QUINTO ORAZIO FLACCO

EPISTOLE

TRADUZIONE DI MARIO RAMOUS


LIBRO PRIMO


1, a Mecenate


Avviata e dovendo terminare
col tuo nome l'opera mia,
mi chiedi, Mecenate,
di rimettermi come un tempo in gara,
dopo che troppo ho dato
spettacolo di me
e ricevuto ormai
la bacchetta del congedo.
Ma non è piú quell'età, quello spirito.
Appese le armi nel tempio di Ercole,
Veianio si è rifugiato in campagna
per non dovere al popolo
implorare la grazia
dai bordi dell'arena.
Spesso sento una voce risuonare
nelle mie orecchie all'erta:
'Stacca per tempo
il cavallo che invecchia,
se hai buon senso,
prima che sfiancato stramazzi
e desti il riso sul traguardo'.
Cosí con gli altri futili piaceri
lascio la poesia.
Ora m'interrogo
solo su cosa sia la verità,
la convenienza, e medito su questo;
raccolgo e ordino
tutto ciò che mi potrà poi servire.
E non mi domandare a che maestro,
a quale scuola chieda sicurezza:
non mi sono venduto a nessun credo
e cosí dove il corso mi trascina
arrivo come un ospite.
A volte mi prende la furia
e m'immergo nelle lotte civili,
custode della verità ideale,
suo inflessibile seguace;
poi, senza rendermene conto,
scivolo nelle norme di Aristippo
e tento di dominare le cose,
non di esserne dominato.
Come lunga sembra la notte
se l'amata t'inganna,
lungo il giorno per chi lavora al soldo
e lento l'anno
per i ragazzi oppressi
dal rigido controllo della madre;
cosí penose e pigre
per me trascorrono le ore
che rimandano la speranza
e il proposito d'iniziare a volo
quell'opera che giova a ricchi e poveri
e nuoce negletta a giovani e vecchi.
Fissare dei principi
e in questi cercare conforto:
non resta altro.
Se non puoi spingerti cosí lontano
con lo sguardo come Linceo,
non vedo perché rifiutare
di medicarsi gli occhi infermi;
e se non puoi sperare
di possedere i muscoli
dell'invitto Glicone,
non c'è ragione per lasciare
che la gotta nodosa
inchiodi il nostro corpo.
Si andrà fin dove ci è concesso,
se oltre non si può.
Vi sono,
per l'animo che arde d'avarizia
e d'insana passione,
parole e formule
che possono lenire il suo dolore
e allontanare gran parte del male.
Se poi ti gonfia una smania di gloria,
vi sono rituali
che, solo a ripeterli fedelmente
tre volte,
possono guarirti senza timore.
Nessuno,
invidioso irascibile pigro,
beone, libertino,
è selvaggio cosí
che non lo si possa ammansire,
se accetta di ascoltare
con attenzione
i precetti della saggezza.
Evitare il vizio, questa è virtú,
ed esser privi di pazzia
il principio della saggezza.
Tu vedi
con che affanno morale e con che rischi
sfuggi a quei mali che credi peggiori,
un censo modesto e una vergognosa
sconfitta elettorale:
a trafficare senza tregua
ti spingi sino all'estremo dell'India,
varcando mari, monti e fiamme,
per fuggire la povertà,
e non ti curi di ascoltare, apprendere,
affidandoti ai migliori di noi,
il rimedio contro quella chimera
che insegui da insensato?
Un campione di villaggio o di strada
rinuncerebbe forse
alla gloria di una corona olimpica,
se avesse la speranza,
la possibilità
di aggiudicarsi la vittoria ambita
senza alcuna fatica?

Piú vile dell'oro è l'argento
e piú l'oro della virtú.
'Oh cittadini, cittadini,
bisogna far fortuna innanzi tutto:
dopo il denaro verrà la virtú.'
Questa la massima che si proclama
da un capo all'altro
sotto il voltone della Borsa:
e tutti,
con borse e taccuini sotto il braccio,
giovani e vecchi,
ripetono in coro la lezione.
Hai animo, carattere,
eloquenza e onestà?
ma se ai quattrocentomila sesterzi
te ne mancano sei o settemila,
addio, sei plebeo.
Certo, giocando cantano i bambini:
're sarai, se bene farai'.
Questa sia la tua barriera di bronzo:
non aver nulla da rimproverarsi,
non dovere per colpa impallidire.
Ma dimmi, dimmi,
è migliore la legge Roscia
o quella cantilena di bambini
che offre al giusto un regno
e anche ai tempi virili s'intonava
di Curio e di Camillo?
Avanti, ti consiglia meglio
chi ingiunge: 'arraffa, arraffa,
onestamente
se puoi,
se no come ti riesce,
ma arraffa',
solo per vedere un po' piú da presso
i drammi strappalacrime di Pupio;
o chi, stretto al tuo fianco,
t'esorta a fronteggiare,
libero, a testa alta,
e te ne dà la forza,
l'arroganza della fortuna?

Se il popolo romano mi chiedesse
perché piú che le opinioni
ci accomunano i portici,
e come mai non segua i suoi amori
o non rifugga le sue avversioni,
risponderei come la volpe accorta
rispose nella favola
al leone ammalato:
'Mi atterriscono le orme;
guardano tutte verso te,
nessuna indietro'.
Sei un mostro dalle mille teste.
Quali opinioni, quali uomini
dovrei seguire?
Smania una parte per gli appalti pubblici;
altri con bocconcini e frutta
accalappiano vedove insaziabili
o irretiscono vecchi
per tenerli in riserva;
e molti di nascosto
si arricchiscono con l'usura.
Passi pure, ognuno ha le sue passioni,
ma sapesse perseverare
almeno un'ora
in ciò che si è scelto.
Se un ricco esclama:
'Baia, che meraviglia,
nessuna insenatura al mondo
è piú incantevole di quella',
subito lago e mare
soffrono l'entusiasmo dei signori;
ma se tien luogo degli auspici
un morboso capriccio:
'a Teano, domani,
portino i muratori i loro attrezzi'.
Nell'atrio c'è il letto nuziale?
'Niente è preferibile al celibato,
niente di meglio.'
Non c'è? 'Solo nel matrimonio
è la felicità, lo giuro.'
Come legarlo questo Pròteo
dagli innumerevoli volti?
E il povero?
Ridi, ridi: cambia stamberga,
letto, terme e barbiere;
ma sulla barca presa a nolo
soffre lo stesso mal di mare
che rode il ricco sulla sua trireme.

Se mi presento a te con i capelli
tagliati dal barbiere tutti a scale,
tu ridi;
se sotto la tunica nuova spunta
una camicia logora
o se ho indossato a sghimbescio la toga,
tu ridi.
E se il mio modo di pensare
fa a pugni con sé stesso,
disprezza ciò che amava,
cerca quanto ha lasciato,
oscilla ed è incoerente
in tutto il corso della vita,
costruisce, smantella,
muta i tondi in quadrati,
tu che ne dici?
Tu pensi che sia matto,
un matto come ce ne sono tanti;
non ridi; e non ritieni
che abbia bisogno del medico
o di un procuratore
nominato dal tribunale.
Eppure tu sei il mio patrono, e
ti sdegni per un'unghia mal curata
con l'amico che pende dal tuo viso
e si riflette in te.

Allora? il saggio
solo Giove ha sopra di sé,
è ricco libero onorato bello,
insomma è il re dei re,
e soprattutto è 'sano',
se non lo molesta il catarro.

2, a Massimo Lollio


A Preneste, Massimo Lollio mio,
mentre tu declamavi a Roma,
ho riletto
il poeta della guerra troiana,
che meglio e con maggior chiarezza
di Cràntore e Crisippo,
ci parla del bene e del male,
di ciò che è utile o non è.
Se non hai altro a cui pensare,
ti dirò il perché di questa opinione.

Quel racconto, la lunga guerra
che combatté la Grecia contro i barbari
per l'amore di Paride,
contiene tutte le passioni
di re insensati e dei popoli loro.
Antenore propone di rimuovere
la causa della guerra;
ma Paride?
no, non si può costringerlo a regnare
fuor di ventura e vivere felice.
Nestore si affanna a comporre
la lite fra Agamennone e Achille,
l'uno contro l'altro infiammati d'odio
e il primo anche d'amore.
Impazziti i re, soffrono gli achei.
Sedizioni frodi delitti,
dissolutezze e ira,
le ignominie che si commettono
e dentro e fuori le mura troiane.
Di contro si propone Ulisse,
esempio e simbolo
di ciò che possono virtú e saggezza,
Ulisse, che dopo aver vinto Troia,
si preoccupò di conoscere
le città e i costumi di molte genti,
e che sull'ampia distesa del mare,
in cerca del ritorno
per sé e per i suoi,
subí travagli d'ogni genere,
senza lasciarsi mai sommergere
dai marosi dell'avversa fortuna.
Tu ricordi il canto delle Sirene
e gli infusi di Circe:
se mai, insieme ai suoi compagni,
avesse ceduto alla voglia folle
di berli,
sfigurato e incosciente,
sarebbe caduto in balia
della volontà di una meretrice
e avrebbe passato la vita
come un cane randagio
o un porco che sguazza nel fango.
Noi non siamo che numero,
nati per vivere da bruti,
siamo noi i pretendenti di Penelope,
quei fannulloni,
noi la gioventú alla corte di Alcinoo,
tutta occupata a curarsi la pelle,
per cui è bene
dormire sino a mezzogiorno
e assopire gli affanni
al suono della cetra.

Per uccidere un uomo
di notte si alzano i banditi:
e tu, per salvare te stesso,
non hai coraggio di svegliarti?
Eppure se non vuoi correre sano,
dovrai correre idropico per forza;
e se prima dell'alba
non chiedi un libro e la lucerna,
e con l'animo tuo non t'impegni
a meditare per agire bene,
senza poter prendere sonno,
sarai tormentato da odio e amore.
Perché ti affretti a togliere
quel granello che offende l'occhio,
e per ciò che ti rode l'animo
rimandi la cura di anno in anno?
Chi bene incomincia è a metà dell'opera.
Coraggio,
cerca di essere saggio: incomincia.
Chi rimanda l'ora della saggezza
è il contadino
in attesa che il fiume defluisca:
ma il fiume scorre e scorrerà veloce
per la notte dei tempi.

Si cerca argento,
e per i figli che verranno
una moglie ricca di dote;
col nostro aratro si dissodano
le macchie incolte.
Ma chi ha avuto in sorte quanto basta,
non ha nient'altro da desiderare.
La casa, il fondo
e il suo patrimonio in denaro e oro
non tolgono la febbre
al padrone ammalato,
non gli tolgono l'affanno dal cuore.
Chi ha raccolto ricchezze smisurate
deve stare in buona salute,
se intende godersele in pace.
Casa e ricchezze
non servono
a chi ha voglie senza fine
o vive nel timore,
come i dipinti a occhi malandati,
i fomenti al gottoso
e il suono della cetra
a orecchie sorde per troppo cerume.
Se un vaso non è terso
tutto ciò che vi versi inacidisce.

Spregia i piaceri:
quello che ottieni con dolore, nuoce.
All'avaro manca sempre qualcosa:
poni un limite fermo alle tue voglie.
L'invidioso si consuma
per la prosperità altrui;
i tiranni in Sicilia
non seppero inventare
un tormento peggiore dell'invidia.
E chi non frena l'ira
vorrà non aver fatto
ciò che gli ha suggerito la passione
o l'impazienza di appagare
con la forza il suo odio senza pace.
Breve follia è l'ira:
governa dunque quest'anima tua,
che ti comanda, se non ubbidisce;
trattienila col morso,
costringila in catene.

L'allevatore educa il cavallo,
quando per la tenera età
è ancora docile,
a seguire la via
che vuole il cavaliere;
e il cucciolo da caccia,
appena abbaia nel canile
a una pelle di cervo,
lo si porta nel bosco ad addestrarsi.
Ora finché sei giovane
accogli nel tuo cuore immacolato
le parole che ascolti,
affídati ai migliori.
Un'anfora nuova conserva a lungo
il profumo del vino che riceve.
E se indugi o mi superi di slancio,
sappi, io non attendo chi è lento
e non rincorro chi mi sopravanza.

3, a Giulio Floro


Vorrei proprio sapere, Giulio Floro,
dove diavolo è finito
l'esercito di Claudio,
il figliastro di Augusto.
Cosa vi trattiene? la Tracia,
l'Ebro stretto in una morsa di ghiacci,
le correnti tra i due fari d'Ellesponto?
o le pianure fertili dell'Asia,
le sue colline?
Che opere ha in cantiere
il nostro 'gruppo' di studiosi?
Questo, vedi, mi preoccupa:
chi si assume il compito
di narrare le imprese di Augusto?
di tramandarne nei secoli
i fatti di guerra e di pace?

E Tizio,
ormai sulla bocca di tutti qui a Roma,
Tizio che non ebbe timore
di bere alla fonte di Pindaro
disdegnando laghi e ruscelli aperti a tutti,
Tizio come sta?
si ricorda di noi?
Si sforza ancora,
con l'aiuto delle Muse,
di rendere in poesia latina
i ritmi di Tebe
o come una furia
gonfia la tragedia di parole?

E il mio Celso che fa?
L'ho ammonito, ma dovrò farlo ancora,
perché attinga ai propri beni
senza metter le mani sugli scritti
raccolti nel tempio di Apollo al Palatino:
se uno stormo di uccelli
tornasse a reclamare le sue penne,
susciterebbe il riso,
come un stupida cornacchia
spogliata d'ogni colore rubato.

E tu, tu in cosa ti cimenti?
su quali fiori si posa il tuo volo leggero?
Non hai certo ingegno mediocre,
privo di cultura
o rozzo da far senso:
che tu affili la lingua in tribunale,
interpreti questioni giuridiche
o scriva liriche preziose,
otterrai in premio l'edera dei vincitori.
Ma se potessi rinunciare
al brivido eccitante del lavoro,
andresti dove la sapienza divina conduce.
Umili e potenti
tutti dovremmo dedicarci
a questa prassi,
a questo studio,
se vogliamo giovare alla patria,
giovare a noi stessi.
Ma prima devi scrivermi
se Munazio ti sta a cuore quanto dovrebbe,
o se l'amicizia mal ricucita
stenta a rimarginarsi
lacerandosi continuamente
e l'inesperienza, il sangue caldo
vi tormentano come puledri
che mordono il freno.
Dovunque vi troviate
non spezzate l'affetto che vi lega:
per il vostro ritorno
allevo una giovenca in voto.

4, ad Albio Tibullo


Albio, Albio,
critico sereno delle mie satire,
che fai a Pedio?
Lasciami pensare:
scrivi forse poesie
da far dimenticare Cassio Parmense,
o vai per boschi a ritemprarti
silenzioso come uno smemorato
che si perda a considerare
ciò che è degno o no d'uomini civili?
Tu non eri cosí avvilito un tempo:
gli dei ti diedero bellezza,
ricchezze, e l'arte di goderne.
Cos'altro potrebbe augurare
l'affetto di una nutrice
al figliolo che si cresce in seno?
d'avere buon senso,
di poter dire ciò che pensa,
di godere favori, credito e salute,
di vivere decentemente
con qualche quattrino in tasca.
Fra speranza e affanni,
fra timori e rabbia,
immagina
che l'alba di ogni giorno
sia l'ultima per te:
le ore che seguiranno
e non speravi piú
tutte un incanto.
Ma se vuoi ridere
vieni a trovarmi:
sono grasso e lustro,
la pelle curata a dovere,
un porco, un porco epicureo.

5, a Torquato


Se ti accontenti di un divano di Archia
per sedere a tavola insieme
e non ti spiace cenare
in piatti di coccio con delle verdure,
verso il tramonto, Torquato,
ti aspetto a casa.
Berrai vino imbottigliato
tra le paludi di Minturno
e Petrino di Sinuessa
l'anno in cui Tauro
fu console per la seconda volta.
Se ne hai di migliore
fallo portare,
altrimenti rassegnati al mio.
In tuo onore focolare e stoviglie
risplendono da tempo come nuovi.
Lascia perdere dunque le speranze futili,
la corsa alle ricchezze, il processo Mosco:
domani, compleanno di Cesare,
è giorno di festa
e si potrà dormire quanto si vuole:
niente ci vieta di consumare in chiacchiere
questa notte estiva.
Che senso ha la ricchezza
se non sai goderne?
Chi, pensando all'erede,
risparmia e vive come un taccagno
è pazzo da legare:
voglio cominciare a bere,
a spargere fiori,
anche col rischio
d'essere considerato un incosciente.
Oh il vino, il vino:
svela segreti, avvera desideri,
spinge i vili a combattere,
cancella il peso dell'angoscia,
ispira le arti.
Dimmi chi non rende loquace
un bicchiere di vino,
chi non libera dalla stretta del bisogno.

Io, per quanto mi riguarda,
m'impegno d'evitare ad ogni costo
che la coperta del divano sia indecente,
i tovaglioli sporchi
da farti arricciare il naso,
che bicchieri e piatti
non ti facciano specchiare;
e ancora
che non ci sia fra amici veri
chi riporti i nostri discorsi,
e che ognuno abbia il compagno congeniale.
Inviterò per te Butra e Setticio
e, se un precedente invito
o meglio una ragazza
non lo trattiene, anche Sabino:
vi sarebbe posto,
è vero, per qualcun altro,
ma quando si è troppo stretti
l'afrore dei corpi rovina la compagnia.

Allora tu fammi sapere in quanti sarete;
poi lascia gli affari
e alla faccia dei clienti in attesa
fuggi dal retro.

6, a Numicio


Non meravigliarsi di niente:
questo è forse, Numicio,
il solo, unico principio
che possa rendere felici.
C'è chi guarda il sole, le stelle
e l'avvicendarsi delle stagioni,
secondo i ritmi stabiliti,
senza che timore alcuno lo turbi;
che pensi?
come guardarli i doni della terra
(con che cuore, con quali gesti)
e quelli del mare che fanno ricchi
gl'indi e gli arabi ai confini del mondo,
o il futile gioco di applausi e premi
concessi dal favore popolare?

Chi teme disgrazie da questi beni
e chi al contrario li desidera,
hanno lo stesso turbamento in cuore.
Se un evento inatteso li colpisce
in entrambi è il fastidio del terrore.
Piacere e dolore, voglia e timore
che valgono
se, meglio o peggio della tua speranza,
guardi ogni cosa con occhi sbarrati,
impietrito nell'anima e nel corpo?
Pazzo diremmo il saggio,
iniquo il giusto,
se varcassero il limite concesso,
fosse pure della virtú.
Ma guàrdati,
guàrdati pure con occhi ammirati
gli argenti, i marmi antichi,
i bronzi e le opere d'arte,
o le gemme e le porpore di Tiro;
gioisci pure se mille occhi
ti guardano quando tu parli;
in realtà sollecito
scendi al foro di buon mattino
e torni a casa solo a sera,
perché Muto non raccolga piú grano
di te dai campi avuti in dote
(una vergogna,
visto che è nato
da genitori oscuri),
e perché vuoi essere tu
oggetto della sua invidia,
non il contrario.
Ma il tempo porterà alla luce
tutto quello che la terra nasconde,
come seppellirà,
cancellandone la memoria,
le cose che risplendono.
Il portico di Agrippa e la via Appia
ti hanno ammirato in tutta la tua fama:
ora non resta che andare laggiú,
dove Numa e Anco sono discesi.

Se senti fitte acute
ai reni o ai polmoni,
cerca di liberartene.
Vuoi vivere bene? e chi non lo vuole?
Se solo la virtú può darti tanto,
coraggio, rinuncia ai piaceri,
dèdicati a praticarla.
Se invece credi
che la virtú sia solo una parola
e legna da ardere un bosco sacro,
guàrdati che un altro non entri
prima di te in porto e mandi al diavolo
gli affari di Cíbira e di Bitinia;
arrotonda a mille talenti
il capitale, poi raddoppialo,
triplicalo e aggiungigli quei mille
necessari a renderlo solido.
Certo, si sa, il potere del denaro
ti dà moglie con dote,
credito amici nobiltà e bellezza,
e quando si ha quattrini
sei in grazia di eloquenza e amore.
Il re di Cappadocia
è ricco di schiavi ma non di soldi:
non imitarlo.
A Lucullo, si dice,
chiesero cento clamidi
per una messa in scena:
'Tante', rispose, 'come faccio?
ad ogni modo proverò a cercarle:
vi manderò quelle che ho'.
Poco dopo comunica
di averne in casa cinquemila:
venissero pure a prenderle tutte
o quante ne volevano.
Squallida la casa dove non c'è
superfluo che sfugga al padrone
e giovi ai ladri.
Dunque, se solo la ricchezza
può renderci e conservarci felici,
esèrcitati subito
in una attività di lucro
e cerca di lasciarla
il piú tardi possibile.

Se è l'appariscenza
e il favore del popolo
a garantirci la fortuna,
compriamoci uno schiavo
che ci ricordi i nomi
e ci punga il fianco sinistro,
quando è il caso di porgere la mano
anche perdendo l'equilibrio:
'Questo è un notabile
della tribú Velina
e quello della Fabia;
quest'altro darà i fasci a chi gli piace,
e strapperà senza riguardi
a chi vuole il seggio curule'.
Ma non dimenticare
gli appellativi di 'fratello' e 'padre':
secondo l'età
adotta per ognuno quello giusto.

Se invece vive bene
solo chi mangia bene,
appena albeggia
vattene dove ti porta la gola:
a pesca, a caccia,
come un tempo Gargilio,
che al mattino attraversava
il foro gremito di gente,
con reti, spiedi e schiavi,
perché la folla a sera
lo vedesse tornare
con uno dei suoi muli
carico di un cinghiale comperato.
E andiamocene al bagno
prima di digerire,
con lo stomaco gonfio,
senza curarci delle convenienze,
degni di figurare
sulle tavolette di Cere,
come i compagni corrotti di Ulisse,
che ad Itaca, la propria patria,
anteposero un piacere interdetto.

Se infine, come ritiene Mimnermo,
non c'è felicità
senza le gioie dell'amore,
abbandònati a queste.

Stattene bene.
Se hai idee migliori,
sii sincero e fammene parte;
diversamente
goditi queste mie.

7, a Mecenate


Ti avevo promesso di rimanere
quattro o cinque giorni in campagna
e, bugiardo che sono,
è ormai tutto l'agosto
che mi faccio desiderare.
Eppure se tu, Mecenate,
mi vuoi in forze e in buona salute,
mi devi concedere venia,
come quando sono ammalato,
ora che io temo di diventarlo;
finché almeno
è il tempo dei fichi maturi,
e l'afa aduna intorno ai cortei funebri
i neri littori dell'impresario,
finché i genitori in ansia
palpitano per i loro ragazzi
e lo zelo nel sbrigare i doveri
e gli affari del foro
recano febbri
e fanno aprire testamenti.
Quando l'inverno stenderà la neve
sui colli albani,
il tuo poeta scenderà al mare,
starà in riguardo rannicchiato a leggere;
solo coi primi zefiri e le rondini,
se lo permetterai,
verrà a trovarti, dolce amico mio.

Tu molto mi hai donato,
ma non come quell'ospite pugliese,
che t'invita a mangiare pere.
'Mangia, ti prego.'
'Mi basta.'
'Ma prendine quante ne vuoi.'
'Grazie, no, grazie.'
'Le porterai ai tuoi ragazzi,
una sciocchezza,
te ne saranno grati.'
'Davvero, come se avessi accettato,
come ne fossi carico.'
'Fa' come vuoi;
se non le prendi, le darò ai porci.'
Prodighi e sciocchi
regalano ciò che disprezzano
e non gli serve:
una semina che produce
e produrrà ingrati.
L'uomo garbato e saggio
si dice sempre pronto
con chi lo merita
(non per questo scambia oro e lupini).
E io mi mostrerò riconoscente
anche per le lodi che meriti.
Ma se vuoi che mai ti resti lontano,
rendimi il petto vigoroso,
la fronte chiusa da neri capelli,
rendimi la dolcezza della voce,
la grazia del sorriso
e il pianto tra i fumi del vino
per la fuga della ribelle Cínara.

Una piccola volpe tutta ossa,
attraverso una minuscola fessura
si era insinuata per avventura
in una cesta di frumento;
e dopo aver mangiato a sazietà
si sforzava invano di uscirne fuori
a ventre pieno.
E una donnola di lontano:
'Se di lí vuoi scappare,
devi tornare magra, perché magra
sei entrata in quella fessura'.
Se questa favola l'applichi a me,
restituisco tutto:
io non esalto il buon sonno dei poveri
solo quando son sazio di capponi,
e non cambio a parole
le ricchezze degli arabi
con una vita libera e tranquilla.
Spesso hai lodato
il mio rispettoso riserbo
e ti sei sentito chiamare
padre e re in tua presenza
e senza una parola in meno
in tua assenza.
Vedi tu se posso restituirti
senza rimpianti
quello che mi hai donato.
Niente male allora Telemaco,
il figlio del paziente Ulisse:
'Itaca non è adatta ai cavalli,
non si stende in pianura
e non vi cresce molta erba;
ti lascerò i tuoi doni,
figlio di Atreo:
sono piú adatti a te'.
Il piccolo si addice ai piccoli;
non fa per me la tua splendida Roma,
ma la tranquilla Tivoli,
la dolcissima Taranto.

Si dice che Filippo,
uomo energico e valoroso,
avvocato di grido,
un giorno che nel primo pomeriggio
tornava dalle sue udienze,
si lamentasse che troppo lontane
dal foro,
per la sua tarda età,
si trovassero le Carene;
quando nell'antro vuoto di un barbiere
vide un tale che già rasato
si puliva pigramente le unghie
con un suo coltellino.
'Demetrio', dice allo schiavetto
che capisce a volo i suoi ordini,
'va', chiedi e riferiscimi
il casato di quell'uomo, il suo nome,
la condizione,
il nome di suo padre o del patrono.'
Demetrio va, torna e racconta:
nome Volteio Mena, banditore;
condizione modesta; incensurato;
conosciuto come uno che sa
guadagnare e godere,
affrettarsi e smettere a tempo debito;
felice in fondo, con amici alla buona,
una casa propria, i divertimenti,
e, sbrigati gli affari, il Campo Marzio.
'Mi piacerebbe saperle da lui
queste notizie:
digli che venga a pranzo.'
In verità Mena non ci vuol credere,
si meraviglia, tace.
Basta. Alla fine: 'Mi spiace', risponde.
'Come? mi dice no?'
'Te lo dice, e senza riguardi:
o non ti considera o si vergogna.'
Il mattino seguente
Filippo sorprende Volteio
che vendeva a dei poveracci in tunica
stracci vecchi, e lo saluta per primo.
Quello si scusa
per non avergli reso omaggio a casa
quel mattino, incolpando la stanchezza,
gli impegni del mestiere,
e in piú di non averlo visto subito.
'Considerati perdonato
solo se oggi pranzerai da me.'
'Come ti piace.'
'Dunque verrai dopo le tre.
Ora va', forza, vedi di arricchirti.'
Viene l'ora di pranzo
e quello parla di lecito e illecito,
finché lo si congeda per la siesta.
Ormai cliente di mattino
e commensale fisso,
come un pesce che corre all'amo occulto,
un giorno, alle feste latine,
Filippo l'invita ad accompagnarlo
in una sua campagna fuori porta.
Adagiato in carrozza,
non smette di elogiare il paesaggio
e il cielo di Sabina.
Filippo lo guarda e sorride;
e poiché era uomo
che traeva svago e fonte di riso
da ogni cosa,
gli regala settemila sesterzi
e altrettanti glieli promette a prestito,
convincendolo a comprarsi un podere.
L'acquista. E per non trattenerti
con eccessivi giri di parole,
da cittadino tutto lindo
si muta in contadino,
non chiacchiera che di solchi e vigneti,
sistema filari di olmi,
si ammazza di fatica
e per l'avidità di avere
invecchia innanzi tempo.
Quando però i ladri
gli tolsero le pecore,
il contagio le capre,
il raccolto deluse ogni speranza
e un bue gli morí sotto l'aratro,
avvilito dalle continue perdite,
nel cuore della notte
inforca furioso il cavallo
e galoppa alla volta di Filippo.
Come questi lo vide
cosí malmesso e scarmigliato:
'Volteio', gli dice, 'mi sembra
che tu pretenda troppo da te stesso
e troppo sia interessato'.
'Dio benedetto, tu, patrono mio,
se vuoi chiamarmi col mio nome,
disgraziato dovresti dire.
Ti prego, ti scongiuro,
per il tuo Genio e il tuo onore,
per i tuoi morti,
ridammi la mia vita.'

Chi s'accorge che le cose lasciate
erano meglio di ciò che desidera,
torni indietro senza pensarci
e riprenda la sua vita di sempre.
La verità è questa:
bisogna vivere come si nasce.

8, a Celso Albinovano


A Celso Albinovano,
compagno e segretario di Nerone,
augura, Musa, ti prego,
che stia in allegria e se la goda.

E se domanda quel che faccio io,
diglielo:
promettevo di far chi sa che cosa
e non vivo invece
né come si dovrebbe, né come vorrei;
non perché la grandine m'abbia distrutto le viti
o la morsa del caldo danneggiato gli ulivi,
e nemmeno perché in qualche pascolo lontano
un'epidemia abbia falcidiato il mio gregge,
ma perché ammalato piú nella mente
che nel fisico
non voglio sentire, non voglio sapere nulla
di ciò che potrebbe sollevarmi,
e me la prendo coi medici,
m'infurio con gli amici
che vorrebbero strapparmi a questa mortale apatia,
corro dietro a quel che mi nuoce
e fuggo ciò che dovrebbe giovarmi:
cosí seguendo il vento
a Roma desidero Tivoli, a Tivoli Roma.

Ma chiedigli come sta,
come se la cava col lavoro, la vita,
se va d'accordo col giovane Nerone
e il suo seguito.
Nel caso ti risponda 'bene',
rallégrati con lui,
ma sussurragli in un orecchio
questo avvertimento:
'Attento alla fortuna, Celso,
io mi comporterò con te
come tu con lei'.

9, a Tiberio Claudio Nerone


Evidentemente, Claudio mio,
Settimio intuisce meglio di chiunque
quanto tu mi stimi,
se con tanta insistenza mi chiede
di fare le sue lodi e naturalmente
di raccomandarlo a te, Nerone,
come persona degna della tua casa,
dello scrupolo che hai per l'onestà;
e se pensa che io possa riuscirvi
per forza d'amicizia,
valuta il mio potere
meglio di me stesso.
Ho cercato in tutti i modi, è vero,
una scusa per cavarmela,
ma poi temendo di passare per un falso ingenuo
che sminuisce a suo esclusivo vantaggio
il peso della propria condizione,
mi sono ridotto,
per evitare la vergogna d'una colpa piú grave,
a questo ruolo di sfrontato.
Ora se tu consenti
che si abbandoni ogni ritegno
per l'insistenza di un amico,
accoglilo fra i tuoi:
credimi, è uomo d'onore.

10, ad Aristio Fusco


Tu che adori la città
abbiti un abbraccio, Fusco,
da chi adora la campagna;
diversissimi solo in questo,
siamo per il resto
quasi anime gemelle:
no è no per entrambi,
il sí un cenno a due,
vecchi colombacci in amore.
Resta pure nel tuo nido,
mentre io lodo
l'incanto della mia campagna
coi suoi ruscelli, i boschi
e le rocce velate di muschio.

Che vuoi, vivo come un re
appena lascio le cose
che con lodi sperticate
voi portate alle stelle;
e come uno schiavo,
che fugge dal proprio sacerdote,
rifiuto le focacce,
mi accontento del pane,
che ora preferisco
anche a una torta di miele.
Ma se ritieni giusto
vivere secondo natura
e se per costruirsi una casa
è necessario anzitutto
scegliersi il terreno,
conosci forse un luogo,
per la felicità che procura,
piú adatto della campagna?
Dove, dimmi dove
l'inverno è piú dolce
e brezza piú gradevole
mitiga la rabbia della canicola,
l'incombere del Leone,
quando avvampa di furore
per l'assillo del sole?
Dove meno l'invidia
turba il tuo sonno?
Forse l'erba profuma
o splende meno
delle tessere di Libia?
E l'acqua, che ingorga
le condotte di piombo
nei quartieri di città,
è forse piú pura di quella
che scorre mormorando
giú dal pendio in un ruscello?
Un fatto è
che fra colonne variegate
si coltivano giardini,
e si decantano le case
che spaziano sulla campagna:
scaccia, scaccia la natura con la forca:
ritornerà sempre
e, di soppiatto, irromperà vittoriosa
fra queste leziosaggini da un soldo.
Chi riconoscere non sa
la lana tinta ad Aquino
dalla porpora di Sidone,
non subirà danno maggiore
e piú profondo
di chi non sa distinguere
il falso dal vero.
Chi si compiace troppo
della buona fortuna,
si sentirà sconvolto
se questa muta.
Ciò che ti abbaglia
non lo si lascia volentieri.
Evita il fasto:
in un tugurio
puoi vivere meglio dei re,
dei loro amici.

Era una volta il cervo
piú forte del cavallo
e gli vietava i pascoli comuni;
dopo lunga lotta, sconfitto,
il cavallo implorò il braccio dell'uomo
e ne accettò le redini;
ma poi che vincitore del nemico
superbo ritornò dal campo,
non si scrollò piú
dal dorso il cavaliere,
né le briglie dal morso.
Cosí chi per timore di miseria
si priva della libertà,
piú preziosa dell'oro,
per ingordigia,
perché del poco non si appaga,
si porterà un padrone sulle spalle
e lo servirà in eterno.
Se il tuo stato non ti si adatta
ricorda quella scarpa
che troppo larga ti fa inciampare,
troppo stretta ti piaga.

Vivi da saggio, Aristio mio,
lieto della tua sorte,
e non lesinarmi rimproveri
se credi che io accumuli,
senza riposo, piú del necessario.
Il troppo denaro è servo e padrone:
dovrebbe seguire le redini,
non impugnarle.

Ti ho scritto questa lettera
dietro il tempio cadente di Vacuna,
lieto di tutto,
se togli di non averti con me.

11, a Bullazio


Allora, Bullazio, che ne pensi di Chio,
della tanto decantata Lesbo,
dell'eleganza di Samo,
della reggia di Creso a Sardi,
e di Colofone, di Smirne?
meglio o peggio della loro fama?
Nessuna, proprio, che valga
Tevere e Campo Marzio?
o t'ha rapito il cuore
una città di Attalo,
e ti entusiasmi di Lèbedo
nauseato di viaggi e crociere?
Sai Lèbedo com'è:
un villaggio piú deserto di Gabi e Fidene;
ma io lí vorrei vivere,
dimenticando i miei,
dimenticato da loro,
e da riva guardare lontano
il mare in burrasca.
Certo nessuno si propone,
fradicio di pioggia e fango
da Capua verso Roma,
di passare la vita in una bettola;
nessuno, intirizzito dal freddo,
ritiene il calore delle terme
il culmine della felicità terrena;
neppure tu, se la violenza del vento
t'avesse travolto in mezzo al mare,
venderesti la nave, raggiunta la riva.
Sano e salvo, la bellezza di Rodi e di Mitilene
ti serve come d'estate un mantello
o un perizoma quando tira aria di neve,
un bagno nel Tevere d'inverno
o un braciere nel mese d'agosto.
Finché è possibile e la fortuna ti sorride,
Samo, Chio e Rodi
è bene lodarle da lontano, a Roma.
Qualunque ora lieta ti concedano gli dei
prendila con riconoscenza,
non rimandarne di anno in anno le gioie,
e si possa dire che in ogni situazione
sei vissuto volentieri.
Se la logica della saggezza, e non i luoghi
che dominano la distesa del mare,
allontana gli affanni,
chi solca il mare muta cielo, non natura.
Un'inquietudine impotente ci tormenta
e andiamo per acque e terre
inseguendo la felicità.
Ma ciò che insegui è qui, a Úlubre,
se non ti manca la ragione.

12, a Iccio


Se con giudizio sai goderti, Iccio,
i frutti delle rendite di Agrippa
che amministri in Sicilia,
non esiste ricchezza maggiore
che possa donarti Giove.
Smettila dunque coi lamenti:
povero non è
chi ha a sufficienza per vivere.
Se respiri, digerisci e cammini bene
non c'è tesoro al mondo
che possa darti di piú.
Se poi, senza toccare i cibi che hai davanti,
vivi d'erbe e di ortiche,
continueresti a vivere cosí
anche nel caso
che un fiume gonfio di fortuna
all'improvviso ti inondasse d'oro:
il denaro non può mutare l'indole
e nulla, se rifletti, vale la virtú.
Non devi stupirti quindi
che il gregge pascolando liberamente
distruggesse le colture di Democrito,
mentre, senza impedimenti,
il suo spirito vagava lontano,
se anche tu, tu,
fra tante rogne e febbre di guadagno,
non nutri pensieri mediocri,
ti occupi di ricerche esaltanti:
quale la ragione che inalvea il mare
e regola il corso dell'anno,
se il peregrinare delle stelle
segua un ordine o l'arbitrio,
la causa che oscura la luna
e quella che la fa risplendere,
che significato e fine
abbia l'armonia discorde delle cose,
se sia fuorviante Empedocle
o la sottigliezza di Stertinio.

Ma sia che tu divori pesci
o porri e cipolle,
tratta da amico Pompeo Grosfo
e qualsiasi cosa chieda
dagliela prima che taccia:
non chiederà per falsi bisogni
o ciò che non è giusto.
Si acquistano amici per poco o niente
quando a gente perbene manca qualcosa.

Ad ogni modo, perché tu sappia
come vanno le cose a Roma:
per merito di Agrippa e Claudio Nerone
sono caduti càntabri e armeni;
Fraate, costretto in ginocchio,
ha accettato leggi e autorità di Cesare;
e una straordinaria abbondanza di messi
si è riversata dal cielo sull'Italia.

13, a Vinnio Asina


Come ti ho spiegato sino alla noia,
Vinnio, prima che tu partissi,
consegnerai ad Augusto i volumi sigillati
solo se sarà in buona salute,
allegro, o se te li chiede.
Non strafare per amor mio:
l'eccessiva insistenza dell'ambasciatore
renderebbe odiosi i miei libretti.
Ma se il peso delle mie carte
ti diventasse insopportabile,
gettale via,
piuttosto che scrollartele di dosso
come una malabestia
dove sei incaricato di portarle:
il cognome della tua gente, Asina,
susciterebbe il riso
esponendoti alla berlina.
Usa dunque le tue forze
per valicare colline, fiumi e paludi
e quando, superata l'impresa,
giungerai alla meta,
cerca di non portare sotto l'ascella
il pacchetto di libri che custodisci,
come il contadino porta l'agnello,
quell'ubriacona di Pirria
il gomitolo di lana rubato,
o come un poveraccio a cena
i sandali e il berretto.
E non spiattellare a tutti
d'aver sudato come un dannato
per portare poesie
che potrebbero fermare l'attenzione di Cesare.

Ora dopo tutte queste preghiere
continua pure il tuo cammino.
Va' e stattene bene;
ma attenzione: non incespicare
mandando in mille pezzi
ciò che t'ho affidato.

14, al fattore


Discutiamo, fattore del mio bosco
e del mio campo,
che mi restituiscono a me stesso
e tu detesti,
perché vi sono pochi focolari
e solo qualche padre di famiglia
che scende a Varia per mercato;
discutiamo se piú bravo sei tu
a togliere queste spine dai campi
o io dal cuore,
e se piú vale Orazio o i suoi averi.

A Roma, vedi,
mi trattengono l'inquietudine
e l'affetto per Lamia,
che piange suo fratello,
il fratello, che disperatamente
lamenta ormai perduto;
ma la mente e l'animo mio
corrono continuamente lassú
e vorrebbero rompere le sbarre
che ne impediscono la vista.
Beato chi vive in campagna,
dico io, e tu, chi vive in città:
se di altri preferisci la sorte
è chiaro che odi la tua.
Ma abbiamo torto entrambi
attribuendo ingiuste colpe al luogo,
che non ne ha:
nella mente è l'errore,
che mai sfugge a sé stessa.
Quand'eri garzone in città
in segreto aspiravi alla campagna,
ora che sei fattore
t'incanta la città,
i suoi divertimenti, le sue terme;
io sono, come sai, piú coerente
e quando maledetti affari
mi trascinano a Roma,
me ne vado da lí con gran tristezza.
Apprezziamo cose diverse:
fra me e te questa è la differenza;
quella che credi
una landa deserta e inospitale,
chi pensa come me la chiama amena,
e invece odia tutte quelle cose
che belle tu ritieni.
Vedo bene cosa ti manca
della città:
casini e taverne fumose;
il fatto è
che quel mio angolo di terra
produrrà prima pepe e incenso
dell'uva,
e lí vicino non vi è bettola
che mesca vino
o una puttanella che, strimpellando il flauto,
t'induca ad agitarti come un orso.
Tu sei costretto invece
ormai da tempo a dissodare campi
che attendono la vanga,
a governare il bue
liberato dal giogo,
a sfrondare frasche per la pastura;
e a un pigro come te
altra fatica viene dal ruscello,
quando cade la pioggia:
con un argine adatto
devi insegnargli
a rispettare i campi esposti al sole.

Ascolta allora
cosa mai rompe la nostra armonia.
Un tempo io prediligevo
toghe finissime e capelli profumati
e, lo sai, piacqui a Cínara,
malgrado l'avidità sua,
senza prodigarmi in regali;
bene, io che già a mezzogiorno
bevevo limpido falerno,
ora godo di una cena frugale,
di dormire sull'erba
a fianco di un ruscello.
Mi sono divertito, niente male,
ma guai se non vi avessi posto un termine.
Lassú nessun occhio maligno
corrode la mia pace,
nessun risentimento,
nessun odio nascosto l'avvelena;
tutt'al piú mi canzonano i vicini
se muovo zolle o sassi.

Tu con gli schiavi di città
vorresti rosicchiare
quel poco che gli passano,
e a loro corre la tua voglia;
intanto lo stalliere,
che brontola a ogni piè sospinto,
t'invidia l'orto che hai,
la legna, la carne di pecora.
Cosí scontento il bue
sogna la sella,
il cavallo di arare;
io penso: non è meglio
che di buon grado
ognuno faccia la sua parte?

15, a Numonio Vala


Com'è l'inverno a Velia
e il clima di Salerno,
questo mi devi dire, Vala,
com'è la gente che vi abita,
in che condizioni è la strada

(vedi, Antonio Musa ritiene
che per me Baia sia inefficace,
e me la sta inimicando,
ora che faccio bagni gelidi
nel cuore dell'inverno.
Non a torto quel borgo si lamenta
che siano disertati i suoi mirteti
e trascurate le sue acque,
che per le qualità sulfuree
hanno fama di estirpare dai muscoli
i reumi piú ostinati,
e guarda storto gli ammalati
che s'arrischiano a sottoporre
capo e stomaco alle fonti di Chiusi
o vanno a Gabi
nelle sue gelide campagne.
Devo cambiare meta
e spingere il cavallo
ben oltre le locande abituali.
'Dove diavolo vai?
né a Cuma, né a Baia sono diretto',
dirà irritato il cavaliere,
tirando a sinistra le redini:
sai, nel morso è l'orecchio del cavallo);

dove c'è piú abbondanza di frumento,
se vi si beve acqua di cisterna
o acqua sorgiva di fonti perenni

(per il vino della riviera
lascia che scelga io:
in campagna, da me,
posso sopportare qualsiasi vino
con un po' di rassegnazione,
ma quando sono al mare
esigo quello generoso, amabile,
che mi liberi dai pensieri,
mi scorra nelle vene
e nel cuore ricolmo di speranze,
che mi sciolga la lingua
e come un giovane
mi conceda alle grazie
di qualche amichetta lucana);

di quei luoghi quale è piú ricco
di lepri e quale di cinghiali,
quale tratto di mare
nasconde piú pesci e piú ricci,
perché io possa tornarmene a casa
bello grasso come un feace:
questo, tutto questo dovresti scrivermi,
io, stai certo, ti crederò.

Quando da 'valoroso' ebbe scialate
le sostanze di entrambi i genitori,
Menio iniziò la sua carriera
di impudente giullare,
un vagabondo senza greppia fissa
che non sa distinguere a pancia vuota
l'amico dal nemico,
spietato nel lanciare accuse a tutti;
rovina, flagello e voragine
d'ogni mercato,
dava al suo ventre senza fondo
tutto ciò che raggranellava.
E se poco o niente scroccava
agli entusiasti
o ai timorosi della sua malizia,
costui si mangiava piatti di trippa
o di castrato a buon mercato,
che avrebbero saziato anche tre orsi;
forse per poter dire,
rispolverando Bestio,
che si dovrebbero marchiare a fuoco
tutte le pance dei gaudenti.
Ma se s'imbatteva in preda piú grassa,
dopo averla ridotta in polvere:
'Diavolo, capisco', diceva,
'chi si fa fuori tutti i suoi averi:
niente è meglio di un tordo ben nutrito,
niente piú bello
di una vulva di pregio'.

E anch'io son fatto cosí:
quando mi mancano i quattrini
lodo la vita modesta e tranquilla,
con il coraggio sufficiente
per sopportare l'indigenza;
ma quando sono in grado
di vivere meglio e di scialacquare,
trovo che i saggi siete voi,
che solo voi siete nel giusto,
con il benessere che emana
da queste vostre ville luminose.

16, a Quinzio


Per evitare che tu mi domandi,
impagabile Quinzio, del mio fondo,
se è il seminato a sostenermi
o le sue olive a rendermi ricco,
piú che i frutteti, i pascoli o le viti
che rivestono gli olmi,
ti descriverò lungamente
l'aspetto e il luogo della mia campagna.

Montagne ininterrotte,
tagliate in due dall'ombra di una valle,
che al suo sorgere il sole
illumina sul fianco destro
e al tramonto col suo carro veloce
nella bruma riscalda sul sinistro:
un clima da sognare.
E immagina cespugli generosi
coperti di prugne e rosse corniole,
querce e lecci che agli animali
forniscono mangime in abbondanza
e al padrone tutta l'ombra che vuole:
diresti che qui è venuta Taranto
con il suo verde intenso.
C'è anche una sorgente
in grado di dare al suo corso un nome:
piú pura e piú fresca dell'Ebro
che attraversa la Tracia,
scorre benefica per i malanni
del capo e per quelli del ventre.
Dolcissimo rifugio
e ridente, come ora sai,
che per te mi conserva sano e salvo
in questo scorcio di settembre.

Vivrai da uomo giusto
se ti adegui alla fama.
Tutti a Roma, da tempo
ti vantano felice;
ma non vorrei, per quel che ti riguarda,
che tu credessi piú agli altri
che a te stesso,
che tu ritenessi l'uomo felice
altra cosa da quello saggio e onesto;
e se la gente va dicendo
'sei sano e bene in forze',
che dissimulassi all'ora di pranzo
una febbre segreta,
finché alle mani non ti prende il tremito.
È da sciocchi nascondere le piaghe
senza curarle per falso pudore.

Se parlando di guerre
combattute da te per terra e mare,
ti carezzassero le orecchie attente
queste parole:
'Non permetta mai Giove,
protettore tuo e della città,
che si sappia se piú preziosa è
la vita del tuo popolo per te
o per il popolo la tua',
tu riconosceresti subito
l'apologia di Augusto;
ma quando lasci che ti chiamino
saggio e senza difetti,
dimmi la verità,
non pensi forse
che si parli di te?
'Il fatto è che piace a tutti,
a me come a te,
esser detti buoni e prudenti.'
Ma chi dà oggi, domani, se vuole,
può toglierlo, come si tolgono
i fasci conferiti ad un indegno.
'Lascia, è roba mia', mi dicono:
lascio e mi allontano avvilito.
Se poi mi chiamassero ladro
e dicessero che non ho pudore,
sostenendo che ho impiccato mio padre,
dovrei sentirmi offeso
da quelle false accuse e impallidire?
Solo chi ha troppe colpe
ed è da risanare,
ama elogi non meritati
e teme l'infamia di una menzogna.
Un uomo buono?
'Chi rispetta i decreti del senato,
le leggi e i diritti civili,
chi come giudice compone
i nostri continui, grandi dissensi,
garante degli averi altrui
e testimone nelle nostre liti.'
Ma tutta la sua gente,
tutti i vicini lo vedono bene:
ignobile dentro e splendido fuori
per la bellezza della pelle.

Se uno schiavo mi dice:
'Non ho rubato, non sono fuggito',
'Ne hai il compenso', rispondo,
'non ti bruciano le nerbate'.
'Non ho ucciso...'
'Non sarai crocifisso in pasto ai corvi.'
'Sono buono e frugale...'
Da buon sabino
io nego e continuo a negare.
Cauto come il lupo scansi la fossa,
come lo sparviero i lacci sospetti
e il pesce rondine l'amo nascosto.
I buoni odiano il peccato
per amore della virtú;
tu per paura della pena
ti astieni dai delitti,
ma quando speri di evitarla
confonderai sacro e profano.
Se rubi un solo moggio
fra i mille delle fave,
certo è piú lieve il danno,
ma non la colpa.

Quel 'galantuomo'
che foro e tribunale ammirano,
quando con voce chiara invoca,
sacrificando vittime agli dei,
il nome di Giano e di Apollo,
per non essere udito
a fior di labbra mormora:
'Laverna bella,
concedimi di farla franca,
cosí che giusto mi credano e santo,
stendi le tenebre sui miei peccati
e la nebbia sulle mie frodi'.

Non vedo come possa essere
migliore e piú libero di uno schiavo
l'avaro che si getta a terra
per raccattare un soldo in un incrocio:
l'avido è un timoroso
e chi vive nel timore, per me,
non sarà mai libero, mai.
L'uomo che si affanna per aumentare
il patrimonio, ne viene schiacciato,
è un vinto, che ha abbandonato le armi
sul campo dell'onore.
Se tu puoi venderlo,
non uccidere il prigioniero:
ti verrà utile;
lascia che indurito dalla fatica
pascoli e ari,
che navighi per te
e sverni da mercante fra le onde,
che giovi al buon raccolto
e porti viveri e frumento.

L'uomo saggio e onesto potrà chiedere:
'Dimmi, Penteo, tu re dei tebani,
che indegnità m'imporrai di subire?'
'Ti priverò dei beni.'
'Bestie, denaro, letti, argenterie?
prendili pure.'
'Sotto atroce custodia,
ammanettato, ti terrò in ceppi.'
'Dio stesso mi libererà,
quando lo voglio.'
Penso che intendesse la morte.
L'estremo limite di tutto,
la morte.

17, a Sceva


Anche se sai da solo provvedere,
Sceva mio, a te stesso
e conosci i rapporti
che si ha da tenere coi potenti,
ascolta il parere di questo amico,
che se altro ancora deve imparare,
come un cieco
che pretenda di indicarti la strada,
pur qualcosa potrebbe dire
di cui vorresti far tesoro.

Se ti piace l'incanto della quiete
e dormire in pace sino al mattino,
se ti infastidisce la polvere,
lo strepito dei carri e l'osteria,
ti consiglio di andare a Ferentino:
non è solo dei ricchi
il piacere di vivere,
e chi è nato e morto sconosciuto
non per questo ha vissuto male.
Ma se vuoi giovare alla tua famiglia
ed essere con te un po' piú prodigo
accostati povero al ricco.
'Se si rassegnasse Aristippo
a mangiare solo legumi,
non dovrebbe starsene con i re.'
'E se il mio critico
sapesse stare con i re,
avrebbe nausea dei legumi.'
Dimmi di chi approvi le parole,
la condotta o, meglio, ascolta perché,
visto che sei piú giovane,
è migliore il parere di Aristippo.
Lui, dicono che ribattesse
al veleno del cinico:
'Tu sei il giullare della gente,
io lo sono per me;
ed è piú giusto, piú corretto.
Io presto i miei servigi
per avere un cavallo che mi porti
e un re che mi mantenga;
tu mendichi elemosine
e sei piú vile di chi dà,
anche se vai dicendo
di non aver bisogno di nessuno'.
Ogni stile, condizione e sostanza
si addicevano ad Aristippo,
che pur mirando a una vita migliore
sapeva giostrarsi in quella presente.
Mi stupirebbe invece
che sapesse mutare vita l'altro,
che copre con un saio a doppio giro
la propria tolleranza.
Il primo non attenderà
un mantello di porpora
e con qualunque veste addosso
passeggerà in centro fra la gente,
sostenendo con eleganza
la parte di entrambi, ricco o pezzente;
l'altro invece eviterà piú di un cane
o di una serpe
una clanide tessuta a Mileto,
e morirà di freddo
se non gli rendi il proprio saio.
Ridaglielo, ridaglielo
e lascialo vivere, questo sciocco.

Compiere imprese epiche
e mostrare in trionfo ai cittadini
i nemici presi in ostaggio,
avvicina al trono di Giove
e fa toccare il cielo:
incontrare il favore dei potenti
non è l'ultima delle glorie.
'Non tocca a tutti
arrivare a Corinto.'
Chi teme l'insuccesso non si muove:
lo capisco; ma chi ci arriva
non si è forse comportato da uomo?
Questo è il problema o non esiste in sé.
V'è chi rifugge da un fardello
troppo pesante per il coraggio
e il suo corpo, cosí meschini;
v'è chi l'affronta e lo sopporta.
O il valore è parola senza senso
o l'uomo che lo persegue a ragione
ne chiede ricompensa.

Chi davanti al proprio re tace
della sua povertà,
molto di piú otterrà di chi chiede:
non è certo la stessa cosa
strappare o prendere con discrezione.
Questo è il punto, la ragione di tutto.
'Una sorella senza dote,
una madre indigente,
un fondo che nessuno vuol comprare
e che non basta a sostenermi':
è come se implorasse:
'Datemi da mangiare'.
'Anche a me, anche a me', fa eco un altro.
E in due sarà divisa la pagnotta.
Se il corvo mangiasse in silenzio,
avrebbe cibo piú abbondante
e meno risse, meno invidie.
Cosí chi, invitato in compagnia
a Brindisi o alla splendida Sorrento,
si lagna dell'asprezza della strada,
del freddo penetrante e della pioggia,
e piange per la valigia sfondata,
per le borse sparite,
ripete le solite astuzie
della donnina
che ora singhiozza per la catenella,
ora per il fermaglio,
che le avrebbero trafugato,
tanto da non trovare credito
quando vere saranno
perdita e sofferenza.
Chi è stato un tempo vittima
in un crocicchio
degli scherzi di un saltimbanco,
non lo solleva piú da terra
quando la gamba è veramente rotta;
può piangere a dirotto,
giurare sul nome sacro di Osiride:
'Non è, non è uno scherzo,
credetemi: sono zoppo, aiutatemi,
uomini senza cuore'.
Urla roca la gente intorno:
'Cercati un forestiero'.

18, a Massimo Lollio


Se ti conosco bene,
libero come sei,
avrai paura, Lollio mio,
di far la parte dell'adulatore,
dopo esserti professato amico.
Vedi, un amico si distingue
da un adulatore malfido,
come la donna onesta dalla pubblica
nel cuore e nell'aspetto.

Ma c'è un difetto opposto,
un difetto forse piú grande:
la ruvidezza zotica,
sgraziata e fastidiosa,
che si affida a testa rasata e denti neri,
attribuendosi patente
di libertà assoluta e virtú vera.
La virtú sta in mezzo,
lontana da entrambi gli errori.
L'uno, piegato a un servilismo indebito,
derisore dei piú umili a tavola,
trasale a un solo gesto del signore,
ripete le sue frasi,
raccatta le parole che pronuncia,
cosí da sembrare un ragazzo
che recita a memoria la lezione
di un maestro impietoso,
o un mimo che sostiene
la parte della spalla.
L'altro invece disputa, e spesso,
su fondamenti di lana caprina,
si batte, armato di sciocchezze:
'Come, non dovrei dunque
essere fedele a me stesso?
e urlare ai quattro venti
ciò che ritengo verità?
Un'altra vita
non sarebbe compenso sufficiente'.
Ma sai di che si tratta?
se sia di Castore migliore Docile
o viceversa,
se per andare a Brindisi
sia meglio prendere
la via Minucia o l'Appia.

Se un delirio d'amore,
il vortice del gioco
ti spogliano di tutto,
e la vanità ti spinge a vestirti,
a profumarti oltre ciò che puoi,
se ti possiede
l'avidità sfacciata del denaro
e la vergogna
o lo spavento della povertà,
l'amico ricco,
che magari ha ben altri vizi,
sente avversione e disgusto di te,
e quando non sente disgusto,
pretende di redimerti,
come madre affettuosa
che ti voglia piú saggio
e virtuoso di sé,
e forse non parla a sproposito:
'Le mie ricchezze (non far paragoni)
permettono pazzie;
le tue sono modeste:
toga stretta si addice
a cliente assennato;
smettila di misurarti con me'.
Eutràpelo,
se voleva rovinare qualcuno,
gli regalava vestiti preziosi:
con le belle tuniche il fortunato
avrebbe assunto mentalità nuova,
nuove speranze,
dormito sino a giorno,
trascurato i doveri per l'amante,
e si sarebbe riempito di debiti,
finendo gladiatore
o per condurre a pagamento
il cavallo di un ortolano.

Vedi di non sondare mai
i segreti del tuo signore,
e serba per te le sue confidenze,
anche se il vino o l'ira
ti spingono a parlare;
non vantare i tuoi gusti
e non biasimare quelli degli altri;
e infine non comporre versi
quando lui desidera andare a caccia.
Cosí si ruppe l'armonia
dei due gemelli Anfione e Zeto
e tacere dové
la lira del poeta,
ambigua per il fratello severo.
Si arrese dunque Anfione
alla volontà del fratello:
arrenditi anche tu
agli inviti cortesi
dell'amico potente,
e quando va in campagna
con le giumente cariche di reti
e la muta dei cani,
alzati e lascia la senilità
della scontrosa poesia,
guadàgnati il pranzo col tuo sudore,
come fa lui del resto.
La caccia è attività virile,
che si addice ai romani,
e giova ai muscoli,
alla salute e alla tua fama,
soprattutto se, come te, si gode
dell'energia che basta
per correre meglio dei cani,
per battersi con i cinghiali.
E poi non c'è nessuno
che maneggi le armi
con destrezza maggiore:
tu sai con quali applausi
sostieni gli scontri nel Campo Marzio.
Hai persino prestato,
ancora giovinetto,
servizio militare
e combattuto le guerre cantabriche
sotto la guida di colui,
che va strappando le insegne romane
dagli altari dei parti
e aggiudica alle nostre armi
quanto ancora rimane.
E non ritrarti, non essere assente
dove dovresti;
anche se ogni cosa cerchi di farla
con regola e misura,
hai pure i tuoi trastulli
nella campagna di tuo padre:
gli eserciti dispongono i battelli
e fra i ragazzi in assetto di guerra
si combatte la battaglia di Azio:
tu sei il comandante,
tuo fratello il nemico
e il laghetto lo Ionio;
finché una vittoria alata
incorona d'alloro
uno di voi.
Se il tuo signore crederà
che tu apprezzi i suoi svaghi,
con tutto il cuore insieme a te
esalterà i tuoi.

Ed eccoti altri consigli,
se mai hai bisogno di un consigliere:
attento a come parli,
di chi e con chi parli.
Evita la gente curiosa:
è pettegola, ha orecchie aperte,
ma poca discrezione
per le tue confidenze,
e una parola detta prende il volo
senza rimedio.
E non ti roda il fegato
l'amore di un'ancella o di un fanciullo
entro le mura splendenti di marmi
del tuo onorabile amico:
potrebbe renderti felice
donandoti con noncuranza
il bel ragazzo, l'amata fanciulla
o rattristarti nel caso contrario.
Guarda bene chi raccomandi,
per non doverti vergognare subito
di colpe altrui.
A volte ci si sbaglia e
si presenta chi non lo merita:
in questo caso,
se la sua colpa è senza appello
e ti ha ingannato, smetti di proteggerlo.
Ma se conosci a fondo l'uomo,
devi salvarlo
dal morso delle accuse
e difenderlo come lui si attende:
quando il dente della calunnia
lo rode tutto intorno,
come non rendersi conto che in breve
anche per te
la vita si farà pericolosa?
Se brucia il muro di confine,
sta' certo, la faccenda ti riguarda:
l'incendio trascurato
può anche divampare.

Il favore di un amico potente
lusinga l'inesperto;
chi ne ha esperienza lo teme.
Se la tua nave corre in alto mare,
guàrdati che non muti il vento
e ti riporti indietro.
La gente triste odia quella allegra,
quell'allegra la triste,
l'attiva quella calma
e quella pigra l'agile e dinamica;
i grandi bevitori di falerno,
che tracannano sino a tarda notte,
non ammettono rifiuti neppure
se giuri
che i fumi di quel vino in piú
rischiano di comprometterti il sonno.
E non rannuvolare la tua fronte:
a volte la riservatezza
può sembrare misantropia
e il silenzio scontrosità.

Ma nel frattempo, leggi,
interroga i sapienti:
come tu possa in pace
trascorrere la vita;
se ti debba sempre agitare,
col suo tormento, una passione insanabile
o la speranza incredula
delle piccole vanità mondane;
se la virtú è frutto del sapere
o dono di natura;
e come alleviare l'angoscia,
cosa ti riconcigli con te stesso;
quale il germe della serenità:
l'onore,
i piccoli e piacevoli profitti,
o una via misteriosa,
un sentiero segreto della vita...
E io,
quando le fresche acque del Digenza
che bagnano Mandela,
un villaggio intirizzito dal gelo,
mi rimettono in forze,
cosa credi che senta,
cosa pensi che chieda, amico mio?
'Di avere sempre
quello che oggi ho,
e anche meno;
di vivere per me
il tempo che rimane,
se vogliono gli dei
che un po' me ne rimanga;
di avere libri in quantità
e provviste di grano per l'annata,
perché non debba oscillare sospeso
nel dubbio del domani.'
Basta pregare Giove
per quello che dare e togliere può:
la vita e i mezzi della vita;
a rendermi sereno l'animo
provvederò io stesso.

19, a Mecenate


Tu lo conosci, Mecenate:
a dargli retta, e sono secoli,
nessuna poesia
che nasca da una sbornia d'acqua
dovrebbe per Cratino
aver successo,
vivere a lungo.
Da quando Bacco
a Fauni e Satiri associò
quei matti dei poeti,
sin dall'alba le Muse
soavemente puzzano di vino.
E per aver lodato il vino
se ne deduce
che Omero fosse avvinazzato,
che senza aver bevuto
lo stesso padre Ennio
non si avventurasse in inni di guerra.
'Al foro, alla fossa dei tribunali
si caccino gli astemi, i moralisti:
non permetterò che scrivano versi.'
Dal mio editto in poi
tra i poeti è gara continua:
bere la notte,
puzzare il giorno.

Bene, allora imitare
la severità di Catone
col volto grave, i piedi scalzi,
la toga stretta e grezza,
vale in sé la virtú
e il carattere di Catone?
Sforzandosi con tutti i mezzi
d'apparire il piú caustico
e loquace possibile
per competere con Timàgene
in maldicenza,
a Iarbíta scoppiò il cuore.
Un modello imitabile in difetto
è un inganno: lo sai,
se io impallidissi
tutti berrebbero cumino
per diventare esangui.

Imitatori, pletora di servi,
la vostra presunzione
o muove a scherno
o mi riempie di sdegno.
Primo fra tutti e senza vincoli
io, io ho impresso la mia orma
su terre inesplorate,
non ho calcato quelle d'altri.
Chi crede in sé segna la via.
Per primo ho introdotto io
i giambi di Paro nel Lazio,
sposando metri e spirito di Archiloco,
non la materia e le invettive
che perseguirono Licambe.
Ma per questo, per non avere osato
mutare ritmi e tecnica poetica,
non credere di ornarmi
con corona di foglie piú effimere:
nel suo impeto Saffo regola
la poesia sui tempi di Archiloco;
e cosí la regola Alceo,
ma con materia e ordine diversi:
non s'inventa del resto un suocero
da coprire di fango coi suoi versi,
né una sposa a cui annodare il laccio
con accuse infamanti.
E Alceo, prima ignoto
alle cadenze della nostra lingua,
l'ho divulgato io,
io lirico latino.

Se pubblichi cose novissime,
dovresti essere sfogliato e letto
da persone stimabili.
Tu vuoi capire allora
l'ingratitudine di quel lettore
che in casa loda e ama i miei libretti
e fuori a collo torto li denigra.
Vedi, io non vado a caccia di voti
tra quei voltagabbana dei plebei,
offrendo qualche pranzo
e donando vesti da quattro soldi;
né mi agito sulla scena
delle varie tribú
di letterati e critici,
per ascoltare gli scrittori in voga
e propinargli poi le cose mie:
di qui tutti i distinguo.

Se dico
'Non recito i miei versi in pubblico,
perché li ritengo senza merito
e mi vergogno di dare importanza
a cose che non l'hanno',
mi si risponde
'Tu scherzi: le cose tue le conservi
per le orecchie di Giove,
perché nella tua vanità
ti lusinghi d'essere il solo
a stillare miele di poesia'.

A questo punto mi verrebbe voglia
di arricciare il naso,
ma per timore di essere graffiato
dalle unghie taglienti del rivale:
'Questo non è terreno mio', grido
e chiedo tregua. Tu lo sai,
dal gioco nascono dispute e ira,
dall'ira inimicizie orribili
e guerra solcata di lutti.

20, al libro


Ho l'impressione, libro mio,
che tu sia incantato da Vertunno e Giano,
s'intende bene per far mostra di te
tirato a lucido dai fratelli Sosio.
Ormai detesti chiavi e sigilli
cosí congeniali alla modestia,
ti lamenti d'esser poco conosciuto
e ritieni giusto venderti a tutti:
non t'avevo educato a questo.
Va' pure a sputtanarti dove vuoi,
ma una volta fuori, non illuderti di tornare.
'All'inferno quel che ho fatto e preteso',
dirai, al trauma della prima offesa,
e sappi che finirai in un angolo
quando la noia avrà sfinito chi ti ama.
Se non sono profeta di sventura
per risentimento verso il colpevole,
sarai di moda a Roma
finché non t'abbandona giovinezza;
ma quando, passato di mano in mano,
comincerai a gualcirti,
queste le probabilità:
venir roso stupidamente dalle tarme
in un silenzio di tomba,
rifugiarti a Útica
o in catene esser relegato a Ilerda.
E allora riderà chi t'ammoniva
senza successo, come il contadino
che, persa la testa, spinse nel baratro
lui stesso l'asino recalcitrante:
nessuno si prende la pena
di salvare qualcuno a suo dispetto.
Ma non basta: può accadere
che la vecchiaia ti colga balbuziente
ad insegnare nei sobborghi
l'alfabeto ai ragazzini.

Quando l'attenuarsi del sole
avrà riunito intorno a te
un certo numero di ascoltatori,
dirai loro che io,
nato da un liberto e di umili condizioni,
ho spiegato le ali ben lontano dal nido:
cosí ciò che togli alle origini
lo aggiungerai ai meriti;
e dirai che, stimato
dai nostri signori di pace e di guerra,
sono di bassa statura,
incanutito precocemente,
bruciato dal sole e facile all'ira,
ma pronto a placarmi.
Se poi ti chiedono la mia età,
ecco: ho compiuto quarantaquattro anni
a dicembre, l'anno in cui Lollio
s'è preso Lèpido come collega.


LIBRO SECONDO

1, a Cesare Augusto

Tanti e cosí grandi sono gli impegni
cui da solo devi far fronte
(difendere i domini dell'Italia con le armi,
migliorarla nei costumi, guarirla con le leggi),
che rubarti il tempo con un lungo discorso
offenderebbe, Cesare, gli interessi del popolo.

Romolo, padre Libero, Castore e Polluce,
che per le loro straordinarie imprese
ebbero l'onore del culto,
quando vivevano sulla terra
e incivilivano le genti,
componendo guerre atroci,
distribuendo campi, fondando città,
si lamentarono che al loro merito
non corrispondesse il plauso sperato.
E colui che schiacciò l'Idra tremenda e
sottomise famigerati mostri
con le fatiche impostegli dal fato,
dové convincersi che solo dalla morte
è domata l'invidia.
Chi con la sua autorità
umilia gli ingegni minori,
brucia del suo stesso fulgore,
e solo con la morte gli verrà amore.
Ancora in vita invece a te
noi già prodighiamo onori e ti consacriamo altari
su cui giurare per la tua divinità,
consapevoli che niente di simile
è mai accaduto e mai accadrà.

Ma solo nell'anteporti ai condottieri nostri e greci
il tuo popolo è saggio e giusto;
per il resto non giudica certo
con lo stesso criterio e misura,
e se togli ciò che considera
lontano nello spazio e compiuto nel tempo,
tutto l'infastidisce e tutto odia;
ammira insomma a tal punto gli antichi
da sostenere
che le tavole morali sancite dai decemviri,
i trattati sottoscritti dai re
con i gabi e con gli austeri sabini,
i libri dei pontefici
o i vetusti rotoli delle profezie
furono sul monte Albano dettati dalle Muse.
Ora, se è vero che le opere piú antiche
degli scrittori greci sono anche le migliori
e applicassimo lo stesso criterio
per giudicare quelle dei romani,
non varrebbe certo la pena
di sprecare altre parole;
sarebbe come dire:
non è la parte dura dell'oliva dentro,
né quella della noce fuori; o ancora:
siamo giunti all'apice della condizione,
si dipinge, suona e si lotta
con piú maestria dei greci, lucidi d'olio.
Se il tempo, come il vino, migliora la poesia,
vorrei sapere
quanti anni procurano valore a un'opera.
Uno scrittore, defunto cent'anni fa,
deve annoverarsi tra gli antichi e perfetti
o tra quelli moderni e senza pregio?
Un'idea deve pur dirimere la questione.
'Lo scrittore, morto ormai da cent'anni,
è certamente antico e collaudato.'
Come? e quello a cui manca un mese o un anno dalla morte
dove lo collochiamo?
fra gli antichi o fra i poeti che il nostro tempo
e quello a venire rifiutano?
'Ma fra gli antichi, è naturale,
e con onore, si porrà il poeta
a cui manca quel mesetto o un intero anno.'
E io approfitto della concessione
per strappare, diciamo, a quella coda di cavallo
prima un crine, poi un altro, finché,
col beffardo argomento
di un intero che si riduce a zero,
stendo il mio interlocutore,
che si rifà sempre al passato,
misura il merito dagli anni
e non ammira che le cose
già consacrate dalla morte.
Ennio, l'energico e sapiente Ennio,
come dicono i critici, il secondo Omero,
non si preoccupa certo se avranno séguito
le promesse del suo pitagorico sogno.
E Nevio non passa forse di mano in mano,
non si fissa in mente quasi fosse un moderno?
Tanta è la sacralità della poesia antica.
Quando poi nascono questioni di priorità,
si definiscono Pacuvio 'il gran vecchio erudito',
Accio 'il sublime',
Afranio 'togato, ma con il gusto di Menandro',
Plauto 'estroso come il suo modello, Epicarmo siculo',
Cecilio 'il piú profondo', Terenzio 'il piú fine'.
Questi i poeti
che s'imparano a memoria nella potente Roma,
che si applaudono nei suoi teatri colmi di folla.
Questi i suoi classici,
dal tempo in cui scriveva Livio sino ai giorni nostri.

Qualche volta il pubblico vede giusto;
ma può anche sbagliare.
Quando ammira ed esalta gli antichi poeti
sino a preferirli, escludendo ogni confronto,
a chiunque altro, ha torto.
Quando invece riconosce che in loro
si trovano espressioni troppo arcaiche,
spessissimo dure, e ammette che molte sono fiacche,
mostra buon gusto, s'intende con me
e giudica in grazia di Dio.
Non che io denigri l'opera di Livio
e ritenga che si debba distruggerla
(ricordo come, da ragazzo, Orbilio
me la dettasse a suon di frusta),
ma che la si consideri
per la purezza dello stile bella poesia
e vicinissima alla perfezione,
questo, confesso, mi stupisce.
Certo, spiccano momenti di grazia,
qualche verso piú armonioso degli altri,
ma non si può prendere e spacciare l'insieme
per opera di poesia.
Io m'indigno che qualcosa si critichi
non perché la si ritenga composta
in modo rozzo e senza gusto,
ma solo perché di tempi recenti,
e che per gli antichi, piuttosto che indulgenza,
si pretendano onori e premi.
Se io ponessi in dubbio che un dramma di Atta
possa reggere la scena tra croco e fiori,
tutti o quasi i nostri padri urlerebbero
che è morto ogni rispetto,
perché mi azzardo a criticare
gli spettacoli di attori 'profondi' come Esopo
o 'colti' come Roscio:
forse perché ritengono che abbia merito
solo ciò che è piaciuto a loro
o forse perché considerano umiliante
dar retta ai giovani
e ammettere che si debba da vecchi
gettare ciò che si è imparato in gioventú.
Chi poi celebra il carme saliare di Numa
e fa vista di capire lui solo
quello che né lui né io comprendiamo,
non porta certo onore agli antichi applaudendo i morti,
ma attacca noi e per invidia
sfoga il suo odio contro di noi e l'opera nostra.

Del resto, se cosí avversa al nuovo
fosse stata la Grecia, esisterebbero gli antichi?
e che mai avremmo di pubblico dominio
da leggere e rileggere
sino a consumarlo di mano in mano?
Quando, terminate le guerre,
i greci si concessero divertimenti,
scivolando per il benessere nell'incostanza,
s'appassionarono di volta in volta
per atleti e cavalli,
s'innamorarono degli scultori
in marmo, in avorio o in bronzo che fossero,
si estasiarono davanti ai dipinti,
si deliziarono di musica e tragedia;
come una bambina in tenera età
che, giocando con la nutrice,
abbandona in un angolo annoiata
ciò che prima desiderava tanto.
Credi forse che non mutino odio e amore?
Tutto fu conseguenza
d'una pace serena e della buona sorte.

Cosí a Roma:
per lungo tempo fu consuetudine alzarsi
e aprire la casa di buon mattino,
interpretare ai clienti il diritto,
investire il denaro su fede di gente onesta,
ascoltare gli anziani,
suggerire ai giovani come accrescere gli averi
e mitigare il danno delle voglie.
Poi d'un tratto i gusti del popolo mutarono
e ora non ha altra passione che quella di scrivere:
giovani e padri austeri, cinta la fronte d'alloro,
a fine pranzo recitano carmi.
Io stesso che assicuro di non scrivere piú versi,
mostrandomi piú bugiardo dei parti,
all'erta già prima che spunti il sole,
chiedo carta, penna e scrigno dei manoscritti.
Chi non s'intende di navi si guarda dal guidarle,
solo chi è esperto ordina l'abròtano al malato,
la medicina l'esercita il medico,
l'artigianato è in mano all'artigiano;
noi tutti invece, senza distinzione,
dotati o no, scriviamo poesie.
È un'illusione, una follia da poco,
ma tu guarda le virtú che possiede:
difficilmente il poeta ha l'avidità in cuore;
ama i versi e non ha altre passioni;
non fa conto di perdite economiche,
di schiavi che spariscono, di incendi;
non cerca di ingannare il socio o il suo pupillo;
vive di legumi e di pane nero;
è un soldato pigro, di pochi meriti,
ma se acconsenti
che le cose piccole giovino alle grandi,
è utile alla patria:
il poeta modella il labbro tenero
ed esitante del fanciullo, e fin dai primi anni
ne distoglie l'orecchio dai discorsi osceni,
gli educa l'animo con parole amiche,
lo sana dall'invidia, dalla durezza e dall'ira,
gli suggerisce buone azioni,
plasma la sua natura in boccio
con esempi famosi;
consola il povero e l'afflitto.
E da chi mai la fanciulla ignara d'amore
e i suoi puri compagni imparerebbero a pregare,
se le Muse non ispirassero i poeti?
Il loro coro, chiedendo aiuto agli dei,
ne avverte la presenza, e con in mente la preghiera
implora dolcemente dal cielo la pioggia,
allontana le malattie,
sconfigge la paura dei pericoli,
impetra la pace e l'annata ricca di raccolti:
in cielo e fra i morti gli dei si placano col canto.

Nell'antichità, forti e felici di niente,
i contadini, dopo la raccolta del frumento,
riposavano nei giorni di festa il corpo
e con questo lo spirito,
che nella speranza dell'esito migliore
l'aveva sostenuto.
Con i compagni di lavoro, con i figli
e la sposa fedele offrivano in sacrificio
alla Terra il porco, a Silvano il latte
e al Nume tutelare,
che ci rammenta quanto sia breve la vita,
il vino e i fiori.
Da queste usanze ebbero origine
i licenziosi fescennini,
che verso contro verso
lanciavano ingiurie sul mondo contadino,
e trovando fortuna, di anno in anno
la loro libertà divertí col suo garbo,
finché lo scherzo, svelando malizia,
prese a mutarsi in rabbia velenosa
e invase impunemente minaccioso
la casa di gente onorata.
Mordeva a sangue e gli offesi si lamentarono;
ma anche chi non fu colpito
si preoccupò di un pericolo che era di tutti.
Una legge allora, comminando la pena,
vietò che la maldicenza di quella poesia
condannasse qualcuno alla berlina.
E i fescennini cambiarono tono:
per paura del bastone
si ridussero a divertire senza offendere.

La Grecia conquistata
conquistò il suo fiero vincitore
introducendo le arti nel Lazio contadino:
cosí si estinse il selvaggio ritmo saturnio e
l'eleganza bandí la sua fastidiosa rozzezza.
Tuttavia tracce rusticane
rimasero per lungo tempo e ancora oggi rimangono.
Tardi infatti si volse il nostro ingegno ai libri greci;
solo durante la pace, dopo le guerre puniche,
si cominciò a indagare quale utilità
si potesse trarre dall'opera
di un Sofocle, di un Eschilo o di un Tespi.
Ci si provò a tradurli come meritavano
e ne venne orgoglio per la natura
sublime e ardente che ne scaturiva,
senso del tragico e impeto dell'estro,
anche se per inesperienza o per timore
si sdegnava il lavoro della lima.
Di norma si ritiene che,
per il fatto d'ispirarsi alla vita quotidiana,
la commedia costi pochissima fatica;
per la verità ne richiede tanta,
quanto minore è l'indulgenza che le diamo.
Osserva come Plauto sostiene i suoi personaggi,
l'efebo innamorato, il padre avaro,
il ruffiano insidioso,
e che istrione è nei suoi ingordi parassiti,
ma calca le scene con scarpe scalcinate:
la sua mira era riempire la borsa di quattrini
e poco gli importava
se la commedia stava in piedi o no.
Chi l'ambizione avvicina al teatro
sul carro della vanità,
basta una platea distratta ad abbatterlo,
una attenta per infiammarlo:
cosí poco, cosí niente ci vuole
per avvilire o esaltare
un cuore avido di gloria.
Ma vada in malora il teatro,
se un insuccesso mi fa dimagrire
e un'ovazione mi rimette in carne.

Questo poi spaventa il poeta nella sua fiducia
e lo induce alla fuga:
una maggioranza per numero,
ma non per dignità o merito,
pronta, ignorante e stupida, allo scontro fisico
in caso di attrito coi cavalieri,
chiede, nel bel mezzo del dramma, gli orsi o il pugilato:
la passione del popolino.
Anche se fra i cavalieri il senso dell'arte
è ormai passato dall'udito
all'ambiguo e labile piacere degli occhi.
Il sipario attende aperto per quattro ore o piú
che passino torme di cavalieri,
schiere di fanti,
poi che per sorte siano trascinati re
con le mani avvinte alla schiena
e sfilino veloci
bighe, carrozze, carri, navi
e in trionfo l'avorio saccheggiato,
tutto il bottino di Corinto.
Democrito avrebbe da ridere se fosse in terra
a vedere come l'incrocio inconsueto
di pantera e cammello o un elefante bianco
attirino gli sguardi della folla;
e osserverebbe piú attentamente la gente
che la scena, perché lo spettacolo che offre
è senza alcun dubbio piú interessante,
e penserebbe che gli autori
raccontano la favola all'asino sordo.
C'è mai voce che possa vincere il frastuono
che sale dai nostri teatri?
Sembra l'urlo dei boschi del Gargano
o del mare Tirreno,
tanto è lo strepito con cui si assiste agli spettacoli,
alla loro scenografia,
allo sfarzo esotico dei costumi,
di cui l'attore è paludato quando appare in scena:
e scrosciano gli applausi.
'Ha cominciato?' 'Non ancora.'
'E che cosa si applaude?'
'Ma la lana, che con la tintura di Taranto
ti rammenta il colore delle viole.'
E perché non si creda
che troppo sia avaro di lodi per un'arte
che al contrario di altri bravissimi, io non pratico,
dirò: il poeta, che con i suoi fantasmi
sconvolge il mio cuore, lo eccita, lo placa
e lo riempie di mitico terrore,
mi sembra un funambolo sulla fune tesa
e come un mago
mi trasporta ora a Tebe, ora ad Atene.

Ma tu, se vuoi che si riempia di libri
il tempio eretto in onore di Apollo
e che i poeti abbiano da te sprone
a salire il verde Elicona con piú cuore,
accorda un po' d'attenzione anche a quelli
che scelgono di affidarsi a un lettore
piuttosto che subire
i capricci arroganti degli spettatori.
Certo i poeti
si fanno spesso male con le loro mani
(mi taglio da me la mia vigna):
ti offriamo un libro quando sei preoccupato o stanco,
ci offendiamo se un amico osa censurarci un verso,
leggiamo passi già letti senza esserne richiesti;
ci lagnamo che le nostre fatiche,
il tessuto finissimo dell'opera,
non trovino la loro giusta luce;
pensiamo, questo è il punto,
che non appena tu sappia che componiamo versi,
sia quasi tuo dovere invitarci spontaneamente,
per impedire che noi si viva in miseria
e costringerci a scrivere.
Val la pena tuttavia di sapere
che sacerdoti debba avere il merito,
che ti si riconosce in guerra e in pace
e che non può essere affidato a un poeta indegno.
Ad Alessandro il Grande piacque un Chèrilo,
che per i suoi versi rozzi e incivili
fu compensato con filippi d'oro,
la moneta del re.
Ma come le mani sporche d'inchiostro
lasciano segni e macchie,
un cattivo scrittore offusca coi suoi versi
le grandi imprese.
E quello stesso re,
disposto a comperare a peso d'oro
un poema cosí ridicolo,
vietò con un editto a tutti di ritrarlo,
escluso Apelle,
e di raffigurare nel bronzo il suo volto,
fuorché a Lisippo.
Gusto certamente fine per le arti visive,
ma se gli avessi chiesto di applicarlo alla scrittura,
a questo dono delle Muse,
lo giureresti nato
nell'aria grossolana di Beozia.

Ma fanno onore al tuo giudizio su di loro
e ai favori di cui godettero
con merito del donatore,
i poeti che hai amato, Virgilio e Vario;
e l'opera del poeta rivela il cuore
e il carattere degli uomini illustri
non certo meno che le statue in bronzo
ne ricordino il volto.
E io non vorrei scrivere
conversazioni come queste, che volano basso,
ma il poema delle tue gesta
e descrivere i paesi del mondo,
i fiumi, le fortezze in cima ai monti,
i domini dei barbari e le guerre
concluse per il tuo comando in tutto l'universo,
le porte sbarrate di Giano
che custodiscono la pace,
e il terrore che i parti hanno di Roma
sotto il tuo principato:
se con la voglia ne avessi il potere.
Ma la tua maestà non consente canto minore,
e il mio pudore non osa tentare
ciò che le forze non permettono.
Il troppo zelo, quando difetta d'intelligenza,
infastidisce chi si ama,
e piú ancora quando si affida ai ritmi dell'arte:
vedi, s'impara presto l'oggetto del nostro riso
e si ricorda meglio
di ciò che si stima e si ammira.
Non me ne importa niente di un omaggio che mi pesa,
non desidero affatto che si esponga
la mia caricatura in cera
o ricevere lodi in versi zoppicanti,
non voglio arrossire di un dono grossolano
e, chiuso in una cassa con il mio poeta,
essere gettato lungo disteso nel quartiere
dove si vendono incenso, profumi, pepe
e tutto ciò che si avvolge in carta che piú non serve.

2, a Giulio Floro


Immagina, Floro, che a te,
fedele amico del valoroso e illustre
Nerone, qualcuno voglia vendere un ragazzo,
nato a Tivoli o a Gabi,
e contratti cosí:
'Guarda che meraviglia:
bello da cima a fondo,
con ottomila sesterzi lo prendi
e te lo porti via.
Nato in casa, pronto a tutti i servizi,
si guida con un cenno, sa di greco,
è adatto a qualunque mestiere:
lo plasmerai come vuoi, questa argilla tenera;
e sa cantare, senza grande scuola,
ma gradevolmente quando si beve.
Troppe promesse mettono in sospetto,
se per svendere si esalta la merce.
Non mi assilla il bisogno:
io non sono ricco, ma non ho debiti.
Nessun mercante ti farebbe una proposta simile,
né uguale l'otterrebbe da me il primo venuto.
Una volta, è vero, rincasò tardi
e, sai come accade, si nascose nel sottoscala:
era atterrito dalla frusta appesa al muro'.
Ora, se non avendo remore, salvo la fuga,
tu lo pagassi, quello intascherebbe i soldi
al riparo da ogni rivalsa, io credo:
i patti erano chiari,
conoscevi i difetti di ciò che compravi,
e tu non gli faresti certo il torto
d'implicarlo in una causa infondata, no?
Anch'io ti dissi, il giorno della tua partenza,
che sono pigro;
ti dissi che sono quasi negato
per simili doveri,
perché non mi rimproverassi con severità
se io non avessi risposto alle tue lettere.
A che è servito, se malgrado tutto
tu non riconosci il mio buon diritto?
E in piú protesti
perché, mancando di parola,
non ti mando quei versi che attendevi.

Un soldato di Lucullo, una notte,
mentre russava di stanchezza,
perdette, sino all'ultimo centesimo,
il gruzzolo raccolto in mezzo a tanti stenti;
come un lupo furioso allora,
in collera con sé e col nemico insieme,
esasperato per i morsi della fame,
cacciò, si dice, un presidio del re
da un luogo munitissimo e ben fornito di scorte.
Reso famoso dall'impresa,
venne insignito di ricompense al valore
e ricevette in piú ventimila sesterzi.
In quel lasso di tempo capitò che il generale,
volendo espugnare non so quale fortezza,
si mettesse ad esortare il soldato
con parole che avrebbero infuso coraggio
anche al piú timido:
'Va', o valoroso, ascolta il tuo cuore,
va' con buona fortuna
per ricevere dei tuoi meriti
solenne ricompensa.
Che aspetti dunque?'
Ma anche se contadino, quello che era scaltro,
gli rispose: 'Laggiú dove vuoi tu,
laggiú ci andrà chi ha perduto i quattrini'.

A Roma volle il caso che fossi educato
e imparassi quanto l'ira di Achille
fosse stata funesta ai greci.
Poi la mia cara Atene mi scaltrí quel tanto in piú
perché io avessi la voglia di distinguere
la dritta via da quella storpia
e di cercare verità nei boschi di Academo.
Ma tempi duri mi strapparono
da quel paese amato
e la furia della guerra civile
mi spinse per inesperienza fra le armi
che non erano in grado
di reggere il braccio di Cesare.
Quando poi Filippi mi congedò
avvilito, con le ali tarpate,
privato del focolare e del podere paterno,
l'arma della povertà mi spinse a scrivere versi.
Ma oggi che non mi manca da vivere,
quanta cicuta occorrerebbe per guarirmi,
se ai versi non preferissi un buon sonno?
Ogni anno che passa porta via qualcosa;
mi hanno rubato l'allegria, l'amore,
il gusto della tavola e del gioco;
e tentano di strapparmi la poesia:
che debbo fare?
Non tutti poi amano e stimano le stesse cose:
tu godi delle liriche,
un altro trova piacere nei giambi,
un terzo nel sale pungente
che, come in Bione, hanno le satire.
Mi sembrate tre convitati dai gusti diversi,
che chiedono in disaccordo fra loro
le pietanze piú disparate:
che cosa servire, che cosa no?
ciò che tu rifiuti, lo vuole un altro;
e ciò che tu desideri
è proprio ciò che è sgradito e indigesto agli altri due.

Ma a parte tutto, credi veramente
che io possa scrivere versi a Roma
in mezzo a tanti pensieri, a tanti disagi?
uno mi chiama a testimonio,
l'altro pretende che lasci gli affari
per ascoltare le sue recite;
il primo se ne sta al Quirinale,
il secondo laggiú in fondo all'Aventino,
e devi far visita a tutti e due:
pensa se sono distanze accettabili.
'Ma vi sono pure tratti spaziosi,
dove niente impedisce di pensare.'
E anche capomastri trafelati
che trafficano con muli e facchini,
macchine che sollevano macigni e travi immense,
un funerale che a fatica si fa strada
in lacrime fra quei carri pesanti,
una cagna arrabbiata che fugge da un lato,
una scrofa immonda che ti assale dall'altro:
avanti, provati a ordire versi armoniosi...
Tutti gli scrittori, nessuno escluso,
amano i boschi ed evitano la città,
devoti giustamente a Bacco,
che predilige il sonno e l'ombra:
e tu vuoi che io canti
fra tutti questi strepiti del giorno e della notte,
che insegua della poesia le orme misteriose?
Uno spirito che ha scelto Atene e la solitudine,
che ben sette anni ha dedicato agli studi,
che è invecchiato tra i pensieri e sui libri,
troppo spesso quando esce piú muto di una statua
fa ridere la gente:
e proprio io dunque,
in mezzo ai flutti della vita
e alle burrasche della capitale,
dovrei avvertire la voglia
di combinare fra loro parole
che ispirino il suono alla cetra?

Qui vivevano a Roma due fratelli,
oratore l'uno, giurista l'altro,
che solo elogi si scambiavano fra loro,
cosí che se per l'altro
questi era Mucio, quello doveva essere Gracco.
Una follia? ma non è la stessa
che vizia l'estro dei poeti?
Io scrivo liriche, quello elegie:
'un'opera mirabile
e cesellata dalle nove Muse!'
Ma prima osserva
con quanta presunzione, con quale sussiego
noi ci guardiamo intorno
nella sede allestita per i poeti di Roma;
poi se hai tempo, meglio, seguimi
e ascolta di lontano
cosa ci diciamo l'un l'altro
e come ci si incorona poeti
con queste nostre mani.
Si ricevono colpi,
ma con altrettanti si sfinisce il nemico,
come in un duello di gladiatori
che si trascina sino ai primi lumi della sera:
alla fine, per sua stessa ammissione,
io sono Alceo; e lui per me?
ma Callimaco, no?
e se ha ambizioni piú alte
sarà Mimnermo,
appellativo che lo rende tronfio.
Quante cose sopporto per vivere in pace
con questa razza irritabile dei poeti,
quando scrivo e invoco dal pubblico un suffragio;
ma se tralascio le ambizioni
e torna in me il senno,
potrei senza timore chiudermi le orecchie,
che tante letture di versi
hanno dovuto sopportare.

Si sorride di chi scrive cattiva poesia;
ma gli autori ne godono
e ammirano tanto sé stessi,
che, se tu taci,
si lodano da soli
per tutto quello che hanno scritto
con intima soddisfazione.
Certo, chi intende fare poesia che abbia senso,
deve con le sue tavolette assumere
il ruolo del censore scrupoloso;
e avere il coraggio di eliminare
tutte quelle parole che non brillano,
che non hanno spessore
e che ci sembrano prive di grazia,
anche se non intendono lasciarci
e nel segreto indugiano del nostro cuore;
deve con amore scoprire e rimettere in luce
espressioni felici,
che erano usate nell'antichità
dai vari Catone e Cetego
e che nella parlata comune il tempo ha offuscate,
rendendole per l'abbandono informi
e per vecchiaia vuote;
deve accogliere le parole nuove
che la fecondità dell'uso avrà prodotto.
Impetuoso e limpido come un fiume terso,
il poeta profonderà i suoi tesori
per arricchire di gioielli la lingua del Lazio;
sfronderà ciò che è troppo rigoglioso,
levigherà con esercizio attento
le asperità eccessive,
toglierà ciò che è privo di valore;
assumerà insomma
l'aspetto di chi scherza,
anche se è faticoso seguire il ritmo
ora del satiro,
ora quello selvaggio del ciclope.
Eppure vorrei apparire
scrittore insensato e senz'arte,
se i miei difetti m'infondessero piacere
o almeno un'illusione,
piuttosto che capire
e rodermi di collera.
Visse ad Argo un uomo di buona condizione,
che credeva di assistere a tragedie affascinanti
in un teatro vuoto,
dove sedeva felice e applaudiva;
per il resto, per i suoi doveri della vita
era normale: buon vicino, ospite amabile,
gentile con la moglie,
sapeva assolvere gli schiavi,
non s'infuriava se trovava manomesso
il sigillo di una bottiglia,
sapeva evitare un burrone o un pozzo aperto.
Quando, dopo una cura costosissima
che gli fecero subire i parenti,
a base di ellèboro puro per la bile,
il malanno guarí
ed egli ritornò in sé:
'Accidenti a voi, amici miei', disse,
'voi mi avete ammazzato, non salvato;
strappandomi la fonte del piacere,
mi avete brutalmente tolto
l'illusione piú dolce della mente'.

Che c'entra? la saggezza è utile:
ti fa rinunciare alle vanità,
lascia ai fanciulli i giochi
che convengono all'età loro,
non insegue parole
da intonare sulle lire latine,
ma t'insegna ritmo e misura della vita vera.
Per questo parlo con me stesso
e medito in silenzio:
se l'acqua non ti estinguesse la sete,
tu lo diresti al medico;
perché, se desideri piú di quanto già possiedi,
non osi mai confessarlo a nessuno?
se hai una ferita
e la radice o l'erba indicata non la guariscono,
eviti di curarti
con quella radice o erba che non giovano a nulla;
perché allora, avendo sentito
che quando si ricevono doni dal cielo
le stranezze della follia se ne vanno,
e tu non sei piú saggio da che sei piú ricco,
perché mai interpelli gli stessi consiglieri?
Se le ricchezze potessero renderti piú saggio,
meno avido e timoroso,
dovresti vergognarti che al mondo vivesse
un uomo piú ingordo di te.

Ciò che a peso si compra col denaro
diventa nostro;
ma in altri casi, a stima dei giuristi,
è l'uso che determina la proprietà:
allora il campo che ti nutre è tuo.
Il contadino d'Orbio,
quando erpica il seminato
che ti rifornirà di grano,
sente in cuore che il padrone sei tu:
paghi e ricevi uva, polli, uova,
un'anfora di vino;
cosí a poco a poco tu comperi un campo,
che forse fu acquistato
per trecentomila nummi o anche piú.
Che differenza c'è
fra possedere il tutto e
vivere alla giornata?
Chi un tempo ha comprato un campo a Veio o ad Aricia,
anche se non lo pensa,
compra i legumi che mangia per cena;
compra la legna che scalda il paiolo
al gelido calare della sera;
ma chiama suo il terreno sino a quel pioppo,
che determinando il confine
evita contese con i vicini.
Come se potesse considerarsi proprietà
un bene, che nello spazio fuggevole di un'ora,
può mutare padrone e diventare d'altri
per preghiera o denaro,
per violenza o senza appello per morte.
Allora, se l'uso di un bene
non è dato in eterno
e un erede succede a un erede
come onda sull'onda,
a che servono cascine e granai?
perché aggiungere ai boschi di Lucania
quelli della Calabria,
se la morte, che non si esorcizza con l'oro,
miete con le grandi anche le piccole cose?
Tanti non possiedono gemme, marmi, avori
o statuette etrusche, quadri, argenterie,
vesti tinte con porpora africana,
ma vi è anche chi non si cura d'averli.
Perché, di due fratelli, uno preferisca
ai folti palmeti di Erode
la quiete, i divertimenti, i profumi,
e l'altro, ricco e intrattabile, dall'alba al tramonto
dissodi terra incolta col ferro e col fuoco,
lo sa il Genio degli uomini,
che ci aggiudica la stella natale e ci accompagna,
dio della nostra natura che con noi muore
e muta sempre volto, ora bianco, ora nero.

Io voglio godere delle mie modeste sostanze
e lí attingerò quanto chiede il bisogno,
senza darmi pensiero
di come mi giudicherà l'erede
per non aver trovato piú di quanto ho avuto.
Ma voglio anche sapere
in che misura è diverso dal dissipato
un uomo semplice ed allegro,
e quanto differisce quello parco dall'avaro.
Altra cosa è dissipare i tuoi beni,
altra spendere senza sofferenza
e non affannarsi per accumulare di piú
e magari rubare la gioia di un attimo,
come alle feste di Minerva
quando si era ragazzi.
Lontana da me la sordida povertà:
io, grande o piccola che sia la nave su cui viaggio,
sarò sempre lo stesso.
Non sono spinto a vele gonfie
da un vento favorevole,
ma non passo la vita
a battermi con uno scirocco contrario;
per forze, ingegno, figura e valore,
per nascita e ricchezza
sono l'ultimo dei primi, il primo degli ultimi.

Non sei avaro, bene;
e con ciò? gli altri vizi
se ne sono andati forse con questo?
il tuo cuore è sgombro dalla vanità delle voglie?
ignora la paura della morte e l'ira?
ridi dei sogni, del turbamento della magia,
dei prodigi, delle streghe, dei fantasmi notturni,
dei filtri di Tessaglia?
conti con piacere i tuoi anni? perdoni agli amici?
diventi piú mite, migliore
con l'avvicinarsi della vecchiaia?
Che sollievo ne trai
se di tante togli una spina sola?
Se non sai vivere come si deve,
lascia il posto a chi lo sa fare.
Hai scherzato abbastanza,
mangiato e bevuto abbastanza:
è tempo di andarsene, prima che la gioventú,
allegra come è giusto,
ti maltratti e derida
per quel bicchiere bevuto di troppo.

3, Ars poetica, ai Pisoni


Se abbozzando una testa il pittore volesse unirla
a un collo di cavallo
e a membra d'ogni natura con pinne variopinte,
facendo terminare per orrore
le stupende fattezze della donna
con la coda nera di un pesce,
e vi mostrasse il tutto,
sapreste, amici miei, trattenere le risa?
Eppure, credetemi Pisoni, identico al quadro
è un libro, in cui le immagini senza costrutto
sembrano nascere dai sogni di un febbricitante,
dove né capo né piedi si accordano
in una figura compiuta.
'Ma poeti e pittori hanno sempre goduto
del giusto diritto di tentare qualsiasi strada.'
Lo so; è privilegio che rivendico e concedo,
ma non perché coi mansueti
si accomunino animali feroci
e con gli uccelli siano accoppiati i serpenti,
con gli agnelli le tigri.

Spesso, affrontando con grandi propositi
l'incipit di un'opera di largo respiro,
si appiccicano a quello uno o due brandelli di porpora
che brillino da ogni lato,
per descrivere il bosco sacro e l'altare di Diana,
i meandri dell'acqua, che scorre veloce
in mezzo all'incanto della campagna,
il fiume Reno o la rugiada dell'arcobaleno:
non era quello il luogo loro.
Sai magari copiare dal vero un cipresso,
ma non ti serve: chi paga vuole piuttosto
che tu lo dipinga mentre miracolosamente
si salva a nuoto dai relitti della nave.
Cominci a modellare un'anfora:
perché dal tornio in moto vien fuori un orciolo?
Insomma: ogni cosa va bene,
purché sia semplice e unitaria.

Guarda tu, padre, e voi figli degni di lui,
come il miraggio della perfezione
inganni tutti o quasi noi poeti.
Mi sforzo d'essere breve e divento oscuro;
inseguo l'eleganza e perdo nerbo, slancio.
Mi propongo il sublime e ottengo enfasi;
sono troppo prudente e timoroso
nell'affrontare le difficoltà
e striscio terra terra.
Si cerca la varietà del meraviglioso
in un soggetto semplice
e si dipinge un delfino nel bosco,
un cinghiale nel mare.
Se manca l'arte,
per evitare errori si cade in altri difetti.
L'artigiano di poco conto
nei pressi della palestra di Emilio,
sa con il bronzo rendere le unghie
e imitare il fluire dei capelli,
ma nell'insieme l'opera è mediocre
perché non sa rappresentare il tutto.
No, non vorrei essere lui nel mio lavoro,
come non vorrei nella vita avere un naso storto
e suscitare ammirazione
per il nero intenso degli occhi e dei capelli.
Se mai decidete di scrivere,
scegliete un argomento
che si adatti alle vostre forze;
verificate a lungo
quanto ricusino e quanto sopportino
le vostre spalle.
Ma se la scelta del soggetto vi appartiene,
non mancheranno eleganza
e limpidezza di armonia.
Se non m'inganno, l'armonia
ha questo merito, questa bellezza,
che l'autore dell'opera in lavorazione,
mentre accoglie questo o rifiuta quello,
dica ora ciò che ora si deve dire
e tralasci o rimandi il resto a tempo debito.
E anche per la finezza e la prudenza
nel legare fra loro le parole,
il tuo linguaggio sarà unico,
se un accostamento inconsueto
farà di una parola conosciuta
una parola nuova.
Quando è necessario dire con segni nuovi
concetti reconditi, t'avverrà
di coniare espressioni che i Cetegi,
nel loro costume, non udirono mai:
è libertà concessa se usata con discrezione;
e avranno credito parole nuove,
formate di fresco, se derivate
con ritegno da fonte greca.
Perché dovrebbero i romani
concedere a Cecilio e Plauto
ciò che negarono a Virgilio e Vario?
E se il linguaggio di Catone ed Ennio
arricchí il nostro modo di esprimersi
con la creazione di neologismi,
perché io sono guardato di sbieco
per i pochi doni che posso procurare?
È dato e sempre sarà dato
immettere vocaboli
che rechino il sigillo del presente.
Come il bosco muta le foglie
nel fluire degli anni
e cadono le prime,
cosí passa il tempo delle parole,
e hanno fioritura e vigore della gioventú
le ultime nate.
Noi e le nostre cose
siamo in obbligo con la morte.
E se per difendere le flotte dai venti
la terra accoglie il mare
per opera di re,
se la palude sterile da tempo, navigabile
dà nutrimento alle città vicine
e soffre il peso dell'aratro,
se il fiume muta il suo corso, che danneggia le messi,
e ne apprende uno migliore,
come opere di mortali periranno,
e a maggior ragione non potrà sopravvivere
il credito e la fortuna vitale della lingua.
Molte parole cadute in disuso rivivranno
e cadranno quelle che ora sono in onore,
se l'uso, in cui risiede
l'arbitrio, il diritto e la norma
del nostro idioma, lo vorrà.

Il metro, in cui si possono descrivere le gesta
di re e condottieri e l'amarezza della guerra,
ci fu rivelato da Omero.
L'unione di versi ineguali
racchiuse dapprima il compianto,
piú tardi il senso di un voto esaudito;
ma l'inventore del tenue metro elegiaco
è ancora discusso dai critici
ed è problema aperto.
Di Archiloco è il giambo, che armò la sua ira.
Poi questo piede fu assunto dalla commedia
e dalla solenne tragedia,
perché, adatto al dialogo
e in grado di vincere lo strepito della folla,
sembrò destinato all'azione.
Alla lirica la Musa affidò il compito
di cantare gli dei e i figli degli dei,
la vittoria dei pugili,
i cavalli primi arrivati nelle gare,
le pene della giovinezza
e l'ebbrezza del vino.
Se non conosco le leggi dell'arte
e non so usare i toni che le convengono,
come è possibile proclamarmi poeta?
e come preferire,
per un male inteso pudore,
di non intendersene invece che imparare?
Un argomento comico
non ammette un'esposizione in versi tragici,
come il pasto di Tieste non sopporta
d'essere narrato con versi d'ogni giorno,
quasi fossero di commedia.
Ogni cosa deve occupare con decoro
il posto avuto in sorte.
Malgrado questo, talvolta anche la commedia
alza la voce, e Cremete si scalda,
in preda all'ira, gonfiando le gote;
come nella tragedia Tèlefo e Peleo
soffrono con le parole di sempre,
quando, poveri ed esuli entrambi,
gettano in un canto le frasi altisonanti,
le parole eccessive,
se vuole il loro pianto
toccare il cuore dei presenti.

Non basta che la poesia sia bella;
deve suscitare piacere
e condurre il nostro spirito dove preferisce.
Come a un volto ridente si sorride
e si partecipa al dolore di chi piange,
se vuoi che io pianga, devi provar dolore tu stesso;
allora, Tèlefo e Peleo,
mi toccheranno le vostre sventure;
ma se reciti male la tua parte
io m'addormento oppure rido.
Parole tristi si addicono a un volto mesto,
quelle minacciose ad uno adirato,
a quello allegro le scherzose,
all'austero le gravi.
Perché, secondo le infinite condizioni umane,
prima ci forma dentro la natura,
ci rallegra, ci spinge all'ira,
ci prostra e ci tormenta
sotto il peso della tristezza,
poi, traducendoli in linguaggio,
esprime i sentimenti.
E quando le parole stonano
con le vicende di chi parla,
tutti a Roma, popolo e cavalieri,
levano una risata.
Troppo sono lontani
i linguaggi della divinità e degli eroi,
di un vecchio attempato e di un giovane vivace
ancora nel fiore degli anni,
di una dama imperiosa, di una nutrice zelante,
di un mercante errabondo,
del contadino che cura il suo campicello verde,
dell'uomo della Còlchide o dell'Assiria,
di quello allevato a Tebe o ad Argo.

O si attiene alla tradizione, lo scrittore,
o deve inventare caratteri
che siano coerenti.
Se lo rimette in scena,
un Achille che si rispetti
sarà scattante, irascibile, spietato, aggressivo,
senza legge che riconosca
e col solo diritto delle armi.
Medea sarà feroce e indomabile,
Ino compassionevole, perfido Issione,
errabonda Io e Oreste torvo.
Se poi vorrai portare sulla scena
un'esperienza inedita,
creare un nuovo personaggio,
dovrai sostenerlo come l'hai presentato,
coerente con sé stesso sino alla fine.
Non è facile dire in modo proprio
l'inespresso che abbiamo dentro;
ma meglio che proporre novità inesplorate,
è bene porre in scena un canto dell'Iliade.
È materiale pubblico che diventerà nostro,
se non ti perdi nel cerchio banale del già noto,
o non ti affanni a rendere
parola per parola
come un fedele traduttore,
se non ti riduci, seguendo un modello, in strettoie
dalle quali il troppo rispetto
o le esigenze artistiche
impediscono di cavare i piedi.
Cosí non cominciare come quel poeta ciclico:
'La sventura di Priamo canterò
e la guerra famosa'.
Cosa mai potrà offrirci il millantatore
che stia all'altezza di un esordio tale?
La montagna ha le doglie e, ridi, nasce un topolino.
Quanto meglio il poeta
che nulla incomincia a sproposito:
'Dimmi, Musa, dell'eroe che, caduta Troia,
vide i costumi e le città di molti uomini'.
Di trarre la luce dal fumo,
non il fumo dalla scintilla,
questo si propone, per ridestare
la meraviglia delle sue invenzioni:
Antífate, Scilla, Cariddi ed il Ciclope.
Non inizia il ritorno di Diomede
con la morte di Meleagro,
né la guerra di Troia dalle due uova del mito,
ma si affretta dritto alla meta,
trascina il lettore in mezzo agli eventi,
come se questi gli fossero noti,
e tralascia le parti che ritiene
non possano brillare nella narrazione;
e cosí inventa, mescola il vero col falso,
perché tutto, inizio e fine, armonizzi col suo centro.

Ora, se vuoi che la gente batta le mani
in attesa che si levi il sipario
e rimanga a sedere
sino a quando l'attore esclama:
'applaudite, applaudite!',
le esigenze, mie e del pubblico,
sono queste, che i caratteri di ciascuna età
siano riconoscibili
e che a questi sia dato il colorito
che conviene col mutare degli anni.
Il bambino, che ha imparato a parlare
e a reggersi senza incertezze in piedi,
smania di giocare coi compagni d'età,
s'arrabbia e si calma senza ragione
e di ora in ora è diverso.
Il giovanotto imberbe,
finalmente libero da tutela,
ha la passione dei cavalli,
dei cani e del prato in pieno sole del Campo Marzio;
si piega ai vizi come cera,
è insofferente con chi l'ammonisce,
lento a individuare il proprio utile,
eccessivo, prodigo, appassionato,
un lampo nel lasciare ciò che ama.
Mutano con l'età
le inclinazioni dell'uomo maturo
e al suo cuore premono amicizia e ricchezze,
schiavo dell'ambizione,
si guarda dal cominciare un'impresa
che poi sia difficile abbandonare.
Il vecchio infine, assediato da tutti i suoi malanni,
ha desideri ancora, ma per avarizia
e per timore d'intaccarlo
si astiene da ciò che ha ottenuto,
mette mano alle cose col gelo della paura,
rimanda, fa progetti nel tempo che non conclude,
è avido di futuro, scontroso, brontolone,
pieno di lodi per il tempo andato,
quand'era ragazzo, di mortificazioni
e censure per chi è piú giovane di lui.
Affacciandosi, gli anni portano vantaggi,
ma altrettanti ne tolgono passando.
Non si affidi a un giovane la parte di un vecchio
o a un fanciullo quella dell'uomo:
qualche carattere tipico dell'età
rimarrà sempre.

L'azione ha luogo sulla scena
o la si narra come già accaduta.
Ciò che coglie l'udito eccita meno l'animo
di quanto con evidenza si offre alla vista
ed è immediatamente recepito.
Ma non è il caso di mettere in scena
un'azione che sta bene dietro le quinte:
molto si deve togliere alla vista
di ciò che nei particolari
un testimone può narrare.
Non è possibile che in presenza del pubblico
Medea uccida i figli,
che con infamia Atreo davanti a tutti
arda viscere umane,
o che Procne si tramuti in uccello,
Cadmo in serpente:
l'incredibilità di un simile spettacolo
mi riesce insopportabile.

Il lavoro teatrale che aspira
ad essere rappresentato e replicato,
dopo la prima recita,
non deve essere piú breve, né piú lungo
di cinque atti.
La divinità non interverrà che nei momenti
in cui è necessaria per risolvere l'intreccio;
e il quarto personaggio
non deve preoccuparsi di parlare.

Il coro sosterrà la sua parte di attore
e il ruolo che gli spetta,
senza intonare, fra gli atti, intermezzi
che divagando
non si leghino direttamente al soggetto.
Ma avrà atteggiamenti di simpatia
e consigli affettuosi per i buoni,
frenerà l'odio,
avrà caro chi teme di peccare;
loderà la sobrietà della mensa,
il valore della giustizia,
le leggi e la pace che spalanca le porte;
manterrà i segreti affidatigli,
invocherà gli dei
e li pregherà perché la fortuna
ritorni agli infelici e s'allontani dai superbi.

Un tempo il flauto non era rivestito di rame,
tentando di rivaleggiare con la tromba,
ma semplice, sottile, e pochi fori gli bastavano
per accompagnare il coro e riempire col suo suono
le scalee ancora poco affollate,
dove si radunava un pubblico
che si poteva contare tanto era scarso,
e galantuomo, casto, verecondo.
Poi quando quel pubblico vittorioso
cominciò ad estendere i suoi domini
e mura piú ampie circondarono la città
e si prese a festeggiare col vino
senza timore il nume tutelare
lungo tutti i giorni di festa,
maggiore licenza travolse ritmi e melodie.
Cosa poteva mai intendere
il villano ignorante dei giorni di festa
confuso con il cittadino,
l'infame con l'onesto?
Cosí il flautista aggiunse all'arte primitiva
movimento e ostentazione, agitandosi
qua e là sul palco con il suo costume;
furono aumentate le corde della lira
togliendole severità,
e l'enfasi sconsiderata
portò a uno stile stravagante,
tanto che la saggezza delle massime profetiche
non si distinse piú
dall'oscurità dell'oracolo di Delfi.
E l'autore che aveva affrontato l'agone tragico
per il misero premio di un caprone,
presto spogliò anche i satiri dei campi
e tentò, pur mantenendo il decoro,
un suo modo pungente di scherzare,
perché doveva trattenere,
col magico piacere della novità,
spettatori reduci dalle libagioni
di un rito sacro e ormai senza piú legge.
Ma per rendere accettabili le risate
di questi satiri mordaci
e fare in modo che la tragedia si muti in scherzo,
è necessario che la divinità o l'eroe,
ammirati alla loro apparizione
nella regalità dell'oro e della porpora,
non finiscano per la volgarità del linguaggio
nella caligine di una taverna
o che per evitare le paludi
si librino nel vuoto tra le nubi.
La tragedia, cui non s'addice
una farragine di versi futili,
avrà un certo pudore, come una signora
obbligata a danzare nei giorni di festa,
a perdersi in mezzo all'arroganza dei satiri.
Io, amici Pisoni,
come autore di drammi satireschi,
probabilmente non adotterei
soltanto una lingua scarna e senza traslati,
e non vorrei allontanarmi tanto
dallo stile tragico, che nessuna differenza
rimanesse tra il linguaggio di Davo,
della sfacciata Pitias,
che sa estorcere denari al povero Simone,
e quello di Sileno,
custode e servitore del suo alunno divino.
Ma cercherei uno stile poetico
inventato sul linguaggio comune,
in modo che ognuno credesse
di poterlo rifare,
e tentandolo con grande fatica,
sempre sudasse invano:
tanto è il potere dei nessi e dell'ordine,
tanto il rilievo che acquistano le voci
derivate dal quotidiano.
Strappati dalle selve, a mio parere,
non vorrei che i fauni cercassero di fare
i bellimbusti con versi troppo leziosi
o con valanghe di ingiurie scurrili,
come figli della volgarità
o della frivolezza della piazza:
la gente che compra i ceci fritti e le noci
forse sarà contenta,
ma i cavalieri, i ricchi e i nobili
resteranno offesi e, non ascoltando volentieri,
rifiuteranno il plauso.

Con la sua sillaba breve seguita da una lunga,
rapido è il ritmo del giambo, che diede nome
per accrescimento al trímetro giambico,
sebbene questo desse sei battute,
dalla prima all'ultima tutte uguali;
in seguito, perché il suo ritmo
giungesse all'orecchio piú lento e grave,
accettò di condividere i diritti acquisiti
con l'immobilità degli spondei;
disponibile e tollerante,
ma non al punto di cedere per socievolezza
la seconda e la quarta sede.
Nei celebrati trímetri di Accio
il giambo compare di rado,
mentre accusa con violenza i versi di Ennio,
messi in scena come massi pesanti,
d'improvvisazione, sciatteria e ignoranza d'arte.
Non tutti sono buoni giudici
nell'intendere la dissonanza dei versi,
e ai poeti romani
è stata accordata un'indulgenza offensiva.
Ed è ragione questa
perché i miei versi vaghino oltre ogni licenza?
Oppure, nel timore
che tutti vedano i difetti miei,
mi terrò prudentemente al sicuro
dentro i limiti in cui si spera venia?
Cosí eviterei l'errore,
ma non meriterei certo la lode.
Sfogliate i greci, sfogliateli giorno e notte.
È vero che i vostri vecchi esaltarono di Plauto
non solo l'arguzia, ma anche i versi:
ammirazione l'una e l'altra
inficiata da tolleranza o, meglio, da stoltezza,
se almeno io e voi
sappiamo distinguere volgarità da finezza
e giudicare con le dita e con l'orecchio
la regolarità di un suono.

La tradizione afferma che fu Tespi
a inventare ex novo il genere tragico,
allestendo sopra carri i suoi drammi,
che uomini con la faccia sporca di mosto
rappresentavano cantando.
Dopo di lui Eschilo, creatore della maschera
e del costume congeniale,
innalzò con piccole travi un palco per la scena
e insegnò a parlare in modo elevato
e a calzare i coturni.
Seguí a questi la commedia antica,
con tutti i meriti che ha;
ma la sua franchezza degenerò
e si fece cosí violenta
da doversi reprimere con una legge.
La legge fu sancita
e il coro, privato del diritto di offendere,
tacque con ignominia.

I nostri poeti hanno tentato tutto
e non meritano piccola gloria
per l'ardimento
nell'abbandonare le orme dei greci
e nel celebrare le opere di Roma,
fossero autori di preteste o di togate.
Ma il Lazio non sarebbe piú potente
per il valore o la fama delle sue armi
di quanto non lo sia in letteratura,
se il paziente lavoro della lima
non avesse disgustato tutti i nostri poeti.
Voi no, sangue di re Pompilio;
voi condannerete certo la poesia,
che nel tempo interminabili correzioni
non abbiano sgrossato
e con continui tagli ridotto alla perfezione.

Democrito credeva che la fantasia
avesse maggior rilievo dell'impegno dell'arte
ed escluse dall'Elicona
i poeti sani di mente:
per questo gran parte di loro
non si taglia le unghie,
non si rade la barba,
cerca la solitudine
e diserta le terme.
Cosí troverà nome e fama di poeta
chi non avrà mai affidato il capo,
che nemmeno le tre Antícire
potrebbero salvare,
al barbiere Licino.
Sciocco io, che verso primavera purgo la bile!
Sarei il piú grande poeta del mondo:
ma non ne varrebbe la pena.
Ecco: farò la parte della cote,
che non è fatta per tagliare,
ma per affilare la lama.
Senza scrivere una riga di mio,
insegnerò al poeta
il suo compito e il suo dovere,
dove trovare gli strumenti,
come si educhi e si formi,
cosa convenga e cosa no,
dove lo conduca la coscienza dell'arte,
dove l'errore.

Principio e fonte dell'arte nella scrittura
è la sapienza:
la letteratura socratica
potrà fornirti la sostanza
e alla sua luce
le parole senza volerlo seguiranno.
Chi conosce il suo debito verso la patria,
verso gli amici,
l'amore che si deve al padre,
al fratello o all'ospite,
il suo dovere come senatore, come giudice,
i compiti del generale in guerra,
saprà attribuire
ad ogni personaggio il suo carattere.
E a chi vuole interpretarlo con maestria
il mio consiglio è di tenere la vita
come modello e da questa trarre figure vive.
A volte un'opera, pervasa di luoghi comuni
e di caratteri ben delineati,
anche se priva di bellezza,
senza peso e senz'arte,
piace di piú al pubblico
e lo intrattiene con piú forza
di versi vuoti come chiacchiere armoniose.

Ai greci, che sono avidi soltanto di gloria,
la Musa ha dato fantasia
e qualità di esprimersi in modo perfetto;
mentre ai nostri ragazzi s'insegnano lunghi calcoli
per dividere in centesimi un asse:
'A te, figlio di Albino: se da cinque once
se ne toglie una, cosa resta di un asse?
Avanti, che lo sai...'
'Un terzo.' 'Bene, saprai conservare
il tuo patrimonio. E se invece aggiungi un'oncia,
cosa ti viene?' 'Mezzo asse.'
E quando questa ruggine,
questo attaccamento al denaro
avrà intaccato l'animo,
pensi mai che possa nascere poesia
da conservare, unta con olio di cedro,
in uno scrigno levigato di cipresso?

I poeti si propongono di piacere
o di giovare,
oppure di dire a un tempo cose piacevoli
e utili alla vita.
Ma breve, in ogni caso, sia il tuo insegnamento,
perché lo spirito di chi vuole imparare
afferri subito le tue parole
e le ritenga fedelmente a lungo:
il superfluo trabocca da un cuore ricolmo.
E vere devono sembrare
le cose che s'inventano per dilettare;
nessun racconto può pretendere
d'essere creduto in tutto ciò che vorrà:
è assurdo che la strega Lamia partorisca vivo
il fanciullo che ha mangiato.
Le schiere degli anziani disapprovano le opere
che non abbiano a fondamento l'utile;
superbamente i Ramni
passano sotto silenzio l'arte severa;
chi unisce il piacevole al giusto,
divertendo il lettore e dandogli consigli,
avrà il voto di tutti,
e il suo libro sarà un affare
per gli editori Sosio, passerà il mare e, per la fama,
prolungherà nel tempo la vita dello scrittore.

Ci sono colpe però che vorremmo perdonare:
perché la corda non sempre risponde
col suono giusto
alle intenzioni interne della mano
e lo emette acuto quando lo si vorrebbe grave,
o perché non sempre l'arco colpisce
l'oggetto minacciato.
In un carme che risplende tutto di luce,
piccole macchie, lasciate cadere per incuria
o per imprevidenza umana, non mi offendono.
E allora? Come un copista, che per quanto avvisato
commette sempre gli stessi errori, non è scusabile,
o un suonatore di cetra, che sbaglia
sempre lo stesso accordo, ci fa ridere,
cosí chi ha troppe pecche è come quel Chèrilo,
che io ammiro sorridendo
quando raramente esce in qualche bel verso,
mentre mi sdegno ogni volta che il grande Omero
sonnecchia: ma in un'opera lunga è scusabile
che di tanto in tanto s'insinui il sonno.

La poesia è come la pittura,
che a volte apprezzi da vicino e altre da lontano.
Un quadro ama la penombra,
quell'altro, che non teme l'occhio sottile del critico,
vuole essere guardato in piena luce;
uno piace solo una volta,
l'altro piace e piacerà sempre.

Ma tu, che dei giovani sei il maggiore,
anche se alla via giusta ti ha formato il padre
e hai gusto per natura,
ascolta e porta a mente questa mia sentenza:
in certi campi un livello medio, passabile
è consentito:
un giurista o un avvocato mediocri
distano molto dal valore
che ha l'eloquenza di Messalla
o dal sapere di un Aulo Cascellio,
eppure sono rispettabili;
ma ai poeti né uomini né dei
né chioschi di librai
hanno concesso d'essere mediocri.
Come in un banchetto gradevole
un concerto stonato, un profumo spiacevole,
il miele sardo con i semi di papavero
danno fastidio,
perché il pranzo poteva farne a meno,
cosí la poesia,
nata e creata per la gioia dello spirito,
se non si mantiene in vetta, precipita.
Chi non sa giocare non usa gli attrezzi da gara
e se non s'intende di palla, disco o cerchio,
se ne sta tranquillo, senza suscitare a ragione
il riso tra le fitte fila degli spettatori;
ma chi non sa fare poesia insiste nel farla.
In fondo sono cittadini liberi,
come lo erano gli avi, e ciò che piú conta
censiti col reddito che fa cavalieri
e immuni da vizi di sorta.
Tu no, se Minerva non vuole,
non dirai e non farai nulla a suo dispetto,
per il giudizio e l'intelligenza che hai.
E se un giorno scriverai qualcosa,
lo farai leggere al critico Mecio,
a tuo padre e a me; lo terrai chiuso per nove anni
nella cassetta delle pergamene,
e se allora non l'avrai pubblicato,
potrai distruggerlo:
una voce che si lancia all'esterno
non torna piú indietro.

Orfeo, sacerdote e interprete degli dei,
distolse gli uomini selvaggi
dalle stragi e da nutrimenti atroci,
e si disse per questo
che ammansiva le tigri e i leoni feroci;
anche di Anfione, fondatore di Tebe, narrarono
che muoveva le pietre al suono della lira,
spostandole dove voleva
con la dolcezza della sua preghiera.
Cosí a quel tempo era la sapienza:
distinguere il pubblico dal privato,
il sacro dal profano,
interdire l'amore libero da vincoli,
promulgare il diritto di famiglia,
fondare le città,
incidere su tavole le leggi.
Ed ebbero onore, grande notorietà,
per l'ispirazione divina,
i poeti e la poesia.
Poi venne l'impronta di Omero,
e Tirteo col suo canto
eccitò alla guerra i cuori virili;
gli oracoli si esprimevano in versi
e in versi fu mostrata la retta via della vita;
con le armonie delle Muse si guadagnò
il favore dei re,
e con l'invenzione dell'arte scenica
si procurò sollievo alle lunghe fatiche.
Questo ti dico, perché tu non debba vergognarti
della Musa, che conosce i segreti della lira,
e del canto di Apollo.

Ci si chiede se la qualità della poesia
risieda nell'ispirazione o nella tecnica:
io non capisco a che servirebbe lo studio
senza una vena autentica
e a che servirebbe l'ingegno senza educazione:
uno richiede l'aiuto dell'altro
e in armonia cospirano fra loro.
Chi nella corsa aspira
a raggiungere la meta che si è prefisso,
da ragazzo ha faticato e sofferto,
ha patito il caldo e il gelo,
si è astenuto dall'amore e dal vino;
e il flautista, che suona ai giochi pitici,
prima ha studiato e temuto il maestro.
Ma oggi basta dire:
'I versi che scrivo sono meravigliosi.
Peggio per gli ultimi; restare indietro
è vergognoso, come confessare
che, non avendo studiato, troppe cose non so'.
C'è anche il poeta ricco di possedimenti
o ricco per usura,
che attira a sé gli adulatori
con la speranza del guadagno,
come fa il banditore,
quando raduna gente intorno alla sua merce.
Se poi ha modo d'imbandire buoni pranzi,
di garantire il povero che non ha credito,
di liberarlo quando è implicato in cause intricate,
mi meraviglierò
se, per sua fortuna, saprà distinguere
l'amico sincero dal falso.
Se hai fatto o vuoi fare un piacere a qualcuno,
non invitarlo, quando è nel pieno dell'euforia,
a sentire i tuoi versi,
perché esclamerà: 'bello, bene, perfetto',
e impallidirà, verserà persino lacrime
dagli occhi inteneriti
e s'agiterà, batterà il ritmo col piede.
Come coloro, che pagati
per piangere nei funerali,
si lamentano e si turbano piú di quelli
che sono veramente addolorati,
chi ti prende in giro si agita di piú
di chi ti apprezza veramente.
I tiranni, è storia, per assicurarsi che un uomo
fosse meritevole di amicizia,
lo sottoponevano alla prova del vino
circondandolo di bicchieri;
se fai versi, non t'ingannino mai
le intenzioni segrete della volpe.
Quando leggevi qualcosa a Quintilio,
ti diceva: 'Correggi questo, ti prego, e quest'altro'.
Se gli rispondevi d'esserti provato
piú di una volta senza riuscire a far meglio,
consigliava di cancellare tutto
e di battere a nuovo sull'incudine
i versi mal riusciti.
Ma se preferivi difendere l'errore
anziché toglierlo, non sprecava altro fiato
e rinunciava alla fatica inutile
d'impedire che tu, senza confronti,
amassi te stesso e l'opera tua.
Il critico sincero e competente
censurerà i versi brutti,
stroncherà quelli faticosi,
traccerà con la penna un rigo nero di traverso
su quelli disadorni,
toglierà via gli ornamenti ambiziosi,
ti spingerà a rendere limpidi i luoghi opachi,
individuerà quelli ambigui,
annoterà le cose da cambiare,
ecco: diventerà un Aristarco,
ma non dirà mai: 'Perché urtare un amico
per delle inezie?'
No, quelle inezie diverranno serie,
quando desteranno sorrisi
e accoglienze maligne.

I saggi evitano e temono il contagio
del poeta pazzo, come quello di un uomo
affetto dalla scabbia,
dall'itterizia, dal furore religioso
o dall'ira di Diana; i ragazzi imprudenti invece
lo seguono e lo stuzzicano.
Se poi nel suo vagabondare a testa in aria,
ruttando versi,
cadesse, come un cacciatore in attesa di merli,
dentro un pozzo o in un fosso,
può gridare fino a sgolarsi
'aiuto, gente, aiuto',
nessuno si preoccuperà di tirarlo fuori.
E se qualcuno si preoccupasse di aiutarlo,
gettandogli una fune,
io gli dirò: 'E come sai
che non si sia buttato a bella posta
e che poi voglia essere salvato?'
e gli racconterò la morte
di quel poeta siciliano, Empedocle,
che per essere creduto immortale
come gli dei, si gettò a sangue freddo
dentro il fuoco dell'Etna.
Si lasci al poeta il diritto,
la libertà di togliersi la vita:
salvare chi non lo vuole, è come ammazzarlo.
Non è la prima volta; e se lo tiri fuori
rimarrà solo un uomo, che rinuncia
all'amore di una morte esemplare.
Non è chiaro del resto
per quale maledizione insista a far versi:
per aver orinato sulle ceneri del padre?
per aver profanato
l'orrendo luogo colpito dal fulmine?
certo è pazzo; e come un orso che sia riuscito
a rompere le sbarre della gabbia,
declamando spietatamente,
mette in fuga dotti e ignoranti.
Se poi ghermisce qualcuno, lo blocca
e leggendo lo uccide,
come una sanguisuga che non allenta la presa,
finché non è gonfia di sangue.