GLI SPETTRI

Tragedia familiare in 3 atti.

La prima rappresentazione, anche per le ostilità incontrate dal soggetto, avvenne all'Aurora Turner Hall di Chicago il 20 maggio 1882. Soltanto l'anno successivo il dramma andò in scena in un paese nordico, ad Halsingborg, in Svezia. Nel 1881 era stato pubblicato a Copenaghen.

Riassunto - Commmento di Claudio Magris

Osvald Alving, un giovane di buona famiglia, torna a casa, in Norvegia, dopo un soggiorno di parecchi anni a Roma e a Parigi, dove era vissuto a contatto con gli ambienti artistici locali. Sua madre, ormai vedova, in un colloquio che ha luogo all'inizio del primo atto, rivela la tragedia del suo infelice matrimonio, che lei ha saputo ben celare a tutti, al pastore Manders. Costui è stato invitato per l'inaugurazione di un asilo costruito dalla signora Alving in memoria del marito, quasi per esorcizzarne lo spettro e potersi finalmente sentire libera. Il ciambellano Alving, infatti, era stato un uomo corrotto ed infedele, e la moglie aveva per anni sofferto in silenzio, per amore del figlio, accettando anche la lontananza da lui, per risparmiargli il funesto influsso paterno. Adesso ella spera di iniziare una nuova vita, e sogna il successo artistico del figlio. La tragedia però non si farà attendere. Osvald si innamora di Regine, la giovane cameriera, e la signora Alving, inorridita, rivela a Manders che la ragazza è in realtà sorellastra di Osvald, sebbene il falegname Engstrand, che ne ha sposato la madre, la consideri figlia propria. Osvald manifesta alla madre il suo amore per la ragazza e spera che la semplicità di lei possa aiutarlo a superare la profonda depressione in cui sente di stare precipitando. All'improvviso un incendio distrugge l'asilo e, durante la notte insonne in cui tutti si sono invano prodigati nei tentativi di spegnimento, Osvald rivela alla madre di soffrire di gravi crisi di un male terribile e di temere di peggiorare sempre più. Regine, nel sentire che Osvald è malato, lo abbandona. Il colloquio tra madre e figlio si fa più intenso ed intimo e il dramma raggiunge il suo culmine quando la signora Alving, disperata nel veder risorgere lo spettro del marito, rivela al figlio che la sua malattia è l'orribile eredità paterna. Osvald confessa allora il suo tremendo segreto: ha infatti saputo dal medico che il prossimo attacco del suo male atroce, il rammollimento cerebrale, lo distruggerà definitivamente. Egli implora quindi la madre, quando verrà il momento, di somministrargli una dose mortale di morfina, che ha in serbo a quello scopo. Regine l'avrebbe certamente fatto, egli dice. Al colmo dell'angoscia la signora Alving promette. Ad un tratto, verso l'alba, Osvald, ormai fuori di senno, prende ad invocare il sole, non più in grado di udire le accorate grida della madre. Così termina il dramma: gli spettatori non conosceranno mai la scelta definitiva compiuta dalla signora Alving che, proprio così, pietrificata nel suo dilemma insoluto, emerge come una delle figure più profondamente tragiche di tutte le opere di Ibsen.

Il dramma, scritto durante il soggiorno romano dell'autore, per le sue numerose problematiche che scavano tra le miserie più disgustose della società borghese venne rifiutato dalla critica come un concentrato di oscenità scritte, si disse, indubbiamente in stato di delirio o di morbosa ubriachezza. In Inghilterra il dramma, presentato nel 1891, suscitò nuovamente scandalo e scalpore, come era avvenuto in occasione della «prima» americana: soltanto dopo il 1900, tranne qualche timido tentativo di rappresentazione in teatri secondari, il dramma fece la sua comparsa nei principali teatri norvegesi.

Adesso la lettura è certo più serena e distaccata: appare evidente l'influsso delle correnti positivistiche darwinistiche e del naturalismo francese, ma, come ebbe a dire un critico, la struttura dell'opera si ricollega a quella della tragedia classica antica che, grazie ad Ibsen, rinasce cosi, rinnovata ed attuale, nel mondo moderno.

[Dal DIZIONARIO DEI CAPOLAVORI - UTET]

Dall'Introduzione di Claudio Magris a Henrik Ibsen, "Drammi", Milano, Garzanti, 1995, pp. X ss.

[...] La desolata tragicità del tardo Ibsen risiede nella cupa visione della condizione sociale concepita come un assoluto che non concede spazi di libertà e di gioia, che ingloba tutta la vita dell'individuo e integra nel suo ingranaggio anche la protesta e la ribellione vanamente indirizzate contro di esso, venendo così a coincidere con l'orizzonte stesso dell'esperienza. [...] Se nei drammi di Ibsen c'è infatti sino alle Colonne della società (1877), una contrapposizione fra valori positivi e negativi che si combattono e si scontrano nelle opere successive prevale una negatività completa, ignara di alternative positive. donde l'irreparabile decadimento di ogni ideale e l'esaurimento di ogni forza vitale, la contemplazione cinica e amara di un vano gioco anch'esso cinico e amaro, la visione di una vita che consuma se stessa alla ricerca di un proprio senso il quale sussiste soltanto aldilà di essa, la consapevole assunzione - da parte dell'autore medesimo - di una prospettiva estraneità e perciò alla fine impotente, sconfinante col vuoto, con l'assenza e con la morte.
In varie forme e in vari modi, questa negatività dominante - eppure sempre respinta e combattuta dalla coscienza - scandisce la desolazione totale degli "Spettri" (1881) [...] Ibsen, il quale scompare dalla scena - colpito da un'emorragia cerebrale che lo riduce a una larvale esistenza meramente vegetativa - un anno prima che Thomas Mann pubblichi "I Buddenbrock" è uno dei primi e più grandi poeti del tramonto borghese, le cui contraddizioni egli ha scandagliato con inesorabile lucidità e con struggimento profondo, persuaso com'era della loro insuperabilità ma altresì di affondare egli stesso le proprie radici in quell'impasse. Nella sua opera emergono infatti, con una straordinaria anticipazione, tanti motivi che ritorneranno per decenni nella letteratura della crisi borghese: il dissidio fra vita e spirito, ovvero fra vita e arte, sentimento e forma, esigenza morale e impulso vitale, libertà caotica e ordine repressivo, dovere e piacere; la precarietà del soggetto individuale e soprattutto della sua unità psicologica; l'antitesi fra etica pubblica ed etica privata, fra interiorità e oggettività sociale, l'ironica contraddizione fra l'esigenza kantiana dell'autonoma personalità individuale e la consapevolezza che quest'ultima si trova ad essere ferreamente determinata dai rapporti sociali. In questa rappresentazione del mondo reificato [...] e dell'individuo alienato che ribellandosi alla schiavitù sempre più vi si invischia, Ibsen si concentra con implacabile acutezza sul motivo del potere. che costituisce forse - nei più vari modi - il suo tema centrale. La lotta per il potere si svolge all'interno della società, della famiglia e della passione amorosa coinvolge il vincitore che prevarica e il vinto che cerca la rivalsa, si esprime nella brutale prepotenza o nella subdola rinuncia, sceglie indifferentemente come proprio terreno la piazza della città, l'intimità di un salotto o la tortuosità di un cuore. Ogni uccello ferito subisce ma anche aggredisce, è pronto a parare ma anche a colpire.
Pure la signora Alving [...] è una di queste creature in cattività, la sapiente strategia della sua vita è tuttavia indirizzata in un groviglio di consapevole scaltrezza e sentimentalità spontanea, a trasformare la sua condizione di reclusa in quella di carceriera della sua prigione. Helene Alving è certo in primo luogo una vittima: la logica sociale ha privato la sua vita di ogni pienezza e di ogni felicità, tutta la sua esistenza è stata un sacrificio, sicché lei ha subito l'umiliazione inflittale dal marito animalesco, ha rinunciato al sesso e all'amore, ha vissuto per gli altri e soprattutto per il figlio, ha cioè continuamente soffocato il suo concreto presente a un irreale futuro altrui, destinato a distruggere lei stessa e il suo mondo. Ma già negli appunti scritti durante la fase preparatoria degli "Spettri" Ibsen indicava la colpevolezza insita in questo sacrificio, il peccato mortale commesso dall'individuo contro se stesso e contro la legge della sua persona, contro il diritto e il dovere di svilupparsi armoniosamente secondo le sue possibilità e necessità: un peccato, aggiungeva Ibsen, che comporta inevitabilmente una nemesi. [...] La signora Alving ha dunque commesso questo peccato capitale, e ne raccoglie i frutti; con chiara consapevolezza ella si rende inoltre conto di essere, almeno in parte, colpevole anche della depravazione del marito: è il matrimonio senza amore e dunque contro natura che ha umiliato e pertanto deformato la carica vitale del capitano Alving; è stata la chiusura dell'ambiente sociale unita all'opprimente perbenismo della moglie (la quale è la prima a scorgere la corrispondenza fra la grettezza della società e la grettezza del suo moralismo) che ha soffocato la vitalità di Alving facendola degenerare. La natura coartata dalla società si esaspera nell'aberrazione di se stessa. La signora Alving, inizialmente e potenzialmente ricca di affetto e di passione, è costretta a divenire l'amministratrice della sua vita e di quella degli altri ed a perseguire quindi il potere: lei, che si vanta d'avere preso le redini della casa e dell'economia, ha esercitato sul marito dissoluto una sorta di potestà dispotica, ha deciso e guidato a sua insaputa il destino di Regine, tenendola all'oscuro di tutto, ha messo pazientemente in atto anno per anno il disegno della costruzione dell'asilo intestato alla memoria del marito defunto, ha organizzato e continua e sorvegliare la vita del figlio, con un calcolo sapiente e con un amore materno possessivo e geloso che costituisce il fulcro della sua ansia di dominio, una donna spiritualmene emancipata, come indicano le sue letture e le sue opinioni, ma Ibsen, proprio perché paladino dell'emancipazione femminile, sottolinea gli accenti striduli che fatalmente la travisano quand'essa è costretta a svolgersi nel contesto di una società oppressiva.
L'esercizio del potere, per la signora Alving, è una dura costrizione difensiva, non già una scelta proterva, Helene Alving è e rimane una gran donna: appassionata, coraggiosa, vigile, intelligente. Ha avuto e forse avrebbe ancora il coraggio di infrangere le convenzioni, di fuggire, di scegliere l'amore: è il pastore Manders l'uomo amato che l'ha restituita alla menzogna. [...] La signora Alving è consapevole della falsità sulla quale si regge la sua vita: conosce la verità e la dice apertamente, è la voce della demistificazione che smaschera le ipocrisie di Manders e anche le sue ingenue illusioni, è l'intelligenza vera che scruta sino in fondo la vita [...]. Vi è tuttavia anche un altro volto della colpa. "Pretendere di vivere e svilupparsi umanamente" scrive Ibsen negli appunti citati, "è megalomania". Lo stesso desiderio di una vita integra è colpevole, perché non tiene e non vuol tener conto della verità, ossia delle difficoltà oggettive che bloccano la libera maturazione della persona. La pretesa di vita vera e autentica diventa inganno o delirio nel mondo dell'alienazione [...]. Affascinato e insieme respinto dal cristianesimo, Ibsen scorge dapprima in esso un'esigenza di perfezione morale che nobilita ma anche esaurisce la vita [...] La tragedia si abbatte proprio sulla megalomania della signora Alving, sul suo sogno di gestire la vita propria e altrui, di liberarsi del passato obiettivandolo nella costruzione sociale dell'asilo. Il passato, la vita non vissuta e rimossa, rimane invece vittorioso e la stringe nelle sue spire: l'esistenza è spettrale perché è popolata e dominata dai fantasmi dell'eterno ieri, la tradizione distrugge il futuro e tutto si ripete eternamente identico e malvagio [...]. La patologia psichica è per Ibsen, come per tutti i grandi scrittori moderni che si cimentano con la disgregazione del soggetto, la risposta a una situazione esistenziale. La degenerazione [...] non è certo il caso particolare clinico bensì la metafora di un decadimento patologico che insidia ogni individuo inserito nell'ingranaggio sociale. Impassibile e sovranamente distaccato, Ibsen muove le fila della sua storia con la scarna precisione di un matematico che svolga un teorema attento soltanto a seguire la logica della dimostrazione e a bruciare ogni scoria o residuo di pathos. [...]