Brand, dramma in 5 parti di Henrik Ibsen (1828-1906). Scritto a Roma nel 1865, venne pubblicato l'anno successivo a Copenhagen ma rappresentato quasi vent'anni dopo (il 24 marzo 1885) al Nuovo Teatro di Stoccolma. È considerato, insieme a "Peer Gynt", il testo più intenso di Ibsen.

Brand, il protagonista, il cui nome significa «incendio», è un pastore che sente la religione come un impegno assoluto ed intransigente. Il suo motto è «tutto o nulla», ed egli è pronto a sacrificare allo spietato Dio biblico che si è raffigurato tutto ciò che ha di più caro, anche i sentimenti più semplici e più naturali. Brand non si piega nemmeno di fronte alla madre morente: si rifiuterà di assisterla e di assolverla perché lei non vuole, neanche in punto di morte, separarsi dalle ricchezze accumulate per tutta la vita. Ritenendosi un novello Abramo egli è deciso a rinnovare il sacrificio d'Isacco ed offre al suo Dio la vita del suo figlioletto: si rifiuta di portarlo in un clima più mite, come il medico ha consigliato, e si ostina a tenerlo in quello crudo del fiordo nordico. È convinto che la sua missione possa realizzarsi solo in quel luogo, e pensa che partire significhi una viltà cd un atto di diserzione davanti al dovere. Quando il bambino inevitabilmente muore Brand impedisce alla moglie, la dolcissima Agnes, di piangerlo, non permettendole di conservare il più piccolo oggetto che era del bambino. Per lui tutto questo è feticismo ed idolatria.
Dopo la morte della moglie, Brand decide di innalzare un nuovo tempio, più grande e più degno, a Dio. Per questo scopo si serve del denaro ereditato dalla madre ma quando infine la chiesa è stata costruita e sta per essere consacrata Brand getta via la chiave, perché sente che quella non è la vera casa di Dio e che lui stesso non può accettare il compromesso di sottomettersi all'autorità della Chiesa di Stato.

Alla guida di tutto il popolo, Brand allora si avvia verso la montagna e verso la Chiesa di Ghiaccio situata tra le nevi eterne, promettendo, a chi vorrà seguirlo, di condurlo sulla vera via del cielo. La folla dapprima lo segue con entusiasmo ed esaltazione; poi, spaventata dai disagi cui va incontro, lo abbandona e lo lapida quale falso profeta.

Brand rimane così, solo ed indomito, impassibile anche di fronte alla visione celeste della moglie che lo invita a recedere dalla sua durezza e ad accettare la più umana via del compromesso. Nell'ultima scena, tuttavia, di ambigua interpretazione e piena di chiaroscuri, prima di essere travolto da una valanga, Brand si chiede, riuscendo finalmente a piangere dopo tanta rigidezza, se non abbia sbagliato tutto. E una voce, che sovrasta il fragore della valanga, inneggia al Deus Charitatis.

Il dramma, cupo e tormentato, suscitò subito molto scalpore e riscosse un enorme successo. Con esso Ibsen acquistò fama in tutti i paesi nordici e sicurezza economica. Giova ricordare il giudizio di Strinberg, che definì "Brand" "la voce di un Savonarola in un'era idolatra dell'arte."

Dall'Introduzione di Luca Doninelli all'edizione BUR di Brand, nella collezione "I libri dello spirito cristiano", pp.5-8:

Chi è Brand? È un uomo che sacrifica la propria giovinezza, la madre, il figlio, la moglie, il proprio ruolo sociale, in una parola la propria vita per conseguire l'ideale etico, la perfezione morale. È un uomo, dunque, che fin dal suo apparire sulla scena si pone come un modello da seguire. Il suo fallimento non è, dunque, solo suo: è il fallimento di qualsiasi ideale etico ricercato attraverso la volontà umana. È, per dirla altrimenti, il fallimento dell'etica moderna.

Siamo al terzo atto, nel centro geometrico del dramma. Il podestà del Distretto si è recato da Brand, il prete, per pregarlo di andarsene. È forse il momento cruciale, quello in cui si scoprono gli intendimenti dei cuori, quello in cui si annuncia il disastro finale. Il podestà vuole che Brand se ne vada, perché le sue parole - ispirate a un rigore etico inaudito - turbano l'ordine pubblico. Sono parole, dice, adatte per chi vive in città, e ha dimestichezza con le altezze dello spirito, ma nocive ai «poveri abitatori di queste gole». Nella discussione che segue, il podestà rievoca la storia della Norvegia: una storia di eroi, di guerrieri, di dominatori. Brand obietta che, però, la discendenza di quegli eroi è oggi buona, al più, per porre l'aratro nel solco. Il podestà non è d'accordo: ci sono le feste, nelle quali, tra un brindisi e un canto, l'antico spirito risorge. «I miei pensieri s'intrecciano allora in corone di fiori esaltando l'anima dei miei concittadini. Amo anch'io un poco la poesia [...] Ma bisogna esser cauti e misurati; non la mescoliamo agli affari della vita; tutto a suo tempo.» Dopo il lavoro del giorno, tutti - dice - sentono il bisogno «di un piccolo bagno d 'ideale». E soggiunge: «Vedete, la differenza tra noi e voi sta in questo, che voi volete per forza combattere e lavorare nel medesimo tempo. Se io non vi fraintendo, voi volete combinare la vita reale con l'ideale della vita».
Questo è il cuore del problema. Unire «l'idea all'azione», come dice Brand poco oltre, è una definizione astratta ma comunque esatta del concetto di moralità. La moralità è la capacità di porre l'ideale nell'azione presente, nell'hic et nunc, nel qui-e-ora.
Val la pena, però, esaminare il contesto in cui queste parole vengono pronunciate. Il contesto rende infatti più chiaro il loro senso. Brand e il podestà sono i capi di una piccola comunità protestante, fondata sul principio luterano secondo cui non solo nessuna opera umana può dare salvezza, ma nessuna opera può nemmeno contribuire a tale salvezza. Per questo nella società protestante non c'è posto per la Chiesa visibile, ossia per la Chiesa intesa come corpo, come realtà dotata di una sua irriducibilità, anche politica, e quindi capace di porre opere nuove nel tessuto del mondo.
La salvezza viene dalla fede (Sola fide), e da nient'altro. Perciò il cristiano, nelle società protestanti, coincide con il buon cittadino, contribuendo, al massimo, a conservare quell'ordine politico e quella sobria convivenza che meglio sembrano adatti al raccoglimento e alla meditazione della Scrittura.
Giustamente, dunque, il podestà - ossia il capo politico, il responsabile dell'ordine sociale - richiama Brand: ogni cosa al suo tempo. Non esiste, infatti, alcuna possibilità umana di collegare «l'idea all'azione». Occorrono, di conseguenza, momenti eccezionali - il podestà cita le feste - per far risorgere nei cittadini uno spirito eroico che, nella normalità, è impossibile, e suscitare il quale nel tempo ordinario è pericoloso e dannoso, poiché genera confusione: «Ora, a causa vostra» dice il podestà «si vedono brillare insieme la lampada del minatore e l'aurora boreale, e in questa falsa luce non sappiamo più distinguere la verità dall'errore e il male dal rimedio». Perciò Brand deve andarsene.
Brand, dunque, parrebbe un protestante per così dire «anomalo», in quanto afferma ciò che la sua stessa impostazione religiosa - vale a dire il protestantesimo - aveva dichiarato impossibile. Egli è, a prima vista, un fuorilegge (o perlomeno un fuorilegge potenziale), un uomo che fa qualcosa che è già stato dichiarato vietato.
D'altra parte, però, Brand sa (come sapeva Lutero) che, senza il fuoco della predicazione e senza l'esempio di una dedizione assoluta, l'ordine sociale aiuterà ben poco gli uomini a costruire l'edificio interiore della fede. Una volta abolito il corpo della Chiesa, sono pur sempre necessari individui capaci di risvegliare e infuocare gli animi. Occorrono - in altre parole - uomini capaci di dare l'esempio.
Qui sta la contraddizione fondamentale, sul lato pratico, della concezione protestante. Dopo che la visibilità della fede è stata dichiarata nulla, torna da capo il problema: per rinviare all 'invisibile occorre qualcosa che sia, a sua volta, visibile. Questa visibilità, però, poiché la Chiesa (ossia, secondo il pensiero cattolico, un luogo fisico posto da Dio e non dall'uomo affinché la salvezza fosse sperimentabile e vivibile) non esiste più, può essere affidata soltanto allo sforzo individuale.
«Si è sempre grandi,» dice il podestà «quando si hanno forti tradizioni.» «Sì,» lo corregge Brand «a patto che queste tradizioni entrino nella nostra vita». Unire «le forti tradizioni alla vita», «la fede alla vita», «l'idea all'azione», «la vita reale con l 'ideale»: in queste formule, più volte ricorrenti nel testo, si condensa il programma di Brand. C'è un punto, nel secondo atto, in cui Brand lancia il guanto di sfida al quotidiano. Si è appena concluso il dialogo con la vecchia madre, vicina alla morte ma attaccata più che mai ai propri beni terreni. La donna gli ha chiesto aiuto, ma Brand non potrà aiutarla finché lei non rinuncerà ad ogni suo bene. La legge di Dio è ferrea: o tutto o nulla. La vecchia sente che non sarà capace di tanto e se ne va sola, senza ottenere dal figlio una sola parola di conforto.
Qui ha luogo il mutamento di rotta: è come se Brand si accorgesse del limite di una posizione come la sua, che esige un'adesione assoluta a un Dio astratto. «Non è con luminose prodezze che questa razza si potrà trasformare; non è sognando fulgide virtù che si guariscono anime traviate. Della volontà, della volontà si tratta! La volontà che ci libera o uccide, che è [...] sempre intera e salda in mezzo al rovinìo delle cose.» E conclude: «Il piccone sia nobile quanto la spada».