ARTHUR RIMBAUD

OPERE IN VERSI E IN PROSA I
TRADUZIONE DI DARIO BELLEZZA


POESIE

LE STRENNE DEGLI ORFANI

I

La camera è buia: vagamente ascolti
di due fanciulli il dolce e triste piagnucolare.
Piegano la fronte, ancora di sogni carica
sotto la lunga tenda bianca che trema e si solleva...
- Fuori gli uccelli si stringono, intirizziti;
con le ali intorpidite sotto il grigiore del cielo;
e l'Anno Nuovo, dalla scia brumosa, trascinando
le pieghe del suo nevicato vestito,
piangendo ride, e rabbrividendo canta...


II

Ora i piccolini, sotto la tenda ondeggiante
parlano a bassa voce, come durante una notte oscura.
Ascoltando, pensosi, come un mormorare lontano.
Sussultando sovente alla chiara voce d'oro
del timbro mattinale che in continuo scandisce
il suo ritornello metallico nel suo globo di vetro...
- La stanza è gelata... Languiscono, per terra,
sparsi intorno ai letti, gli abiti di dolore:
l'aspra tramontana che geme sulla porta
soffia nella casa il suo fiato malinconico.
In tutto si sente che manca qualcosa.
- Non c'è dunque una madre per questi bambinelli,
dal fresco sorriso, dagli alteri sguardi?
Ha dunque dimenticato, a sera, a capochino, sola,
di attizzare una fiamma strappata alle ceneri,
d'ammucchiare su di loro le coperte di lana,
prima di lasciarli gridando: Perdono!
Non ha per caso previsto il freddo mattinale?
Né ha chiuso bene la porta al vento invernale?
- Il materno sogno è il tiepido tappeto,
è il nido ovattato dove fanciulli nascosti
come uccelli graziosi che fanno oscillare i rami
dormono un sonno dolce di bianche visioni.
- Là c'è solo un nido senza calore né piume
dove i piccini tremano, svegli, pieni di paura;
un nido che la tramontana amara ha reso gelato.


III

Il cuore vostro ha capito: - quei fanciulli sono senza madre.
Non c'è più madre, né nido! - Né il padre è presente!...
- Ne ha preso la cura, allora, una vecchia domestica.
I piccoli sono soli nella casa gelata:
orfani di quattro anni, ecco che nel loro pensiero
si desta lentamente un ricordo piacevole...
ed è come un rosario sgranato pregando:
- Ah! Che bel mattino, quel mattino delle strenne!
Ognuno, durante la notte, aveva sognato
i suoi regali, in qualche sogno strano,
in cui turbinavano dorate caramelle, scintillanti gioielli,
volteggiando una danza sonora, per poi
sparire sotto le tende e riapparire ancora!
Si svegliavano presto, felici si alzavano
strofinandosi gli occhi, con le labbra golose,
e andavano, coi capelli arruffati sulla testa,
lo sguardo radioso dei giorni più festivi,
con i piedi nudi sfiorando il suolo,
alla porta dei genitori bussando piano piano.
Entravano! E quanti auguri, in pigiama,
i baci replicati, e la gaiezza infinita.


IV

Ah! Com'erano dolci quelle parole tante volte ridette!
- Ma com'è cambiata la casa di una volta:
nel caminetto un gran fuoco scoppiettava
e tutta la camera ne era rischiarata;
e i riflessi rossastri del gran focolare
danzavano sui mobili verniciati...
- L'armadio era senza chiavi!... senza chiavi, il grande armadio!
Guardavano sovente la porta bruna e nera,
senza chiavi! era strano! Fantasticavano spesso
sui misteri assopiti fra quei fianchi di legno
credevano d'udire, dal fondo della toppa
vuota un rumore lontano, vago e gioioso murmure...
- La camera dei genitori è così vuota, oggi!
La porta non riflette alcun riflesso rossastro;
spariti genitori, focolare, chiavi;
e dunque niente baci, niente dolci sorprese!
Che capodanno feroce sarà questo per loro!
- E mentre, tutti pensierosi, dai loro occhi azzurri
silente una lacrima amara verrà giù,
mormorano: «La mamma quando ritornerà?»
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V

Ora i piccoli tristemente sonnecchiano:
voi direste, a vederli, che piangono dormendo,
tanto gonfi hanno gli occhi e il respiro affannoso!
Così sensibile è il cuore dei bambini!
- Ma l'angelo delle culle asciugherà i loro occhi
mettendo un sogno lieto in quel pesante sonno,
un sogno così soave che il loro labbro schiuso
sembra, sorridendo, mormorare qualcosa...
- Sognano, piegati sul loro tondo braccino,
nel gesto del risveglio di protendere la fronte
e il loro vago sguardo si posa tutt'intorno...
Si credono addormentati in un paradiso rosa...
Nel focolare pieno di bagliori canta gaiamente il fuoco...
Si intravede, dalla finestra, un bel cielo blu;
si sveglia la natura e di raggi s'inebria...
La terra, mezza nuda, felice di rinascere
ha fremiti di gioia sotto i baci del sole...
E nella vecchia casa tutto è dorato e tiepido:
i neri vestiti non erano sparsi più per terra,
la tramontana sotto la porta ormai s'è placata.
Si direbbe che una fata è passata di là!...
- I fanciulli hanno gridato di gioia... Là,
presso il letto materno, sotto un bel raggio rosa,
là, sopra il grande tappeto, risplende qualche cosa...
medaglioni d'argento, neri o bianchi,
di giada o madreperla dai riflessi scintillanti;
nere cornicette, corone di vetro,
con tre parole incise in oro: «A NOSTRA MADRE!»
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SENSAZIONE

Nelle azzurre sere d'estate, me n'andrò per i sentieri,
punto dalle spighe, calpestando l'erba tenera:
sognando, ne sentirò ai miei piedi la freschezza.
Lascerò che il vento bagni la mia testa nuda.

Non parlerò, non penserò a nulla:
ma l'amore infinito mi salirà nell'anima,
e andrò lontano, molto lontano, come un vagabondo,
attraverso la Natura, - felice come con una donna.

Marzo 1870.

SOLE E CARNE

I

Il Sole, focolare di tenerezza e di vita,
versa l'amore ardente sulla terra rapita,
e, quando si è distesi nella valle, si sente
che la terra è vergine e trabocca di sangue;
che il suo immenso seno, sollevato da un'anima,
è amore come Dio, di carne come la Donna,
e che racchiude, gonfio di linfa e di raggi,
il grande brulichìo di tutti gli embrioni!

E tutto cresce, e tutto sale!

- O Venere, o Dea!
Rimpiango il tempo dell'antica giovinezza,
dei satiri lascivi, dei fauni animaleschi,
dei che mordevano d'amore la scorza dei rami,
e nei nenùfari baciavano la Ninfa bionda!
Rimpiango i tempi in cui la linfa del mondo
l'acqua del fiume, il roseo sangue degli alberi verdi
nelle vene di Pan iniettavano un universo!
In cui verde il suolo palpitava sotto i suoi piedi di capra;
e baciando delicatamente la chiara siringa, il suo labbro
modulava sotto il cielo il grande inno dell'amore;
in cui, in piedi nella pianura, sentiva intorno
rispondere al suo appello la Natura vivente
in cui i muti alberi, cullando l'uccello che canta,
la terra cullando l'uomo, ogni Oceano blu
e tutti gli animali amavano, si amavano in Dio!
Rimpiango i tempi della grande Cibele
che si dice percorresse, enormemente bella,
su di un grande cocchio di bronzo le splendide città;
dai suoi seni versava nelle immensità
il puro ruscello della vita infinita.
L'Uomo succhiava, felice, la sua mammella benedetta,
come un bimbo, giocando sulle sue ginocchia.
- Perché era forte, l'Uomo era casto e dolce.

O Miseria! Ora egli dice: conosco le cose,
e va, con gli occhi chiusi e le orecchie tappate.
- E intanto, niente più dei, niente più dei, l'Uomo è il Re,
l'Uomo è Dio! Ma l'Amore, ecco la grande Fede!
Oh! Se ancora l'uomo succhiasse la tua mammella,
grande madre degli dei e degli uomini, Cibele;
s'egli non avesse mai lasciato l'immortale Astarte
che già, emergendo dall'immenso chiarore
dei flutti blu, fiore di carne che l'onda profuma,
mostrò il suo roseo ombelico dove nevicano le schiume,
e fece cantare, Dea dai grandi occhi neri vincitori,
l'usignuolo nei boschi e l'amore nei cuori!


II

Io credo in te! Io credo in te! Divina madre,
Afrodite marina! - oh, è amaro il cammino
da quando l'altro Dio ci aggioga alla sua croce;
Carne, Marmo, Fiore, Venere, è in te che io credo!
- Sì, l'Uomo è turpe e triste, triste sotto il vasto cielo,
ha delle vesti, perché non è più casto,
perché ha lordato il suo fiero busto di dio,
ed ha rattrappito, come un idolo in fiamme,
il suo Olimpico corpo con sporche servitù!
Sì, anche dopo la morte, negli scheletri pallidi
vuole vivere, insultando la primitiva bellezza!
- E l'Idolo in cui tu hai posto tanta verginità
dove tu divinizzasti la nostra argilla, la Donna,
affinché l'Uomo possa mondare la sua povera anima
e lentamente salire, in un immenso amore,
dalla prigione terrestre alla bellezza del giorno,
la Donna non sa più essere neanche cortigiana!
- È una bella farsa! e il mondo ghigna
di fronte al sacro nome e dolce della grande Venere!


III

Se solo tornassero i tempi, i tempi ormai perduti!
- Perché l'Uomo è finito! L'Uomo ha recitato ogni ruolo!
Nel gran giorno, stanco di distruggere idoli
risorgerà, libero da tutti i suoi dei,
e, poiché appartiene ai cieli, scruterà i cieli!
L'Ideale, l'invincibile pensiero, eterno,
dio che vive nella sua carnale argilla,
salirà, salirà, arderà nella sua mente!
E quando tu lo vedrai osservare tutto l'orizzonte,
deridendo il giogo antico, libero da ogni timore,
tu verrai a portargli la santa Redenzione!
- Splendida, radiosa, dal seno dei grandi mari
tu sorgerai, spargendo sul vasto Universo
l'Amore infinito in un infinito sorriso!
Il Mondo vibrerà come un'immensa
lira nel fremito d'un immenso bacio!

-Il Mondo ha sete d'amore: tu verrai a placarla.
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Oh! L'Uomo ha risollevato la sua testa libera e fiera!
E l'improvviso raggio della primitiva bellezza
fa palpitare il dio nell'altare della carne!
Felice per il bene presente, pallido per il male sofferto,
L'Uomo vuole sondare tutto, - e sapere! Il Pensiero,
così a lungo puledro, così a lungo oppresso,
si slancia dalla sua mente! Saprà il Perché!...
Che libero si libri, e l'Uomo avrà la Fede!
- Perché il muto azzurro e lo spazio insondabile?
Perché gli astri d'oro formicolanti come sabbia?
Se si salisse più in alto sempre di più, cosa vedremmo lassù?
Forse un Pastore guida quest'immenso gregge
di mondi in cammino nell'orrore dello spazio?
E tutti quei mondi là, che il vasto etere abbraccia,
vibrano agli accenti d'una voce eterna?
- E l'Uomo, può vedere? Può dire: Io credo?
La voce del pensiero è forse più di un sogno?
Se l'uomo nasce così presto, se la vita è così breve,
da dove viene? Affonda nell'Oceano profondo
dei Germi, dei Feti, degli Embrioni, in fondo
all'immenso Crogiuolo da cui Madre Natura
lo resusciterà, vivente creatura,
per amare nella rosa, e crescere nel grano?...

Noi non possiamo saperlo! - Noi siamo oppressi
da un manto d'ignoranza e di anguste chimere!
Scimmie d'uomini caduti dalla vulva delle madri,
la nostra pallida ragione ci nasconde l'infinito!
noi vogliamo guardare: il Dubbio ci punisce!
Il dubbio, uccello lugubre, ci colpisce con la sua ala...
- E l'orizzonte si dilegua in un'eterna fuga!

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Il gran cielo è aperto! i misteri sono morti
dinanzi all'Uomo, che eretto incrocia le sue braccia forti
nell'immenso splendore della ricca natura!
Egli canta... e il bosco canta, e il fiume mormora
un canto di letizia che sale verso il giorno!...
- È la Redenzione! è l'amore! è l'amore!...

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IV

O splendore della carne! o splendore ideale!
O primavera d'amore, trionfale aurora
in cui, piegando ai loro piedi Dei ed Eroi,
Callipigia la bianca ed il piccolo Eros
sfioreranno, coperti da una neve di rose,
le donne ed i fiori schiusi sotto i loro bei piedi!
- O grande Arianna, che spargi i tuoi singhiozzi
sulla riva, mentre vedi fuggire lontano, tra le onde,
bianca sotto il sole, la vela di Teseo,
o dolce vergine fanciulla che una notte ha infranto,
taci! Sul suo aureo carro coperto di grappoli neri,
Lisio, accompagnato tra i Frigi campi
da tigri lascive e rosse pantere,
lungo i fiumi azzurri arrossa i muschi oscuri.
- Giove, Toro, sul suo dorso culla come una bimba
il corpo nudo d'Europa, che getta il suo bianco braccio
al nerboruto collo del Dio fremente nell'onda.
Egli rivolge lento verso lei uno sguardo vago;
lei lascia portare la sua pallida guancia in fiore
sulla fronte di Giove; i suoi occhi sono chiusi; muore
in un bacio divino, e l'onda che mormora,
fiorisce le sue chiome dalla sua schiuma d'oro.
- Tra l'oleandro e il loto chiacchierino
scivola con amore il grande Cigno sognante
che abbraccia la Leda con il candore della sua ala
- e mentre Cipride passa, misteriosamente bella,
e, inarcando le splendide rotondità delle sue reni
staglia fiera l'oro dei suoi grandi seni
e il suo ventre niveo ornato di muschio nero,
- Eracle, il Domatore, che, come d'una gloria
potente, cinge il suo vasto corpo della pelle d'un leone,
avanza, con fronte dolce e terribile, all'orizzonte!

Sotto la luna estiva vagamente luminosa,
ritta e nuda, e sognante nel suo dorato pallore
macchiato dall'onda pesante delle sue azzurre chiome,
nella cupa radura stellata dal muschio,
la Driade contempla il silenzioso cielo...
- La bianca Selene lascia ondeggiare il suo velo
trepida, sui piedi d'un bell'Endimione,
e lui le manda un bacio in un raggio pallido...
- La Fonte piange lontana in una lunga estasi...
È la Ninfa che sogna, il gomito sul vaso,
il bel giovane bianco che la sua onda ha ghermito.
- Una brezza d'amore è passata nella notte,
e, nei sacri boschi, nell'orrore dei grandi alberi,
maestosamente eretti, i cupi Marmi,
gli Dei, sulla fronte dei quali il Fringuello fa il suo nido,
- gli Dei ascoltano l'Uomo e il Mondo infinito!

Maggio [18]70.

OFELIA

I

Dove dormono le stelle, nell'onda calma e nera
la bianca Ofelia ondeggia come un grande giglio,
ondeggia lentamente, stesa nei suoi lunghi veli...
- Arrivano dai lontani boschi i gridi della caccia.

Sono più di mille anni che la triste Ofelia
passa, bianco fantasma, sul lungo fiume nero.
Sono più di mille anni che la sua dolce follia
mormora una romanza alla brezza della sera.

Il vento bacia i suoi seni, sciogliendo in corolle
i suoi grandi veli cullati mollemente dalle acque;
i salici fruscianti piangono sulla sua spalla,
sulla sua ampia fronte sognante s'inchinano i fuscelli.

Le sfiorate ninfee intorno le sospirano;
talvolta Ofelia sveglia, in un ontano che dorme,
qualche nido, da cui sfugge un breve fremito d'ala:
- un canto misterioso scende dagli astri d'oro.


II

O pallida Ofelia, bella come le nevi!
Tu sei morta bambina rapita dalle correnti!
- I venti di Norvegia dalle alte vette
ti avevano parlato dell'aspra libertà;

e un soffio, scompigliando la tua folta chioma,
al tuo animo sognatore portava strani rumori;
e il tuo cuore ascoltava il canto della Natura
nei pianti degli alberi, nei sospiri notturni;

e la voce dei mari folli, immenso rantolo,
spezzava il tuo sesso fanciullo; troppo dolce e umano,
e un mattino d'aprile, un bel cavaliere pallido,
un pazzariello, si accoccolò muto ai tuoi ginocchi!

Cielo! Amore! Libertà! Quale sogno, o pazza mia!
Tu ti scioglierai in lui come la neve al sole:
le tue grandi visioni strozzavano la tua parola
- e l'Infinito terribile sbigottì il tuo occhio cupo.


III

- E il poeta dice che ai raggi delle Stelle
vieni a cercare, di notte, i fiori che cogliesti;
e d'avere visto sull'acqua, distesa fra i suoi lunghi veli,
la bianca Ofelia, come un gran giglio, ondeggiare.

15 maggio 1870.

LA DANZA DEGLI IMPICCATI

Alla nera forca, amabile moncone,
danzano, danzano i paladini,
i magri paladini del demonio,
gli scheletri dei Saladini!

Messer Belzebù tira per la cravatta
i suoi piccoli neri fantocci che fan smorfie al cielo,
e picchiandoli in fronte con la ciabatta
li fa danzare sulle note d'un vecchio Natale!

E i fantocci scioccati intrecciano i loro gracili braccini,
come neri organi i petti squarciati
che un tempo stringevano dolci donzelle
cozzano a lungo in un amore immondo.

Urrà per i gai danzatori che non hanno più pancia!
Possono fare giravolte, perché il palco è così grande!
Op! Che non si sappia se è danza o battaglia!
Belzebù irato coi suoi violini raglia!

O duri talloni, non usate mai sandali!
Quasi tutti han tolto la camicia di pelle!
Il resto non impaccia si guarda senza schifo.
Sui crani la neve posa un candido cappello:

la cornacchia è un pennacchio sulle incrinate teste,
un brano di carne trema sul mento scarno:
si direbbe vorticante nelle oscure resse
di prodi, rigide armature di cartone.

Urrà! La tramontana soffia al gran ballo degli scheletri!
La forca nera mugola come un organo di ferro!
E i lupi rispondono da foreste violette:
all'orizzonte il cielo è d'un rosso inferno...

Olà, scuotete quei funebri capitani
che sgranano sornioni tra le dita spezzate
un rosario d'amore sulle vertebre pallide:
questo non è un monastero, o trapassati!

Oh! Ecco, nel mezzo della danza macabra
nel cielo rosso un folle scheletro avanza
di slancio, e come un cavallo impenna:
e, poiché al collo la corda è stretta,

raggrinza le dita sul femore che scricchiola
con grida simili a ghigni
e come un acrobata che rientra nella sua baracca
rimbalza nel ballo al canto delle ossa.

Alla nera forca, amabile moncone,
danzano, danzano i paladini,
i magri paladini del demonio,
gli scheletri dei Saladini!

IL CASTIGO DI TARTUFO

- Attizzando, attizzando il suo cuore amoroso
sotto la casta sua veste nera, beato, la mano guantata,
un giorno che se ne andava, terribilmente melenso,
giallo, sbavando fede dalla sua bocca sdentata,

- Un giorno che se ne andava «Oremus» - un Malvagio
lo tira rudemente per il suo orecchio benedetto,
scagliandogli infami parole, strappando
la casta veste nera dall'umida sua pelle!

O castigo!... I suoi abiti erano sbottonati,
e il lungo rosario dei peccati perdonati
si sgranava nel suo cuore, san Tartufo impallidiva!...

Dunque si confessò, e pregò con un raglio!
L'uomo si contentò di prendergli il bavero...
- Puah! Tartufo era nudo dalla testa ai piedi!

IL FABBRO

Palazzo delle Tuileries, verso il 10 agosto [17]92.

Il braccio su un enorme martello, tremendo
d'ebbrezza e d'imponenza, vasta la fronte, ridente
come una tromba di bronzo, con tutta la sua bocca,
spogliando il grassone con sguardo feroce
il fabbro parlava a Luigi Sedici, un giorno
che il popolo era lì, a stringersi intorno
mentre sui fregi dorati spandeva le sporche vesti.
Ora il buon Re, ritto sul suo ventre, era pallido,
pallido come un vinto trascinato alla forca,
e sottomesso come un cane non si ribellava
perché il fabbro marrano dalle enormi spalle
gli diceva parole antiche, cose assai strambe,
da agguantarlo dritto in fronte, così!

«Tu lo sai bene, Signor mio, cantavamo tra la la
e spingevamo i buoi attraverso gli altrui solchi:
il canonico al sole sgranava padrenostri
su rosari brillanti guarniti di monete d'oro.
Il Signore a cavallo passava, al suono del corno,
ed uno con la corda, l'altro col nerbo
ci sferzavano - Ebeti come occhi di vacca
i nostri occhi non davano più lacrime: così tiravamo
avanti, e quando avevamo arato tutto il paese
quando avevamo lasciato in questa nera terra
un po' delle nostre carni... eccola la ricompensa:
incendiavano le nostre topaie di notte, facevano
dei nostri piccoli un dolce assai ben cotto.

... «Oh, non mi compiango. T'ho detto le mie fandonie,
che restino fra noi. Puoi anche contraddirmi.
Non è forse una gioia vedere, al mese di Giugno
nei granai entrare dei carri di fieno
così grandi? Sentire l'odore di ciò che cresce
nell'orto, quando piove, dall'erba rossastra?
Vedere le biade, le biade e le spighe colme di grano
e capire che ci porteranno tanto pane?
Oh, di più gran lena andremmo al forno che s'infuoca
cantando con gioia e battendo l'incudine,
se fossimo certi di poterne avere un po'
- siamo uomini, in fondo - di quei doni di Dio!
- Ma ecco, è sempre la solita vecchia storia!

«Lo so a memoria! Non posso più crederci,
quando ho due buone mani, una fronte ed un martello
che un uomo venga, con la daga sul mantello,
a dirmi: ragazzo mio, semina la mia terra;
e che ancora verrà, se ci sarà la guerra
a prendere via mio figlio dalla mia casa!
- Io sarei un uomo e tu, tu saresti Re,
tu mi diresti: «Voglio!», vedi, è da sciocchi,
credi che io ammiri la tua splendida baracca,
i tuoi ufficiali dorati, i mille tuoi furfanti,
i tuoi accidenti di bastardi, che starnazzano come pavoni?
Hanno riempito il tuo nido dell'odore di nostre figlie
e biglietti per rinchiuderci in Bastiglie,
gli diremo: sta bene: i poveri in ginocchio!
Indoreremo il Louvre con le nostre elemosine!
E tu ti ubriacherai, darai una grande festa
- e questi signori se la spasseranno, seduti sulla nostra testa!

«No. Queste schifezze sono più vecchie dei nostri padri!
Oh! n popolo non è più una puttana. Tre passi
e abbiamo ridotto la Bastiglia in polvere.
La bestia trasudava sangue da ogni pietra,
era raccapricciante la Bastiglia in piedi
con le sue mura lebbrose che ci dicevano tutto
mentre ci abbracciava rinchiusi nella sua ombra!
- Cittadini, oh cittadini! Era l'oscuro passato
che in rantoli rovinava, quando prendemmo la torre!
Nel cuore c'era qualcosa di simile all'amore,
avevamo stretti al petto i nostri figli.
E come cavalli, sbuffando dalle nari
andammo, fieri e forti, e il petto palpitava...
marciavamo nel sole, a fronte alta - così -
dentro Parigi! Tutti si facevano attorno ai nostri stracci
alfine ci sentivamo uomini! Pallidi,
Sire, ed ebbri di terribili speranze:
e quando fummo là, di fronte alle nere torri
agitammo le trombe e i nostri allori,
le picche in mano, non c'era odio in noi,
ci sentivamo così forti, che volevamo esser dolci!
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«E da quel giorno siamo come folli!
Montagne d'operai per le strade,
e questi maledetti vanno, folla sempre più grande,
come oscuri fantasmi, alle porte dei ricchi.
Con loro io corro ad accoppar le spie:
e vado per Parigi, nero il mantello in spalla
e feroce, spazzando da ogni angolo i sospetti,
e se mi riderai in faccia, t'ammazzerò!
- Poi, ci puoi contare, sarai nei guai
tu e i tuoi uomini neri, che prendono le nostre richieste
per rimpallarle come con le racchette,
E, basso basso, i furbacchioni si dicono: «Che minchioni!»
per cucinare leggi, e in vasetti etichettati,
pieni di graziosi decreti rosa e spezie,
si divertiranno ad appiopparci tasse
per poi turarsi il naso quando gli siamo accanto,
- i nostri dolci tribuni ci trovano luridi! -
per non temere nulla, fuorché le baionette...,
e va bene. Basta con le loro meschine balle!
Ne abbiamo abbastanza di quei piatti cervelli
di quei gaglioffi! Ah, son dunque questi i piatti
che ci servi, borghese, quando siamo inferociti
quando già abbiamo infranto gli scettri e le croci!...»
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Lo prende per un braccio strappa i velluti
delle tende, e gli addita giù il grande viale
dove formicola e cresce la folla,
la folla spaventosa che fluttua tuonando
che sbraita come un cane, urla come il mare
con i suoi duri bastoni e le picche di ferro,
i tamburi, i suoi grandi strepiti da bettola e da fiera,
stracci scuri, sanguinanti berretti rossi:
l'uomo dalla finestra aperta mostra il tutto
al pallido re che suda e barcolla
e si sente male per quello che vede!
«È la canaglia,
Sire, che sbava contro i muri, cresce, pullula
- perché non mangiano, Sire, sono pezzenti!
Io sono un fabbro: mia moglie è con loro,
la folle! Crede di trovarlo alle Tuileries il pane!
- gente come noi i panettieri non la vogliono:
ho tre figli. Sono una canaglia. Io conosco
delle vecchie che piangono sotto i cappelli
perché derubate del figlio o della figlia:
sono canaglie. - C'era un uomo alla Bastiglia,
un altro era forzato: entrambi cittadini
onesti.- Liberati, ora son lì come cani:
li insultano! Così in loro nasce qualcosa
che fa tanto male! È terribile, è colpa
del sentirsi spezzati, sentirsi dannati
il loro stare là ad urlarvi sotto il naso!
Canaglia. - Lì in mezzo ci son ragazze infami
perché - Voi sapete, le donne son fragili,
signori della Corte - ci stanno sempre.
Gli avete sputato sull'anima, come fosse nulla!
Le vostre belle ora son là, son la Canaglia.
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«Oh, tutti i disgraziati con la schiena che brucia
sotto il sole feroce, che vanno e tornano,
che in questo lavoro senton scoppiare la fronte...
Giù il cappello, miei borghesi! Oh, questi son gli uomini!
Siamo operai, sire, operai! Noi siamo
per i grandi tempi nuovi in cui si vorrà sapere
e l'uomo forgerà da mane a sera,
cacciatore di grandi effetti, di grandi cause,
in cui vincendo lentamente dominerà le cose
e monterà sul Tutto come su di un cavallo!
Oh! Splendidi lumi di fucine! Peggio,
ancor peggio! - Ciò che non conosciamo, questo può essere terribile:
noi lo sapremo! - Coi nostri martelli, in mano, passiamo al setaccio
tutto ciò che sappiamo: e poi, Fratelli, avanti!
Facciamo talvolta sogni emozionanti
di vivere semplice, con ardore, senza dire
malvagità, lavorando col regale sorriso
di una donna che amiamo di nobile amore:
lavoreremo con foga tutto il giorno,
ascoltando il dovere come una tromba squillante:
allora saremo felici, e nessuno, nessuno,
ci potrebbe mai piegare!
Ed avremo un fucile sul focolare...
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«Oh, ma l'aria è tutta piena d'odore di battaglia.
Dunque, che ti dicevo? Sono una canaglia!
Restano ancora spie e profittatori.
Siamo liberi, noi, abbiamo paure
che ci fanno più grandi, più grandi! Or ora
parlavo di quieto dovere, d'una dimora....
Guarda il cielo! - È troppo piccolo per noi,
si crepa di caldo, soffocheremo in ginocchio!
Guarda il cielo! - Io torno alla folla
nel grande, tremendo marciume, che trascina
Sire, i tuoi vecchi cannoni sul lurido selciato:
- Oh, solo da morti li avremo mondati!
- E se, dinanzi alle nostre urla, alla nostra vendetta,
le zampe dei vecchi re dorati sulla Francia
spingono reggimenti in abiti di gala,
ebbene, cosa fate, voi tutti? Merda a quei cani!»
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Si rimise il martello in spalla.
La folla
intorno a quell'uomo sentiva l'anima ebbra,
e nella grande corte e nelle stanze
dove Parigi ansava nelle sue urla,
un fremito attraversò l'immensa plebaglia,
Allora, con la sua mano grande e superba di grasso,
benché l'obeso re sudasse, il fabbro
terribile gli gettò sulla fronte il rosso berretto!


«MORTI DEL NOVANTADUE E DEL NOVANTATRÉ»

«... Francesi del '70, Bonapartisti, repubblicani,
ricordatevi dei vostri padri nel '92, ecc.;
...............................................................................
PAUL DE CASSAGNAC, Le Pays

Morti del Novantadue e del Novantatré,
che pallidi per il rude bacio della libertà
calmi, spezzaste sotto i vostri piedi il giogo che grava
sull'anima e la fronte di tutta l'umanità;

uomini estasiati e grandi nella tormenta,
che nel cuore sobbalzaste d'amore sotto i cenci,
o soldati che la Morte ha seminato, nobile Amante,
per rigenerarli in tutti i vecchi solchi;

Voi, il cui sangue lavò tutte le sporche grandezze,
morti di Valmy, morti di Fleurus e morti d'Italia,
o milioni di Cristi dagli occhi dolci e scuri:

noi vi lasciamo dormire con la Repubblica,
noi, chini sotto ai re come sotto una frusta:
ma i Signori Di Cassagnac ora riparlano di voi!

Scritto a Mazas, 3 settembre 1870.

ALLA MUSICA

Piazza della Stazione, a Charleville.

Sulla piazza divisa in striminzite aiuole,
«square» dove tutto è corretto, alberi e fiori,
gli asmatici borghesi soffocati dall'afa
portano il giovedì sera le loro sciocche gelosie.

- L'orchestra militare, nel mezzo del giardino,
dondola i suoi cheppì nel Valzer dei Pifferi:
- intorno, in prima fila, si pavoneggia il ganimede;
il notaio pende dai suoi sbrelocchi cifrati:

i possidenti con gli occhialini sottolineano le stecche:
i tronfi burocrati trascinano le loro grasse signore;
accanto a loro vanno, guide compiacenti
dame tutte in ghingheri che sembrano réclames;

sulle panchine verdi, droghieri in pensione
smuovono la ghiaia col bastoncino in mano,
seriosamente discutendo i trattati
tabaccano dall'argento, e riprendono: «Insomma...»

Schiacciando sulla panca il suo grosso culone,
un borghese con i bottoni chiari, la trippa fiamminga
fuma una pipa donde traboccano fili
di tabacco - non lo sa? è di contrabbando!...-

Lungo le aiuole verdi i ragazzacci ridacchiano;
e resi sentimentali dal canto dei tromboni
molto ingenuamente le reclute, con una rosa in bocca,
carezzano i neonati per adescare le servette...

- Io, io seguo, scamiciato come uno studente,
sotto i verdi castagni le guardinghe ragazzine:
sono dritte e sagge; e voltano ridendo
verso di me i loro occhiacci maliziosi.

Io sto zitto, muto: guardo solamente la bianca
carne dei loro colli ricamati di folli ciocche:
seguo, sotto il corsetto e i delicati ornamenti
il dorso divino dopo la curva delle spalle.

Ben presto ho scovato lo stivaletto, la calza...
- Arso da una dolce febbre, ricostruisco i corpi.
Mi trovano assai strano e parlottano...
- E io sento i baci salirmi alle labbra...

VENERE ANADIOMENE

Come da un verde feretro di latta, una testa
di donna dai bruni capelli molto impomatati
da una vecchia tinozza si erge, lenta e balorda,
deficiente e male in arnese;

poi il collo grasso e grigio, le scapole larghe
e sporgenti; le strette spalle gobbe e storte;
i fianchi tondi che sembrano spiccare il volo,
e sotto la pelle affiora il grasso in piatte falde.

La schiena è arrossata, il tutto ha un gusto
orribile e bislacco; si nota soprattutto, qualche
particolarità da osservare con una lente,

due profonde parole incise sulle reni: Clara Venus.
- E tutto il corpo si muove e allarga il grosso buco
disgustosamente bello per un'ulcera all'ano.

PRIMA SERATA

Lei era modo svestita
ed i grandi alberi indiscreti
scagliavano sui vetri le foglie
vicini, maliziosamente vicini.

Seduta sulla mia grande sedia
seminuda giungeva le mani.
Al suolo fremevano d'agio
i suoi fini, fini piedini.

Io guardavo, colore di cera,
un piccolo raggio malandrino
sfarfallare nel suo sorriso
e sul suo seno, come mosca al rosaio.

Baciai le sue fini caviglie
ebbe un dolce riso e brutale
che si sgranò in chiari trilli,
un grazioso rider di cristallo.

I suoi piedini sotto la camicia
rifugiò: «Vuoi finirla?»
La prima audace licenza
col ridere ozioso puniva!

- Povera palpitante al labbro avvinta,
le baciai dolcemente gli occhi
lei gettò la sua dolce testolina
all'indietro: «Oh, è ancor meglio!...

Signore, devo dirti qualcosa...»
- Io le gettai al seno il resto
in un bacio, che la fece ridere
d'un buon ridere, che voleva bene...

Lei era molto svestita
ed i grandi alberi indiscreti
scagliavano sui vetri le foglie
vicini, maliziosamente vicini.

LE REPLICHE DI NINA

......................................................................................
LUI - Il tuo petto sul mio petto
eh? Ce ne andremo
con le nari piene d'aria
verso il fresco raggio

del buon mattino blu, che ti bagna
del vino quotidiano?...
quando rabbrividendo il bosco stilla
muto d'amore

d'ogni ramo verdi gocce,
candide gemme,
si sente tra le cose schiuse
un fremere come di carni:

sprofonderai tra l'erbe
il bianco lino,
arrossando all'aria il blu che secerne
il grande tuo occhio nero,

amante di campagna,
semina ovunque
come una schiuma di champagne
le tue folli risa:

ridi di me, bruto dall'ebbrezza,
ti prenderò
così, per la tua bella treccia e
oh! berrò

il tuo gusto di lampone e fragola,
o carne in fiore!
Ridendo al vivo vento che ti bacia
come un ladro,

alle rose che galanti ti infestano
amabilmente:
ridendo soprattutto, o folle,
al tuo amante!...

......................................................................................

Diciassett'anni! Tu sarai beata!
Oh, i grandi prati,
grande campagna innamorata,
su, avvicinati!...

- Col tuo petto sul mio petto
cantando in coro,
lenti fino alla foce
e poi al bosco immenso!...

Poi, come piccoli morti,
col cuore in estasi
mi chiederai di portarti,
con l'occhio socchiuso...

e ti porterò, palpitando
nei sentieri:
l'uccello intonerà il suo andante:
Alle Nocciole...

io parlerò nella tua bocca
mi adagerò
come un bimbo accoccolato,
ebbro di sangue

che cola blu sulla tua bianca pelle
e rosea:
e parlandoli senza ritegni...
tieni!... già sai che cosa...

le nostre foreste sapranno di linfa
ed il sole
insabbierà d'oro puro il loro grande sogno
di verde e vermiglio

......................................................................................

A sera?... Riprenderemo il cammino
bianco, all'improvviso
vagheremo, come gregge al pascolo
tutto d'intorno

verso le erbe azzurre
e le tonde mele!
Si sente ad un miglio
il loro forte aroma!

Raggiungeremo il villaggio
a cielo scuro
di latticini sentiremo il profumo
nell'aria serale

si sentirà la stalla piena
di tiepidi fumi,
piena di lenta, ritmica lena
e grandi schiene

biancheggianti sotto un lume
e più in basso
una vacca evacuerà, fiera
ad ogni passo...

Gli occhiali della nonna
sul lungo naso
piantato nel messale: il boccale di birra
dai cerchi di piombo,

schiumeggiante tra le grandi pipe
che spavalde
fumano: le terribili labbra
che affumicate

sbranano con forchette il prosciutto
senza posa:
il fuoco che rischiara giacigli
e bauli;

le natiche grasse e lucide
d'un bimbo paffuto
che in ginocchio infila nella tazza
il bianco muletto

sfiorato da un muso che gronda
gentilmente
leccando la faccia tonda
del piccolo...

Nera, arcigna sulla sedia,
orrida nel profilo,
una vecchia davanti al camino
dipana il filo

cosa vedremo, amore,
in quei tugùri,
quando la chiara fiamma illumina
i vetri scuri!...

- Poi, piccolo e rannicchiato
tra i lillà
freschi e neri: un vetro nascosto
che se la ride...

Verrai, verrai, ché t'amo!
sarà stupendo.
Tu verrai, è cosi, e poi...

LEI - E il mio ufficio?

ATTONITI

I Neri su neve e brume,
presso il grande sfiatatoio illuminato
i culi in circolo,

in ginocchio cinque piccoli - diamine! -
guardano il fornai fare
il pane grande e biondo.

Vedono il braccio forte e bianco girare
la pasta grigia, e informarla
in un buco chiaro.

Ascoltano cuocere il buon pane
e il fornaio dal grasso sorriso
intona una vecchia arietta.

Stanno stretti e immobili
al soffio dello sfiatatoio rosso
caldo come un seno.

E mentre scocca la mezzanotte
è pronto, giallo e croccante,
e sfornato il pane,

sotto i travi affumicati
cantano le croste profumate
assieme ai grilli,

e da quel buco caldo soffia la vita,
l'anima loro è rapita
sotto i cenci

si sentono rinascere
i poveri piccoli pieni di brina!
- Son tutti là

con i musetti incollati
alla grata, sussurrando qualcosa
dai buchi

- come una preghiera...
chini su quella luce
di cielo schiuso,

fino a strapparsi i calzoni
e le bianche fasce tremanti
al vento d'inverno.

20 sett[embre 18]70.