FIORELLA MINERVINO 

BOCCIONI: UN FIGLIO SEGRETO

Dalla relazione a Parigi con una dama russa nacque Piotr. O Pietro, che scriverà a Severini di voler fare il pittore come il suo «vero padre».

CORRIERE DELLA SERA
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II severo, neghittoso artista saturnino, pronto a improvvise risate come poi a risse immediate (memorabili gli schiaffoni a Soffici alle «Giubbe Rosse», il famoso caffè di Firenze), colui che ai taccuini affidò il segreto di «voler bene soltanto alla madre e alla sorella Amelia», insomma il futurista Umberto Boccioni, scomparso a 34 anni, ebbe un figlio. E non si era mai saputo. Accadde con una dama russa incontrata a Parigi nel maggio del 1906, Augusta Popoff, moglie di un funzionario governativo della Russla zarista, Sergej Berdnicoff.
Boccioni dava lezioni di disegno, per 50 franchi il mese, alla bella signora «elegantissima» (nell'unica foto appare con il bell'ovale, l'aria distinta), poi era divenuto amico del marito tanto che nell'agosto se ne partì con loro per Tzaritzin (la futura Stalingrado) mentre lei era già incinta di tre mesi.
Umberto era ansioso di visitare la patria di Dostoevski e Tolstoi. Da principio rimase stupito per i tafferugli che scoppiavano ovunque. A fine ottobre, «stanco di freddo e neve», tornò in Italia, a Padova. Nei Taccuini, al 5 aprile 1907, Boccioni annota: «L'8 febbraio [il calendario russo ritarda di 13 giorni rispetto al gregoriano, ndr], alla mia amica Augusta Petrovna è nato un bambino. Felicità a tutti e due». Era forse nel carattere di Boccioni (se mai seppe che il figlio era suo) mostrare distacco da eventi sentimentali cruciali; ebbe legami con parecchie donne, sempre intricati.
Il figlio si chiamò Pietro, Piotr o Pierre. Verso il 1912 Augusta (separata dal marito) con la madre Sofia Popoff e il figlio lasciò la Russia e si stabilì a Soisson, a cento chilometri da Parigi, dove viveva la sorella Nadejda, con marito e due figli. Nel '17, alla vigilia della Rivoluzione, Augusta tornò in Russia, dove morì nel '20, mentre Pietro crebbe con zii e cugini e, dopo un rovescio di fortuna, a vent'anni si stabilì a Parigi. Con studi classici alle spalle, si rivolse al miglior amico di suo padre (scomparso nel '16), Gino Severini, perché lo aiutasse a diventare pittore. Simile nell'aspetto e nell'irruenza, non ebbe però il talento di Boccioni. Divenne ufficiale di collegamento nell'«Armée» durante la seconda guerra mondiale, poi se ne sono perse le tracce.
Pare strano che Boccioni non abbia ritratto mai Augusta; forse in alcuni ritratti dell'amica Ines compare l'ovale della famosa foto, a meno che non si sovrappongano le immagini delle due donne amate.
La novità del figlio è assoluta, così come altri aneddoti, nella «Vita di Boccioni» (in uscita da Camunia) di Gino Agnese, direttore deila rivista «Mass Media», la prima biografia completa dedicata all'artista, col linguaggio e l'andamento del romanzo. Racconta Agnese che mentre si affannava intorno a questi 34 anni di esistenza pieni di avvenimenti artistici, politici e amorosi, Romana Severini, figlia del pittore Gino, gli mostrò due lettere di Pietro Berdnicoff, indirizzate appunto a Severini, dove accennava a Boccioni come «mon père» e spiegava di essersi recato più volte in Italia dalla zia Amelia, anche per recuperare un quadro del padre. Severini, come forse Soffici, era al corrente del fatto.
Non si sa se Boccioni al tempo dei viaggi a Parigi con Marinetti sia andato a visitare Augusta o il figlio a Soisson. La cugina di Pietro, Olga, ricorda in uno scritto che la famiglia di Boccioni andò un giorno a Soisson per proprorre di adottare Pietro ed educarlo in Italia. In seguito, scrive il biografo, la sorella Amelia cancellò ogni traccia. Accanto allo straordinario ritrovamento di un figlio, il volume è ricco di altri succosi scavi nel passato amoroso di Boccioni, che ebbe passioni violente con donne come Margherita Sarfatti, quand'era ancora sposata e prima della relazione con Mussolini, poi con la principessa di Teano Vittoria Colonna (una relazione finora sconosciuta), con la cugina Sandrina Procida, e soprattutto con la misteriosa Ines, che compare anche nelle «Tre donne» tra le adorate madre e sorella. Amore infine con Adriana Bisi Fabbri, la modella dell'intenso ritratto del 1907, divisionista ma già con suggestioni del Futurismo.
Molte pagine sono dedicate ai dubbi dell'artista sulla creazione, protratta negli anni, di talune opere come «Il lavoro» che egli immaginò fin da giovanissimo ma realizzò solo nella magnifica «Città che sale» del 1910. Quanto agli «Stati d'animo», la serie di capolavori più misteriosi, simbolisti, già proiettati verso l'astrazione, anche qui la genesi è esaminata con trepida attenzione.
Negli anni giovanili ecco indagato il poco noto periodo a Catania, dal 1898 al 1900, dove Boccioni, incerto sul suo futuro, vuol fare il giornalista e scrive per la Gazzetta della Sera. I due anni a Catania, dove il padre, commesso della Prefettura, era stato trasferito, sono importanti per la formazione di questo «vagabondo», nato a Reggio Calabria da genitori romagnoli, vissuto a Forlì, a Genova, parte dell'adolescenza a Padova, dove la madre Cecilia si stabili in pratica separandosi dal marito. Forse il dramma vero di Boccioni fu di non aver mai accettato la separazione dei genitori, e l'affetto esasperato che riservò alla madre, modella favorita per capolavori come «Materia», fu una sorta di risarcimento per la solitudine in cui l'aveva lasciata il padre.
Ben riproposto da Gino Agnese il periodo romano, fitto di esperienze: l'amicizia con Soffici, Severini, Sironi, il rapporto conflittuale con Balla.
Altro punto appassionante della biografia è l'impegno politico che, assente dall'opera d'arte (ma certe periferie la raccontano lunga), risulta qui vivace. Boccioni passò dal socialismo «marxista», come amava definirsi, al nazionalismo e a una visione elitaria della vita e della cultura. Marinetti ha scritto che Mussolini fu un suo ammiratore.
Boccioni fu interventista acceso, tanto che morì, mentre era sotto le armi, con un fazzoletto tricolore nella giubba, una piccola bandiera nascosta, come un presagio: a lui, che amava i cavalli e la loro velocità, fu fatale la caduta dalla puledra Vermiglia, a Sorte, nei pressi di Verona, il 16 agosto del 1916 mentre era in libera uscita.
Dopo Roma, gli anni milanesi sono frenetici: le mostre alla Permanente, gli incontri con Carrà, quello fatale con Marinetti che significherà la fama, i Manifesti programmatici il successo a Parigi, l'incontro con Apollinaire e i cubisti, fino al riluttante Picasso, poi Londra, Berlino, le serate folli di poesia, contestazioni, applausi mischiati a fischi, tutto è ricostruito con entusiasmo dall'autore del volume.
C'è un curioso aneddoto: il famoso «Ritratto di Busoni». Ferruccio Busoni, il musicista milanese [sic!!!], residente a Berlino, in tournée a Londra, vide «La città che sale», ne rimase folgorato, volle pensarci, in seguito sborsò per l'acquisto ben 4.000 lire, cifra siderale per il 1912.
Poi nel '16 il musicista chiama Boccioni per un ritratto sullo sfondo del lago, a Pallanza, dove è ospite dai marchesi Della Valle di Casanova. È il più grande dei ritratti en plein air, Boccioni fatica nel farlo, vuole qualcosa di nuovo, e questo è forse il più cubista o forse cézanniano dei dipinti, magnifico nel baluginare della luce, nel movimento dell'acqua, nel fissare l'atmosfera, la blusa, il cappello, l'espressione di Busoni. In realtà, sostiene Agnese - ma qui non siamo d'accordo [anche il curatore del sito non è per nulla d'accordo]- lo fece non per abiurare il Futurismo, ma per compiacere il committente che non avrebbe mai acquistato un ritratto scomposto e simultaneo. Boccioni, ricercatore e innovatore allo spasimo così come rivelano le sue sculture, che conosceva bene sia Cézanne che Picasso, non si lasciava limitare dai gusti altrui. E pure i ritratti della moglie di Busoni indicano una ricerca meno dinamica e più costruttiva.
Infine ecco nel '13 l'incontro con Sibilla Aleramo che lo amò appena lo vide. Non corrisposta, usò come esca un incontro con D'annunzio a Parigi. Sarà una delusione perché il Vate, prima scintillante nella conversazione, scivolerà a poco a poco nel nulla e, soprattutto, non accennerà al libro di Boccioni «Pittura e scultura futuriste», come l'Aleramo gli aveva lasciato intravedere. Umberto restò deluso: non ritrovò il D'Annunzio che aveva ammirato un giorno, fiero sulla tribuna d'onore per la «Coppa della velocità», durante una corsa di automobili fiammeggianti. Proprio quella velocità che Boccioni aveva osannato e rincorso per l'intera esistenza.