Le tre del mattino. Percepisco questo secondo, e poi quest'altro, faccio il bilancio di ogni minuto.
Perché tutto questo? - Perché sono nato.
È da un tipo speciale di veglia che deriva la messa in discussione della nascita.

"Da quando sono al mondo" - quel da quando mi pare gravato di un significato così spaventoso da diventare insostenibile.

Esiste una conoscenza che toglie peso e portata a quello che si fa - e per la quale tutto è privo di fondamento tranne essa medesima. Pura al punto da aborrire perfino l'idea di oggetto, traduce quel sapere estremo secondo il quale fare o non fare un atto è la stessa cosa, e a cui si associa una soddisfazione altrettanto estrema: il poter ripetere, a ogni incontro, che nessuno dei gesti da noi compiuti merita la nostra adesione, che niente è avvalorato da una qualche traccia di sostanza, che la "realtà" è dell'ordine dell'insensato. Una tale conoscenza meriterebbe di essere definita postuma: opera infatti come se chi conosce fosse vivo e non vivo, essere e memoria di essere. "È già passato" dice costui di tutto ciò che compie, nell'istante stesso dell'atto, che viene così destituito per sempre di presente.

Noi non corriamo, verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo, superstiti che cercano di dimenticarla. La paura della morte è solo la proiezione nel futuro di una paura che risale al nostro primo istante.

Ci ripugna, certo, considerare la nascita un flagello: non ci è stato forse inculcato che era il bene supremo, che il peggio era posto alla fine e non all'inizio della nostra traiettoria? Il male, il vero male, è però dietro, non davanti a noi. E quanto è sfuggito al Cristo, è quanto ha invece colto il Buddha: "Se tre cose non esistessero al mondo, o discepoli, il Perfetto non apparirebbe nel mondo...". E, alla vecchiezza e alla morte, antepone il fatto di nascere, fonte di tutte le infermità e di tutti i disastri.

Si può sopportare qualsiasi verità, per quanto distruttrice sia, purché surroghi tutto, e abbia la stessa vitalità della speranza alla quale si è sostituita.

Non faccio niente, d'accordo. Ma vedo passare le ore - e questo è meglio che cercare di riempirle.

Non bisogna costringersi a un'opera, bisogna solo dire qualcosa che si possa bisbigliare all'orecchio di un ubriaco o di un morente.

La prova migliore di quanto l'umanità stia regredendo è l'impossibilità di trovare un solo popolo, una sola tribù, in cui la nascita provochi ancora lutto e lamenti.

Insorgere contro l'ereditarietà è insorgere contro miliardi di anni, contro la prima cellula.

C'è un dio al principio, se non alla fine, di ogni gioia.

Non sono mai a mio agio nell'immediato, mi seduce solo quello che mi precede, quello che mi allontana da qui, gli istanti innumerabili in cui non fui: il non-nato.

Bisogno fisico di disonore. Mi sarebbe piaciuto essere figlio di boia.

Con che diritto vi mettete a pregare per me? Non ho bisogno di intercessori, me la caverò da solo. Da parte di un miserabile forse lo accetterei, ma da nessun altro, foss'anche un santo. Non posso tollerare che ci si preoccupi della mia salvezza. Poiché la pavento e la fuggo, che indiscrezione le vostre preghiere! Orientatele altrove; in ogni modo, non siamo al servizio degli stessi dèi. Se i miei sono impotenti, ho tutte le ragioni di credere che i vostri non lo siano meno. Anche supponendo che siano quali voi li immaginate, mancherebbe comunque loro il potere di guarirmi da un orrore più antico della mia memoria.

Che misera cosa una sensazione! L'estasi stessa non è, forse, niente di più.

Disfare, de-creare, è il solo compito che l'uomo possa assegnarsi, se aspira, come tutto lascia supporre, a distinguersi dil Creatore.

So che la mia nascita è un caso, un incidente risibile, eppure, appena mi lascio andare, mi comporto come se fosse un evento capitale, indispensabile al funzionamento e all'equilibrio del mondo.

Aver commesso tutti i crimini, tranne quello di essere padre.

Di norma, gli uomini aspettano la delusione: sanno che non devono spazientirsi, che presto o tardi verrà, che accorderà loro la dilazione necessaria perché possano dedicarsi alle occupazioni del momento. Diverso è il caso del disingannato: per lui la delusione sopraggiunge contemporaneamente all'atto; non ha bisogno di spiarne l'arrivo, essa è presente. Affrancandosi dalla successione, egli ha divorato il possibile e reso superfluo il futuro. "Non posso incontrarvi nel vostro futuro" dice agli altri. "Non abbiamo un solo istante che ci sia comune". Perché per lui l'insieme del futuro è già qui.

Quando si scorge la fine nel principio si va più in fretta del tempo. L'illuminazione, delusione folgorante, dispensa una certezza che trasforma il disingannato in liberato.

Mi svincolo dalle apparenze e ciò nondimeno vi rimango impastoiato; o meglio: sono a mezza strada fra quelle apparenze e questa cosa che le infirma, questa cosa che non ha né nome né contenuto, questa cosa che è niente ed è tutto. Il passo decisivo fuori dalle apparenze non lo farò mai. La mia natura mi obbliga a ondeggiare, a perpetuarmi nell'equivoco, e se tentassi di decidere in un senso o nell'altro perirei della mia stessa salvezza.

La mia facoltà di essere deluso oltrepassa l'intendimento. Essa, che mi fa capire il Buddha, è la medesima che mi impedisce di seguirlo.

Ciò di cui non possiamo più impietosirci non conta e non esiste più. Si capisce perché il nostro passato cessi così presto di appartenerci per prendere forma di storia: di qualcosa che non riguarda più nessuno.

Aspirare, nel più profondo di sé, a essere tanto spossessati, tanto miserabili quanto lo è Dio.

Il vero contatto fra gli esseri si stabilisce solo con la presenza muta, con l'apparente non-comunicazione, con lo scambio misterioso e senza parole che assomiglia alla preghiera interiore.

Quello che so a sessant'anni lo sapevo altrettanto bene a venti. Quarant'anni di un lungo, superfluo lavoro di verifica...

Di solito sono così sicuro che tutto sia privo di consistenza, di fondamento, di giustificazione, che chi osasse contraddirmi, foss'anche l'uomo che stimo di più, mi apparirebbe come un ciarlatano o un rimbambito.

Fin dall'infanzia percepivo lo scorrere delle ore indipendente da ogni riferimento, da ogni atto e da ogni evento, la disgiunzione del tempo da ciò che tempo non era, la sua esistenza autonoma, il suo statuto singolare, il suo imperio, la sua tirannia. Ricordo con estrema chiarezza quel pomeriggio in cui, per la prima volta, di fronte all'universo vacante, non ero più che fuga di istanti ribelli ad adempiere ancora la loro particolare funzione. Il tempo si separava dall'essere a mie spese.

A differenza di Giobbe non ho maledetto il giorno della mia nascita; gli altri giorni, in compenso, li ho coperti tutti di anatemi...

Se la morte avesse solo lati negativi, morire sarebbe un atto impraticabile.

Tutto è; niente è. L'una e l'altra formula arrecano uguale serenità. L'ansioso, per sua disgrazia, rimane a mezza strada, tremebondo e perplesso, sempre alla mercé di una sfumatura, incapace di insediarsi nella sicurezza dell'essere o dell'assenza di essere.

Su quella costa normanna, a un'ora così mattutina, non avevo bisogno di nessuno. La presenza dei gabbiani mi disturbava: li feci fuggire a sassate. E udendo i loro gridi, di uno stridore soprannaturale, capii che proprio quello mi occorreva, che solo il sinistro poteva calmarmi, e che proprio per incontrarlo mi ero alzato prima dell'alba.

Essere in vita - improvvisamente sono colpito dalla stranezza di questa espressione, come se essa non si applicasse a nessuno.

Ogni volta che le cose non vanno e ho pietà del mio cervello, sono colto da una voglia irresistibile di proclamare. Proprio allora intuisco da quali baratri i meschini sorgano riformatori, profeti e salvatori.

Mi piacerebbe essere libero, perdutamente libero. Libero come un nato morto.

S
e tanta ambiguità e tanto turbamento sono parte integrante della lucidità, è perché essa è il risultato del cattivo uso che abbiamo fatto delle nostre veglie.

Trasportandoci al di qua del nostro passato, l'ossessione della nascita ci fa perdere il gusto del futuro, del presente, e del passato stesso.

Rari sono i giorni in cui, proiettato nella post-storia, io non assista all'ilarità degli dèi al termine dell'episodio umano.

Occorre pure una visione di ricambio, quando quella del Giudizio non accontenta più nessuno.

Un'idea, un essere, qualsiasi cosa si incarni perde il suo volto, tende al grottesco. Frustrazione del compimento. Non evadere mai dal possibile, lasciarsi andare, da eterno velleitario, dimenticare di nascere.

La vera, unica sfortuna: quella di venire alla luce. Risale all'aggressività, al principio di espansione e di rabbia annidato nelle origini, allo slancio verso il peggio che le squassò.

Quando due persone si rivedono dopo molti anni dovrebbero sedersi l'una di fronte all'altra e non dirsi niente per ore ed ore, affinché con il favore del silenzio la costernazione possa assaporare se stessa.

Giorni miracolosamente colpiti da sterilità. Invece di rallegrarmene, di gridare vittoria, di convertire quell'aridità in festa, di vederli come un punto d'arrivo e come una prova della mia maturità, insomma del mio distacco, mi lascio pervadere dalla stizza e dal cattivo umore: tanto è tenace in noi il vecchio uomo, la canaglia smaniosa incapace di scomparire.

Sono attratto dalla filosofia indù, il cui proposito essenziale è il superamento dell'io; eppure tutto quello che faccio e tutto quello che penso è solo io e disgrazie dell'io.

Mentre agiamo abbiamo uno scopo; ma l'azione, una volta conclusa, non ha per noi maggiore realtà dello scopo che perseguivamo. Non c'era dunque nulla di veramente consistente in tutto ciò, era solo gioco. Ma ci sono alcuni che hanno coscienza di questo gioco durante l'azione stessa: vivono la conclusione nelle premesse, il realizzato nel virtuale, minano la serietà con il fatto stesso di esistere.
La visione della non-realtà, del vuoto universale, è il risultato combinato di una sensazione quotidiana e di un fremito brusco. Tutto è gioco - senza questa rivelazione, la sensazione di trascinarsi lungo i giorni non avrebbe qul marchio di evidenza di cui le esperienze metafisiche hanno bisogno per distinguersi dalla loro contraffazione, i malesseri. Perché ogni malessere non è altro che una esperienza metafisica abortita.

Quando si è logorato l'interesse che si nutriva per la morte, e si presume di non poterne trarre più nulla, ci si ripiega sulla nascita, ci si mette ad affrontare un baratro ben altrimenti inesauribile...

In questo preciso momento, ho male. Questo evento, cruciale per me, è inesistente, anzi inconcepibile per il resto degli esseri, per tutti gli esseri. Tranne per Dio, se questa parola può avere un senso.

Si sente dire da ogni parte che, se tutto è futile, fare bene quello che si fa non lo è. Eppure anche questo lo è. Per giungere a tale conclusione, e sopportarla, non bisogna esercitare alcun mestiere, o tutt'al più quello di re, come Salomone.

Reagisco come tutti, e perfino come coloro che disprezzo di più; ma mi redimo deplorando ogni atto che compio, buono o cattivo che sia.

Dove sono le mie sensazioni? Si sono dileguate in... me, e che cos'è questo me, se non la somma di quelle sensazioni evaporate?

Straordinario e nullo - questi due aggettivi si applicano a un certo atto, e di conseguenza a tutto quello che ne deriva, in primo luogo la vita.

La chiaroveggenza è il solo vizio che renda liberi - liberi in un deserto.

Con il passare degli anni diminuisce il numero di coloro con i quali ci si può capire. Quando non avremo più nessuno cui rivolgerci saremo finalmente quali eravamo prima di precipitare in un nome.

Quando ci si rifiuta di fare del lirismo, riempire una pagina diventa un supplizio: a che serve scrivere per dire esattamente quello che si aveva da dire?

È impossibile accettare di essere giudicati da qualcuno che ha sofferto meno di noi. E poiché ognuno si crede un Giobbe misconosciuto...

Sogno un confessore ideale, al quale dire tutto, rivelare tutto, sogno un santo blasé.

Si muore da tanto di quel tempo che il vivente deve pure aver acquisito l'abitudine a morire; diversamente non ci si spiegherebbe come mai un insetto o un roditore, e l'uomo stesso, pervengano, dopo qualche smorfia, a crepare con tanta dignità.

Il Paradiso non era sopportabile, altrimenti il primo uomo vi si sarebbe adattato; neppure questo mondo lo è, visto che si rimpiange il Paradiso o se ne vagheggia un altro. Che fare? Dove andare? Semplicemente, non facciamo nulla e non andiamo da nessuna parte.

La salute certamente un bene; ma a coloro che la posseggono è stata rifiutata la grazia di accorgersene, dato che una salute consapevole di se stessa è una salute compromessa o che sta per diventarlo. Poiché nessuno gioisce della propria assenza di infermità, si può parlare senza esagerazione alcuna di una giusta punizione dei benportanti.

Taluni hanno sventure; altri ossessioni. Quali sono maggiormente da compiangere?

Non mi piacerebbe che si fosse equi nei miei confronti: potrei fare a meno di tutto, tranne che del tonico dell'ingiustizia.

"Tutto è dolore" - la formula buddhista, modernizzata, suonerebbe: "Tutto è incubo".
Nel medesimo tempo il nirvana, chiamato a porre fine a un tormento ben più diffuso, cesserebbe di essere una risorsa riservata solo a pochi per diventare universale come l'incubo stesso.

Cos'è una crocifissione unica rispetto a quella, quotidiana, che patisce l'insonne?

Passeggiavo a un'ora tarda in quel viale alberato, quando mi cadde davanti ai piedi una castagna. Il rumore che fece spaccandosi, l'eco che tale rumore suscitò in me, e un trasalimento sproporzionato rispetto a quell'incidente infimo, mi immersero nel miracolo, nell'ebbrezza del definitivo, come se non ci fossero più interrogativi ma solo risposte. Ero stordito da mille evidenze inattese, di cui non sapevo che fare...
Così per poco non attinsi il supremo. Ma giudicai preferibile continuare la passeggiata.

Confessiamo le nostre pene a un altro soltanto per farlo soffrire, perché se ne faccia carico. Se volessimo rendercelo amico gli faremmo parte unicamente dei nostri tormenti astratti, i soli che vengano accolti con sollecitudine da tutti coloro che ci amano.

Non mi perdono di essere nato. È come se, insinuandomi in questo mondo, avessi profanato un mistero, tradito un qualche impegno solenne, commesso una colpa di inaudita gravità. Mi capita però di essere meno perentorio: nascere mi appare allora una calamità che sarei inconsolabile di non aver conosciuto.

Il pensiero non è mai innocente. Proprio perché è senza pietà, perché è aggressione, ci aiuta a far saltare le nostre pastoie. Se si sopprimesse quanto ha di malvagio e perfino di demoniaco, bisognerebbe rinunciare al concetto stesso di liberazione.

Il modo più sicuro per non sbagliarsi è minare certezza su certezza. Ciò non toglie che tutto quello che conta sia stato fatto al di fuori del dubbio.

Da tempo, da sempre, ho coscienza che il quaggiù non è ciò di cui avevo bisogno, e che non sarei riuscito ad abituarmici; così, e solo così, ho acquisito un pizzico di orgoglio spirituale, e la mia esistenza mi appare come la degradazione e l'usura di un salmo.

I nostri pensieri, al soldo del nostro panico, si orientano verso il futuro, seguono la via di ogni timore, sfociano nella morte. Dirigerli verso la nascita e obbligarli a fissarvisi significa invertirne il corso, farli retrocedere. In tal modo perdono quel vigore, quella tensione implacabile che sta al fondo dell'orrore della morte e che ai nostri pensieri è utile se vogliono dilatarsi, arricchirsi, guadagnare forza. Allora si capisce perché, seguendo un tragitto inverso, manchino di slancio, e siano così stanchi quando finalmente cozzano contro il loro confine primitivo, tanto da non aver più energia per guardare al di là, verso il mai-nato.

Non sono i miei inizi ad importarmi, è l'inizio stesso. Se mi scontro con la mia nascita, con un'ossessione secondaria, è perché non posso battermi contro il primo momento del tempo. Ogni malessere individuale è riconducibile, in ultima istanza, a un malessere cosmogonico, dato che ogni nostra sensazione espia quel misfatto della sensazione primordiale attraverso cui l'essere sgusciò fuori da non si sa dove...

Abbiamo un bel preferirci all'universo, ci odiamo pur sempre molto più di quanto pensiamo. Il saggio è un'apparizione così insolita proprio perché non sembra intaccano l'avversione che, al pari di tutti gli esseri, deve certo nutrire per se stesso.

Nessuna differenza fra l'essere e il non-essere, se si percepiscono con pari intensità.

Il non-sapere è il fondamento di tutto, crea il tutto con un atto che ripete a ogni istante, produce questo mondo e qualsiasi mondo, poiché non smette di prendere per reale ciò che non lo è. Il non-sapere è il gigantesco equivoco che serve di base a tutte le nostre verità, il non-sapere è più antico e più potente di tutti gli dèi messi insieme.

Da questo si riconosce colui che ha disposizione per la ricerca interiore: dal fatto che porrà al di sopra di qualunque riuscita il fallimento, lo cercherà perfino, inconsciamente s'intende. Perché il fallimento, sempre essenziale, ci svela a noi stessi, ci permette di vederci come ci vede Dio, mentre il successo ci allontana da quanto c'è di più intimo in noi e in tutto.

Ci fu un tempo in cui il tempo non era ancora... Il rifiuto della nascita non è altro che la nostalgia di quel tempo anteriore al tempo.

Penso a tanti amici che non sono più, e provo pena per loro. Tuttavia non li ritengo proprio da compiangere, perché hanno risolto tutti i problemi, a cominciare da quello della morte.

C'è, nel fatto di nascere, una tale assenza di necessità che, quando ci si pensa un po' più del solito, non sapendo come reagire ci si limita a un sorriso ebete.

Due generi di spiriti: diurni e notturni. Non hanno né lo stesso metodo, né la stessa etica. In pieno giorno ci si sorveglia; al buio si dice tutto. Le conseguenze, salutari o nefaste, di ciò che pensa importano poco a chi si interroga nelle ore in cui gli altri sono preda del sonno. Perciò rimugina sulla disdetta di essere nato senza preoccuparsi del male che può fare ad altri o se stesso. Dopo mezzanotte comincia l'ubriacatura delle verità perniciose.

Con l'accumularsi degli anni, ci si forma un'immagine sempre più fosca del futuro. Forse solo per consolarci di esserne esclusi? Sì in apparenza, no di fatto, perché il futuro è sempre stato atroce, dato che l'uomo può ovviare ai propri mali solo aggravandoli, cosicché in ogni epoca l'esistenza è stata molto più tollerabile prima che fosse trovata la soluzione alle difficoltà del momento.

Nelle grandi perplessità costringiti a vivere come se la storia fosse conclusa e a reagire come un mostro roso dalla serenità.

Se un tempo, davanti a un morto, mi chiedevo: "A che gli è servito nascere?", ora mi pongo lo stesso interrogativo davanti a ogni vivo.

L'indugiare sulla nascita non è altro che il gusto dell'insolubile spinto fino all'insania.

Nei confronti della morte, oscillo senza tregua fra il "mistero" e il "nulla", fra le Piramidi e l'Obitorio.

È impossibile sentire che ci fu un tempo in cui non si esisteva. Da qui l'attaccamento al personaggio che si era prima di nascere.

"Meditate un'ora soltanto sull'inesistenza dell'io e vi sentirete un altro uomo", diceva un giorno a un visitatore occidentale un bonzo della setta giapponese Kusha.
Pur senza aver visitato i conventi buddhisti, quante volte mi sono soffermato sull'irrealtà del mondo, e quindi dell'io? Non sono diventato un altro uomo, no, ma mi è rimasta effettivamente quella sensazione che il mio io non è in alcun modo reale, e che perdendolo non ho perduto nulla, tranne qualcosa, tranne tutto.

Invece di limitarmi al fatto di nascere, come mi suggerisce il buon senso, mi arrischio, mi trascino all'indietro, retrocedo sempre più verso non so quale cominciamento, passo di origine in origine. Un giorno, forse, riuscirò a raggiungere l'origine stessa, per riposarmi in essa, o sprofondarvi.

X mi insulta. Sto per schiaffeggiarlo. Poi, ripensandoci, mi astengo.
Chi sono? Qual è il mio vero io: quello della replica o quello del ripiegamento? La mia prima reazione è sempre energica; la seconda, fiacca. Quella che definiamo "saggezza" è in fondo solo un perpetuo "ripensandoci", cioè la non azione come primo impulso.

Se l'attaccamento è un male, bisogna cercarne la causa nello scandalo della nascita, perché nascere significa attaccarsi. Il distacco dovrebbe quindi cercare di far scomparire le tracce di quello scandalo, il più grave e intollerabile di tutti.

Nell'ansia e nello smarrimento, la calma improvvisa al pensiero del feto che si è stati.

In questo preciso istante nessun rimprovero mossomi dagli uomini o dagli dèi potrebbe toccarmi: ho la coscienza in pace proprio come se non fossi mai esistito.

È un errore credere a un rapporto diretto fra il subire delle disfatte e l'accanirsi contro la nascita. Questo accanimento ha radici più profonde e lontane, e sussisterebbe anche se non avessimo la minima lamentela contro l'esistenza. Anzi, non è mai così virulento come nei casi estremi.

Traci e Bogomili - non posso dimenticare che ho frequentato gli stessi paraggi, né che gli uni piangevano sui neonati e gli altri, per scagionare Dio, rendevano Satana responsabile dell'infamia della Creazione.

Durante le lunghe notti delle caverne schiere di Amleti dovevano certo monologare senza tregua, poiché si può supporre che l'apogeo del tormento metafisico sia di gran lunga anteriore alla scipitaggine universale conseguente all'avvento della Filosofia.

L'ossessione della nascita scaturisce da una esacerbazione della memoria, da una onnipresenza del passato, come pure da una bramosia dell'impasse, della prima impasse. - Nessuna apertura, quindi nessuna gioia, che venga dal passato, ma unicamente dal presente e da un futuro emancipato dal tempo.

Per anni, per una vita in realtà, aver pensato solo agli ultimi istanti, per constatare, quando finalmente se ne è prossimi, che è stato inutile, che il pensiero della morte aiuta a tutto fuorché a morire!

Sono i nostri malesseri che suscitano, che creano la coscienza; una volta compiuta la loro opera, si affievoliscono e scompaiono uno dopo l'altro. La coscienza, invece, permane e sopravvive, senza ricordare quanto deve loro, senza averlo neanche mai saputo. Per questo non smette di proclamare la sua autonomia, la sua sovranità, perfino quando detesta se stessa e vorrebbe annullarsi.

Secondo la regola di san Benedetto, se un monaco diventava fiero o solo contento del lavoro che faceva, doveva distogliersene e abbandonano.

Ecco un pericolo che non teme colui che avrà vissuto nella brama dell'insoddisfazione, nell'orgia del rimorso e del disgusto.

Se è vero che a Dio ripugna prendere posizione, non proverei nessun disagio in sua presenza, tanto anelerei a imitarlo - a essere come Lui, in tutto, un senza-opinione.

Alzarsi, lavarsi e poi aspettare qualche varietà imprevista di tetraggine o di sgomento.

Darei l'universo intero e tutto Shakespeare per un briciolo di atarassia.

La grande fortuna di Nietzsche di essere finito come è finito. Nell'euforia!

Richiamarsi senza tregua a un mondo in cui nulla ancora si abbassava a sorgere, in cui si presentiva la coscienza senza desiderarla, in cui, sprofondati nel virtuale, si gioiva della pienezza vacua di un io anteriore all'io...

Non essere nato: al solo pensarci, che felicità, che libertà, che spazio!

[...] XII

Non c'è posizione più falsa dell'aver capito e rimanere ancora in vita.

Quando si considera freddamente la porzione di durata attribuita ad ognuno, essa pare in ugual misura soddisfacente e derisoria, si estenda su un giorno o su un secolo.

"Ho fatto il mio tempo". - Non c'è espressione che si possa usare più a proposito in qualunque istante di una vita, compreso il primo.

La morte è la provvidenza di coloro che hanno avuto il gusto e il dono di fare fiasco, è la ricompensa di tutti quelli che non hanno avuto successo, che non ci tenevano ad averne... Dà loro ragione, è il loro trionfo. Invece, per gli altri, per quelli che hanno penato per avere successo, e ne hanno avuto, che smentita, che schiaffo!

Un monaco egiziano, dopo quindici anni di solitudine completa, ricevette dai parenti e dagli amici un grosso pacco di lettere. Invece di aprirle, le gettò nel fuoco, per sfuggire all'aggressione dei ricordi. Non si può rimanere in comunione con se stessi e i propri pensieri se si permette ai fantasmi di palesarsi, di imperversare. Il deserto non significa tanto una vita nuova quanto, la morte del passato: si è finalmente evasi dalla propria storia. Nel mondo, non meno che nelle tebaidi le lettere che scriviamo, come quelle che riceviamo, testimoniano che siamo incatenati, che non abbiamo spezzato alcun legame, che siamo solo schiavi e meritiamo di esserlo.

Un po' di pazienza e verrà il momento in cui niente sarà più possibile, in cui l'umanità, con le spalle al muro, non potrà più muovere un solo passo in nessuna direzione.

Anche se si riesce a immaginare a grandi linee questo spettacolo senza precedenti, si vorrebbero comunque dei particolari... E si ha paura malgrado tutto di perdere la festa, di non essere più abbastanza giovani da avere la ventura di assistervi.

Che esca dalla bocca di un droghiere o di un filosofo, la parola essere, così ricca, così allettante, in apparenza così carica di senso, non significa in realtà assolutamente niente. In qualsivoglia occasione, è incredibile che uno spirito sensato possa servirsene.

In piedi, a notte fonda, giravo per la camera con la certezza di essere un eletto e uno scellerato, doppio privilegio, naturale per chi veglia, rivoltante o incomprensibile per i prigionieri della logica diurna.

Non a tutti è concesso avere un'infanzia infelice. La mia fu molto più che felice. Fu coronata. Non trovo miglior aggettivo per designare quanto ebbe di trionfale persino nei suoi affanni. Dovevo pagarla, non poteva restare impunito.

Se amo tanto l'epistolario di Dostoevskij, è perché si parla solo di malattia e di denaro, unici argomenti "scottanti". Tutto il resto sono solo fronzoli e ciarpame.

Fra cinquecentomila anni l'Inghilterra sarà, dicono, completamente ricoperta dall'acqua. Se fossi inglese deporrei le armi senza indugio.

Ognuno ha la propria unità di tempo. Per uno è la giornata, la settimana, il mese o l'anno; per un altro sono dieci anni, anzi cento... Queste unità, ancora a scala umana, sono compatibili con qualunque progetto e qualunque lavoro.

C'è chi prende come unità il tempo stesso e si eleva talvolta al di sopra di esso: quale lavoro, quale progetto meriterà allora di essere preso sul serio? Chi vede troppo lontano, chi è contemporaneo di tutto il futuro, non può più affaccendarsi, non può neppure muoversi...

Il pensiero della precarietà mi accompagna in ogni circostanza: stamane, imbucando una lettera, mi dicevo che era indirizzata a un mortale.

Una sola esperienza assoluta, a proposito di una qualsiasi cosa, e apparite, ai vostri stessi occhi, come un sopravvissuto.

Sono sempre vissuto con la coscienza dell'impossibilità di vivere. E ciò che mi ha reso sopportabile l'esistenza è stata la curiosità di vedere come sarei passato da un minuto, da un giorno, da un anno all'altro.

La prima condizione per diventare un santo è amare gli scocciatori, sopportare le visite...

Scuotere la gente, svegliarla dal suo sonno, pur sapendo di commettere in tal modo un crimine e che sarebbe mille volte meglio lasciarvela perseverare, poiché comunque, quando si sveglia, non si ha nulla da proporle...

Port-Royal. In mezzo a quel verde, tanti scontri e tante lacerazioni per delle quisquilie! Ogni credenza, dopo un certo tempo, pare gratuita e incomprensibile, come del resto la contro-credenza che l'ha scalzata. Rimane solo lo sconcerto che provocano l'una e l'altra.

Un pover'uomo che sente il tempo, che ne è vittima, che ne crepa, che non prova nient'altro, che è tempo a ogni istante, conosce ciò che un metafisico o un poeta intuiscono solo grazie a uno sprofondamento o a un miracolo.

Quel rumoreggiare interiore che non approda a nulla, e in cui si è ridotti allo stato di un vulcano grottesco.

Ogni volta che sono preso da un accesso di furore, al principio me ne affliggo e mi disprezzo, poi mi dico: che fortuna, che cuccagna! Sono ancora in vita, faccio sempre parte di quei fantasmi in carne e ossa...

Il telegramma che avevo appena ricevuto non finiva più Vi erano elencate tutte le mie pretese e tutte le mie insufficienze. Un certo difetto, di cui avevo appena sentore, vi era nominato, proclamato. Che divinazione, e che minuzia! Alla fine dell'interminabile requisitoria, nessun indizio, nessuna traccia che permettesse di identificare l'autore. Chi poteva mai essere? E perché quella precipitazione e quel mezzo insolito? Si è mai detto a qualcuno il fatto suo con maggior rigore nell'astio? Da dove è sbucato questo giustiziere onnisciente che non osa nominarsi, questo vigliacco al corrente di tutti i miei segreti, questo inquisitore che non mi accorda nessuna circostanza attenuante, neppure quella che si riconosce al più incallito dei carnefici? Anch'io ho potuto errare, anch'io ho diritto a qualche indulgenza. Indietreggio davanti all'inventario dei miei difetti, soffoco, non posso più sopportare questa sfilata di verità... Maledetto telegramma! Lo lacero, e mi sveglio...

Avere delle opinioni è inevitabile, è normale; avere delle convinzioni lo è di meno. Ogni volta che incontro qualcuno che ne possiede mi chiedo quale vizio del suo spirito, quale insania gliele abbia fatte acquisire. Per quanto legittima sia questa domanda, l'abitudine che ho di farmela mi rovina il piacere della conversazione, mi fa sentire la coscienza sporca, mi rende odioso ai miei stessi occhi.

Ci fu un tempo in cui scrivere mi sembrava cosa importante. Fra tutte le mie superstizioni, questa mi pare la più compromettente e la più incomprensibile.

Ho abusato della parola disgusto. Ma quale altro vocabolo scegliere per designare uno stato in cui l'esasperazione è continuamente corretta dalla stanchezza e la stanchezza dall'esasperazione?

Per tutta la serata, avendo tentato di definirlo, abbiamo passato in rassegna gli eufemismi che permettono di non pronunciare, parlando di lui, la parola perfidia. Non è perfido, è solo tortuoso, diabolicamente tortuoso, e nello stesso tempo innocente, candido, anzi angelico. Si pensi, se si può, a un miscuglio di Alësa e di Smerdjakov.

Quando non si crede più in se stessi si smette di produrre o di combattere, si smette perfino di farsi delle domande e di rispondere, mentre dovrebbe succedere il contrario, visto che è proprio da quel momento che, liberi da legami, si è adatti a cogliere il vero, a discernere ciò che è reale da ciò che non lo è. Ma una volta esaurita la credenza nel proprio ruolo, o nella propria sorte, non si è più curiosi di niente, neppure della "verità ", benché ad essa si sia più vicini che mai.

In Paradiso non resisterei una "stagione", e neppure un giorno. Come spiegare allora la nostalgia che ne ho? Non la spiego, mi abita da sempre, era in me prima di me.

Chiunque può avere di tanto in tanto la sensazione di occupare un solo punto e un solo istante; conoscere tale sensazione giorno e notte, di fatto ogni momento, è cosa meno comune, e proprio a partire da quell'esperienza, da quel dato, ci si volge verso il nirvana o il sarcasmo, o verso ambedue contemporaneamente.

Pur avendo giurato di non peccare mai contro la santa concisione, rimango tuttavia complice delle parole, e quantunque sedotto dal silenzio non oso entrarvi, mi aggiro soltanto alla sua periferia.

Si dovrebbe stabilire il grado di verità di una religione dall'importanza che dà al Demonio: più gli accorda un posto eminente, più dimostra che si preoccupa del reale, che rifugge dalle frodi e dalla menzogna, che è seria, che tiene più a constatare che a divagare e a consolare.

Niente merita di essere disfatto, probabilmente perché niente meritava di essere fatto. Così ci si distacca da tutto, dall'origine e dalla fine, dall'avvento come dalla sparizione.

Che tutto sia stato detto, che non ci sia più niente da dire, lo si sa, lo si sente. Si sente meno, invece, che quell'evidenza conferisce al linguaggio uno statuto bizzarro, anzi inquietante, che lo riscatta. Le parole sono finalmente salve, perché hanno cessato di vivere.

L'immenso bene e l'immenso male che ho tratto dalle mie rimuginazioni sulla condizione dei morti.

L
'innegabile vantaggio di invecchiare è poter osservare da vicino la lenta e metodica degradazione degli organi; cominciano tutti a scricchiolare, gli uni in modo vistoso, gli altri, discreto. Si distaccano dal corpo come il corpo si distacca da noi: ci scappa, ci fugge, non ci appartiene più. È un transfuga che non possiamo neppure denunciare, perché non si ferma in nessun luogo e non si mette a servizio di nessuno.

Non mi stanco di leggere sugli eremiti, preferibilmente su coloro dei quali si è detto che erano "stanchi di cercare Dio". Sono ammaliato dai falliti del Deserto.

Se, non si sa come, Rimbaud avesse potuto continuare (il che equivale a immaginare il futuro dell'inaudito, un Nietzsche in piena produzione dopo ‘Ecce homo’), avrebbe finito per tirarsi indietro, per rinsavire, per commentare le sue esplosioni, per spiegarle e spiegarsi. Sacrilegio in tutti i casi, dato che l'eccesso di coscienza è solo una forma di profanazione.

Ho approfondito una sola idea, e cioè che tutto quel che l'uomo compie si ritorce fatalmente contro di lui. L'idea non è nuova, ma l'ho vissuta con una forza di convinzione, un accanimento mai eguagliati da alcun fanatismo o delirio. Non c'è martirio, non c'è disonore che non sopporterei per essa, e non la scambierei con nessun'altra verità, con nessun'altra rivelazione.

Andare ancora più lontano del Buddha, elevarsi al di sopra del nirvana, imparare a farne a meno... non essere più fermato da niente, neppure dall'idea di liberazione, ritenerla una semplice sosta, un impaccio, un'eclissi...

Il mio debole per le dinastie condannate, per gli imperi pericolanti, per i Montezuma di ogni tempo, per coloro che credono ai segni, per i lacerati e i braccati, e gli intossicati di ineluttabile, per i minacciati, per i divorati, per tutti quelli che aspettano il loro carnefice...

Passo senza fermarmi davanti alla tomba di quel critico di cui ho rimuginato tante parole astiose. Non mi fermo neppure davanti a quella del poeta che, da vivo, pensò solo al proprio dissolvimento finale. Altri nomi mi perseguitano, nomi remoti, legati a un insegnamento spietato e pacificante, a una visione fatta per espellere dalla mente tutte le ossessioni, anche quelle funebri. Nagarjuna, Candrakirti, Çãntideva stoccatori impareggiabili, dialettici travagliati dall'ossessione della salvezza, acrobati e apostoli della Vacuità... per i quali, saggi fra i saggi, l'universo era solo una parola...

Benché contempli da molti autunni lo spettacolo di quelle foglie così impazienti di cadere, non per questo è minore, ogni volta, una sorpresa in cui "il brivido nella schiena" sarebbe di gran lunga la nota dominante se non mi invadesse, all'ultimo momento, un'allegrezza della quale non riesco a discernere l'origine.

Ci sono momenti in cui, per quanto lontani si possa essere da ogni fede, non concepiamo altro interlocutore che Dio. Rivolgerci a qualcun altro ci sembra una impossibilità o una follia. La solitudine, al suo stadio estremo, esige una forma di conversazione che sia anch'essa estrema.

L'uomo emana un odore speciale: fra tutti gli animali, soltanto lui puzza di cadavere.

Le ore non volevano scorrere. Il giorno sembrava lontano, inconcepibile. In realtà non era il giorno che aspettavo, ma l'oblio di quel tempo caparbio che rifiutava di avanzare. Beato, mi dicevo, il condannato a morte che, alla vigilia dell'esecuzione, è almeno sicuro di passare una buona notte!

Potrò rimanere ancora in piedi? Mi accascerò?

Se c'è una sensazione interessante, è proprio quella che ci fa pregustare l'epilessia.

Chiunque sopravviva a se stesso si disprezza senza confessarselo, e talvolta senza saperlo.

Quando si è superata l'età della rivolta, e ci si scatena ancora, ci si sente come un Lucifero rimbambito.

Se non portassimo le stigmate della vita, quanto sarebbe facile sottrarsi, e come tutto andrebbe liscio!

Sono capace, più di chiunque, di perdonare all'istante. La voglia di vendicarmi mi viene solo tardi, troppo tardi, quando il ricordo dell'offesa sta sfumando e, diventato quasi nullo lo stimolo all'atto, non mi rimane più che la risorsa di deplorare i miei "buoni sentimenti".

Soltanto nella misura in cui si sfida la morte a ogni istante, è dato intravedere su quale insania si fondi ogni esistenza.

In ultimissima istanza, è del tutto indifferente essere qualcosa, perfino essere Dio. Su questo punto, insistendo un po', si potrebbe trovarsi quasi tutti d'accordo. Ma allora come mai ognuno aspira a un sovrappiù di essere e non c'è nessuno che accetti di calare, di scendere verso la carenza ideale?

Secondo una credenza alquanto diffusa presso certe popolazioni, i morti parlano la stessa lingua dei vivi, con una differenza, che per essi le parole hanno un senso opposto a quello che avevano: grande significa piccolo, vicino lontano, bianco nero...
Morire si ridurrebbe dunque a questo? Ciò non toglie che, meglio di qualsiasi invenzione funebre, un tale completo stravolgimento del linguaggio riveli ciò che la morte implica di inabituale, di sconcertante...

Sono disposto a credere nel futuro dell'uomo, ma come riuscirci quando si è malgrado tutto in possesso delle proprie facoltà? Occorrerebbe il loro tracollo quasi totale, e ancora non basterebbe.

Un pensiero che non sia segretamente marchiato dalla fatalità è intercambiabile, non vale niente, è solo pensiero...

A Torino, all'inizio della crisi, Nietzsche si precipitava continuamente allo specchio, si guardava, si allontanava, si guardava di nuovo. Nel treno che lo portava a Basilea, la sola cosa che chiedesse con insistenza era ancora uno specchio. Non sapeva più chi era, si cercava, e a lui, così attento a salvaguardare la propria identità, così avido di sé, non rimaneva, per ritrovarsi, che la più grossolaha, la più miserabile delle risorse.

Non conosco nessuno più inutile e più inutilizzabile di me. È questo un dato che dovrei accettare in tutta semplicità, senza trarne la minima fierezza. Finché non sarà così, la coscienza della mia inutilità non mi servirà a niente.

Qualunque sia l'incubo che si vive, vi si recita una parte, se ne è il protagonista, si è qualcuno. E proprio di notte che il diseredato trionfa. Se fossero soppressi i brutti sogni ci sarebbero rivoluzioni a catena.

Il terrore di fronte all'avvenire si innesta sempre sul desiderio di provare quel terrore.

All'improvviso mi trovai solo davanti a... Sentii, quel pomeriggio della mia infanzia, che si era appena prodotto un evento molto grave. Fu il mio primo risveglio, il primo indizio, il segno premonitore della coscienza. Fino ad allora ero stato solo un essere. Da quel momento, ero più e meno di questo. Ogni io comincia con una incrinatura e una rivelazione.

Nascita e catena sono sinonimi. Vedere la luce, vedere delle manette...

Dire: "Tutto è illusorio" significa sacrificare all'illusione, riconoscerle un alto grado di realtà, anzi il più alto, laddove invece si voleva screditarla. Che fare? La cosa migliore è smettere di proclamarla o di denunciarla, di assoggettarsi ad essa pensandoci. E di ostacolo anche l'idea che squalifica tutte le idee.

Se si potesse dormire ventiquattr'ore su ventiquattro, si raggiungerebbe presto l'inerzia primordiale, la beatitudine di quell'ininterrotto torpore anteriore alla Genesi - sogno di ogni coscienza esasperata di se stessa.

Non nascere è indubbiamente la migliore formula che esista. Non è purtroppo alla portata di nessuno.

Nessuno più di me ha amato questo mondo, e tuttavia, me l'avessero offerto su un vassoio, anche da bambino avrei esclamato: "Troppo tardi, troppo tardi!".

Cos'hai, ma cos'hai dunque? - Non ho niente, non ho niente, ho solo fatto un salto fuori del mio destino, e ora non so più verso che cosa voltarmi, verso che cosa correre