io sarò sicuro. Il caso non potrebbe essermi più favorevole. Bisogna che fra venti minuti io sia libero”.

Evitai di eccitare la malata, finsi di non comprenderla, non corrisposi alle sue effusioni, cercai di distrarla con oggetti materiali, feci in modo che Cristina non ci lasciasse soli come nelle altre sere d'intimità, mi occupai della cena con esagerata premura.

- Perché stasera non mangi con me? - ella mi chiese.

- Non posso prender nulla, ora; non sto bene. Mangia tu qualche cosa; ti prego!

Per quanti sforzi io facessi non riuscivo a dissimulare interamente l'ansietà che mi divorava. Più volte ella mi guardò con l'intenzione manifesta di penetrarmi. Poi d'un tratto s'accigliò, diventò taciturna. Toccò appena appena qualche cibo, bagnò appena appena le labbra nel bicchiere. Io raccolsi tutto il mio coraggio allora, per andarmene. Finsi di aver udito il rumore d'una vettura. Mi misi in ascolto, dissi:

- Forse è tornato Federico. Ho bisogno di vederlo sùbito... Permetti che vada giù un momento. Rimane qui Cristina.

La vidi alterata nel volto come chi sia per rompere in un pianto. Non aspettai il suo consenso. Uscii in fretta; ma non trascurai di ripetere a Cristina che rimanesse fino a che io non fossi risalito.

Appena fuori, fui costretto a fermarmi per resistere alla soffocazione dell'ambascia. Pensai: “Se non riesco a dominare i miei nervi, tutto è perduto”. Tesi l'orecchio, ma non udii se non il rombo delle mie arterie. M'avanzai per l'andito fino alle scale. Non incontrai nessuno. La casa era silenziosa. Pensai: “Tutti già sono nella cappella, anche i domestici. Non c'era nulla da temere”. Aspettai due o tre minuti ancóra, per ricompormi. In quei due o tre minuti l'intensione del mio spirito cadde. Ebbi uno smarrimento strano. Mi passarono pel cervello pensieri vaghi, insignificanti, estranei all'atto che stavo per compiere. Contai macchinalmente i balaustri della ringhiera.

“Certo Anna è rimasta. La stanza di Raimondo non è lontana dalla cappella. I suoni annunzieranno il principio della Novena.” Mi diressi verso la porta. Prima di giungervi, udii il preludio delle cornamuse. Entrai senza esitare. Non m'ero ingannato.

Anna stava in piedi, presso la sua sedia, atteggiata in modo così vivo ch'io sùbito indovinai ch'ella era allora allora balzata in piedi udendo le cornamuse della sua montagna, il preludio della pastorale antica.

- Dorme? - domandai.

Ella m'accennò di sì col capo.

I suoni continuavano, velati dalla distanza, dolci come in un sogno, un po' rochi, lunghi, lenti. Le voci chiare delle ceramelle modulavano la melodia ingenua e indimenticabile su l'accompagnamento delle cornamuse.

- Va anche tu alla Novena - io le dissi. - Resto io qui. Da quanto tempo s'è addormentato?

- Ora.

- Va, va dunque alla Novena.

Gli occhi le brillarono.

- Vado?

- Sì. Resto io qui.

Le aprii la porta io stesso; la chiusi dietro di lei. Corsi verso la culla, su la punta dei piedi; guardai da presso. L'Innocente dormiva nelle sue fasce, supino, tenendo le piccole mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A traverso il tessuto delle palpebre apparivano per me le sue iridi grige. Ma non sentii sollevarmi dal profondo nessun impeto cieco di odio né d'ira. La mia avversione contro di lui fu meno acre che nel passato. Mi mancò quell'impulso istintivo che più d'una volta avevo sentito correre fino alle estremità delle mie dita pronte a qualunque violenza criminale. Io non obedii se non all'impulso d'una volontà fredda e lucida, in una perfetta consapevolezza.

Tornai alla porta, la riaprii; m'assicurai che l'andito era deserto. Corsi allora alla finestra. Mi vennero alla memoria alcune parole di mia madre; mi balenò il dubbio che Giovanni di Scòrdio potesse trovarsi là sotto nello spiazzo. Con infinite precauzioni aprii. Una colonna d'aria gelata m'investì. Mi sporsi sul davanzale, ad esplorare. Non vidi nessuna forma sospetta, non udii se non i suoni della Novena diffusi. Mi ritrassi, mi avvicinai alla culla, vinsi con uno sforzo l'estrema ripugnanza; presi adagio adagio il bambino, comprimendo l'ansia; tenendolo discosto dal mio cuore che batteva troppo forte, lo portai alla finestra; l'esposi all'aria che doveva farlo morire.

Non mi smarrii; nessuno dei miei sensi s'oscurò. Vidi le stelle del cielo che oscillavano come se un vento superno le agitasse; vidi i moti illusorii ma terrifici che la luce mobile della lampada metteva nella portiera; udii distintamente la ripresa della pastorale, i latrati d'un cane lontano. Un guizzo del bambino mi fece trasalire. Egli si svegliava.

Pensai: “Ora piange. Quanto tempo è passato? Un minuto, forse; neppure un minuto. Basterà quest'impressione breve perché egli muoia? È stato egli colpito?”. Il bambino agitò le braccia d'innanzi a sé, storse la bocca, l'aprì; tardò un poco a emettere il vagito che mi parve mutato, più esile, più tremulo, ma forse soltanto perché sonava in un'aria diversa mentre io l'avevo udito sempre in luoghi chiusi. Quel vagito esile, tremulo, m'empì di sgomento, mi diede a un tratto una paura folle. Corsi alla culla, posai il bambino. Tornai alla finestra per chiuderla; ma prima di chiuderla, mi sporsi sul davanzale, gittai nell'ombra uno sguardo, non vidi null'altro che le stelle. Chiusi. Benché incalzato dal pànico, evitai il rumore. E dietro di me il bambino piangeva, piangeva più forte. “Sono salvo?” Corsi alla porta, guardai nell'andito, origliai. L'andito era deserto; passava l'onda lenta dei suoni.

“Sono salvo dunque. Chi può avermi veduto?” Pensai ancóra a Giovanni di Scòrdio, guardando la finestra; ebbi ancóra un'inquietudine. “Ma no, giù non c'era nessuno. Ho guardato due volte.” Mi ravvicinai alla culla, raddrizzai il corpo del bambino, lo copersi con cura, m'assicurai che nulla era fuor di posto. Ora però avevo una ripugnanza invincibile ai contatti. Egli piangeva, piangeva. Che potevo fare per quietarlo? Aspettai.

Ma quel vagito continuo in quella grande stanza solitaria, quel lagno inarticolato della vittima ignara mi straziava così atrocemente che non potendo più resistere m'alzai per sottrarmi in qualche modo alla tortura. Uscii nell'andito, socchiusi la porta dietro di me; rimasi là vigilando. La voce del bambino giungeva appena appena, si confondeva nell'onda lenta dei suoni. I suoni continuavano, velati dalla lontananza, dolci come in un sogno, un po' rochi, lunghi, lenti. Le voci chiare delle ceramelle modulavano la melodia semplice su l'accompagnamento delle cornamuse. La pastorale si spandeva per la grande casa pacifica, giungeva forse alle stanze più remote. - L'udiva Giuliana? Che pensava, che sentiva Giuliana? Piangeva?

Non so perché, m'entrò nel cuore questa certezza: “Ella piange”. E dalla certezza nacque una visione intensa che mi diede una sensazione reale e profonda. I pensieri e le imagini che mi attraversavano il cervello erano incoerenti, frammentarii, assurdi, composti di elementi che l'uno all'altro non rispondevano, inafferrabili, d'una natura dubbia. M'assalì la paura della follia. Mi domandai: “Quanto tempo è passato?”. E m'accorsi che avevo completamente smarrita la nozione del tempo.

I suoni cessarono. Pensai: “La divozione è finita. Anna sta per risalire. Verrà forse mia madre. Raimondo non piange più!”. Rientrai nella stanza, gittai uno sguardo intorno per assicurarmi ancóra una volta che non rimaneva alcuna traccia dell'attentato. M'appressai alla culla, non senza un vago timore di trovare il bambino esanime. Egli dormiva, supino, tenendo le piccole mani chiuse a pugno col pollice in dentro. “Dorme! È incredibile. Pare che nulla sia accaduto.” Quel che avevo fatto parve assumere l'inesistenza d'un sogno. Ebbi come un mancamento repentino di pensieri, un intervallo vacuo, aspettando.

Appena riconobbi nell'andito il passo greve della nutrice, le andai incontro. Mia madre non la seguiva. Senza guardarla in faccia, le dissi:

- Dorme ancóra.

E m'allontanai rapidamente: salvo!

 

 

XLV.

 

Da quell'ora s'impadronì del mio spirito una specie d'inerzia quasi stupida, forse perché ero esausto, sfinito, incapace d'altri sforzi. La mia conscienza perse la sua terribile lucidezza, la mia attenzione s'indebolì, la mia curiosità non fu pari all'importanza degli avvenimenti che si svolgevano. I miei ricordi, infatti, sono confusi, scarsi, composti d'imagini non bene distinte.

Quella sera rientrai nell'alcova, rividi Giuliana, mi trattenni al suo capezzale per qualche tempo. Durai una gran fatica a parlare. Le chiesi, guardandola negli occhi:

- Hai pianto?

Ella rispose:

- No.

Ma era più triste di prima. Era pallida come la sua camicia. Le chiesi:

- Che hai?

Ella rispose:

- Nulla. E tu?

- Io non mi sento bene. Mi duole tanto il capo...

Una immensa stanchezza mi prostrava; tutte le membra mi pesavano. Reclinai il capo sul lembo del guanciale; rimasi alcuni minuti in quell'atto oppresso da una pena indefinita. Sussultai udendo la voce di Giuliana che diceva:

- Tu mi nascondi qualche cosa.

- No, no. Perché?

- Perché sento che tu mi nascondi una cosa.

- No, no; t'inganni.

- M'inganno.

Tacque. Appoggiai di nuovo il capo sul lembo. Dopo alcuni minuti ella mi disse all'improvviso:

- Tu lo vedi spesso.

Mi sollevai per guardarla, sbigottito.

- Per volontà tua vai a vederlo, vai a cercarlo - ella soggiunse. - Lo so. Anche oggi...

Ebbene?

- Ho paura di questo, ho paura per te. Io ti conosco. Tu ti tormenti, tu vai là a tormentarti, vai a divorarti il cuore... Io ti conosco. Ho paura. Tu non sei rassegnato, no, no; tu non puoi essere rassegnato. Non m'inganni, Tullio. Anche stasera, dianzi, tu sei stato là...

- Come lo sai?

- Lo so, lo sento.

Il sangue mi s'era ghiacciato.

- Vorresti tu che mia madre sospettasse? Vorresti tu che s'accorgesse d'un'avversione?

Parlavamo sottovoce. Anch'ella aveva l'aria sbigottita. E io pensavo: “Ecco, ora entra mia madre stravolta gridando: - Raimondo muore! -”.

Entrarono Maria e Natalia con Miss Edith. E l'alcova si rallegrò del loro cinguettio. Parlarono della cappella, del presepe, delle candele, delle cornamuse, minutamente.

Lasciai Giuliana per ritirarmi nella mia camera, protestando il dolor di capo. Come fui sul letto, la stanchezza mi vinse quasi sùbito. Dormii profondo, molte ore.

La luce del giorno mi trovò calmo, tenuto da una strana indifferenza, da una incuriosità inesplicabile. Nessuno era venuto a interrompermi il sonno, dunque nulla di straordinario era accaduto. Gli avvenimenti della vigilia mi apparivano irreali e lontanissimi. Sentivo un distacco immenso tra me e il mio essere anteriore, tra quel che ero e quel che ero stato. C'era una discontinuità tra il periodo passato e il presente della mia vita psichica. E io non facevo alcuno sforzo per raccogliermi, per comprendere il fenomeno singolare. Avevo ripugnanza per qualunque attività; cercavo di conservarmi in quella specie d'apatia fittizia sotto la quale giaceva il viluppo oscuro di tutte le agitazioni trascorse; evitavo d'investigarmi, per non risvegliare quelle cose che parevano morte, che parevano non appartenere più alla mia esistenza reale. Somigliavo un poco a quei malati che, avendo perduta la sensibilità d'una metà dei corpo, si figurano d'avere al loro fianco, nel loro letto, un cadavere.

Ma venne Federico a battere alla mia porta. Entrò. Che nuova mi portava? La sua presenza mi scosse.

- Iersera non ci vedemmo - disse. - Tornai tardi. Come stai?

- Né bene né male.

- Iersera ti doleva il capo. È vero?

- Sì: per questo andai a letto presto.

- Sei un po' verde, stamani. Oh, mio Dio, quando finirà la disgrazia? Tu non stai bene, Giuliana è sempre a letto, ho incontrata la mamma or ora tutta sconvolta perché Raimondo stanotte ha tossito!

- Ha tossito?

- Già. Si tratta probabilmente d'un po' di raffreddore; ma la mamma, al solito, esagera...

- È venuto il medico?

- Non ancóra. Ma mi pare che tu sia peggio della mamma.

- Sai, qualunque apprensione, quando si tratta di bambini, è giustificabile. Un nulla basta...

Egli mi guardava con i suoi limpidi occhi glauchi, e io ne avevo sgomento e vergogna.

Quando se n'andò, balzai dal letto. Pensavo: “Dunque gli effetti cominciano; dunque non c'è più dubbio. Ma quanto tempo ancóra vivrà? È anche possibile che non muoia... Ah, no, è impossibile che non muoia. L'aria era gelata, mozzava il respiro”. E rividi dentro di me il bambino respirante, la piccola bocca socchiusa, la fossetta della gola.

 

 

XLVI.

 

Il dottore diceva:

- Non c'è nessun motivo d'inquietudine. Si tratta d'un raffreddore leggerissimo. I bronchi sono liberi.

Egli si chinò di nuovo sul petto denudato di Raimondo ad ascoltare.

- Manca assolutamente qualunque rumore. Potete assicurarvene voi stesso, col vostro orecchio - soggiunse volgendosi a me.

Anch'io appoggiai l'orecchio sul fragile petto, e ne sentii il tepore blando.

- Infatti...

E guardai mia madre che trepidava dall'altra parte della culla.

I soliti sintomi della bronchite mancavano. Il bambino era tranquillo, aveva qualche lieve accesso di tosse a lunghi intervalli, prendeva il latte con la frequenza consueta, dormiva d'un sonno grave ed eguale. Io stesso, ingannato dalle apparenze, dubitavo: “Dunque il mio tentativo è stato inutile. Pare ch'egli non debba morire. Che vita tenace!”. E mi tornò il rancore primitivo contro di lui, più acre. Il suo aspetto calmo e roseo mi esasperò. Avevo dunque sofferto tutte quelle angosce, m'ero esposto a quel pericolo per nulla! Si mesceva alla mia collera sorda una specie di stupore superstizioso per la straordinaria tenacità di quella vita: “Credo che non avrò il coraggio di ricominciare. E allora? Sarò io la sua vittima; e non potrò sfuggirgli”. E il piccolo fantasma perverso, il fanciullo bilioso e felino, pieno d'intelligenza e d'istinti malvagi, mi riapparve; di nuovo mi fissò con i suoi duri occhi grigi, in atto di sfida. E le scene terribili nell'ombra delle stanze deserte, le scene che aveva un tempo create la mia imaginazione ostile, mi si ripresentarono; di nuovo assunsero il rilievo, il movimento, tutti i caratteri della realtà.

Era una giornata bianca, con un presentimento di neve. L'alcova di Giuliana mi parve ancóra un rifugio. L'intruso non doveva uscire dalla sua stanza, non poteva venire a perseguitarmi fin là dentro. E io m'abbandonai tutto alla mia tristezza senza nasconderla.

Pensavo, guardando la povera malata: “Ella non guarirà, non si leverà”. Le strane parole della sera innanzi mi tornavano alla memoria, mi turbavano. Senza dubbio, l'intruso era per lei un carnefice com'era per me. Senza dubbio, ella non poteva pensare ad altro che a lui, morendone a poco a poco. Tutto quel peso su quel cuore così debole!

Con la discontinuità delle imagini che si svolgono nel sogno, si risollevavano nel mio spirito alcuni frammenti della vita passata: ricordi d'un'altra malattia, d'una lontana convalescenza. Mi indugiai a ricomporre quei frammenti, a ricostrurre quel periodo così dolce e così doloroso in cui avevo gittato il seme della mia sventura. La diffusa bianchezza della luce mi rammentava quel pomeriggio lento che io e Giuliana avevamo passato leggendo un libro di poesia, chinandoci insieme su la stessa pagina, seguendo con gli occhi la stessa riga. E io rivedevo il suo indice affilato sul margine e il segno dell'unghia.

 

Accueillez la voix qui persiste

Dans son naïf épithalame.

Allez, rien n'est meilleur à l'âme

Que de faire une âme moins triste!

 

Io le presi il polso; e chinando il capo lentamente, fino a porre le labbra nel cavo della sua mano, mormorai:

- Tu... potresti dimenticare?

Ella mi chiuse la bocca, e pronunziò la sua gran parola:

- Silenzio.

Rivivevo quel lembo di vita, in sensazione reale e profonda: e continuavo, continuavo a rivivere, giungevo alla mattina della prima levata, alla mattina terribile. Riudivo la voce ridente e interrotta; rivedevo il gesto dell'offerta, e lei stesa nella poltrona dopo il colpo improvviso, e il séguito. Perché la mia anima non poteva più distaccare da sé quelle imagini? Era vano, era vano il rimpianto. “Troppo tardi

- A che pensi? - mi chiese Giuliana che forse fino allora, durante il mio silenzio, non d'altro aveva sofferto che della mia tristezza.

Io non le nascosi il mio pensiero. Ella disse, con una voce che le usciva dall'intimo petto fioca ma più penetrante d'un grido:

- Ah, io avevo i cieli per te nella mia anima!

Soggiunse, dopo una pausa lunga in cui ella forse aveva assorbito nel cuore le lacrime che non apparivano:

- Ora, io non posso consolarti! Non c'è consolazione per te né per me; non ci potrà esser mai... Tutto è perduto.

Io dissi:

- Chi sa!

E ci guardammo; ed era manifesto che ambedue pensavamo in quel punto alla medesima cosa: alla possibile morte di Raimondo.

Esitai un istante; e poi volli domandarle, alludendo al dialogo avvenuto una sera sotto gli olmi:

- Hai pregato Iddio?

La voce mi tremava forte.

Ella rispose (l'udii appena):

- Sì.

E chiuse gli occhi, e si voltò sul fianco, affondò la testa nel guanciale, si ritrasse, si ristrinse in sé stessa sotto le coperte, come presa da un gran freddo.

 

 

XLVII.

 

Verso sera andai a rivedere Raimondo. Lo trovai su le braccia di mia madre. Mi parve un poco più pallido; ma era ancóra molto tranquillo, respirava bene, non aveva alcun segno sospetto.

- Ha dormito fino a ora! - mi disse mia madre.

- T'inquieti di questo?

- Sì, perché non ha mai dormito tanto.

Io guardavo il bambino fissamente. I suoi occhi grigi erano senza vivezza, sotto la fronte sparsa di leggere croste biancastre. Egli moveva di continuo le labbra, come biasciando. A un tratto, riversò un po' di latte grumoso sul bavaglio.

- Ah, no, no, questo bambino non sta bene - esclamò mia madre, scotendo il capo.

- Ma ha tossito?

Come per rispondermi, Raimondo si mise a tossire.

- Senti?

Era una piccola tosse fioca, non accompagnata da nessun rumore degli organi interni. Durò pochissimo.

Io pensai: “Bisogna aspettare”. Ma, come risorgeva in me il presagio funesto, la mia avversione contro l'intruso diminuiva, si placava la mia acredine. M'accorgevo che il mio cuore rimaneva stretto e misero, incapace di esultanze.

Mi ricordo di quella sera come della più triste ch'io abbia mai passata nel corso della mia sventura.

Nel dubbio che Giovanni di Scòrdio fosse pei dintorni, uscii dalla casa, m'inoltrai pel viale dove l'avevamo incontrato io e mio fratello quell'altra volta. Nel chiarore del crepuscolo era l'annunzio della prima neve. Lungo la fila degli alberi si stendeva un tappeto di foglie. I nudi rami stecchiti frastagliavano il cielo.

Guardavo innanzi a me, sperando di scorgere la figura del vecchio. Pensavo alla tenerezza del vecchio pel suo figlioccio, a quel desolato amore senile, a quelle grosse mani callose e rugose che avevo visto ingentilirsi e tremare su le fasce bianche. Pensavo: “Come piangerebbe!”. Vedevo il morticino in fasce disteso su la bara tra corone di crisantemi bianchi, tra quattro candele accese; e Giovanni inginocchiato piangere. “Mia madre piangerà, sarà disperata. Tutta la casa cadrà nel lutto. Il Natale sarà funebre. Che farà Giuliana quando io comparirò sul limitare dell'alcova, a piè del letto, e le annunzierò: - È morto -?”

Ero giunto al limite del viale. Guardai; non vidi nessuno. La campagna s'immergeva nell'ombra, silenziosa; un fuoco rosseggiava su la collina, in lontananza. Tornai indietro, solo. A un tratto, qualche cosa di bianco mi tremolò davanti agli occhi, si dileguò. Era la prima neve.

E più tardi, mentre stavo al capezzale di Giuliana, riudii le cornamuse che proseguivano la Novena, alla medesima ora.

 

 

XLVIII.

 

La sera passò, la notte passò, la mattina seguente passò. Nulla di straordinario accadde. Ma, nella sua visita al bambino, il medico non nascose che esisteva un catarro delle narici e dei bronchi maggiori: un'affezione leggera, senza importanza. M'accorsi però ch'egli voleva dissimulare una certa inquietudine. Diede alcune istruzioni, raccomandò la massima cautela, promise di tornare nella giornata. Mia madre non aveva requie.

Entrando nell'alcova, io dissi a Giuliana, sottovoce, senza guardarla in viso:

- Sta peggio.

Non parlammo più, per lungo tempo. A quando a quando io m'alzavo e andavo alla finestra per guardare la neve. Giravo per la camera, in preda a un'ansietà insostenibile. Giuliana teneva il capo affondato nel guanciale, stava quasi tutta nascosta sotto le coperte. Se m'avvicinavo, ella apriva gli occhi e mi dava uno sguardo rapido dove io non potevo leggere.

- Hai freddo?

- Sì.

Ma la stanza era tiepida. Tornavo sempre alla finestra per guardare la neve, la campagna imbiancata su cui continuavano a cadere i fiocchi lenti. Erano le due dopo mezzogiorno. Che avveniva nella stanza del bambino? Nulla di straordinario, certo, perché nessuno veniva a chiamarmi. Ma l'ansietà mi cresceva così che risolsi di andare a vedere. Aprii l'uscio.

- Dove vai? - mi gridò Giuliana sollevandosi sul gomito.

- Vado di là, un momento. Vengo sùbito.

Ella rimaneva sollevata sul gomito, pallidissima.

- Non vuoi? - le chiesi.

- No: resta con me.

Ella non si lasciava ricadere sul guanciale. Uno strano sbigottimento le alterava il volto; i suoi occhi vagavano inquieti, come dietro a qualche ombra mobile. M'avvicinai, io stesso la riadagiai supina, le toccai la fronte, le domandai con dolcezza:

- Che hai, Giuliana?

- Non so. Ho paura...

- Di che?

- Non so. Non ne ho colpa; sono malata; sono così.

Ma i suoi occhi vagavano invece di fissarmi.

- Che cerchi? Vedi qualche cosa?

- No, nulla.

Le toccai di nuovo la fronte. Aveva il calor naturale. Ma la mia imaginazione incominciava a turbarsi.

- Vedi, non ti lascio; resto con te.

Sedetti, aspettai. Lo stato del mio animo era una sospensione angosciosa nell'attesa di un evento prossimo. Io ero sicuro che qualcuno sarebbe venuto a chiamarmi. Tendevo l'orecchio a qualunque lieve strepito. Udivo di tanto in tanto sonare nella casa i campanelli. Udii il rumore sordo d'una vettura su la neve. Dissi:

- Forse è il medico.

Giuliana non fiatò. Aspettai. Passò un tempo indefinito. A un tratto, udii un rumore di porte che s'aprivano, un suono di passi che s'avvicinavano. Balzai in piedi. Giuliana si sollevò, nel tempo medesimo.

- Che sarà?

Ma io già sapevo quel che era, io sapevo perfino le parole precise che mi avrebbe dette la persona entrando.

Cristina entrò. Appariva stravolta ma cercava di dissimulare la sua agitazione. Balbettò, senza avanzarsi verso di noi, rivolgendosi a me con lo sguardo:

- Senta una parola, signore.

Uscii dall'alcova.

- Che c'è?

Sottovoce, ella aggiunse:

- Il bambino sta male. Corra.

- Giuliana, vado di là un momento. Ti lascio Cristina. Torno sùbito.

Uscii. Arrivai di corsa nella stanza di Raimondo.

- Ah, Tullio, il bambino muore! - gridò mia madre disperata, curva su la culla. - Guardalo! Guardalo!

Mi curvai anch'io su la culla. Era avvenuto un cambiamento repentino, inaspettato, inesplicabile in apparenza, spaventevole. La piccola faccia era diventata d'un colore cinereo, le labbra s'erano illividite, gli occhi s'erano come appassiti, appannati, spenti. La povera creatura pareva sotto l'azione d'un veleno violento.

Mi raccontava mia madre, con la voce interrotta:

- Un'ora fa, stava quasi bene. Tossiva sì, ma non aveva altro. Mi Sono allontanata, ho lasciata qui Anna. Credevo di ritrovarlo addormentato. Pareva che gli fosse venuto il sonno... Torno e lo vedo in questo stato. Sentilo: è quasi freddo!

Io gli toccai la fronte, una guancia. La temperatura della pelle era infatti diminuita.

- E il medico?

- Non è ancóra venuto! Ho mandato a chiamarlo.

- Un uomo a cavallo ci voleva.

- Sì, è andato Ciriaco.

- A cavallo? Sei sicura? Non c'è tempo da perdere.

Non era una simulazione la mia. Ero sincero. Non potevo lasciar morire così quell'innocente, senza soccorrerlo, senza fare un tentativo per salvarlo. D'innanzi a quell'aspetto quasi cadaverico, mentre il mio delitto stava per compiersi, la pietà, il rimorso, il dolore mi afferrarono l'anima. Non ero meno smanioso di mia madre, aspettando il medico. Sonai il campanello. Si presentò un domestico.

- È partito Ciriaco?

- Sì, signore.

- A piedi?

- No signore; in calesse.

Federico sopraggiunse, ansante.

- Che è accaduto?

Gridò mia madre, sempre curva su la culla:

- Il bambino muore!

Federico accorse, guardò.

- Soffoca - egli disse. - Non vedete? Non respira più.

E afferrò il bambino, lo tolse dalla culla, lo sollevò, lo scosse.

- No, no! Che fai? Tu l'uccidi - gridò mia madre.

In quel punto la porta s'aprì e una voce annunziò:

- Il medico!

Entrò il dottor Jemma.

- Stavo per arrivare. Ho incontrato il calesse. Che c'è?

Senza aspettare la risposta, s'avvicinò a mio fratello che teneva ancóra su le braccia Raimondo; glie lo levò, l'esaminò, si oscurò in viso. Disse:

- Calma! Calma! Bisogna sfasciarlo.

E lo posò sul letto della nutrice, aiutò mia madre a toglierlo dalle fasce.

Il corpicciuolo nudo apparve. Aveva lo stesso colore cinereo del volto. Le estremità pendevano rilasciate, flosce. La mano grassa del medico palpò la pelle qua e là.

- Fategli qualche cosa, dottore! - supplicava mia madre - Salvatelo!

Ma il medico pareva irresoluto. Tastò il polso, appoggiò l'orecchio sul petto, mormorò:

- Un vizio del cuore... Impossibile.

Domandò:

- Ma com'è sopravvenuto questo cambiamento? All'improvviso?

Mia madre volle raccontargli come, ma prima di finire scoppiò a piangere. Il medico si risolse a far qualche tentativo. Cercò di scuotere il torpore in cui era immerso il bambino, cercò di eccitarlo a gridare, di produrre il vomito, di richiamare un moto respiratorio energico. Mia madre stava a guardarlo, con gli occhi sbarrati da cui sgorgavano le lacrime.

- Giuliana lo sa? - mi chiese mio fratello.

- No, forse no... forse ha indovinato... forse Cristina... Resta qui tu. Corro a vedere; poi torno.

Guardai il bambino tra le mani del medico, guardai mia madre; uscii dalla stanza; corsi a Giuliana. D'innanzi alla porta mi fermai: “Che le dirò? Le dirò il vero?”. Entrai, vidi che Cristina era nel vano della finestra; mi presentai nell'alcova, che le cortine ora chiudevano. Ella stava rattratta sotto le coperte. Essendomi avvicinato, m'accorsi ch'ella tremava come nel ribrezzo della febbre.

- Giuliana, vedi: sono qui.

Ella si scoperse, e volse la faccia verso di me. Mi domandò sottovoce:

- Vieni di là?

- Sì.

- Dimmi tutto.

Io m'ero chinato su lei; e ci parlavamo da vicino, sommessamente.

- Sta male.

- Molto?

- Sì, molto.

- Muore?

- Chi sa! Forse.

Ella con un moto subitaneo mise fuori le braccia e mi si avviticchiò al collo. La mia guancia premeva la sua; e io la sentivo tremare, sentivo la gracilità di quel povero petto malato; e dentro mi balenavano, mentre stavo così stretto da lei, visioni della stanza lontana; vedevo gli occhi del bambino appassiti appannati opachi, le labbra livide; vedevo scorrere le lacrime di mia madre. Nessuna gioia era in quell'allacciamento. Il mio cuore era serrato; la mia anima era disperata ed era sola, così china su l'abisso oscuro di quell'altra anima.

 

 

XLIX.

 

Quando la sera cadde, Raimondo non viveva più. Tutti i segni d'una intossicazione acuta di acido carbonico erano in quel corpicciuolo incadaverito. La piccola faccia era livida, quasi plumbea; il naso era affilato; le labbra avevano una cupa tinta cerulea; un po' di bianco opaco s'intravedeva di sotto alle palpebre ancóra semichiuse; su una coscia, presso l'inguine, appariva una chiazza rossastra. Pareva che fosse già incominciato il disfacimento, tanto era miserabile l'aspetto di quella carne infantile che poche ore innanzi tutta rosea e tenera le dita di mia madre avevano accarezzata.

Mi rombavano negli orecchi i gridi, i singhiozzi, le parole insensate che mia madre proferiva mentre Federico e le donne la trasportavano fuori.

- Nessuno lo tocchi, nessuno lo tocchi! Io voglio lavarlo, io voglio fasciarlo... io...

Nulla più. I gridi erano cessati. Giungeva a quando a quando uno sbattere di uscì. Ero là, solo. Anche il medico era nella stanza; ma io ero solo. Qualche cosa di straordinario avveniva in me; ma io non ci vedevo ancóra.

- Andate, - mi disse il medico, dolcemente, toccandomi una spalla - andate via di qui. Andate.

Io fui docile; obedii. M'allontanavo per l'andito con lentezza, quando mi sentii di nuovo toccare. Ed era Federico; e mi abbracciò. Ma io non piansi, non provai una commozione forte, non compresi le parole ch'egli proferiva. Udii però nominare Giuliana.

- Conducimi da Giuliana - gli dissi.

Misi il braccio sotto il suo, mi lasciai condurre come un cieco.

Quando fummo d'innanzi alla porta gli dissi:

- Lasciami.

Egli mi strinse forte il braccio; poi mi lasciò. Entrai solo.

 

 

L.

 

Nella notte il silenzio della casa era sepolcrale. Un lume ardeva nell'andito. Io camminavo verso quel lume, come un sonnambulo. Qualche cosa di straordinario avveniva in me; ma io non ci vedevo ancóra.

Mi fermai, quasi avvertito da un istinto. Un uscio era aperto: un chiarore trapelava per la tenda abbassata. Varcai la soglia; scostai la tenda; mi avanzai.

La culla era nel mezzo della camera, fra quattro candele accese, parata di bianco. Mio fratello seduto da un lato, Giovanni di Scòrdio dall'altro vegliavano. La presenza del vecchio non mi recò stupore. Mi parve naturale ch'egli fosse là; non gli chiesi niente; non dissi niente. Credo che un poco sorrisi a loro che mi guardavano. Non so veramente se le mie labbra sorrisero, ma io n'ebbi intenzione come per significare: “Non vi prendete pena di me, non cercate di consolarmi. Vedete: io sono calmo. Possiamo tacere”. Feci qualche passo; andai a mettermi a piè della culla, tra le due candele; portai a piè della culla la mia anima pavida umile debole, interamente orbata della sua vista primitiva. Mio fratello e il vecchio erano ancóra là, ma io ero solo.

Il morticino era vestito di bianco: della stessa veste battesimale, o mi parve. Il viso e le mani soltanto erano scoperti. La piccola bocca, che col vagito aveva tante volte esasperato il mio odio, sotto il suggello misterioso era immobile. Il silenzio medesimo che era in quella piccola bocca era dentro di me, era intorno a me. E io guardavo, guardavo.

Allora, dal silenzio, una gran luce si fece dentro di me, nel centro della mia anima. Io compresi. La parola di mio fratello, il sorriso del vecchio non avevano potuto rivelarmi quel che mi rivelò in un attimo la piccola bocca muta dell'Innocente. Io compresi. E allora m'assalì un terribile bisogno di confessare il mio delitto, di palesare il mio segreto, d'affermare al conspetto di quei due uomini: - Io l'ho ucciso.

Ambedue mi guardavano; e io m'accorsi che ambedue erano ansiosi per me, per la mia attitudine d'innanzi al cadavere, che ambedue aspettavano la fine di quella mia immobilità ansiosi. Dissi allora:

- Sapete voi chi ha ucciso quest'innocente?

La voce nel silenzio ebbe un suono così strano che parve irriconoscibile anche a me medesimo; mi parve che non fosse mia. E un terrore subitaneo m'agghiacciò il sangue, m'irrigidì la lingua, m'oscurò la vista. E mi misi a tremare. E sentii che mio fratello mi sorreggeva, mi toccava la fronte. Avevo negli orecchi un rombo così forte che le sue parole mi giungevano indistinte, interrotte. Compresi ch'egli mi credeva perturbato da un parosismo febrile e che cercava di condurmi via. Mi lasciai condurre.

Mi condusse alla mia stanza sorreggendomi. Il terrore mi teneva ancóra. Vedendo una candela che ardeva sola su un tavolo, trasalii. Non mi ricordavo d'averla lasciata accesa.

- Spògliati, meriti a letto - mi disse Federico, traendomi con tenerezza per le mani.

Mi fece sedere sul letto, mi toccò di nuovo la fronte.

- Senti? La febbre ti cresce. Cominciati a spogliare. Su, via!

Con una tenerezza che mi ricordava quella di mia madre, egli mi aiutava a svestirmi. Mi aiutò a coricarmi. Seduto al mio capezzale, mi toccava a quando a quando la fronte per sentire la mia febbre; mi domandava, sentendomi ancóra tremare:

- Hai molto freddo? Non ti cessano i brividi? Vuoi che ti copra meglio? Hai sete?

Io consideravo, rabbrividendo: “Se avessi parlato! Se avessi potuto continuare! Sono stato proprio io, con le mie labbra, che ho pronunziato quelle parole? Sono stato proprio io? E se Federico, ripensando, riflettendo, fosse preso da un dubbio? Ho domandato: - Sapete voi chi ha ucciso quest'innocente? - e null'altro. Ma non avevo io l'aspetto d'un assassino confesso? Ripensando, Federico dovrà certo chiedersi: - Che voleva egli intendere? Contro chi andava la sua strana accusa? - E la mia esaltazione gli sembrerà oscura. Il medico!... Bisognerebbe ch'egli pensasse: - Ha voluto alludere al medico, forse. - E bisognerebbe ch'egli avesse qualche altra prova della mia esaltazione, ch'egli seguitasse a credermi perturbato dalla febbre, in uno stato di delirio intermittente”. Mentre così ragionavo, imagini rapide e lucide mi attraversavano lo spirito e avevano un'evidenza di cose reali, tangibili: “Ho la febbre, e alta. Se sopravvenisse il vero delirio e inconscio io rivelassi il segreto!”. Mi sorvegliavo con un'ansietà paurosa. Dissi:

- Il medico, il medico... non ha saputo...

Mio fratello si chinò su di me, mi toccò di nuovo, inquietamente, sospirando.

- Non ti tormentare, Tullio. Càlmati.

E andò a bagnare una pezzuola nell'acqua fredda, me la mise su la fronte che ardeva.

Il passaggio delle imagini rapide e lucide continuava. Rivedevo, con una terribile intensità di visione, l'agonia del bambino.

“Era là agonizzante, nella culla. Aveva il viso cinereo, d'un colore così smorto che su i sopraccigli le croste del lattime parevano gialle. Il suo labbro inferiore depresso non si vedeva più. Di tratto in tratto egli sollevava le palpebre divenute un po' violette e sembrava che le iridi vi aderissero perché le seguivano nel sollevarsi e vi si perdevano sotto mentre appariva il bianco opaco. Il rantolo fioco di tratto in tratto cessava. A un certo punto, il medico diceva, come per un ultimo tentativo:

- Su, su, trasportiamo la culla vicino alla finestra, alla luce. Largo, largo! Il bambino ha bisogno di aria. Largo!

Io e mio fratello trasportavamo la culla che pareva una bara. Ma alla luce lo spettacolo era più atroce: a quella fredda luce candida della neve diffusa. E mia madre:

- Ecco muore! Vedete, vedete: muore! Sentite: non ha più polso.

E il medico:

- No, no. Respira. Finché c'è fiato, c'è speranza. Coraggio!

E introduceva tra le labbra livide del morente un cucchiaino d'etere. Dopo qualche attimo, il morente riapriva gli occhi, torceva in alto le pupille, metteva un vagito fioco. Avveniva una leggera mutazione nel suo colore. Le sue narici palpitavano. E il medico:

- Non vedete? Respira. Fino all'ultimo non bisogna disperare.

Ed agitava l'aria su la culla con un ventaglio: poi premeva con un dito il mento del bambino per abbassargli il labbro, per aprirgli la bocca. La lingua, che era aderente al palato, si abbassava come una valvoletta; e io intravedevo i fili del muco che si distendevano tra il palato e la lingua, la materia biancastra accumulata nel fondo. Un moto convulso rialzava verso il viso quelle piccole piccole mani divenute violette specialmente nella palma, nelle piegature delle falangi, nelle unghie; quelle mani già incadaverite che mia madre toccava ad ogni momento. Nella destra il mignolo stava sempre discosto dalle altre dita e aveva un lieve tremito all'aria; e nulla era più straziante.

Federico cercava di persuadere mia madre a uscire dalla stanza. Ma ella si chinava sul viso di Raimondo, fin quasi a toccarlo; spiava ogni segno. Una delle sue lacrime cadeva sul capo adorato. Ella sùbito l'asciugava col fazzoletto, ma s'accorgeva che nel cranio la fontanella s'era abbassata, era divenuta cava.

- Guardate, dottore! - gridava esterrefatta.

E i miei occhi si fissavano su quel cranio molle, sparso di crosta lattea, giallognolo, simile a un pezzo di cera segnata nel mezzo da un incavo. Tutte le suture erano visibili. La vena temporale, cerulea, si perdeva sotto la crosta.

- Guardate! Guardate!

La lieve reviviscenza fittizia provocata dall'etere si spegneva. Il rantolo aveva ora un suono particolare. Le manine cadevano lungo i fianchi, inerti; il mento si faceva più depresso; la fontanella si faceva più profonda, senza alcun palpito. E a un tratto il morente dava segno d'uno sforzo; il dottore sùbito gli sollevava il capo. E usciva dalla boccuccia paonazza un po' di liquido biancastro. Ma nello sforzo del vomito la pelle della fronte tendendosi, apparivano a traverso la cute le macchie scure della stasi. Mia madre gittava un grido.

- Andiamo, andiamo. Vieni via con me - le ripeteva mio fratello tentando di trascinarla.

- No, no, no.

E il medico dava un alito cucchiaino di etere. E l'agonia si prolungava, e lo strazio si prolungava. Le manine si risollevavano ancóra, le dita si movevano vagamente; tra le palpebre socchiuse le iridi apparivano e sparivano ritraendosi come due fiorellini appassiti, come due piccole corolle che si richiudessero flosce raggrinzandosi.

Cadeva la sera, innanzi all'agonia dell'Innocente. Su i vetri della finestra era come un chiarore d'alba; ed era l'alba che saliva dalla neve incorato alle ombre.

- È morto? È morto? - gridava mia madre, non udendo più il rantolo, vedendo apparire intorno al naso un lividore.

- No, no; respira.

Avevano accesa una candela; e la reggeva una delle donne; e la fiammella gialla oscillava a piè della culla. Mia madre subitamente scopriva il corpicciuolo per palparlo.

- È freddo, tutto freddo!

Le gambe s'erano affloscite, i piedini erano diventati paonazzi. Nulla era più miserevole di quello straccetto di carne morta, davanti a quella finestra su cui cadeva l'ombra, al lume di quella candela.

Ma ancóra un suono indescrivibile, che non era un vagito né un grido né un rantolo, esciva dalla boccuccia quasi cerulea, insieme con un po' di bava bianchiccia. E mia madre, come una pazza, si gittava sul morticino.”

Così rivedevo tutto, a occhi chiusi; aprivo gli occhi, e rivedevo tutto ancóra, con una intensità incredibile.

- Quella candela! Leva quella candela! - gridai a Federico, sollevandomi sul letto, atterrito dalla mobilità della fiammella pallida. - Leva quella candela!

Federico andò a prenderla, andò a metterla dietro un paravento. Poi tornò al mio capezzale; mi fece ricoricare; mi mutò la pezzuola fredda su la fronte.

E a quando a quando, nel silenzio, udivo il suo sospiro.

 

 

LI.

 

Il giorno dopo, sebbene io fossi in uno stato di estrema debolezza e di stupore, volti assistere alla benedizione del parroco, al trasporto, a tutto il rito.

Il cadaverino era già chiuso in una cassetta bianca, ricoperta da un cristallo. Aveva su la fronte una corona di crisantemi bianchi, aveva un crisantemo bianco tra le mani congiunte, ma nulla eguagliava la bianchezza cerea di quelle mani esigue ove soltanto le unghie erano rimaste violette.

Eravamo presenti io e Federico e Giovanni di Scòrdio e alcuni familiari. I quattro ceri ardevano lacrimando. Entrò il prete con la stola bianca, seguìto dai chierici che portavano l'aspersorio e la croce senz'asta. Tutti c'inginocchiammo. Il prete asperse d'acqua benedetta il feretro dicendo:

- Sit nomen Domini...

Poi recitò il salmo:

- Laudate pueri Dominum...

Federico e Giovanni di Scòrdio si sollevarono, presero la bara. Pietro apriva d'innanzi a loro le porte. Io li seguivo. Dietro di me venivano il prete, i chierici, quattro familiari con i ceri accesi. Passando per gli anditi silenziosi, giungemmo alla cappella, mentre il prete recitava il salmo:

- Beati immaculati...

Come la bara fu dentro la cappella, il prete disse:

- Hic accipiet benedictionem a Domino...

Federico e il vecchio deposero la bara sul piccolo catafalco, in mezzo alla cappella. Tutti c'inginocchiammo. Il prete recitò altri salmi. Quindi fece l'invocazione perché l'anima dell'Innocente fosse chiamata al cielo. Quindi asperse di nuovo la bara con acqua benedetta. Uscì, seguito dai chierici.

Allora ci sollevammo. Tutto era già pronto per la sepoltura. Giovanni di Scòrdio prese la cassa leggera su le sue braccia; e i suoi occhi si fissarono sul cristallo. Federico scese pel primo nel sotterraneo, dietro di lui scese il vecchio portando la cassa; poi scesi io con un familiare. Nessuno parlava.

La camera sepolcrale era ampia, tutta di pietra grigia. Nelle pareti erano scavate le nicchie, talune già chiuse da lapidi, altre aperte, profonde, occupate dall'ombra, aspettanti. Da un arco pendevano tre lampade, nutrite d'olio d'oliva; e ardevano quiete nell'aria umida e grave, con fiammelle tenui ed inestinguibili.

Mio fratello disse:

- Qui,

E indicò una nicchia che si apriva sotto un'altra già chiusa da una lapide. Su quella lapide era inciso il nome di Costanza; e vagamente le lettere rilucevano.

Allora Giovanni di Scòrdio tese le braccia su cui posava la cassa, perché noi guardassimo ancóra una volta il morticino. E noi guardammo. A traverso il cristallo quel piccolo viso livido, quelle piccole mani congiunte, e quella veste e quei crisantemi e tutte quelle cose bianche parevano indefinitamente lontani, intangibili, quasi che il coperchio diafano di quella cassa su le braccia di quel gran vecchio lasciasse intravedere come per uno spiracolo un lembo d'un mistero soprannaturale tremendo e dolce.

Nessuno parlava. Quasi pareva che nessuno respirasse più. Il vecchio si volse alla nicchia mortuaria, si curvò, depose la cassa, la spinse adagio verso il fondo. Poi s'inginocchiò e rimase per alcuni minuti immobile.

Vagamente biancheggiava al fondo la cassa deposta. Sotto le lampade la canizie del vecchio era luminosa, così china sul limitare dell'Ombra.

 

Convento di Santa Maria Maggiore:

Francavilla al mare: aprile-luglio 1891.