ALFREDO CASELLA

SONATA PER VIOLONCELLO E PIANOFORTE OP. 45

TESTO DI LAURETO RODONI
 

Per oltre trent'anni (dal 1915 al 1947) Alfredo Casella, «vero e proprio discepolo di Bach e Vivaldi»*, come egli stesso amava definirsi, esercitò un influsso incisivo sulla vita musicale del suo paese, sforzandosi di inserirla in un più vasto contesto, a contatto con le esperienze artistiche che si andavano facendo in Europa nei primi decenni del secolo. Roman Vlad definì questa instancabile ed entusiastica attività «una delle più feconde e multilaterali che un musicista italiano abbia mai esplicato». Casella ebbe il grande merito di restituire all'Italia il senso della musica strumentale, combattendo strenuamente «contro la mediocrità ed il dilettantismo» che caratterizzavano gran parte della produzione operistica coeva, ancora basata su logori stereotipi veristi.
Le citazioni senza indicazione d'autore sono tratte dal libro di memorie «I Segreti della Giara» , pubblicato a Firenze nel 1941.
Nato a Torino nel 1883, all'età di 13 anni si trasferì con la madre a Parigi, dove studiò pianoforte, armonia e composizione ed ebbe l'opportunità di conoscere e approfondire le varie correnti musicali dell'epoca: «dalla musica francese che possedevo ormai a fondo in ogni sua tendenza, all'arte di Strauss, al schönberghismo, al mahlerismo, alla musica ungherese, a quella nuova iberica, ecc.: si può dire insomma che non vi era ormai settore della musica mondiale che mi fosse ignoto». Fu in contatto con molti musicisti, tra cui Debussy, Enescu, Mahler e Ravel. Nel 1913 strinse amicizia con tre compositori suoi connazionali: Busoni, Malipiero e Pizzetti.
Quando, nel 1915, fu chiamato a Roma per ricoprire la carica di insegnante di pianoforte al Liceo Musicale di Santa Cecilia, ritenne che fosse ormai giunto il momento di agire concretamente per sprovincializzare l'ambiente musicale italiano: dopo aver organizzato concerti con musiche di Ravel, Debussy, Strawinsky e altri autori contemporanei, attirandosi «l'antipatia ed anche non di rado l'odio della mediocrità connazionale», nel 1917 fondò la Società Nazionale di Musica (1917-1919), subito sostenuta con entusiasmo da Malipiero, Pizzetti, Respighi e da altri esponenti della cosiddetta 'generazione dell'Ottanta'. Questa associazione, che dopo qualche mese mutò nome in Società Italiana di Musica Moderna e fu affiancata da un periodico di battaglia intitolato «Ars nova», aveva lo scopo di eseguire e stampare le opere più interessanti di giovani compositori, di far conoscere musiche antiche dimenticate e di organizzare un sistema di scambi musicali con associazioni analoghe che operavano in altre nazioni. La Presidenza d'onore fu conferita a Bossi, Busoni e Toscanini, ma venne soppressa nel 1918, anche perché Busoni, che viveva in esilio a Zurigo, era «fortemente sospetto di germanofilia».
E fu di nuovo grazie all'intraprendenza di Casella se si potè finalmente realizzare, nel 1923, un progetto ancor più audace, concepito nel Vittoriale insieme a D'Annunzio e a Malipiero: la Corporazione Delle Nuove Musiche, «un nuovo organismo di cultura moderna» che da una parte aveva lo scopo di «far penetrare in Italia le ultime espressioni, le più recenti ricerche dell'arte musicale contemporanea»; dall'altra quello di «restituire alla luce le più belle musiche antiche nostre, prime fra quelle le monteverdiane.» La C.D.N.M. venne sin dal suo apparire riconosciuta come sezione italiana della appena costituita Società Internazionale di Musica Contemporanea, il cui primo presidente fu Edward Dent, amico e futuro biografo di Busoni.
Memorabile e coraggiosissima fu ad esempio la tournée del 1923: in programma il Concerto per quartetto di Casella e il «Pierrot Lunaire» di Schönberg, diretto dall'autore: «Ogni sera, in ogni città si scatenava invariabilmente una reazione violentissima del pubblico [...]. Schönberg, uomo di natura spaventosamente irrequieta ed agitatissima, non capiva perché la sua musica potesse destare tanta opposizione e voleva tornarsene a Vienna dopo ogni concerto.» Ebbe invece «un magnifico successo» la tournée del balletto con voci e cori «Les Noces» di Strawinsky quattro anni dopo.
Gran parte dei finanziamenti che consentirono alla C.D.N.M. di agire con efficacia nel mondo musicale italiano furono generosamente offerti da Elisabeth Sprague Coolidge (1864-1953), «una delle figure più nobili del mecenatismo musicale». Instancabile promotrice di concerti e di festival, essa commissionò ai maggiori compositori europei e italiani una quantità enorme di lavori, consacrando «ogni anno la metà del suo cospicuo reddito all'arte musicale».
Nelle sue memorie Casella scrisse orgogliosamente che, nei 5 anni della sua esistenza, lo sforzo compiuto dalla C.D.N.M. in favore dell'arte contemporanea era stato «senza eguale nella storia musicale italiana.» E aggiunse: «La mia cieca fede nell'arte fu in ogni istante la mia vera religione. La musica ha sempre costituito la mia sola ragione di esistere e fu ognora la causa determinante di ogni mia azione. [...] Mi sono sempre considerato un combattente al quale una potenza superiore aveva affidato un avamposto e che doveva adempiere al suo dovere senza perdere un minuto con inutili dubbi oppure superflue interrogazioni.»
Altri musicisti, tra cui Gian Francesco Malipiero, perseguirono questi stessi scopi, ma soltanto in Casella la composizione, l'interpretazione, la cultura, la didattica, l'organizzazione della vita musicale furono «aspetti diversi di una stessa azione, che perciò costituì il punto focale del rinnovamento musicale italiano» (F. D'Amico).
La Sonata per violoncello e pianoforte op. 45 fu commissionata a Casella dalla Coolidge all'inizio del '27. Composta nell'estate dello stesso anno, venne conclusa a Roma l'8 settembre. Il compositore la eseguì con il violoncellista Hans Kindler nella Salle des Agriculteurs di Parigi il 16 ottobre. La prima esecuzione italiana ebbe luogo il 3 febbraio 1928 al Conservatorio di Milano (di nuovo Casella al pianoforte; Gilberto Crepax al violoncello). Essa appartiene al cosiddetto stile giocoso di Casella, il cui inizio risale a circa 4 anni prima, ossia al 1923. Dopo la fase durata un decennio di «esaltazione armonica» (G. M. Gatti), che portò il compositore ai confini atonali e dodecafonici con composizioni di chiara tendenza espressionista, la tumultuosa accoglienza (il 19 febbraio del 1922) del suo poema per pianoforte e orchestra «A notte alta» , intriso di cupo pessimismo, e la stroncatura «dei grossi calibri» della critica musicale ebbero come conseguenza un periodo di stasi creativa durato per tutto il resto dell'anno: «Provavo la necessità di non riprendere ormai la creazione che quando avrei maturato alcuni lavori di impegno e di mole» che avrebbero dovuto «inaugurare il mio periodo più fecondo e vittorioso.»
Nella primavera del '23 la «mirabile natura della Toscana» gli fece apprendere «definitivamente che l'italiano non poteva in nessun caso essere impressionista e che la chiarezza trasparente di quel paesaggio era quella stessa dell'arte nostra». Questa esperienza diede i suoi frutti sul piano creativo ed estetico l'estate successiva, trascorsa ad Asolo, dove abitava l'amico Malipiero, con il quale Casella si trovava quotidianamente per discutere di argomenti musicali. Nella tranquilla cittadina veneta, egli riprese l'attività compositiva, «non senza una certa commossa cautela». In poche settimane nacquero alcune composizioni per canto e pianoforte, nelle quali si affermava la sua definitiva personalità ed era raggiunta quella trasparenza classica che aveva appreso pochi mesi prima, durante il viaggio in Toscana.
Il successo parigino de «La giara» (1924) lo rinfrancò a tal punto che potè annotare nelle sue memorie: «La strada da percorrere si profilava chiara davanti a me e potevo inoltrarmici con perfetta tranquillità, almeno per quanto riguardava la parte tecnica della mia arte.»
Come scrisse Massimo Mila, «è sulle basi di questa raggiunta chiarificazione stilistica - corrispondente a un rivolgimento psicologico - che Casella creò i capolavori del suo stile giocoso più universalmente apprezzati», tra cui la citata «Giara» (1924), «Scarlattiana» , la «Partita», il «Concerto romano» (1926) e, appunto, la Sonata per violoncello e pianoforte. In queste composizioni, continua Mila, «la salute spirituale e fisica vi si esprime in esuberanza e vivacità di ritmi, in amore del movimento, in precisione e ricchezza di colorito strumentale, in perfetto controllo della materia sonora, e quindi in fondamentale ottimismo, che allontana ogni smanceria di eccessi sentimentali non sufficientemente elaborati e trasfigurati in dignità artistica». Già nella «Partita» (1926), tuttavia, questo stile giocoso viene temperato da momenti in cui «l'ispirazione tragica, pur conservando caratteri di pronunciato dinamismo, prende spesso il posto di quella burlesca [...], ma è assai lontana dal catastrofico pessimismo del periodo romantico»: peculiarità stilistica che emerge anche nel primo tempo della Sonata per violoncello e pianoforte op. 45.
Questa composizione si articola in due ampie parti, a loro volta suddivise in due tempi, il primo lento, il secondo veloce. La prima parte inizia con un superbo Preludio, introdotto da un tema solenne del pianoforte che si interrompe bruscamente alla 13ª battuta per consentire al violoncello un'entrata che si potrebbe definire 'distratta' (liberamente, con fantasia), rispetto al tono austero dell'inizio, e che ha quasi l'aspetto di una estemporanea cadenza. Una breve sezione centrale più mossa, introduce nella composizione momenti di inquietudine, il ritmo si anima a poco a poco (agitando progressivamente) e quando raggiunge il culmine riprende il tema iniziale con la partecipazione simultanea dei due strumenti; il tempo si conclude con un misterioso che rievoca le inquietudini della parte centrale.
La scanzonata bourrée che segue quasi senza soluzione di continuità, col suo ritmo binario fortemente evidenziato da ossessivi staccati e staccatissimi, crea una veemente antitesi con quanto precede. Essa fa parte di quegli schemi di danze antiche in cui «il ritmo, fluente e vivace, guizza come un sangue generoso per le articolazioni ben congegnate», sprigionando «una vitalità diffusa, un dinamismo irrequieto, un'allegria di corpo sano o di motore perfetto», da cui scaturisce «un'impressione di letificante benessere e di quell'umorismo che è proprio della salute e della forza» (Mila). Solo nella parte centrale la gaiezza tende a rabbuiarsi per poi riesplodere nelle battute finali che, ciclicamente, riprendono quelle iniziali.
La seconda parte, introdotta con piglio energico e solenne da poche battute del pianoforte, è un 'largo' che contiene momenti contemplativi, a volte cupi e sordi (indicazioni espressive usate da Casella stesso), e si conclude in un'atmosfera di estrema e suggestiva rarefazione sonora, interrotta dall'attacca del rondò finale, un allegro molto vivace, quasi 'giga', che ricorda, col suo carattere di danza brillante e mossa, il pezzo di chiusura della Suite antica. Come nella bourrée, predomina lo staccatissimo, nell'ambito però di un ritmo prevalentemente ternario.
Anche in questa composizione, Casella fa un uso copioso delle indicazioni dinamiche, a cui teneva moltissimo. A questo proposito, rivolgendosi a Giuseppe Albinati di Casa Ricordi, già nel 1917 esortava a «non toccare ai [sic] coloriti, perché questi sono da me riveduti colla massima, inesorabile scrupolosità. Se dunque Ella trova, in questi, qualche indicazione bizzarra o insolita, me ne lasci pure la responsabilità» (Archivio Rodoni).
Mirabile esempio dello stile che Casella definiva «piuttosto barocco nella sua monumentalità», questa Sonata contiene tutti quegli elementi («senso del rilievo [...] nel chiaroscuro»; «libertà e fantasia nell'interpretare le forme classiche»; «predilezione per certi violenti contrasti plastici») che determinarono una reazione all'impressionismo, alle «seduzioni del poema sinfonico e di tutto ciò che questa forma [...] reca con sé di virtuosistico, di ornamentale e soprattutto di estraneo alla musica».
I ritmi vivacissimi, se da una parte ripropongono forme antiche argutamente attualizzate, dall'altra esprimono un amore per il dinamismo inteso soprattutto in senso spirituale, una visione fondamentalmente ottimistica della realtà e quindi una salda fiducia nell'avvenire dell'arte. La brusca conclusione con un risoluto dal sapore ironico sembra ridimensionare e quasi dileggiare i ripiegamenti interiori, le inquietudini e le vaghe malinconie emerse in precedenza.

LE CONFESSIONI DI UN 'EUROPEISTA'

I SEGRETI DELLA GIARA
pp. 297-318

Io ritengo oggi che il problema della cosidetta «pregiudiziale» del carattere nazionale nell’opera d’arte, debba ormai considerarsi come superato. È un aspetto dell’arte che ha potuto, parecchi anni fa, imporsi come problema alla nostra generazione che ereditava dai predecessori una situazione assai difficile. Ma nessuno di noi si cura oggi di essere «nazionale» quando scrive musica. E nemmeno se ne preoccupano quei musicisti più giovani di noi, che sono stati formati dal nostro esempio e dal nostro lavoro. Il clima dell’Italia attuale non è quello dei tempi che furono, e che non ritorneranno più.
Non si deve dimenticare che è assai più importante essere un artista storico (vale a dire uno di quei pochi che fanno la storia): invece che nazionale. «Le buste survit à la cité», disse non so più quale filosofo. Ed infatti vediamo che delle antiche civiltà non ci rimane che l’arte, mentre è scomparsa ogni traccia della loro scienza e persino della loro potenza materiale.
Dopo aver lottato per tanti anni in me stesso e contro tante difficoltà per raggiungere quello stile «nostro» che fu sin dall’adolescenza lo scopo della mia vita di artista, può apparire singolare che io annetta oggi così poco valore a ciò che rappresentò per me un problema tanto grave. Ma è normale che la soluzione di un simile problema rechi con sé una grande serenità, una profonda quietudine. Altri problemi si affacciano oggi al mio spirito, ma, presupponendo tutti il superamento di quell’altro, ne hanno determinato nella mia mente l’affievolimento e l’oblio.

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L’epoca che stiamo attraversando è torbida e confusa e piena di insidie contro l’intelligenza pura. Può anche darsi che domani le circostanze vadano sempre maggiormente aggravandosi, e che allora non rimanga ai pochi veri artisti superstiti che rinunciare alla comprensione degli altri uomini racchiudendosi in una bella «torre d’avorio», in attesa di una risurrezione dello spirito. Aggiungo però che non credo alla possibilità di una simile catastrofe del pensiero. L’arte è - come disse così eloquentemente Croce - l’unica eterna e concreta realtà che possieda l’uomo (la scienza non essendo che un succedersi di ipotesi superantesi a vicenda). E non credo che l’uomo possa vivere senza quella realtà. Una umanità senz’arte sarebbe destinata a perire rapidamente. Perciò conservo intatta la mia fede nel superamento di questa epoca, alla quale del resto fanno riscontro tante altre epoche di oscuramento, di incertezza e di crisi che troviamo nella storia di tutti i tempi.

Questa mia cieca fede nell’arte fu in ogni istante la mia vera religione. La musica ha sempre costituito la mia sola ragione di esistere e fu ognora ta causa determinante di ogni mia azione. Non ho mai conosciuto neppure per un attimo l’angoscia di chiedermi «perché fossi al mondo», ma mi sono sempre considerato come un combattente al quale una potenza superiore aveva affidato un avamposto e che doveva adempiere al o dovere senza perdere un minuto con inutili dubbi oppure superflue interrogazioni.
Ho cercato sempre di far bene, cosa che troppi uomini purtroppo evitano, girando al largo. Il rispetto al lavoro qualunque esso sia, arte oppure umile lavoro manuale (rispetto che ho ereditato da mia madre la quale ne era un mirabile esempio vivente) fu sempre per me altissima regola di vita, alla quale credo di non aver trasgredito un giorno solo.

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Uno dei rimproveri che mi vengono più comunemente rivolti, è quello della mia pretesa immodestia. Ed è vero che talvolta la ostinata inimicizia, di troppi critici miei conterranei mi ha costretto a tributarmi da me certe lodi che non riuscivo a strappare alla parsimonia di quei signori. Come pure è vero che, se mi sento piccolissimo di fronte a Verdi oppure a Bach, mi trovo per contro molto grande quando mi paragono a taluni miei mediocrissimi nemici. Ma aggiungo subito che, anche se ho potuto non di rado apparire immodesto e persino presuntuoso, non mi ha però mai mancato una virtù che considero infinitamente più importante: quella della totale umiltà di fronte alla musica. Umiltà che invece di venire attenuata dal mio continuo travaglio di perfezionamento, cresce ogni giorno nella mia coscienza di artista, e costituisce probabilmente il segreto della mia attuale posizione morale e della mia totale indifferenza alle manifestazioni dell’invidia che non disarma fino all’ultimo.

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Se ho costantemente attirato su di me l’antipatia ed anche non di rado l’odio della mediocrità connazionale, non mi è però mai mancata la stima dai maggiori musicisti stranieri, e neppure (mi sia concesso ancora una volta di essere immodesto) la loro ammirazione. Confesso di tenere assai al suffragio degli stranieri, suffragio il quale corrisponde alquanto nel mio pensiero al consenso anticipato dei posteri.

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Sono stato per lunghissimi anni impopolare nella mia patria, ed è solamente da poco tempo che questa ostilità tende ad attenuarsi ed a lasciare posto ad una più serena valutazione della mia arte e della mia azione, ad una indagine critica la quale finalmente riesca a liberare la mia figura artistica da troppi pregiudizi e da troppi equivoci. Riconosco d’altronde senza difficoltà che la mia natura così decisamente nemica verso l’arte-sfogo, l’arte autobiografica, l’arte impura insomma, non era certo indicata per facilitarmi la via in un paese dove l’arte così detta passionale (veduta a traverso l’eredità veristica) costituisce precisamente il modello favorito alle folle. Va poi ricordata ancora la mia tardività di compositore essendo i miei lavori maggiori e veramente definitivi stati scritti solamente dopo la quarantina, ciò che è un caso abbastanza eccezionale. Sono queste le ragioni principali che valgono a spiegare come quella ostilità abbia tardato tanto a disarmare nei miei riguardi.

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Uno degli equivoci più tenaci che si siano creati sulla mia persona, è quello della polemica. Vi sono individui che nascono segnati da una sorta di fatalità, la quale fa sì che ogni loro parola, ogni loro gesto, anche i più innocui e normali, vengono interpretati in senso polemico. Precisamente come accadde a me e come accade tuttora, non potendo io dire pubblicamente due parole di buon senso senza che queste vengano interpretate come una diana di guerra.

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Ho un vivissimo amore per i giovani. Vivo in mezzo a loro, e mi pare così di essere rimasto giovane come essi. Questo risponde ad una mia naturale inclinazione, e probabilmente anche risulta da una capacità di rinnovamento e da una vitalità che sono lieto di possedere. Purtroppo questa simpatia per la gioventù non è frequente negli artisti anziani, e molte volte ho dovuto constatare che i miei coetanei erano ben diversi da me quando si trattava in certe circostanze di consigliare oppure di aiutare qualche giovane, soprattutto se questo manifestava un ingegno eccezionale. Mentalità certo deplorevole, perché, se è alto obbligo per ogni artista «arrivato» di porgere la mano a coloro che cominciano a loro, volta la loro dura fatica spirituale, è poi una politica ben poco antiveggente quella di cercare di ostacolarne il cammino, per paura che essi abbiano a «superare li loro maestri».
Ho incontrato nella mia vita molto più esseri buoni che cattivi. Ed anche fra i miei peggiori nemici, pochi erano quelli veramente malvagi (come anche pochi erano quelli intelligenti). Ma a nessun nemico serbo rancore, perché voglio credere che furono sinceri nel combattermi. E preferisco infinitamente un nemico di buona fede ad uno di quei pseudo-amici che sono il risultato inevitabile della notorietà e della posizione.

Non considero che questa mia vita offra nulla di straordinario. È la vita di un uomo il quale ha dato tutto se stesso all’arte ed alla patria. È tuttavia una vita completa nel senso che nulla le ha mancato: spiritualità, lavoro, amore, paternità, e persino una invidiabile saldezza fisica. È anche una vita utilizzata al massimo, perché non credo che avrei potuto fare di più ed avvicinandomi alla sera della mia esistenza sento di potermi presentare davanti a Dio colla coscienza tranquilla, certo di aver fatto il mio dovere di artista e di italiano. Ma, ripeto, è la vita molto semplice di un lavoratore dell’intelligenza la quale si riassume tutta in una idea sola: quella di avvicinare quanto maggiormente possibile la perfezione identificando però sempre questa perfezione colla bellezza latina e mediterranea della maggiore arte nostra.

Disse mia madre morendo che, se aveva peccato, era stato per aver troppo amato. Può darsi che io pure abbia a mia volta a ripetere le medesime parole quando chiuderò per sempre gli occhi. Gli unici torti infatti che mi senta verso certi nemici, sono la conseguenza dell’infinito amore che ebbi sempre per la mia arte e per l’Italia, sentimento la cui intensità mi rese non di rado intransigente verso coloro che mi parevano ostacolare una forma di bellezza ed un concetto della patria inscindibili da quell’amore.
Qui termina per davvero il racconto della mia esistenza di uomo e di artista. Non so se Iddio mi concederà ancora di servire utilmente la mia arte e la patria. Gli sia però lode per avermi donato una vita, che fu dura ma anche bellissima e consentendomi di raggiungere per essa, a traverso una quotidiana dimestichezza colle più alte attività dello spirito, la serenità suprema dell’uomo che ha bene speso la sua «giornata terrena».

[Berlino-Dahlem, il dì 10 novembre 1938]