ROBERT MUSIL

I TURBAMENTI DEL GIOVANE TÖRLESS I


[1]


"Noi togliamo stranamente valore alle cose non appena le pronunciamo. Crediamo d'esser scesi sul fondo degli abissi, e quando ne riemergiamo la goccia d'acqua che stilla dalla punta sbiancata delle nostre dita non somiglia più al mare da cui viene. C'illudiamo d'aver scoperto una massa di meravigliosi tesori, e quando torniamo alla luce non abbiamo portato con noi che pietre false e pezzetti di vetro. Eppure, nell'oscurità, il tesoro conserva immutato il suo luccichio."
Maeterlinck


Una piccola stazione, sulla linea ferroviaria che porta in Russia.
Dritte a perdita d'occhio quattro rotaie parallele correvano nelle due direzioni tra il pietrisco giallo dell'ampia massicciata; accanto a ciascuna, come un'ombra sporca, la striscia scura impressa sul terreno dai vapori di scarico.
Dietro il basso edificio della stazione pitturata a olio una strada larga, scavata dai solchi delle vetture, portava su fino alla rampa. I suoi bordi si perdevano nel terreno circostante, tutto calpestato, ed erano riconoscibili solo grazie a due filari di acacie che fiancheggiavano meste la strada con le foglie riarse e soffocate dalla polvere e dalla fuliggine.
Fosse l'effetto di questi tristi colori, fosse la luce debole e smorta del sole pomeridiano, illanguidita dalla foschia, le cose e le persone avevano un'aria apatica, fiacca e meccanica, quasi fossero uscite dallo scenario d'un teatro di burattini. Di tanto in tanto, a intervalli regolari, il capostazione usciva dal suo ufficio, risaliva con lo sguardo, girando sempre la testa nello stesso modo, la lunga linea ferroviaria e scrutava le cabine di segnalazione che ancora non si decidevano ad annunciare l'arrivo del diretto, in gran ritardo sin dal confine; poi, con un gesto sempre identico del braccio, toglieva l'orologio dal taschino, scuoteva la testa e scompariva di nuovo, come vengono e vanno le figure che allo scoccare dell'ora escono da certi antichi orologi delle torri.
Sulla larga striscia in terra battuta tra i binari e l'edificio una gaia compagnia di giovani passeggiava su e giù stringendosi attorno a una matura coppia di coniugi che formava il centro della conversazione piuttosto chiassosa. Ma anche l'allegria di questo gruppo non era proprio tale, il chiasso delle gioconde risate sembrava ammutolire due passi più in là e cadere a terra urtando contro un ostacolo invisibile e tenace.
La moglie del consigliere di corte Törless - era lei la signora sulla quarantina - nascondeva dietro la fitta veletta gli occhi tristi un po' arrossati dal pianto. Era il momento dell'addio, e le pesava dover lasciare ancora una volta per tanto tempo il suo unico figlio tra gente estranea, senza la possibilità di vegliare lei sul suo beniamino.
La cittadina infatti, ben lontana dalla capitale, si trovava nella parte orientale dell'impero, in una regione agricola arida e non molto popolata.
La ragione per cui la signora Törless doveva rassegnarsi a sapere il suo ragazzo in un posto così lontano e inospitale era l'esistenza, in quella città, di un famoso collegio, che già dal secolo precedente, quand'era stato costruito sul terreno di un pio istituto, s'era deciso di tenere laggiù, certo per preservare i giovani, negli anni della loro maturazione, dagli influssi corruttori di una grande città. Là infatti i figli delle migliori famiglie del paese ricevevano la loro educazione, in attesa di entrare, una volta lasciato l'istituto, all'università o nella carriera militare o in quella burocratica, e in tutti questi casi, come pure per l'ammissione negli ambienti della buona società, l'esser cresciuti nel convitto di W. era un ottimo biglietto di presentazione.
Quattro anni prima ciò aveva indotto i signori Törless a cedere alle ambiziose insistenze del loro ragazzo e a ottenere la sua ammissione all'istituto.
Questa decisione, più tardi, era costata molte lacrime. Infatti, quasi a partire dal momento in cui il portone del collegio s'era irrevocabilmente chiuso dietro di lui, il piccolo Törless aveva cominciato a soffrire di una terribile, appassionata nostalgia. Né le lezioni, né i giochi sui grandi prati rigogliosi del parco, né le altre distrazioni che il convitto offriva ai suoi ospiti riuscivano a interessarlo. Vi partecipava appena, vedeva ogni cosa come attraverso un velo; anche di giorno durava spesso fatica a ricacciare in gola certi ostinati singhiozzi; di sera poi s'addormentava sempre tra le lacrime.
Scriveva lettere a casa quasi ogni giorno, e viveva solo in quelle lettere; tutte le sue altre occupazioni gli parevano solo fatti nebulosi e insignificanti, tappe del suo cammino indifferenti come le ore sul quadrante di un orologio. Invece quando scriveva sentiva in sé qualcosa di esclusivo che lo distingueva: come un'isola piena di soli e colori meravigliosi, in lui emergeva qualcosa dal mare di grigie sensazioni che giorno dopo giorno lo stringeva, freddo e indifferente. E quando, nel corso della giornata, durante i giochi o le lezioni, pensava che la sera avrebbe scritto la sua lettera, gli pareva di portare appesa a una catena invisibile una segreta chiave d'oro con cui, quando nessuno vedeva, avrebbe aperto la porta di meravigliosi giardini.
Il lato più singolare di tutto ciò era che quell'improvviso e divorante amore per i suoi genitori a lui per primo riusciva nuovo e sconcertante. Prima non ne aveva supposto l'esistenza, era entrato volentieri, spontaneamente in collegio, aveva addirittura riso quando al primo commiato sua madre non aveva saputo trattenere un gran pianto, e solo dopo, quand'era là ormai da vari giorni e s'era anche trovato abbastanza bene, gli era scoppiata dentro quella reazione improvvisa, elementare.
La credeva nostalgia, desiderio prepotente dei genitori. In realtà era qualcosa di assai più indefinito e composito. Perché l'"oggetto" di quello struggimento, l'immagine dei suoi genitori, a ben guardare non era più presente in esso. Intendo quel certo ricordo plastico di una persona amata che è fisico e non soltanto della memoria e che parla a tutti i sensi e viene custodito in ciascuno di essi, per cui non si può far niente senza sentirsi al fianco, invisibile e silenzioso, l'altro. Questo ricordo svanì presto, come un'eco che avesse vibrato solo per un breve tratto. In quel periodo, per esempio, Törless non riusciva più a evocare l'immagine dei suoi - così li chiamava per lo più tra sé - "cari, cari genitori". Se ci si provava, invece di quella affiorava in lui, un dolore sconfinato, il cui anelito lo torturava e tuttavia lo teneva ostinatamente avvinto, perché le sue fiamme gli facevano male e l'estasiavano insieme. Il pensiero dei genitori divenne per lui sempre più un espediente per eccitare in sé quell'egoistica sofferenza che lo chiudeva nel suo orgoglio voluttuoso come nel segreto di una cappella dove da cento ceri accesi e da cento occhi di sacre immagini venisse sparso incenso tra gli spasimi dei flagellanti.
Quando, più tardi, la "nostalgia" divenne meno violenta e a poco a poco scomparve, questa sua natura si rivelò infatti abbastanza chiaramente. La sua scomparsa non portò una tranquillità a lungo attesa ma lasciò nell'animo del giovane Törless un vuoto. E da questo nulla, da questo vuoto che sentiva in sé egli capì che non gli veniva a mancare un semplice struggimento ma qualcosa di positivo, una forza interiore, qualcosa che col pretesto della sofferenza s'era sviluppato rigoglioso dentro di lui.
Ma ormai era tutto passato, e quella fonte di una prima eletta beatitudine gli s'era rivelata solo inaridendosi.
In questo periodo scomparvero di nuovo dalle sue lettere i segni appassionati del primo risveglio della sua anima; il loro posto fu preso da descrizioni particolareggiate della vita nell'istituto e dei nuovi amici. Lui, Törless, in questa situazione si sentiva impoverito e spoglio come un alberello che dopo una fioritura ancora senza frutto viva il suo primo inverno.
I genitori, invece, ne furono contenti. Lo amavano di una tenerezza forte, istintiva, animale. Ogni volta che lui tornava dal convitto per una vacanza, alla moglie del consigliere la casa appariva, dopo, di nuovo morta e vuota, e nei giorni che seguivano ognuna di quelle visite lei si aggirava per le stanze con le lacrime agli occhi, carezzando qua e là un oggetto che il suo ragazzo aveva tenuto tra le dita o su cui aveva posato l'occhio. Tutt'e due si sarebbero lasciati fare a pezzi per lui.
La goffa tenerezza e l'appassionata, caparbia afflizione delle sue lettere li impensierì e provocò in loro un'esaltazione sentimentale; la serena e soddisfatta superficialità che venne poi rallegrò anche loro; pensando che fosse il segno del superamento di una crisi la favorirono quanto più poterono. Né l'una né l'altra apparvero loro il sintomo di una precisa evoluzione psicologica: al contrario, essi accolsero sia la pena che l'acquietamento come una naturale conseguenza di quello stato di cose. Sfuggì loro che s'era trattato del primo, fallito tentativo dell'adolescente lasciato a se stesso di dispiegare le proprie energie interiori.

Ora Törless si sentiva assai malcontento e brancolava inutilmente alla ricerca di qualcosa di nuovo a cui potersi appoggiare.
Un episodio di questo periodo diede un chiaro segno dell'evoluzione che andava allora maturando in Törless.
Un giorno era entrato nell'istituto il giovane principe H., appartenente a una delle casate più influenti, antiche e conservatrici dell'impero.
Tutti gli altri trovavano insulsi e affettati i suoi occhi miti, e del modo in cui stando in piedi sporgeva l'anca e parlando giocherellava adagio con le dita si beffavano come di pose effeminate. Soprattutto però ridevano del fatto che non l'avessero accompagnato in collegio i suoi genitori ma colui che era stato fino a quel momento il suo precettore, un dottore in teologia appartenente a un ordine religioso. Törless invece aveva riportato sin dal primo momento una profonda impressione. Forse ciò era dovuto anche al fatto che si trattava di un principe ammesso a corte: comunque aveva conosciuto grazie a lui un tipo umano diverso.
Sembrava che in qualche modo quello si portasse ancora addosso il silenzio di un antico castello di campagna e di pratiche devote. Quando camminava lo faceva con movimenti garbati e flessuosi, con quel modo schivo di contrarsi e farsi piccolo che viene dall'abitudine di attraversare eretti una fuga di sale deserte, in cui gli altri han l'aria di urtare contro invisibili spigoli dello spazio vuoto.
Così la dimestichezza col principe divenne per Törless fonte di un sottile piacere psicologico. Essa avviò in lui quel tipo di conoscenza degli uomini che insegna a riconoscere e a gustare un altro in modo che di lui si coglie subito la personalità spirituale dal tono di voce, da come prende in mano qualcosa, addirittura dal timbro dei suoi silenzi e da ciò che esprimono le pose con cui il suo corpo s'adatta a un ambiente: insomma da quel mutevole, quasi impalpabile e tuttavia vero e completo modo di essere un'individualità umana e spirituale che avvolge il nocciolo, la parte tangibile e descrivibile, come se questa fosse un semplice scheletro.
In quel breve periodo Törless visse come in un idillio. Non si sentiva urtato dalla religiosità del suo nuovo amico, che a lui, proveniente da una famiglia borghese di tradizioni laiche, per la verità era del tutto estranea; l'accettò invece senza riserve, anzi essa rappresentava ai suoi occhi uno speciale pregio del principe poiché ne potenziava la personalità, che lui sentiva diversa dalla sua al punto che ogni paragone riusciva impossibile.
In compagnia di quel principe si sentiva un po' come in una cappella lontana dalla strada, per cui il pensiero di non essere precisamente al suo posto là dentro scompariva di fronte al piacere di contemplare per una volta la luce del giorno attraverso le vetrate di una chiesa e di far scorrere l'occhio sugli inutili ori ammassati nell'anima dell'amico, col risultato di avere di questa, alla fine, un'immagine confusa, quasi avesse seguito con la punta delle dita, senza riuscire a capirlo, un arabesco bello ma disegnato secondo leggi strane.
Poi tra i due venne di colpo la rottura.
Per una sciocchezza, come Törless dovette confessare in seguito a se stesso.
Una volta infatti finirono con lo scontrarsi su questioni religiose. E in quello stesso momento fu finita tra loro. Di colpo l'intelletto di Törless, come indipendente da lui, si scagliò con impeto irresistibile contro il fragile principe. Lo sommerse sotto gli scherni del razionalista, distrusse con la foga di un barbaro l'edificio di filigrana che avvolgeva la sua anima, e i due si separarono in collera.
Da quel giorno non si scambiarono più una parola. Törless era oscuramente consapevole d'aver agito in modo insensato, e una vaga intuizione del sentimento gli diceva che il rigido metro dell'intelletto aveva distrutto nel momento meno opportuno una cosa gentile e squisita. Ma ciò non era minimamente in suo potere. Gli era rimasta dentro, e per sempre, una specie di nostalgia per quel che c'era stato, ma ormai lui sembrava esser finito in un'altra corrente, che lo trascinò sempre più lontano di là.
E del resto il principe, che non s'era trovato bene nel convitto, dopo qualche tempo se n'andò.

Ora intorno a Törless non c'era che vuoto e noia. Ma lui frattanto era cresciuto, e i primi segni della pubertà cominciavano a manifestarsi oscuramente in lui. In questo periodo della sua formazione strinse alcune nuove amicizie consone ad essa, le quali più tardi divennero per lui di estrema importanza: ad esempio con Beineberg e con Reiting, con Moté e con Hofmeier, appunto quei giovani assieme a cui oggi accompagnava i suoi genitori alla stazione.
Erano, cosa strana, proprio i peggiori della sua classe, ragazzi senz'altro dotati e, si capisce, di buona famiglia, ma talvolta violenti e grossolani fino alla brutalità. E il fatto che proprio la loro compagnia attirasse ora Törless era certo dovuto alla sua personale mancanza d'autonomia spirituale, assai forte da quando era avvenuto il suo distacco dal principe. Si trattava anzi, in questo caso, di una diretta continuazione di quel mutamento di rotta, poiché anche qui si esprimeva un timore di eccessivi sentimentalismi, dai quali la natura degli altri compagni era aliena per salute, vigoria e vitalità.
Törless si abbandonò completamente alla loro influenza, giacché ora la sua condizione spirituale era all'incirca questa: alla sua età, al liceo, si sono letti Goethe, Schiller, Shakespeare, forse già addirittura i moderni, e tutto questo, assimilato solo a metà, torna a travasarsi dalla punta delle dita nella penna. Nascono tragedie romane, oppure liriche gonfie di sentimento che incedono avvolte in pagine fitte di punteggiatura come in un manto di merletto; cose ridicole in sé, ma d'inestimabile importanza per un sicuro sviluppo spirituale, giacché queste associazioni provenienti dall'esterno e questi sentimenti presi a prestito aiutano i giovani a superare il terreno psicologico pericolosamente molle degli anni in cui si deve contare qualcosa di fronte a se stessi e tuttavia si è ancora troppo immaturi per contare qualcosa sul serio. Poco importa che nell'uno restino poi tracce di tutto questo e nell'altro no: più avanti ciascuno s'aggiusta con se stesso, e il pericolo è limitato all'età del trapasso. Se in essa si potesse far capire a uno di questi adolescenti il ridicolo della sua persona, sotto di lui si aprirebbe una voragine, oppure egli precipiterebbe come un sonnambulo che, destato all'improvviso, non vede che il vuoto.
Quest'illusione, quest'artificio che favorisce lo sviluppo interiore mancava nell'istituto. Nella sua biblioteca, certo, i classici erano presenti, però passavano per noiosi, e oltre ad essi non c'erano che novelle sentimentali e insulsi racconti umoristici di vita militare.
Il piccolo Törless, nella sua avidità di libri, aveva letto tutto quanto, e alcune impressioni banalmente soavi assorbite da questa o quella storia a volte esercitavano, per un po', un certo effetto su di lui; ma ciò non giungeva ad avere una vera e propria influenza sulla sua personalità.
Di personalità, allora, sembrava non averne affatto.
Ogni tanto, per esempio, scriveva a sua volta, sotto l'impressione di quelle letture, un breve racconto, oppure cominciava la composizione di un poema epico romantico. E allora, nell'emozione che provava per le pene d'amore dei suoi eroi, gli si arrossavano le guance, il polso accelerava i battiti e gli occhi gli brillavano.
Ma come posava la penna, tutto era passato: in certo qual modo, solo nel movimento il suo spirito viveva. Perciò era pure in grado di scrivere quando volesse, seguendo qualunque stimolo, una poesia o un racconto. Nel farlo si emozionava, eppure non prendeva mai la cosa davvero sul serio, e quell'attività non gli appariva importante. Niente passava da essa nella sua persona, né essa scaturiva da questa. Lui provava soltanto, per qualche impulso esterno, delle sensazioni che si staccavano dal solito stato d'indifferenza, così come un attore ha bisogno per questo della costrizione di una parte.
Erano reazioni cerebrali. Ma ciò che sentiamo come anima o carattere, linea o timbro musicale di una persona, e comunque ciò che al proprio confronto fa apparire poco sintomatici, casuali e intercambiabili i pensieri, le decisioni e gli atti, ciò che per esempio aveva legato, al di là di ogni giudizio intellettuale, Törless al principe, questo estremo e immobile sfondo a quel tempo in Törless s'era perso del tutto.
Nei suoi compagni c'era il piacere degli sport, la vitalità animale a non far loro sentire affatto il bisogno di tutto questo, così come al liceo vi provvedono i primi cimenti letterari. Ma Törless aveva un temperamento troppo intellettuale per i primi, e ai secondi opponeva quell'acuta sensibilità per il ridicolo di simili sentimenti posticci che nasceva dalla vita di collegio e dalla necessità, là dentro, di essere sempre pronti all'alterco e alla zuffa. Così derivò alla sua personalità un che d'indefinito, un intimo smarrimento che non gli permetteva di trovare se stesso.
Si legò ai suoi nuovi amici perché la loro sfrenatezza lo soggiogava. E poiché era ambizioso, di tanto in tanto cercava persino di superarli. Ma ogni volta si fermava a metà strada, e ciò gli costava non poche canzonature, che tornavano a intimidirlo. In questo periodo critico la sua vita si esauriva in pratica in quello sforzo continuamente rinnovato di gareggiare con i suoi rozzi amici, più virili di lui, e in un'intima indifferenza a una simile aspirazione.
Se ora venivano a trovarlo i suoi genitori, finché era solo con loro se ne stava schivo e silenzioso. Si sottraeva ogni volta con una scusa diversa alle carezze affettuose di sua madre: in realtà vi avrebbe ceduto volentieri, ma si vergognava come se gli occhi dei suoi compagni fossero puntati su di lui. I suoi genitori vedevano in quell'atteggiamento la goffaggine tipica degli anni della pubertà.
Poi, nel pomeriggio, arrivava tutta la chiassosa comitiva. Si giocava a carte, si mangiava, si beveva, si raccontavano aneddoti sui professori e si fumavano le sigarette che il consigliere di corte aveva portato dalla capitale.
Quella gaiezza rallegrava e rassicurava i genitori.
Che, ogni tanto, per Törless venissero anche altre ore, essi l'ignoravano. E sempre più numerose negli ultimi tempi. C'erano momenti in cui la vita di collegio gli diventava del tutto indifferente. Il cemento delle sue preoccupazioni quotidiane si sbriciolava, e le ore della sua esistenza si disperdevano, prive d'intima coesione.
Spesso se ne stava seduto a lungo, assorto in un cupo almanaccare, come ripiegato su se stesso.

Era stata anche questa volta una visita di due giorni. S'era mangiato, fumato, s'era fatta una gita, e ora il diretto avrebbe riportato i due signori nella capitale.
Un lieve brusio nei binari annunciò l'arrivo del treno, e i segnali della campana sul tetto della stazione colpirono, inesorabili, l'orecchio della signora Törless.
"Allora d'accordo, caro Beineberg: baderà lei al mio figliolo, vero?" disse il consigliere Törless rivolto al giovane barone Beineberg, un ragazzo lungo e ossuto dalle grandi orecchie a sventola ma dagli occhi espressivi e giudiziosi.
Il piccolo Törless prese un'aria imbronciata al sentirsi mettere così sotto tutela, e Beineberg sogghignò lusingato, con una punta di malignità.
"Anzi," continuò il consigliere rivolto agli altri, "vorrei pregare tutti voi di mettermi al corrente nel caso che a mio figlio succedesse qualcosa."
Queste parole strapparono infine al giovane Törless un annoiatissimo: "Ma papà, cosa vuoi che mi succeda!", quantunque fosse ormai abituato a subire a ogni addio questo eccesso di sollecitudine.
Ma gli altri batterono i tacchi accostando con forza al fianco l'elegante spadino, e il consigliere soggiunse: "Non si può mai sapere quel che può succedere, e il pensiero di venirne subito informato mi tranquillizza molto; dopotutto potresti anche non essere in grado di scrivere."
Poi il treno entrò in stazione. Il consigliere Törless abbracciò il figlio, la signora Törless si aggiustò la veletta sul viso per nascondere le lacrime, gli amici ringraziarono a turno e infine il controllore chiuse la porta della carrozza.
Ancora una volta la coppia scorse l'alta e nuda facciata posteriore dell'istituto, il lungo e poderoso muro di cinta del parco, poi a destra e a sinistra non si videro che campi bigi e radi alberi da frutto.

Intanto i ragazzi avevano lasciato la stazione e senza scambiare molte parole camminavano verso la città in due file, uno dietro l'altro, tenendosi ai bordi della strada per evitare almeno la polvere più fitta e appiccicosa.
Erano le cinque passate e sui campi si stendeva, come un preannuncio della sera, una cappa fredda e greve.
Törless diventò molto triste.
Forse ciò era dovuto alla partenza dei genitori, forse invece era solo la scostante, opaca malinconia che pesava su tutta la natura circostante e giù a pochi passi di distanza confondeva, con colori grevi e spenti, le forme degli oggetti.
La stessa tremenda apatia che per tutto il pomeriggio aveva oppresso ogni cosa invadeva strisciando la pianura, seguita come da una traccia viscida dalla nebbia che s'appiccicava alle superfici arate e ai plumbei campi di rape.
Törless non guardava né a destra né a sinistra, ma ne aveva la sensazione. Passo dopo passo calpestava le orme impresse nella polvere da chi lo precedeva, e la sua sensazione era proprio questa, che le cose dovessero essere per forza così: come un'implacabile costrizione che catturava e comprimeva tutta la sua vita in quel movimento, passo dopo passo, lungo quell'unica linea, quell'unica, esigua striscia che si allungava tra la polvere.
Quando si fermarono a un crocevia dove una seconda strada confluiva nella loro in uno spiazzo rotondo tutto calpestato, e quando in quel punto un'insegna stradale si alzò storta e fradicia, quella linea contrastante col resto del paesaggio fece a Törless l'effetto di un grido disperato.
Procedettero ancora. Törless pensava ai suoi genitori, a questo e a quel conoscente, alla vita. A quell'ora ci si veste per un invito o si decide di andare a teatro. E dopo si va al ristorante, si ascolta un'orchestrina, ci si siede al caffè. Si fa una conoscenza. Un'avventura galante fa sperare fino al mattino. La vita, come una ruota meravigliosa, presenta di continuo cose nuove e inattese...
Törless sospirò pensando a tutto questo, e a ogni passo che lo riportava verso l'angusta realtà del collegio qualcosa dentro di lui si stringeva sempre più.
Già gli risuonava negli orecchi il segnale della campana: perché lui non temeva nulla quanto quel segnale che sanciva irrevocabilmente la fine della giornata, come il taglio crudele di un coltello.
Davvero lui non faceva nessuna esperienza della vita, e la sua esistenza si trascinava in una continua apatia, ma quel suono di campana aggiungeva a ciò una nota di scherno, facendolo tremare di rabbia impotente contro se stesso, il suo destino, la giornata sepolta.
Adesso non potrai più avere niente dalla vita, per dodici ore non potrai più avere niente, per dodici ore sei morto... Questo era il senso di quello scampanìo.

Quando il gruppo dei giovani giunse tra le prime basse abitazioni, più capanne che case, questo cupo almanaccare di Törless cessò. Come attratto da un interesse improvviso alzò la testa e aguzzando gli occhi scrutò l'interno in penombra dei piccoli, sporchi edifici davanti a cui stavano passando. Sulle porte dei più stavano, con addosso grembiuli e ruvide camicie, le donne dai piedi larghi e sporchi e dalle braccia nude e abbronzate.
Se erano giovani e floride venivano apostrofate con salaci battute in slavo. Loro si davan di gomito ridacchiando dei "signorini"; a volte una strillava se nel passare quelli le sfioravano troppo energicamente il petto, oppure rispondeva ridendo con un insulto a una pacca sulla coscia. Qualcuna invece si limitava a seguire con uno sguardo accigliato il gruppo che procedeva svelto, e il contadino sorrideva imbarazzato, tra incerto e bonario, se per caso capitava là.
Törless non prendeva parte a queste sfrontate manifestazioni di precoce virilità dei suoi amici.
La ragione stava sicuramente, in parte, in una certa timidezza nelle cose del sesso propria di quasi tutti i figli unici, ma soprattutto nel suo particolare tipo di sensualità, che era più segreta, più prepotente e aveva sfumature più cupe di quella dei suoi compagni, e si manifestava con maggiore difficoltà.
Mentre gli altri si limitavano a ostentare atteggiamenti lascivi verso le donne, e quasi più per apparire "navigati" che per un vero stimolo sensuale, l'animo del piccolo, taciturno Törless era scosso in profondità, sferzato da una lascivia reale.
Scrutava con occhi così febbrili, attraverso le piccole finestre e gli stretti anditi tortuosi, l'interno delle case, che davanti agli occhi gli danzava di continuo come una ragnatela.
Bambini seminudi si rotolavano nel fango dei cortili, qua e là le sottane di una donna intenta al lavoro scoprivano il cavo delle ginocchia, oppure un seno pesante premeva contro le pieghe della stoffa, spianandole. E quasi che tutto ciò si svolgesse persino in un'atmosfera diversa, animalesca, opprimente, dai vestiboli delle case emanava un'aria greve e inerte che Törless respirava con voluttà.
Pensava a certe antiche pitture che aveva visto nei musei senza ben comprenderle. Aspettava qualcosa, proprio come davanti a quei quadri aveva sempre aspettato qualcosa che non accadeva mai. Che cosa?... Qualcosa di sorprendente, di mai visto, uno spettacolo portentoso di cui non riusciva a farsi la più pallida idea, un qualcosa che con la sua terrificante, bestiale sensualità l'abbrancasse come un artiglio e lo dilaniasse partendo dagli occhi; un'esperienza che in una certa maniera ancora assai confusa doveva avere a che fare coi grembiuli sporchi delle donne, con le loro mani ruvide, con i soffitti bassi delle loro stanze, con... con un lordarsi nel fango dei cortili... No, no, ormai sentiva soltanto la ragnatela infuocata davanti agli occhi; le parole tutto questo non l'esprimevano, non è brutto come sembra dalle parole, è qualcosa di assolutamente muto: un groppo alla gola, un pensiero appena percettibile, e solo se si volesse a tutti i costi esprimerlo a parole verrebbe fuori così; ma allora non avrebbe più che una lontana somiglianza, come un enorme ingrandimento in cui non solo tutto appare più evidente ma si vedono anche cose che non esistono affatto... Eppure se ne provava vergogna.

"Ha la nostalgia, il bambino?" gli domandò a un tratto, in tono canzonatorio, il lungo Reiting, più vecchio di due anni, che aveva notato il silenzio e gli occhi incupiti di Törless. L'altro, a disagio, fece un sorriso forzato, e gli parve che il maligno Reiting avesse spiato quel che avveniva dentro di lui. Non rispose. Ma intanto erano arrivati sulla piazza della chiesa, che aveva la forma di un quadrato ed era lastricata di ciottoli, e là si separarono.
Törless e Beineberg non volevano ancora rientrare in collegio, mentre gli altri, che non avevano il permesso di restar fuori di più, tornarono a casa.


[2]

I due erano entrati nella pasticceria.
Qui avevano preso posto a un tavolino dal piano rotondo, accanto a una finestra che dava sul giardino, sotto un lampadario a gas le cui luci ronzavano piano dentro i globi smerigliati.
S'erano messi comodi; si fecero riempire i bicchierini di vari tipi di grappa, fumarono delle sigarette e tra l'una e l'altra mangiarono delle paste, gustando il piacere d'essere i soli clienti. Tutt'al più nelle salette sul retro, infatti, c'erano ancora un paio di avventori seduti davanti al loro bicchiere di vino; là davanti era tutto tranquillo, e anche la grassa e attempata pasticciera sembrava dormire dietro il suo bancone.
Törless senza osservare niente di preciso, guardò fuori dalla finestra il giardino deserto, che s'oscurava pian piano.
Beineberg parlava: dell'India, come al solito. Perché suo padre, che era generale, vi era stato agli inizi della carriera servendo nell'esercito inglese. E non s'era limitato a portarsi a casa, come altri europei, legni intagliati, tessuti e piccoli idoli fatti in serie, ma aveva pure colto e assorbito qualcosa dei misteriosi e bizzarri barlumi del buddismo esoterico. E a suo figlio aveva trasmesso sin dall'infanzia quel che aveva appreso allora e integrato più tardi con le sue letture.
Verso la lettura, peraltro, aveva un atteggiamento tutto particolare. Era ufficiale di cavalleria, e non amava affatto i libri in generale. Disprezzava in pari misura i romanzi e la filosofia; quando leggeva non voleva riflettere su opinioni e controversie ma, aperto il libro, entrare subito come attraverso una porta segreta nel mezzo di elette illuminazioni. I suoi dovevano essere libri il cui semplice possesso rappresentava già una specie di distintivo segreto e una garanzia di rivelazioni ultraterrene. E tutto questo lo trovava solo nei libri della filosofia indiana, che per lui avevano appunto l'aria di essere non solo libri ma rivelazioni, realtà: operechiave come i libri di alchimia e di magia del medioevo.
Con essi quell'uomo sano e attivo, che compiva con scrupolo il suo servizio e inoltre montava personalmente quasi ogni giorno i suoi tre cavalli, si appartava per lo più verso sera.
Allora sceglieva un passo a caso e ci meditava sopra, chiedendosi se non gli avrebbe schiuso quel giorno il suo senso più riposto. E com'era deluso ogni volta che doveva constatare di non essere ancora giunto oltre il vestibolo del sacro tempio.
Così attorno a quell'uomo asciutto, abbronzato e amante dell'aria aperta aleggiava una specie di solenne mistero. La sua convinzione di essere ogni giorno alla vigilia di una folgorante rivelazione gli conferiva un'aria di distaccata superiorità. I suoi occhi non erano trasognati ma quieti e duri. L'abitudine di leggere libri in cui non una parola poteva venire spostata senza turbare il segreto significato, la cauta e riverente ponderazione del senso manifesto e riposto di ogni frase avevano improntato la loro espressione.
Solo ogni tanto i suoi pensieri si perdevano nella penombra di una gradevole malinconia. Questo gli accadeva quando pensava al culto arcano legato agli originali degli scritti che gli stavano davanti, ai miracoli che ne erano scaturiti e che avevano scosso migliaia di persone, migliaia di uomini che ora, per la grande distanza esistente tra lui e loro, gli apparivano suoi fratelli, mentre disprezzava coloro che lo circondavano e che vedeva distintamente in tutte le loro caratteristiche. In quelle ore si rabbuiava. L'idea che la sua vita fosse condannata a trascorrere lontano dalle fonti delle sue energie, i suoi sforzi condannati forse a fallire dalle circostanze avverse l'abbatteva. Ma poi, quand'era rimasto per un po' così afflitto davanti ai suoi libri, avveniva in lui un singolare mutamento. Non che la sua malinconia perdesse alcunché della propria intensità - diventava, anzi, ancor più cupa - però non l'opprimeva più. Lui si sentiva più solo e isolato che mai, ma in quell'afflizione c'era un sottile piacere, l'orgoglio di fare qualcosa di non comune, di servire una divinità incompresa. E allora, nei suoi occhi, a momenti poteva anche balenare qualcosa che ricordava la follia dell'estasi religiosa.

Beineberg aveva parlato fino a stancarsi. In lui l'immagine di quel suo padre bizzarro continuava a vivere in una sorta d'ingrandimento deformato. I tratti primitivi c'erano ancora tutti, ma ciò che nell'altro, in principio, era forse stato solo un ghiribizzo, conservato e sviluppato poi per il suo carattere esclusivo, nel figlio era degenerato in una speranza visionaria. Quella stravaganza di suo padre in cui questi, in fondo, vedeva forse soltanto l'estremo rifugio individuale che ciascuno deve costruirsi, sia pure con la semplice scelta degli abiti, per avere qualcosa che lo distingua dagli altri, in lui s'era tramutata nella fede incrollabile di potersi assicurare un dominio personale grazie a inconsuete forze spirituali.
Törless conosceva a memoria quei discorsi. Gli passavano davanti senza quasi sfiorarlo.
Ora aveva voltato per metà le spalle alla finestra e osservava Beineberg che si stava arrotolando una sigaretta. E di nuovo provò per lui la curiosa avversione che lo assaliva ogni tanto. Quelle mani scure e sottili, che ora stavano avvolgendo abilmente il tabacco nella carta, per la verità erano belle. Dita scarne, unghie ovali gradevolmente convesse: in esse c'era una certa nobiltà. Anche negli occhi castani. Anche nella magrezza slanciata del corpo. Sì, le orecchie erano proprio sporgenti, la faccia piccola e irregolare, e la testa nell'insieme faceva pensare a quella di un pipistrello. Tuttavia - e Törless l'avvertì con chiarezza mentre confrontava tra loro i singoli tratti - non erano i peggiori di essi ma proprio i più pregevoli a metterlo così singolarmente a disagio.
La magrezza del corpo, per esempio. Lo stesso Beineberg soleva vantare come proprio modello le gambe slanciate, d'acciaio, dei corridori omerici, ma a Törless essa non faceva per niente quell'effetto. Ancora non era riuscito a spiegarsene il motivo, e adesso, lì per lì, non gli veniva in mente nessun paragone calzante. Gli sarebbe piaciuto osservare con attenzione Beineberg, ma quello se ne sarebbe accorto e lui avrebbe dovuto avviare una qualche conversazione. Ma proprio così, mentre lo guardava di sfuggita completando per il resto il ritratto con la fantasia, lo colpì la differenza. Se s'immaginava quel corpo privo di abiti gli era impossibile conservare l'idea di una snellezza composta; si vedeva invece davanti movenze irrequiete e convulse, un torcersi delle membra e un incurvarsi della spina dorsale quali si possono trovare in tutte le raffigurazioni del martirio o nelle grottesche esibizioni dei saltimbanchi.
Anche le mani, che avrebbe ben potuto ricordare in un loro gesto armonioso, non se le raffigurava se non in preda a una continua agitazione. E proprio ad esse, che pure erano la cosa più bella di Beineberg, andava l'avversione maggiore. Avevano qualcosa di osceno. Era questo probabilmente il paragone giusto. E qualcosa di osceno c'era anche nella suggestione di movenze contorte comunicata dal corpo. Nelle mani quell'aspetto sembrava in certo qual modo raggiungere la massima concentrazione, pareva irradiarsi da esse come il presentimento di un contatto che a Törless fece accapponare di raccapriccio la pelle. Lui stesso stupì di quell'idea, e se ne sgomentò un poco: era già la seconda volta nella giornata che il sesso s'insinuava all'improvviso e senza un nesso apparente nei suoi pensieri.
Beineberg s'era preso un giornale, e ora Törless poteva osservarlo bene. C'era davvero poco che potesse giustificare anche solo in parte l'improvviso balenare di una simile associazione d'idee. E tuttavia il disagio, malgrado la sua infondatezza, diventava sempre più acuto. Fra i due non erano trascorsi dieci minuti di silenzio, ma Törless si sentiva già al colmo del disgusto. Sembrava manifestarsi in ciò, per la prima volta, una sensazione di fondo, la vera natura del suo rapporto con Beineberg; una diffidenza sempre esistita, ma rimasta finora latente, sembrava essere affiorata di colpo alla coscienza.
La situazione tra i due divenne sempre più tesa. Alle labbra di Törless si affollarono offese per cui non trovava parole. Una sorta di vergogna, quasi che tra lui e Beineberg fosse davvero successo qualcosa, lo rese irrequieto. Le sue dita cominciarono a tamburellare impazienti sul piano del tavolino.

Alla fine, per liberarsi di quel singolare stato d'animo, tornò a guardar fuori dalla finestra. A questo punto Beineberg alzò gli occhi dal giornale; poi lesse forte una frase, mise da parte il foglio e sbadigliò.
Col silenzio s'era rotto anche l'incanto che aveva oppresso Törless. Parole banali cominciarono a scorrere su quel momento, cancellandolo. Era stato un barlume improvviso, seguito ora dall'antica indifferenza...
"Quanto tempo ci resta?" chiese Törless.
"Due ore e mezzo."
Poi alzò le spalle con un brivido. Sentiva di nuovo il potere paralizzante dell'angustia in cui era prossimo a rientrare. L'orario, la quotidiana compagnia degli amici. Non ci sarà nemmeno più quella tal ripugnanza per Beineberg che per un momento sembrava aver creato una situazione nuova.
"E cosa c'è stasera per cena?"
"Non so."
"Che materie abbiamo domani?"
"Matematica."
"Ah. Ci sono dei compiti?"
"Sì, un paio di nuovi teoremi di trigonometria; ma riuscirai a cavartela, non sono niente di speciale."
"E poi?"
"Religione."
"Religione? Ah già. Ne sentiremo di nuove... Credo che quando sono in vena potrei dimostrare tranquillamente che due per due fa cinque come che non può esistere che un solo dio."
Beineberg lanciò a Törless un'occhiata beffarda. "In questo sei proprio buffo: mi par quasi che ci trovi gusto; per lo meno, la foga che hai negli occhi lo fa pensare..."
"E perché no? In queste cose c'è sempre un punto dove non sai più se menti o se quello che hai inventato è più vero di te."
"Cosa vuoi dire?"
"Be', non l'intendo proprio alla lettera. Uno sa sempre che la sta dando a intendere, però a momenti la faccenda appare anche a lui tanto credibile che resta lì come imprigionato dai propri pensieri."
"Va bene, ma tu in questo che gusto ci trovi?"
"Proprio quel gusto lì. Senti come una scossa nel cervello, una vertigine, un soprassalto..."
"Ma smettila, è tutto un gioco!"
"Non ho mica detto il contrario. Comunque, di tutta la scuola, per me questa è ancora la cosa più interessante."
"Sì, è un modo per far fare ginnastica al cervello; però non ha un vero scopo."
"Già," disse Törless tornando a guardar fuori in giardino. Alle sue spalle, lontano, sentiva ronzare le fiammelle del gas. Inseguì una sensazione che gli nasceva dentro, malinconica come una nebbia. "Non ha scopo, hai ragione. Ma guai a confessarselo. Di quel che facciamo a scuola tutto il giorno che cosa ha uno scopo, in fondo? Cosa ce ne viene? Intendo cosa ci viene di nostro... capisci, no? Uno alla sera sa che ha vissuto un'altra giornata, che ha imparato quel tanto, che ha rispettato l'orario delle lezioni, però alla fine è rimasto vuoto: vuoto dentro, intendo; uno ha, per così dire, una gran fame interiore..."
Beineberg borbottò qualcosa come allenarsi, preparare lo spirito... non potere ancora cominciare... più avanti...
"Allenarsi? Prepararsi? Ma a che? Sai qualcosa di preciso? Tu forse speri in qualcosa, ma anche per te è tutto incerto. È così: un eterno aspettare qualcosa di cui non sappiamo altro se non che l'aspettiamo... E questo è talmente noioso..."
"Noioso..." fece eco Beineberg crollando la testa.
Törless guardava sempre il giardino. Gli parve di sentire il fruscio delle foglie morte ammucchiate dal vento. Poi venne quell'attimo di perfetto silenzio che precede sempre il calare della completa oscurità. Le forme che erano sprofondate sempre più nella penombra, e i colori che si dissolvevano, per qualche secondo parvero restare immobili, trattenere il respiro...
"Senti, Beineberg," disse Törless senza voltarsi, "durante il crepuscolo devono esserci, sempre, dei momenti molto particolari. Tutte le volte che l'osservo mi torna in mente lo stesso ricordo. Ero ancora molto piccolo e una volta, a quest'ora, stavo giocando nel bosco. La domestica s'era allontanata; io non lo sapevo e mi pareva di sentirmela ancora vicina. A un tratto qualcosa mi ha costretto ad alzare gli occhi. Avevo capito di essere solo. Di colpo si era fatto un silenzio! E quando mi sono guardato attorno m'è parso che gli alberi, zitti zitti, facessero circolo e mi fissassero. Ho pianto. Mi sono sentito così abbandonato dai grandi, in balia degli esseri inanimati... Che cos'è? La riprovo spesso, questa sensazione di un silenzio improvviso che è come un linguaggio che le nostre orecchie non afferrano."
"Questo di cui tu parli io non lo conosco: ma perché le cose non dovrebbero avere un loro linguaggio? In fondo, noi non siamo neppure in grado di affermare con sicurezza che non abbiamo un'anima!"
Törless non rispose. L'interpretazione speculativa di Beineberg non gli garbava. Ma quello dopo un po' riprese: "Perché continui a guardar fuori dalla finestra? Cosa ci trovi?"
"Sto ancora pensando a cosa può essere." In realtà aveva già pensato a qualcos'altro, che non voleva confessare. La forte tensione, il tentativo di sondare un solenne mistero e la responsabilità di scrutare relazioni della vita ancora non descritte, tutto questo aveva potuto tollerarlo solo per un istante. Poi s'era nuovamente impadronito di lui il senso di solitudine e di abbandono che sempre seguiva quell'impegno eccessivo. Sentiva in cuor suo: queste son cose ancora troppo difficili per me; e i suoi pensieri cercavano rifugio in qualcos'altro, che faceva parte a sua volta del quadro ma restava come in agguato sullo sfondo: la solitudine.
Dal giardino deserto ogni tanto volteggiava incontro alla finestra illuminata una foglia, che si portava via nel buio una striscia chiara. E il buio sembrava scansarsi e arretrare per rifarsi avanti subito dopo e piantarsi, immobile come un muro, davanti alle finestre. Era un mondo a sé, quel muro. Era sceso sulla terra come un nugolo di nemici neri, uccidendo gli uomini o cacciandoli via o facendo insomma qualcosa che ne aveva cancellato ogni traccia.
E Törless ebbe l'impressione di godere di ciò. In quel momento non gli piacevano gli uomini, i grandi, gli adulti. Non gli piacevano mai quand'era buio. Allora aveva l'abitudine di fingere che gli uomini non esistessero, e il mondo, dopo, gli appariva come una casa deserta e buia, e nel suo petto c'era un brivido, come se ora gli toccasse cercare di stanza in stanza - stanze oscure che non si sapeva cosa nascondessero negli angoli -, varcare a tentoni le soglie che nessun piede umano avrebbe più calcato dopo il suo, finché... finché a un tratto, in una stanza, le porte gli si sarebbero chiuse davanti e alle spalle e lui si sarebbe trovato di fronte la signora delle orde nere in persona. E in quel momento anche le serrature di tutte le altre porte attraverso cui era passato si sarebbero chiuse, e solo in lontananza, oltre i muri, le ombre dell'oscurità avrebbero montato la guardia come neri eunuchi impedendo la presenza degli uomini.
Era questa la sua specie di solitudine, da quella volta che l'avevano abbandonato là nel bosco dove aveva pianto così disperatamente. Per lui aveva il fascino di una donna e di una condizione disumana. La sentiva come una donna, ma il suo fiato era solo un senso di soffocazione che gli stringeva il petto, il suo volto un oblio turbinoso di tutti i volti umani, e i movimenti delle sue mani brividi che gli correvano per tutto il corpo...
Aveva paura di queste fantasie, perché era consapevole della loro natura furtiva e perversa, e il pensiero che simili idee acquistassero sempre più potere su di lui l'inquietava. D'altra parte l'assalivano proprio quando lui si credeva più serio e più innocente: come reazione, si potrebbe dire, a quei momenti in cui presentiva intuizioni nate dal sentimento, che già si preparavano in lui ma erano ancora sproporzionate alla sua età. Perché nello sviluppo di ogni sottile energia morale c'è sempre all'inizio, una fase in cui essa indebolisce l'anima della quale un giorno rappresenterà forse la più ardita esperienza: quasi che le sue radici dovessero prima affondare, saggiandolo e sconvolgendolo, nel terreno che più tardi saranno destinate a consolidare. Per questo gli adolescenti di grande avvenire hanno per lo più un passato ricco di umiliazioni.
La predilezione di Törless per certi stati d'animo era il primo sintomo di un'evoluzione interiore che in seguito si manifestò come una spiccata attitudine allo stupore. Più tardi, infatti, fu addirittura dominato da una dote singolare : si sentiva costretto a percepire eventi, persone, cose e persino se stesso così da riportarne la sensazione sia di una insolubile incomprensibilità sia di un'affinità che non era in grado di spiegare né di giustificare mai fino in fondo. Gli pareva che le cose fossero comprensibilissime, addirittura a portata di mano, e che tuttavia non si lasciassero mai tradurre del tutto in parole e pensieri. Tra gli eventi e il suo io, anzi tra le sue stesse sensazioni e un suo io profondo che anelava a comprenderle restava sempre un diaframma, che indietreggiava davanti al suo desiderio come un orizzonte man mano che lui gli si avvicinava. E quanto più nettamente coglieva coi pensieri le proprie sensazioni, quanto più a fondo le conosceva, tanto più estranee e incomprensibili queste parevano diventargli al tempo stesso, così che non sembrava nemmeno più che fossero loro a retrocedere davanti a lui ma piuttosto che lui s'allontanasse da loro, pur senza riuscire a scrollarsi di dosso l'illusione d'avvicinarsi sempre di più.
Questa singolare e sfuggente contraddizione occupò più tardi un buon tratto della sua evoluzione spirituale, parve voler dilaniare la sua anima e l'oppresse a lungo, divenendone il supremo dilemma.
Ma per il momento la gravità di queste lotte si manifestava solo in una frequente e improvvisa spossatezza sgomentando Törless per così dire, già da lontano, non appena un qualche singolare e ambiguo stato d'animo gliene dava, come poco prima, il presentimento. Allora gli pareva d'essere debole come un prigioniero abbandonato al suo destino, isolato tanto da se stesso che dagli altri; avrebbe voluto gridare dalla disperazione e dal senso di vuoto, e invece voltava per così dire le spalle a quella creatura seria e ansiosa, tormentata ed esausta che era in lui e porgeva l'orecchio alle voci carezzevoli con cui gli parlava la solitudine, ancora sbigottito per la brusca rinuncia e già estasiato dal loro respiro caldo e peccaminoso.

Törless tutt'a un tratto, propose di pagare. Negli occhi di Beineberg guizzò un lampo d'intesa: conosceva bene quell'umore. Törless fu infastidito da questa complicità; la sua antipatia per Beineberg si ridestò: si sentiva insozzato dall'aver qualcosa in comune con lui. Ma ciò faceva parte quasi naturalmente dell'insieme. La sordidezza è una solitudine di più e un nuovo muro tenebroso.
E senza scambiare parola si avviarono per una certa strada.


[3]

Negli ultimi minuti doveva esser caduta una pioggia sottile: l'aria era umida e greve, intorno ai lampioni tremolava una nebbia iridescente e i marciapiedi a tratti luccicavano.
Törless si strinse al fianco lo spadino che strascicava per terra; già il battere dei tacchi sul selciato gli dava strani brividi.
Dopo un po' ebbero sotto i piedi un terreno soffice, si stavano allontanando dal centro della città diretti, per ampie strade di paese, verso il fiume.
Questo scorreva nero e pigro, con un cupo gorgoglio, sotto il ponte di legno. C'era un solo lampione, dai vetri rotti e impolverati. Il chiarore della luce che vacillava inquieta tra le folate di vento cadeva qua e là su un'onda in arrivo e si scioglieva sulla cresta. I tronchi rotondi cedevano sotto ogni passo, rotolavano avanti e poi di nuovo indietro...
Beineberg si fermò. La riva opposta era coperta di fitti alberi che, siccome la strada piegava ad angolo retto e proseguiva lungo l'acqua, incombevano come un muro nero e impenetrabile. Solo dopo un'attenta ricerca comparve una stradina stretta e nascosta che s'inoltrava dritta tra la vegetazione. Dai fitti e rigogliosi arbusti del sottobosco sfiorati dagli abiti cadeva ogni volta un rovescio di gocce. Dopo un po' dovettero fermarsi di nuovo e accendere un fiammifero. Il silenzio era assoluto, non si sentiva più nemmeno il gorgoglio del fiume. A un tratto giunse fino a loro da lontano un suono rotto e indistinto, come un grido o un segnale d'avvertimento. O anche come il semplice richiamo di una creatura incomprensibile che da qualche parte si apriva come loro un varco tra i cespugli. Si diressero verso quel suono, si fermarono, ripresero il cammino. Poteva essere passato in tutto un quarto d'ora quando, con un sospiro di sollievo, distinsero delle voci sonore e le note di una fisarmonica.
Ora la vegetazione si diradava; dopo pochi passi si trovarono ai margini di una radura nel cui mezzo sorgeva, massiccia, una casa quadrata di due piani.
Era la vecchia casa dei bagni. Usata a suo tempo dagli abitanti della cittadina e dai contadini della zona come stabilimento termale, ormai era da anni quasi deserta. Solo a pianterreno ospitava un'osteria malfamata.
I due si fermarono un momento e tesero l'orecchio.
Törless stava giusto per alzare il piede e uscire dalla macchia quando dall'altra parte dei pesanti stivali fecero scricchiolare il tavolato dell'ingresso e un ubriaco uscì all'aperto con passo malfermo. Dietro di lui, nella penombra dell'ingresso, c'era una donna, e la si sentiva bisbigliare qualcosa con voce irosa e concitata, come se reclamasse qualcosa da lui. L'uomo rispose con una risata, dondolandosi sulle gambe. Allora si sentì come un'implorazione, ma le parole erano sempre incomprensibili. Si coglieva solo il tono di voce suadente. La donna venne avanti ancora e posò una mano sulla spalla dell'uomo. La luna illuminò lei, la sua sottana, il suo giubbetto, il suo sorriso implorante. L'uomo guardava dritto davanti a sé, scuoteva la testa e teneva le mani affondate nelle tasche. Poi sputò e spinse da parte la donna. Forse questa aveva detto qualcosa. Ora si potevano intendere anche le loro voci, divenute più forti.
"... Così non vuoi darmi niente? Pezzo di..."
" Va', va', torna di sopra, puttana!"
" Cosa? Brutto bifolco!"
Per tutta risposta l'ubriaco raccattò un sasso con gesto goffo: "Se non ti levi subito di torno, bestia che sei, ti fiacco la schiena!", e fece l'atto di tirare. Törless sentì la donna correr su per le scale con un ultimo insulto.
L'uomo restò fermo un po', tenendo indeciso il sasso in mano. Rise. Guardò verso il cielo dove la luna, di un giallo vinoso, navigava tra nuvole nere; poi fissò la siepe scura degli arbusti con l'aria di volersi muovere in quella direzione. Törless ritrasse cautamente il piede, si sentiva il cuore in gola. Ma alla fine l'ubriaco parve cambiare idea. La sua mano lasciò cadere il sasso. Con una sghignazzata di trionfo gridò un'oscenità verso la finestra del piano di sopra, poi scomparve dietro l'angolo.
I due non s'erano ancora mossi. "L'hai riconosciuta?" bisbigliò Beineberg, "era la Bo_ena." Törless non rispose: tendeva l'orecchio per sentire se l'ubriaco tornava indietro. Poi fu spinto avanti da Beineberg. A balzi rapidi e cauti raggiunsero, passando davanti ai coni di luce che uscivano dalle finestre del pianterreno, il vestibolo buio. Una scala di legno dalle rampe assai brevi portava su al primo piano. Ma di sotto dovevano aver sentito i loro passi sugli scalini cigolanti, oppure uno spadino aveva urtato contro il legno: la porta del locale di mescita s'aprì e qualcuno venne a vedere chi ci fosse in casa, mentre la fisarmonica di colpo taceva e il vocio s'interrompeva un istante.
Törless s'acquattò spaventato nelle svolte della scala. Ma dovevano averlo visto nonostante il buio, perché mentre la porta si richiudeva sentì la voce beffarda della cameriera dire qualcosa che suscitò uno scoppio di risa.
Sul ballatoio del primo piano era buio pesto. Né Törless né Beineberg s'azzardarono a muovere un passo per la paura di rovesciare qualcosa provocando rumore. Spinti dalla emozione, cercarono la maniglia della porta brancicando febbrilmente.

Bo_ena, figlia di contadini, s'era trasferita da giovane nel capoluogo mettendosi a servizio come domestica e diventando in seguito cameriera.
In principio tutto le andò bene. I modi paesani di cui, al pari della camminata larga e pesante, non era riuscita a liberarsi del tutto, le guadagnarono la fiducia delle sue padrone, che del sentore di stalla esalante dalla sua persona amavano la semplicità, e l'affetto dei suoi padroni, che di esso gradivano la fragranza. Solo per capriccio, probabilmente, o forse anche per scontento e per un oscuro bisogno di passione, rinunciò a quella comoda esistenza. Divenne cameriera in un locale, si ammalò, trovò ospitalità in un'elegante casa di tolleranza e poco per volta, man mano che il vizio la logorava, fu risospinta in zone di provincia sempre più periferiche.
Infine, in quel luogo che non distava molto dal suo paese d'origine e dove abitava ormai da parecchi anni, di giorno dava una mano nell'osteria e la sera leggeva romanzi d'appendice, fumava sigarette e riceveva ogni tanto la visita di un uomo.
Non era ancora proprio imbruttita, però il suo viso mancava in maniera singolare di garbo, e lei faceva del suo meglio per accentuare con le proprie maniere questo tratto. Le piaceva far capire che conosceva molto bene l'eleganza e gli usi del bel mondo ma che ormai ne aveva abbastanza. Dichiarava volentieri d'infischiarsi di quelle cose come di se stessa, come, del resto, di tutto quanto. E per questo, nonostante la sua trascuratezza godeva di una certa considerazione presso i giovani contadini del posto. Questi, è vero, sputavano parlando di lei e si sentivano tenuti a essere nei suoi confronti ancor più villani di quanto non fossero con altre ragazze, ma in fondo andavano tremendamente fieri di quella "maledetta bagascia" che, nata tra loro, aveva guardato dietro alla facciata del mondo. Venivano, è vero, ognuno per conto suo e di nascosto, però non si stancavano di cercare la sua compagnia. E in ciò Bo_ena trovava un residuo d'orgoglio e una giustificazione alla sua esistenza. Ma una soddisfazione forse ancora maggiore gliela davano i signorini dell'istituto. Con questi ostentava intenzionalmente i suoi tratti più laidi e grossolani, perché tanto, come la donna era solita dire, quelli sarebbero strisciati lo stesso da lei.
Quando i due amici entrarono, stava sdraiata come al solito sul letto, leggendo e fumando.
Törless ancora sulla porta, ne bevve l'immagine con occhi avidi.
"Oddìo, che bei ragazzini vedo mai?" schernì l'altra i due che entravano, squadrandoli con un'ombra di disprezzo. "Ma no, sei tu, barone! E cosa dirà la mamma?" Era un esordio dei suoi.
"Ma sta' zitta!" brontolò Beineberg, e le si sedette vicino, sul letto. Törless si mise a sedere in disparte; era stizzito perché Bo_ena non si curava di lui e faceva finta di non conoscerlo.
Negli ultimi tempi le visite a quella donna erano diventate il suo solo e segreto piacere. Già verso la fine della settimana cominciava a smaniare e non vedeva l'ora che arrivasse la domenica sera, quando si sarebbe recato furtivamente da lei. Soprattutto la necessità di raggiungerla così di soppiatto gli dava motivo di riflessione. Se per esempio, poco prima, ai giovanotti ubriachi che stavano di sotto fosse saltato in mente di dargli la caccia, solo per il gusto di pestare un po' il signorino vizioso? Lui non era vigliacco, però sapeva che là non avrebbe potuto difendersi. Il suo elegante spadino, di fronte a quei grossi pugni, gli faceva l'effetto di una presa in giro. E poi la vergogna, e la prevedibile punizione! Non gli sarebbe rimasto che fuggire o mettersi a implorare. O magari farsi proteggere dalla Bo_ena. Il solo pensiero gli faceva accapponare la pelle. Ma proprio questo era! Questo e nient'altro! Era la paura, il mettere se stesso a repentaglio a tentarlo ogni volta; l'abbandono della sua posizione privilegiata per cacciarsi tra la gente ordinaria... no, non tra questa: sotto questa!
Non era un vizioso. Durante gli incontri prevalevano sempre il disgusto per la sua impresa e la paura delle possibili conseguenze. Solo la sua fantasia aveva preso una direzione malsana. Quando i giorni della settimana si accumulavano a uno a uno, pesanti come piombo, sulla sua esistenza, quegli stimoli acri cominciavano a eccitarlo. Dal ricordo delle sue visite nasceva una singolare seduzione: Bo_ena gli appariva una creatura di spaventosa bassezza e la sua relazione con lei, i sentimenti che ciò lo costringeva a provare, un crudele rito sacrificale compiuto su se stesso. L'eccitava doversi lasciare alle spalle tutto ciò in cui era solitamente rinchiuso, la sua condizione di privilegio, i pensieri e i sentimenti che gli venivano istillati, tutto ciò che non gli dava niente e che lo schiacciava. L'eccitava rifugiarsi da quella donna nudo, spogliato di tutto, in una pazza corsa.
Non c'era, in questo, niente che non accada normalmente ai ragazzi. Se la Bo_ena fosse stata bella e pura, e lui a quel tempo fosse stato capace di amare, forse l'avrebbe morsa, esaltando fino alla sofferenza la voluttà di entrambi. Perché la prima passione dell'adolescente non è amore per una donna ma odio per tutte. Il sentirsi incompresi e incapaci di comprendere il mondo non è un sentimento che accompagna l'insorgere della prima passione ma è, di questa, la sola e non fortuita causa. E la passione, poi, è una fuga, in cui il ritrovarsi in due ha solo il significato di una solitudine raddoppiata.
Quasi tutti i primi amori durano poco e si lasciano dietro un gusto amaro. Sono un errore, una delusione. E dopo non ci si capisce, e non si sa a cosa dare la colpa. Ciò avviene perché in questo dramma ognuno è per l'altro, in misura preponderante, una presenza casuale, un compagno di fuga designato dal caso. Tornata la calma, i due non si riconoscono più: si scoprono a vicenda tratti contrastanti perché non vedono più quel che li accomuna.
Per Törless le cose andavano diversamente soltanto perché lui era solo. Quella meretrice matura e decaduta non era in grado di scatenare in lui tutti quei sentimenti. E tuttavia era abbastanza donna da trascinare anzitempo alla luce certe parti del suo animo che, come germi prossimi a maturare, aspettavano il momento capace di fecondarle.
Erano queste, allora, le sue singolari fantasie e immaginarie seduzioni. Ma a volte era quasi ugualmente tentato di gettarsi per terra e di gridare dalla disperazione.
Bo_ena continuava a non curarsi di Törless. Sembrava farlo per cattiveria, solo per irritarlo. A un tratto interruppe la conversazione: "Datemi un po' di soldi, vado a prendere del tè e della grappa."
Törless le diede una delle monete d'argento che aveva avuto da sua madre nel pomeriggio. Lei prese dal davanzale un fornello a spirito tutto ammaccato e l'accese; poi fece le scale con passo lento e strascicato.
Beineberg diede di gomito a Törless "Ma perché sei così fiacco? Penserà che non hai coraggio."
"Non tirarmi in ballo," lo pregò Törless "non sono in vena. Discorrici tu solo, con lei. Ma cos'ha poi da parlare continuamente di tua madre?"
"Da quando sa come mi chiamo sostiene d'essere stata a servizio, una volta, da mia zia e d'aver conosciuto mia madre. In parte pare che ci sia del vero, e in parte mente di certo... così, solo per divertirsi: anche se io non capisco bene cosa ci trovi di divertente."
Törless arrossì; gli era venuto uno strano pensiero. Ma a questo punto Bo_ena tornò con la grappa e si sedette di nuovo sul letto accanto a Beineberg. Riprese subito il discorso di prima.
"... Sì, tua mamma era una bella ragazza. Tu, veramente, non le somigli proprio, con quelle orecchie a sventola. E anche allegra, era. Avrà fatto girare la testa a più di uno. Aveva ragione."
Dopo una pausa, sembrò essersi ricordata di una cosa molto divertente: "Sai tuo zio, l'ufficiale dei dragoni? Karl, credo che si chiamasse. Era cugino di tua madre, e a quel tempo le faceva la corte! Alla domenica però, quando le signore erano in chiesa, correva dietro a me. Ogni momento dovevo portargli qualcosa in camera. Eh, era un tipo distinto, me ne ricordo ancora; certo che non si faceva mica tanti riguardi..." Accompagnò queste parole con una risata piena di sottintesi. Poi si dilungò ancora sull'argomento, che a quanto pareva le dava una particolare soddisfazione. Le sue parole avevano un tono di eccessiva familiarità, e lei le pronunciava con un'espressione che pareva volerle sporcare una per una. "... Lui, secondo me, piaceva anche a tua madre. Se lei l'avesse saputo! Credo che tua zia avrebbe dovuto buttarci fuori di casa tutt'e due, me e lui. Ma già, le signore sono così, soprattutto quando non hanno ancora un uomo. Cara Bo_ena qua e cara Bo_ena là, e avanti così tutto il giorno. Ma poi quando la cuoca è rimasta incinta, eh, avresti dovuto sentirle! Secondo me pensavano addirittura che la gente come noi si lavasse i piedi solo una volta all'anno. Alla cuoca non hanno detto niente, no, ma io le sentivo quando servivo in camera e loro parlavano giusto di questo. Tua mamma faceva una faccia... Come se le andasse di bere solo acqua di colonia. E dire che dopo un po' tua zia s'è ritrovata anche lei con una pancia fino al naso..."
Mentre Bo_ena parlava Törless si sentiva esposto quasi senza difesa alle sue allusioni volgari.
Si vedeva ben vivo davanti quel che lei descriveva. La madre di Beineberg diventò la sua. Ricordò le stanze chiare della casa paterna. Le facce curate, pulite e inavvicinabili che a casa, durante i pranzi di gala, gli avevano spesso ispirato una certa riverenza. Le mani fresche e distinte che neanche a tavola sembravano mai concedersi niente di men che irreprensibile. Gli venne in mente una folla di simili particolari, e si vergognò di esser là in una stanzuccia maleodorante e di rispondere con un tremito alle parole mortificanti di una sgualdrina. Il ricordo dei modi impeccabili di quella società mai dimentica delle forme agì su di lui più di qualsiasi considerazione morale. Il ribollire delle sue oscure passioni gli apparve ridicolo. Con folgorante chiarezza vide il freddo gesto di ripulsa, il sorriso sdegnoso con cui lo si sarebbe allontanato da sé come una bestiola poco pulita. E tuttavia rimase seduto dov'era, quasi fosse legato alla sedia.
Con ogni particolare che gli tornava in mente cresceva infatti in lui, accanto alla vergogna, anche una catena di brutti pensieri. Questa era cominciata quando Beineberg aveva dato ai discorsi di Bo_ena la spiegazione in seguito a cui Törless era arrossito.
In quel momento non aveva potuto fare a meno di riandare col pensiero alla propria madre, e ora ciò continuava a dominarlo e non c'era verso di liberarsene. S'era insinuato senza parere nel recinto della sua coscienza... fulmineo, o indistinto per la lontananza... e marginale, colto come in volo: quasi neanche un pensiero. E subito era seguita una serie concitata di domande destinate a soffocarlo: "Cosa fa sì che questa Bo_ena possa accostare la sua infima persona a quella di mia madre? Che si pigi con lei nello spazio angusto dello stesso pensiero? Perché non tocca la terra con la fronte se solo deve pronunciare il suo nome? Perché non appare con l'evidenza di un abisso che qui non esiste il minimo punto di contatto? Come stanno infatti le cose? Questa donna è per me un coacervo di tutti gli appetiti carnali, e mia madre una creatura che finora ha attraversato chiara e senza ombre la mia vita, sospesa in una lontananza priva di nubi, come un astro al di là di ogni concupiscenza..."
Ma tutte queste domande non erano l'essenziale. Lo sfioravano appena. Erano qualcosa di marginale, qualcosa che a Törless era venuto in mente solo in un secondo tempo. Si moltiplicavano solo perché nessuna coglieva nel segno. Erano solo un modo per eludere, per esprimere con perifrasi il fatto che inconsciamente, all'improvviso, in maniera istintiva, era affiorata una certa relazione interiore, che aveva dato a quelle domande, già prima della loro comparsa, una risposta maligna. Törless si pasceva gli occhi alla vista di Bo_ena e intanto non riusciva a dimenticare sua madre; tramite lui, un rapporto univa le due, e tutto il resto non era che un torcersi di fronte a un simile groviglio d'idee. Era quello l'unica cosa certa. Ma l'impossibilità di scrollarsene di dosso il dominio gli conferiva un significato pauroso e oscuro che accompagnava come un sorriso perfido tutti gli sforzi.

Törless si guardò attorno nella stanza per liberarsi di questi pensieri. Ma ormai tutto aveva preso quell'unico riflesso. La stufetta di ferro con le macchie di ruggine sul ripiano, il letto dalle gambe malferme e dalla testiera verniciata che si squamava in molti punti, il materasso che mostrava la sua sporcizia attraverso i buchi del logoro lenzuolo; Bo_ena, la sua camicia scivolata giù da una spalla, il rosso volgare e sfacciato della sua sottoveste, il suo riso sguaiato e ciarliero; infine Beineberg, il cui comportamento, in confronto al solito, gli pareva quello di un prete scostumato che in un accesso di follia intercalasse parole equivoche alle cadenze severe di un'orazione... : tutto premeva in un'unica direzione, gli invadeva la mente e ricacciava indietro di continuo, a viva forza, i suoi pensieri.
Solo in un punto i suoi sguardi, che cercavano scampo passando sgomenti da un oggetto all'altro, trovarono pace, e fu al di sopra delle brevi tendine: là le nuvole guardavano nella stanza, e c'era, immobile, la luna.
Fu come se a un tratto fosse uscito nell'aria fresca e calma della notte. Per un po' tutti i suoi pensieri tacquero. Poi gli venne in mente un ricordo gradevole. La casa di campagna dove avevano vissuto l'estate precedente. Notti nel parco silenzioso. Un firmamento di velluto nero, tremolante di stelle. La voce di sua madre dal fondo del giardino, dove passeggiava assieme a papà sui vialetti che rilucevano debolmente. Canzoni che lei, assorta, cantava a mezza voce. Ma ecco... una trafittura gelida... ecco ancora quel confronto tormentoso. Che cosa potevano aver provato i due in quel momento? Amore? No, quest'idea gli veniva ora per la prima volta. L'amore era ben altro. Non era cosa per i grandi e gli adulti, men che meno per i suoi genitori. Sedere di notte alla finestra aperta e sentirsi abbandonato da tutti, sentirsi diverso dai grandi, frainteso da ogni risata e da ogni sguardo canzonatorio, non riuscire a spiegare a nessuno quel che già si è e anelare a una che lo capisca... ecco cos'è l'amore! Ma per questo bisogna essere giovani e soli. Tra loro ci doveva essere qualcos'altro: qualcosa di quieto, pacato. La mamma di sera cantava nel giardino buio ed era contenta... tutto qui.
Ma era proprio questo che Törless non capiva. I pazienti progetti che per l'adulto, senza che se ne accorga, trasformano in mesi e anni la concatenazione dei giorni gli erano ancora estranei. E così pure quella perdita di sensibilità che nella fine di un altro giorno non vede neanche più un problema. La sua vita era tesa a cogliere ogni singolo giorno. Per lui ogni notte significava un nulla, una tomba, un annientamento. Non aveva ancora la capacità di stendersi ogni giorno sul letto di morte senza darsene pensiero.
Per questo aveva sempre sospettato che dietro ci fosse qualcosa che gli tenevano nascosto. Le notti gli parevano scure porte d'accesso a piaceri misteriosi che gli erano stati occultati, così che la sua vita rimaneva vuota e infelice.
Si ricordò di uno strano riso di sua madre e di un suo stringersi più forte, come per scherzo, al braccio del marito. Vi aveva fatto caso una di quelle sere, e ciò sembrava escludere ogni dubbio: anche il mondo di quelle persone tranquille e insospettabili doveva avere una porta d'uscita. E adesso che sapeva poteva pensarci solo con quel certo sorriso di cui cercava invano di contrastare la maligna diffidenza...
Intanto Bo_ena continuava a discorrere. Törless si mise distrattamente in ascolto. Stava parlando di uno che veniva anche lui quasi ogni domenica... "Ma come si chiama? È uno della tua età."
"Reiting?"
"No."
"Che aspetto ha?"
"È alto più o meno come quello lì," Bo_ena indicò Törless "solo che ha la testa un po' troppo grossa."
"Ah, Basini?"
"Sì, sì, ha detto che si chiama così. È proprio ridicolo. E fa il grande: beve solo vino. È stupido però. Spende un sacco di soldi e non combina niente, mi racconta e basta. Si vanta degli amori che dice di avere a casa: ma cosa se ne fa? Io lo vedo benissimo che è la prima volta in vita sua che sta con una donna. Anche tu sei ancora un bamboccio, però sei sfacciato. Lui invece non sa fare, per questo mi racconta in lungo e in largo com'è che un gaudente - sì, ha detto proprio così - deve comportarsi con le donne. Dice che tutte quante non sono buone che a questo. Ma voialtri cosa volete saperne, alla vostra età?"
Beineberg le rispose con un ghigno canzonatorio.
"Sì, sì, ridi!" l'investì Bo_ena divertita. "Una volta gli ho domandato se non si sarebbe vergognato di fronte a sua madre. "Madre?... Madre?" ha detto lui. "Che roba è? Questo adesso non esiste. L'ho lasciato a casa prima di venire da te..." Già, apri bene le orecchie, così siete fatti! Bella razza di figli, voialtri signorini, le vostre madri quasi quasi mi fan pena!..."
A queste parole Törless riebbe davanti agli occhi se stesso come s'era visto poco prima: nell'atto di lasciarsi tutto quanto alle spalle e di tradire l'immagine dei suoi genitori. E adesso gli toccava accorgersi che con ciò faceva una cosa neppure terribilmente insolita ma anzi comunissima. Ne ebbe vergogna. Ma intanto erano tornati anche gli altri pensieri. Lo fanno anche loro! Ti tradiscono! Hai degli insospettati compagni di prodezze. Forse, chissà come, per loro è diverso, ma anche loro devono provare la stessa cosa: uno spaventoso, segreto piacere. Qualcosa in cui uno può affogare con tutta la sua paura della monotonia dei giorni... O forse loro ne sanno persino di più?... Cose assolutamente fuori dell'ordinario? Di giorno loro sono così distesi... E quel riso di sua madre?... Come se andasse in giro con passo tranquillo a chiudere tutte le porte.

In questa lotta ci fu un momento in cui Törless cedette, abbandonandosi col cuore stretto all'uragano.
E proprio in quel momento Bo_ena si alzò e venne verso di lui.
"Ma come mai il piccolo non parla? Ha i pensieri?" Beineberg bisbigliò qualcosa e sorrise malignamente.
"Che? Nostalgia? Ah, la mamma è partita! E subito il bambino cattivo corre da una così!"
Bo_ena gli affondò dolcemente tra i capelli la mano con le dita aperte. "Dai, non fare lo stupido. Dammi un bacio, va. I signori non son mica fatti di zucchero neanche loro." E gli piegò la testa all'indietro.
Törless avrebbe voluto dire qualcosa, riscuotersi per rispondere con una battuta scurrile; sentiva che tutto ora dipendeva da una sua parola indifferente e distaccata, ma non riuscì a emettere un suono. Fissò con un sorriso impietrito la faccia devastata che sovrastava la sua, quegli occhi sfocati, poi il mondo esterno cominciò a farsi piccolo, ad allontanarsi sempre più... Affiorò per un istante l'immagine del giovane contadino che aveva raccattato il sasso, e sembrò schernirlo... Poi fu solo...


[4]

"Ehi, l'ho pescato!" bisbigliò Reiting.
"Chi?"
"Il ladro degli armadietti."
Törless era appena rientrato con Beineberg. Mancava poco alla cena, e il sorvegliante di turno se n'era già andato. Tra i tavoli verdi s'erano formati dei gruppetti intenti a conversare, e una calda animazione riempiva di brusii e ronzii la sala.
Era la solita aula scolastica dalle pareti a calce, con un gran crocifisso e i ritratti della coppia reale ai lati della lavagna. Accanto alla grande stufa di ferro non ancora accesa sedevano, un po' sulla pedana e un po' sulle sedie sparse qua e là, i ragazzi che nel pomeriggio avevano accompagnato i signori Törless alla stazione. Erano, oltre a Reiting, il lungo Hofmeier e Dschjusch, nomignolo con cui si designava un piccolo conte polacco.
Törless era alquanto curioso.
Gli armadietti si trovavano in fondo alla stanza ed erano dei lunghi stipi con molti cassetti che si potevano chiudere a chiave e in cui gli allievi dell'istituto conservavano lettere, libri, denaro e ogni possibile cianfrusaglia.
E già da parecchio tempo questo e quel compagno si lagnavano che gli fossero venute a mancare piccole somme di denaro, senza peraltro essere in grado di formulare precisi sospetti.
Beineberg fu il primo a poter dire con certezza che la settimana precedente gli era stata rubata una somma piuttosto ragguardevole. Ma solo Reiting e Törless sapevano della cosa.
Sospettavano degli inservienti.
"Dài, racconta!" l'esortò Törless, ma Reiting gli fece un rapido cenno: "Sst! Più tardi. Non lo sa ancora nessuno."
"Un inserviente?" bisbigliò Törless.
"No."
"Fammi almeno sapere chi!"
Reiting voltò le spalle agli altri e disse piano: "B." Nessuno oltre a Törless aveva capito qualcosa di quel dialogo condotto con cautela. Ma su questi la confidenza agì come un attacco di sorpresa. B.? Non poteva essere che Basini. Ma questo non era possibile. Sua madre era una signora benestante, il suo tutore un alto funzionario. Törless non voleva crederci, e intanto gli balenò il pensiero del racconto di Bo_ena.
Non vedeva l'ora che gli altri andassero a cena. Beineberg e Reiting rimasero, asserendo d'essere ancora sazi dal pomeriggio.
Reiting propose di andare per prima cosa "di sopra".
Uscirono nel corridoio, che si allungava senza fine fuori dall'aula. I tremolanti lumi a gas lo rischiaravano solo a brevi tratti, e i passi, per quanto cautamente si camminasse, echeggiavano da una nicchia all'altra...
A circa cinquanta metri dalla porta una scala portava al secondo piano, dove si trovava il gabinetto di scienze naturali, altre raccolte di materiale didattico e una quantità di stanze vuote. A partire di là la scala si stringeva, e in brevi rampe che si susseguivano ad angolo retto saliva fino al solaio. Poi - come succede nei vecchi edifici che sono spesso costruiti senza logica, con grande spreco di angoli e di inutili scalini - saliva ancora di un buon tratto sopra il livello del solaio, per cui al di là della pesante porta di ferro sprangata che la chiudeva c'era bisogno di una scaletta di legno per scendere in quello.
In questo modo, però, dalla parte di qua s'era creato un vano perso, alto parecchi metri, che giungeva fino alla travatura. In esso, dove presumibilmente non andava mai nessuno, erano stati riposti vecchi scenari, residuo di remote rappresentazioni teatrali.
Su questa scala la luce del giorno era soffocata anche nelle ore meridiane da una penombra intrisa di una polvere vecchia di anni, perché quell'accesso al solaio, che si trovava verso l'ala dell'imponente edificio, non veniva quasi mai usato.
Raggiunto l'ultimo pianerottolo, Beineberg scavalcò la ringhiera e, tenendosi alle sbarre di questa, si calò tra gli scenari, imitato da Reiting e da Törless. Qui poterono poggiare i piedi su una cassa che era stata messa là proprio a questo scopo, e da essa scesero con un salto sul pavimento.
Anche se l'occhio di uno che si fosse trovato sulla scala avesse fatto l'abitudine al buio, gli sarebbe comunque stato impossibile distinguere da lassù più che un ammasso disordinato di quinte spigolose appoggiate in vario modo le une alle altre. Ma quando Beineberg scostò un poco una di esse, ai tre che stavano di sotto si aprì uno stretto passaggio, una specie di cunicolo.
Nascosero la cassa che era loro servita per scendere e s'infilarono tra le quinte. Qui il buio si faceva completo, e ci voleva un'esatta conoscenza del luogo per andare avanti. Qua e là una delle grandi tele frusciava quando veniva sfiorata, sul pavimento correva un fremito come di topi messi in fuga, e si alzava un tanfo di mobili vecchi.
I tre che conoscevano la strada procedevano a tentoni con infinita cautela, badando a ogni passo di non urtare qualcuna delle cordicelle tese attraverso il pavimento a mo' di lacci e di segnali d'allarme.
Passò parecchio tempo, e alla fine giunsero a una porticina che si trovava sulla destra, subito prima del muro divisorio del solaio.
Quando Beineberg la spalancò si ritrovarono in un vano angusto ricavato sotto l'ultimo pianerottolo, un posto che alla luce tremula di un piccolo lume a petrolio acceso da Beineberg appariva abbastanza stravagante.
Il soffitto era orizzontale solo in quella parte che si trovava immediatamente sotto il pianerottolo, e anche là alto solo quel tanto che permetteva di stare in piedi. Procedendo verso il fondo invece s'inclinava, secondo l'andamento della scala, per finire in un cantuccio a punta. Dalla parte opposta a questo lo stanzino era chiuso dal sottile tramezzo che separava il solaio dalla scala, e nel verso della lunghezza trovava un limite naturale nel muro in cui era stata inserita la scala. Solo la seconda parete laterale, in cui si apriva la porta, sembrava essere stata aggiunta apposta: doveva probabilmente la sua esistenza all'intento di creare là un piccolo ripostiglio per attrezzi, o forse anche solo a un estro dell'architetto, che alla vista di quell'angolo buio può darsi avesse avuto l'idea molto medioevale di farlo murare per ricavarne un nascondiglio.
Comunque, all'infuori dei tre non doveva esserci nessuno nell'istituto che sapesse dell'esistenza di quel locale, o che addirittura pensasse di dargli una qualche destinazione.
Così loro avevano potuto sistemarselo secondo i loro gusti stravaganti.
Le pareti erano tutte rivestite di una stoffa da bandiere rosso sangue che Reiting e Beineberg avevano rubato in un solaio, e il pavimento era coperto da un doppio strato di pesanti coperte di lana grezza, di quelle che d'inverno servivano da seconda coperta nei dormitori. Nella parte anteriore dello stanzino c'erano delle cassette basse ricoperte di stoffa, che venivano usate come sedili; dietro, dove pavimento e soffitto terminavano nel cantuccio a punta, era stato sistemato un giaciglio. Questo offriva ospitalità a tre o quattro persone e poteva essere oscurato, e insieme separato dalla parte anteriore della stanza, per mezzo di una tenda.
Sul muro, accanto alla porta, era appesa una rivoltella carica.
Törless non amava quello stanzino. La sua piccolezza e quell'isolamento certo gli piacevano, era come stare nelle viscere di una montagna, e l'odore delle vecchie quinte polverose lo riempiva di sensazioni indefinite. Ma tutto quel mistero, le cordicelle per l'allarme, la rivoltella che doveva dare un'illusione estrema di fierezza e di clandestinità gli parevano cose ridicole. Era come un volersi convincere a ogni costo di condurre un'esistenza da banditi.
Törless, veramente, stava al gioco solo perché non voleva esser da meno degli altri due. Ma Beineberg e Reiting prendevano quelle cose terribilmente sul serio. Questo Törless lo sapeva. Sapeva che Beineberg aveva chiavi false per tutti i locali delle cantine e dei solai. Sapeva che scompariva spesso per parecchie ore dalla classe e si rintanava da qualche parte - su in alto fra le travi del solaio o sotto terra, in uno dei molti scantinati a volta cadenti e pieni di diramazioni - per leggere strane storie al lume di una piccola lampada che portava sempre con sé, o farsi ispirare riflessioni sulle cose soprannaturali.
Qualcosa di simile sapeva anche di Reiting. Anche quello aveva i suoi angoli nascosti dove conservava diari segreti; solo che questi erano zeppi di arditi piani per il futuro e di precise annotazioni sull'origine, l'avvio e il decorso dei numerosi intrighi che lui ordiva tra i compagni. Perché Reiting non conosceva piacere maggiore dell'istigare gli uni contro gli altri, del sopraffare questo con l'aiuto di quello e del bearsi di favori e blandizie ottenuti per forza e sotto la cui scorza poteva ancora avvertire la resistenza dell'odio.
"Mi alleno," era l'unica sua giustificazione, e la dava con un sorriso amabile. Di allenamento doveva servirgli a suo dire anche la boxe che praticava quasi ogni giorno in qualche luogo appartato, o contro un muro o contro un albero o un tavolo, per rafforzarsi le braccia e indurirsi le mani con i calli.
Törless sapeva tutto questo ma lo capiva solo fino a un certo punto. Varie volte aveva seguito sia Reiting che Beineberg nei loro bizzarri itinerari, e gli era piaciuto, naturalmente, ciò che questi avevano d'inconsueto. E anche un'altra cosa gli piaceva: uscire, dopo, alla luce del giorno, fra tutti gli altri compagni, nella loro gaiezza, mentre si sentiva ancora palpitare dentro, negli occhi e negli orecchi, le emozioni della solitudine e le allucinazioni del buio. Ma se in quei casi Beineberg o Reiting, per avere qualcuno con cui poter parlare di se stessi, gli spiegavano cosa li inducesse a far questo, lui non riusciva a capire. Reiting gli pareva addirittura un esaltato. Parlava infatti preferibilmente di come suo padre fosse stato un curioso tipo di nomade che un giorno aveva finito con lo scomparire: pareva del resto che il suo fosse solo un falso nome sotto cui si celava quello di un'illustre casata. Lui pensava che un giorno sua madre l'avrebbe messo al corrente di certi suoi considerevoli diritti, aveva in mente colpi di stato e operazioni di alta politica e di conseguenza voleva diventare ufficiale.
Simili progetti Törless non riusciva proprio a figurarseli seriamente. I secoli delle rivoluzioni gli sembravano passati una volta per tutte. Eppure Reiting sapeva fare sul serio. Anche se, per il momento, solo in piccolo. Era un tiranno, e inesorabile contro chi gli si opponeva. Il suo seguito cambiava da un giorno all'altro, però la maggioranza era sempre dalla sua parte. Proprio qui stava il suo talento. Aveva fatto uno o due anni prima una gran guerra a Beineberg, che s'era conclusa con la sconfitta di quest'ultimo. Alla fine Beineberg era rimasto piuttosto isolato, benché nel giudizio degli altri non fosse certo molto da meno del suo antagonista quanto a sangue freddo e a capacità di destare antipatie contro chi gli era avverso. A lui però mancava l'amabilità e il fare cattivante dell'altro. La sua compassatezza e la sua unzione filosofica ispiravano diffidenza quasi a tutti quanti. Al fondo della sua natura si sospettavano chissà quali depravazioni. Tuttavia aveva creato a Reiting grandi difficoltà, e la vittoria di quello era stata quasi fortuita. Da quel tempo, per reciproco interesse, avevano fatto causa comune.
Törless, invece, restava indifferente di fronte a queste cose e perciò non aveva nemmeno destrezza in esse. D'altra parte era rinchiuso anche lui in quel mondo e poteva vedere ogni giorno con i propri occhi cosa significhi avere, all'interno di uno stato - giacché in un simile collegio ogni classe è un piccolo stato a sé - la posizione più prestigiosa. Per questo provava un certo timido rispetto per i suoi due amici. Gli impulsi, che talvolta lo prendevano, d'imitarli, si limitavano a tentativi dilettanteschi. In tal modo lui, che oltre tutto era più giovane, finiva col sostenere nei loro confronti la parte dello scolaro o dell'aiutante. Lui godeva la loro protezione, gli altri due però ascoltavano volentieri i suoi consigli. La mente di Törless infatti, era la più agile. Una volta messo su una pista, lui era quanto mai fertile nell'escogitare le più elaborate combinazioni. E nessuno era in grado di predire con altrettanta esattezza le varie possibilità che potevano nascere dal comportamento di una persona in una data situazione. Solo dove si trattava di decidere, di scegliere a proprio rischio come la più sicura una delle diverse possibilità psicologiche e di agire di conseguenza, lui non era all'altezza: perdeva interesse alla cosa, mancava di energia. Però la sua parte di capo di stato maggiore segreto lo divertiva: tanto più che era tutto sommato l'unica cosa che scuotesse un po' il suo intimo tedio.
Ma a volte si rendeva conto di quanto cara pagasse quella dipendenza spirituale. Sentiva che tutto quel che faceva era solo un gioco: solo qualcosa che l'aiutava a far passare più presto il tempo di quell'esistenza larvale nell'istituto, qualcosa di estraneo alla sua vera natura, che si sarebbe manifestata solo al di là di tutto questo, in un futuro non ancora prevedibile.
Quando cioè, in certe occasioni, vedeva come i suoi due amici prendessero sul serio simili cose, sentiva venir meno la propria capacità di comprensione. Si sarebbe volentieri burlato di loro, e tuttavia temeva che dietro quelle stramberie potesse esserci del vero, e più di quanto lui fosse in grado di capire. Si sentiva in certo modo lacerato tra due mondi: uno solidamente borghese, in cui alla fin fine tutto procedeva nel modo ordinato e razionale a cui era abituato sin da casa sua, e l'altro fantastico, pieno di tenebre, di mistero, di sangue e d'imprevisti colpi di scena. E l'uno sembrava escludere l'altro. Un sorriso canzonatorio, che gli sarebbe piaciuto conservare sulle labbra, s'incrociava con un brivido che gli correva lungo la schiena. Nasceva una fantasmagoria di pensieri...
Allora provava un desiderio bruciante di sentirsi finalmente dentro qualcosa di definito: bisogni precisi che distinguessero tra il buono e il cattivo, tra l'utile e l'inutile; sapersi scegliere, non importa se male: sempre meglio che accogliere in sé, con una ricettività esagerata, tutto quanto...
Quand'era entrato nello stanzino quell'intimo dissidio s'era nuovamente impadronito di lui, come sempre in quel luogo.
Intanto Reiting aveva cominciato a raccontare.
Basini da tempo gli doveva del denaro, e l'aveva tenuto a bada con promesse da una scadenza all'altra, ogni volta dando la sua parola d'onore. "Io, fin qui, non avevo niente in contrario," osservò Reiting, "più durava questa faccenda, più lo riducevo in mio potere. Dopotutto, mancare tre o quattro volte alla propria parola non è una bazzecola. Ma alla fine ho avuto bisogno anch'io dei miei soldi. Gliel'ho ricordato, e lui a giurare per tutti i santi. Naturalmente, anche stavolta non ha mantenuto la parola. Allora gli ho detto che l'avrei denunciato. Lui mi ha chiesto due giorni di tempo, dicendo che aspettava una rimessa dal suo tutore. Ma io intanto mi sono un po' informato della sua situazione; volevo sapere se aveva magari degli obblighi anche con altri: bisogna pur tener conto anche di questo.
"Quello che ho saputo non mi ha fatto precisamente piacere. Aveva debiti con Dschjusch e anche con qualcun altro. Una parte l'aveva già pagata, naturalmente con i soldi che doveva a me; il resto gli bruciava tra le dita. La cosa mi ha seccato: mi aveva proprio preso per il più bonaccione? Non ne avrei avuto precisamente piacere. Però mi son detto: aspettiamo; non mancherà l'occasione di guarirlo da certi errori. Una volta, discorrendo, mi aveva nominato l'importo della somma che aspettava, per tranquillizzarmi mostrandomi che era più alta del mio credito. Ora, io mi sono informato per bene in giro e ho scoperto che per l'intero ammontare dei debiti quella cifra non bastava neanche lontanamente. "Ah, bene," mi son detto, "adesso ci riproverà."
"E infatti è venuto da me e in gran confidenza mi ha chiesto, dato che gli altri erano tanto insistenti, di pazientare un po'. Ma io questa volta mi sono tenuto molto sulle mie. "Va' a elemosinare dagli altri," gli ho detto, "io non sono abituato a venir dopo di loro." "Te, però, ti conosco meglio, in te ho più fiducia," ha azzardato lui. "Questa è la mia ultima parola. O domani mi porti i soldi o io ti detto le mie condizioni." "Che condizioni?" s'è informato lui. Avreste dovuto sentirlo! Come se fosse pronto a vendere l'anima. "Che condizioni? Eh! Dovrai essere a mia disposizione in tutto quel che faccio." "Nient'altro? Lo farò di sicuro: già ci sto, dalla tua parte!" "Ah, ma non solo quando fa piacere a te: dovrai eseguire tutto quello che io vorrò... con obbedienza cieca!" A questo punto mi ha guardato un po' di traverso, mezzo ridacchiando e mezzo imbarazzato. Non sapeva fino a che punto potesse impegnarsi, e fino a che punto io facessi sul serio. Probabilmente mi avrebbe promesso volentieri tutto quanto, ma doveva temere che lo stessi solo mettendo alla prova. Perciò alla fine ha detto, diventando rosso: "Ti porterò i soldi." Mi divertiva, era uno che finora, tra gli altri cinquanta, non avevo preso affatto in considerazione. Non era mai della partita, vero? E adesso, di colpo me lo trovavo così vicino che potevo osservarlo fin nei minimi particolari. Io, certo, sapevo che lui era pronto a vendersi: senza troppo chiasso, purché nessuno ne sapesse niente. È stata davvero una sorpresa, e non c'è niente di più bello che trovarsi alle prese con uno che improvvisamente ti si apre così, e tu di colpo hai davanti la sua maniera di vivere, che finora non avevi considerato, come le gallerie di un tarlo quando si spacca il legno...
"Il giorno dopo mi ha davvero portato i soldi. Di più: mi ha invitato a bere qualcosa con lui al circolo. Ha ordinato vino, torta, sigarette e mi ha chiesto di potermi servire: per riconoscenza, ha detto, perché avevo pazientato tanto. M'infastidiva solo che facesse finta di niente a quel modo. Come se fra noi non fosse mai corsa una parola dura. Ho provato ad alludervi io, e lui è diventato ancora più cordiale. Era come se volesse sottrarsi alla mia presa, rimettersi alla pari con me. Di quelle storie non voleva più sentir parlare, e ogni due parole mi costringeva a sorbirmi una nuova protesta d'amicizia. Ma negli occhi aveva qualcosa che mi si appiccicava addosso, come se temesse di perdere quel senso di confidenza che aveva creato artificiosamente. Alla fine m'ha urtato. Mi son detto: "Ma cosa crede, che io debba proprio stare al suo gioco?" e ho cominciato a pensare in che modo avrei potuto affibbiargli uno schiaffo morale. Cercavo qualcosa che lo toccasse proprio sul vivo, e intanto m'è venuto in mente che alla mattina Beineberg mi aveva raccontato che gli erano stati rubati dei soldi. Proprio per caso, m'è venuto in mente. Poi però quell'idea è tornata, e io mi sono sentito letteralmente serrare la gola. "Verrebbe giusto a proposito," ho pensato, e gli ho chiesto di sfuggita quanti soldi gli restassero ancora. Il conto che ho fatto subito dopo tornava. "Ma chi è stato tanto sciocco da prestarti ancora dei soldi nonostante tutto?" gli ho chiesto ridendo. "Hofmeier."
"Credo di aver tremato dal piacere. Infatti Hofmeier era stato da me due ore avanti per chiedermi a sua volta dei soldi in prestito. Così quello che m'era passato per la testa un paio di minuti prima era diventato di colpo realtà. Proprio come se per caso, scherzando, uno pensasse: adesso questa casa dovrebbe bruciare, e un attimo dopo il fuoco fosse già alto parecchi metri...
"Ho rifatto rapidamente il conto di tutte le possibilità: la certezza assoluta, si capisce, non potevo averla, ma mi bastava il mio istinto. Così mi sono piegato verso di lui e gli ho detto col mio fare più amabile, come se stessi infilandogli pian piano nel cervello un ferro sottile e appuntito: "Ma senti, caro Basini, perché cerchi di raccontarmi delle frottole?" A queste parole, è sembrato che i suoi occhi si mettessero ad annaspare pieni di paura, ma io ho continuato: "Potrai forse raccontarlo a qualcun altro, ma io sono proprio il meno adatto. Lo sai, no, che Beineberg..." Lui non è diventato né rosso né bianco, aveva l'aria di aspettare che si chiarisse un equivoco. "Insomma, per farla breve," ho detto io a questo punto, "i soldi con cui mi hai pagato il debito tu li hai presi stanotte dal cassetto di Beineberg!"
"Mi sono appoggiato alla spalliera per osservare l'effetto. Lui era diventato rosso come una ciliegia; le parole che non riusciva a spiccicare gli facevano uscire la bava dalla bocca. Alla fine è riuscito a parlare. È stato un torrente di accuse contro di me: e come mi permettevo di sostenere una cosa simile, e cosa poteva mai giustificare sia pur lontanamente una supposizione del genere, e che io cercavo solo di attaccare briga con lui perché era il più debole, e che lo facevo solo per stizza, perché dopo aver pagato i suoi debiti lui s'era affrancato da me, e che avrebbe chiamato in sua difesa la classe, il prefetto, il direttore, e che Dio testimoniasse la sua innocenza, e avanti così all'infinito. Io cominciavo già a temere sul serio di avergli fatto torto e di averlo offeso inutilmente, tanto il rossore gli stava bene in faccia... pareva una bestiolina tormentata, indifesa. Però non me la sono sentita di darmi senz'altro per vinto. Così ho continuato a ostentare a dire il vero, quasi soltanto per l'imbarazzo - un sorrisetto ironico, con cui ho seguito tutti i suoi discorsi. Ogni tanto annuivo e dicevo, senza scompormi: "Eppure io lo so."
"Di lì a un poco s'è calmato anche lui. Io continuavo a sorridere. Avevo come la sensazione di poter fare di lui un ladro solo con quel sorriso, anche se non lo era ancora. "E per riparare," mi son detto, "c'è sempre tempo."
"Dopo un altro po' - lui, a intervalli, aveva continuato a sogguardarmi - è diventato di colpo pallido. La sua faccia ha subito una curiosa trasformazione. La grazia davvero innocente che prima l'abbelliva è scomparsa, così è sembrato, assieme al colore. Adesso era una faccia verdognola, smorta, gonfia. Avevo visto qualcosa di simile prima d'ora una sola volta, assistendo per strada all'arresto di un assassino. Anche quello se ne andava in giro tra la gente senza che si potesse notare qualcosa in lui. Ma quando il poliziotto gli ha posato la mano sulla spalla è diventato di colpo un altro. La sua fisionomia s'era trasformata, e gli occhi si dilatavano spaventati, cercando scampo, in una vera faccia patibolare.
"Il cambiamento d'espressione di Basini mi ha ricordato quella scena. Ormai sapevo tutto, e non avevo che da aspettare...
"E infatti così è stato. Senza che io avessi detto niente, Basini, sfinito dal silenzio, s'è messo a piangere e a implorare pietà. I soldi li aveva presi solo per bisogno, se io non l'avessi scoperto lui li avrebbe restituiti così presto che nessuno l'avrebbe saputo. Non dovevo dire che aveva rubato: li aveva solo presi in prestito di nascosto... Di più non è riuscito a dire dal gran piangere.
"Dopo però ha ricominciato a implorarmi. Mi avrebbe obbedito, avrebbe fatto tutto quello che desideravo, solo che io non dovevo dir niente a nessuno. A questo prezzo mi si è letteralmente offerto come schiavo, e il misto di astuzia e di avidità paurosa che si contorceva nei suoi occhi era disgustoso. Io perciò mi sono limitato a promettergli brevemente di ripensare a quale sarebbe stata la sua sorte, ma gli ho anche detto che la cosa riguardava in primo luogo Beineberg. E adesso che facciamo di lui, per conto vostro ?"
Mentre Reiting raccontava Törless era stato ad ascoltare senza una parola, a occhi chiusi. Di tanto in tanto un brivido gli era corso fino alla punta delle dita; nel suo cervello i pensieri affioravano scomposti e tumultuosi come le bolle nell'acqua di una caldaia. Si dice che accada una cosa simile a chi vede per la prima volta la donna destinata a trascinarlo in una passione rovinosa. Si sostiene che tra due esseri esista un simile istante in cui ci si china, si chiamano a raccolta le forze, si trattiene il respiro, un istante di silenzio esterno che avvolge gli animi tesi fino allo spasimo.
Impossibile dire che cosa accada in quell'istante. Esso è come l'ombra che la passione, giungendo, proietta davanti a sé. Un'ombra organica, un allentarsi di tutte le precedenti tensioni e insieme uno stato di nuova, improvvisa soggezione, in cui è già contenuto l'intero futuro; un'incubazione concentrata in un solo punto, lancinante come la puntura di un ago... E d'altra parte è un niente, una sensazione cupa e indefinita, una spossatezza, una paura...
Questo sentiva Törless. Ciò che Reiting raccontava di sé e di Basini gli sembrava, interrogando se stesso, una storia senza importanza. Una colpevole leggerezza e un'azione vile e riprovevole da parte di Basini, a cui sarebbe certamente seguito un qualche estro crudele di Reiting. E d'altronde sentiva, come in un trepido presagio, che ora gli avvenimenti avevano preso una piega a lui sfavorevole, e che nell'incidente c'era qualcosa che lo minacciava come con una punta acuminata.
Non poté fare a meno di figurarsi Basini in visita da Bo_ena e si guardò attorno nello stanzino. Le pareti sembravano incombere su di lui, quasi agguantarlo con mani insanguinate, la rivoltella appesa al muro dondolava su e giù...
Per la prima volta qualcosa era caduto, come un sasso, nella solitudine indefinita delle sue fantasticherie e adesso era là, non ci si poteva far niente, era una realtà. Ieri Basini era ancora uno esattamente uguale a lui; s'era spalancata una botola e Basini era precipitato. Proprio come nella descrizione di Reiting: un cambiamento improvviso, e uno è diventato un altro...
E di nuovo tutto questo aveva in qualche modo a che fare con Bo_ena. I suoi pensieri s'erano macchiati d'empietà. L'odore putrido e dolciastro che ne era emanato l'aveva sconvolto. E quel senso di profonda umiliazione, quell'abdicare a se stesso, quel restar sepolto sotto le foglie pesanti, livide, velenose della vergogna, che aveva accompagnato i suoi sogni come una lontana, incorporea immagine speculare, adesso, con Basini, era improvvisamente divenuto realtà.
Era dunque qualcosa che ci si può davvero aspettare, da cui si deve stare in guardia, che può balzar fuori all'improvviso dagli specchi muti dei pensieri?...
Ma allora era possibile anche tutto il resto. Allora erano possibili anche Reiting e Beineberg. Era possibile quello stanzino... Allora era pure possibile che il chiaro mondo quotidiano, l'unico a lui noto finora, avesse una porta che s'apriva su un altro, fosco, mugghiante, impetuoso, nudo e distruttore. Che fra gli uomini la cui esistenza, ordinatamente divisa tra ufficio e famiglia, si svolge come in un edificio solido e trasparente di ferro e di vetro e altri uomini, reietti, macchiati di sangue, sudici, smarriti in labirinti pieni di voci urlanti, non vi sia soltanto un trapasso, e che invece i confini dei loro mondi si tocchino segretamente e possano esser varcati in qualsiasi momento...
E la domanda si ridurrebbe allora a un: com'è possibile questo? Cosa accade in un simile momento? Cosa balza su urlando e cosa si spegne di colpo?...
Queste erano le domande che per Törless affioravano insieme a quell'evento. E affioravano confuse, con le labbra serrate, e le velava una sensazione cupa, indefinita... una spossatezza, una paura.
E tuttava come da lontano, rotte e isolate, alcune delle loro parole echeggiavano nell'animo di Törless riempiendolo di una trepida attesa.
In quel momento cadde la domanda di Reiting.
Törless cominciò subito a parlare, obbedendo a un impulso improvviso, a uno sbigottimento. Gli parve che fosse imminente qualcosa di decisivo, ed ebbe paura di questa cosa che si avvicinava, cercò di scansarla, di prender tempo... Parlava, ma nello stesso istante sentiva che i suoi erano solo discorsi marginali, che le sue parole mancavano di un sostegno interiore e che la sua vera opinione non...
Disse: "Basini è un ladro." E il suono preciso, duro di questa parola gli fece così bene che la ripeté due volte. "... Un ladro. E un essere simile lo si punisce dappertutto, in ogni parte del mondo. Va denunciato, allontanato dal collegio! Veda poi lui di correggersi: con noi non può più stare!"
Ma Reiting disse con un'espressione di risentita meraviglia: "Oh no! Perché spingere subito la cosa all'estremo?"
"Perché? Ma non ti sembra ovvio?"
"Proprio per niente. Tu ti comporti come se fuori dalla porta ci fosse una pioggia di zolfo pronta a distruggerci tutti se teniamo ancora Basini fra noi. E invece la cosa non è affatto così terribile."
"Come puoi dire questo? Tu dunque vuoi continuare a star seduto, a mangiare, a dormire ogni santo giorno insieme a uno che ha rubato e che poi ti si è offerto come fantesca, come schiavo! Proprio non lo capisco. Dopotutto noi veniamo educati insieme perché facciamo parte della stessa società. A te sarà indifferente se magari un giorno ti ritroverai con lui nello stesso reggimento o lavorerai con lui nello stesso ministero, o se lui frequenterà le stesse famiglie che frequenterai tu, e magari farà la corte a tua sorella ... ?"
"Be', non ti sembra di esagerare?" rise Reiting. "Ti comporti come se facessimo parte per la vita di una confraternita! Cosa credi, che ci porteremo sempre addosso un distintivo che dice: esce dal collegio di W., ha particolari diritti e particolari doveri? Più tardi ognuno di noi farà la sua strada, e ognuno diventerà quel che ha diritto di diventare, perché non c'è mica una sola società. Perciò penso che non ci sia bisogno di romperci la testa pensando al futuro. E per quanto riguarda il presente, io mica ho detto che con Basini dobbiamo restare amici. Si potrà ben trovare il modo di mantenere le distanze. Basini è in mano nostra, possiamo fare di lui quel che vogliamo, per me puoi anche sputargli in faccia due volte al giorno: e finché lui lo sopporterà, che comunanza potrà mai esserci fra noi? E se si ribellerà potremo sempre fargli vedere chi è il padrone... Tu devi solo lasciar perdere l'idea che tra noi e Basini esista qualche altra relazione oltre a questa: che la sua bassezza ci darà modo di spassarcela!"
Benché Törless non fosse affatto convinto del fatto suo, continuò a scaldarsi: "Senti, Reiting, perché ti prendi tanto a cuore Basini?"
"Me lo prendo a cuore? Non mi pare proprio. E in ogni caso non ho nessun motivo particolare; a me l'intera storia è perfettamente indifferente. Mi secca soltanto che tu esageri così. Cos'hai in testa? Una specie di idealismo, mi pare. Un sacro fuoco per il collegio o per la giustizia. Non hai idea di quanto suoni melenso questo tono da ragazzo modello. O forse," e Reiting ammiccò sospettoso alla volta di Törless "hai qualche altra ragione per pretendere che Basini venga buttato fuori, e non vuoi mettere le carte in tavola? Una vecchia vendetta? In tal caso, dillo! Perché se si tratta di questo possiamo davvero cogliere l'occasione favorevole."
Törless si volse verso Beineberg, ma questi si limitò a sogghignare. Seguiva il colloquio tirando boccate da un lungo narghilé; era seduto all'orientale, a gambe incrociate, e nella luce incerta sembrava, con le sue orecchie a ventola, un idolo grottesco. "Per conto mio potete fare quel che volete. A me dei soldi non importa e della giustizia neanche. In India gli caccerebbero un bambù appuntito nelle budella, e questo sarebbe almeno uno spasso. È stupido e vile, quindi non c'è da dolersi per lui, e a me la sorte di simili individui è sempre stata del tutto indifferente. Loro non sono niente, e quel che ne sarà della loro anima non lo sappiamo. Che Allah vi assista nel vostro giudizio!"
Törless non replicò. Dopo che Reiting l'aveva contraddetto e Beineberg aveva lasciato impregiudicata la scelta tra loro due, per lui non c'era più niente da fare. Non era più in grado di opporre resistenza. Sentì di non avere più nessun desiderio di contrastare gli ignoti sviluppi che incombevano.
Venne dunque accolta una proposta di Reiting. Si decise di tenere per il momento Basini sotto controllo, in certo senso sotto tutela, offrendogli così l'occasione di riabilitarsi. Da quel momento le sue entrate e le sue uscite sarebbero state sottoposte a una rigorosa sorveglianza, e i suoi rapporti con gli altri sarebbero dipesi dal consenso dei tre.
In apparenza questa risoluzione era assai corretta e benintenzionata, "di una melensaggine da ragazzi modello", come Reiting, questa volta, non disse. Perché, senza che nessuno se lo confessasse, ognuno di loro sentiva che si trattava solo di creare una sorta di situazione provvisoria. Reiting avrebbe rinunciato malvolentieri a dare un seguito a quella faccenda, che rappresentava per lui una fonte,di piacere, e d'altra parte ancora non sapeva bene che piega darle. E Törless era come paralizzato dal pensiero di doversi trovare ogni giorno faccia a faccia con Basini.
Quando, prima, aveva pronunciato la parola "ladro", per un momento s'era sentito più leggero. Era stato come espellere, allontanare le cose che gli ribollivano dentro. Ma alle domande riaffiorate subito dopo, quella semplice parola non era in grado di dare risposta. E queste, adesso, erano diventate più precise, ormai non c'era più modo di eluderle.
Törless guardò alternativamente Reiting e Beineberg, chiuse gli occhi, si ripeté la risoluzione presa, levò di nuovo gli occhi... Lui stesso non capiva più: era solo la sua fantasia a posarsi sulle cose come una gigantesca lente deformante, o era tutto vero, era tutto così come gli si stava sinistramente presentando? E solo Beineberg e Reiting non sapevano niente di quelle domande, proprio loro che fin dall'inizio s'erano mossi come a casa propria in quel mondo che ora a lui appariva di colpo così estraneo?
Törless aveva paura di quei due. Ma solo come si ha paura di un gigante che si sa cieco e stupido...
Una cosa comunque era ormai certa: adesso lui si trovava molto più avanti di quanto non fosse soltanto un quarto d'ora prima. La possibilità di tornare indietro era venuta meno. Lo prese una sottile curiosità di vedere come sarebbero andate le cose ora che era trattenuto contro la sua volontà. Tutto quel che s'agitava in lui era ancora immerso nel buio, eppure aveva già voglia di fissare lo sguardo sui fantasmi, invisibili agli altri, che si muovevano in quella tenebra. Un leggero brivido si mescolava a quella voglia. Come se d'ora in avanti sulla sua esistenza dovesse incombere un cielo grigio, coperto, invaso da grandi nuvole, da forme mostruose e mutevoli e dalla domanda, sempre rinnovata: sono mostri? sono soltanto nuvole?
Una domanda che era là solo per lui. Una cosa segreta... estranea, vietata agli altri...
Così Basini cominciò, ad avvicinarsi per la prima volta a quell'importanza che era destinato ad assumere nella vita di Törless.
Il giorno dopo Basini fu messo sotto tutela, e non senza una certa solennità. Approfittarono di un'ora della mattinata in cui avevano disertato gli esercizi di ginnastica che si svolgevano su un gran prato del parco.
Reiting tenne una specie di discorso inaugurale, neanche tanto breve. Fece notare a Basini che s'era giocato la propria esistenza, che a ben guardare avrebbe dovuto esser denunciato e che doveva essere riconoscente a una loro particolare clemenza se per il momento gli veniva risparmiata la vergogna dell'espulsione.
Poi gli furono comunicate le speciali condizioni che doveva rispettare. Reiting s'incaricò di sorvegliarne l'osservanza.
Per tutta la scena Basini, molto pallido, non aveva aperto bocca, e dalla sua espressione non s'era potuto capire che cosa stesse avvenendo dentro di lui.
A Törless la scena era parsa ora assai smaccata, ora assai notevole.
Beineberg aveva fatto attenzione più a Reiting che a Basini.