FERRUCCIO BUSONI

PER IL CENTENARIO DEL DON GIOVANNI
(CONTRIBUTO CRITICO)

Zum Don Juan-Jubiläum - Em kritischer Beitrag.
B1, H.145. In «Neue Zeitschrift für Musik», Lipsia, 26 ottobre 1887. Sull'argomento cfr. anche in questo volume il saggio sui rapporti fra l'opera di Mozart e la Fantasia sul «Don Giovanni» di Liszt, pag. 345.


LO SGUARDO LIETO
pp. 275-294

Mentre molti sostengono che il confine tra talento e genio sia difficile da tracciare perché non siamo in grado di cogliere il passaggio da quello a questo, altri sono convinti che talento e genio siano due cose assolutamente diverse, le quali non solo non hanno nulla in comune, ma anzi stanno tra loro in posizione contrastante, sì che bisogni guardarsi bene dal confonderle o mescolarle. Per quanto estremamente differenti, tutte le opinioni su questo problema sono di tal fatta che, di due teorie convincenti, una vince l'altra e in tutte un punto oscuro e insoluto impedisce di proseguire la ricerca. Questo punto è il modo con cui il nostro cervello agisce in genere, e particolarmente nel creare. Purtroppo bisogna accettare la supposizione che questo problema (la cui soluzione porterebbe a chiarire definitivamente il concetto di «spirito» e di quanto ne dipende) non sarà risolto, e questo mi sembra, per due motivi.
In primo luogo osservare un cervello umano in attività è impossibile (e osservare il cervello degli animali, in cui nessun processo di pensiero si sviluppa, non porterebbe ad alcun risultato); in secondo luogo non è possibile intraprendere tale osservazione spiritualmente, cioè per mezzo del proprio pensiero, perché a questo scopo vale appunto quella attività del cervello che vogliamo investigare, e in tal caso un movimento dovrebbe procedere in contrasto con l'altro, cosa che avrebbe per conseguenza una neutralizzazione dell'attività. Questo tentativo secondo me è impossibile, come è impossibile vedere il proprio occhio senza l'aiuto di uno specchio, oppure seguire su se stessi il processo dell'addormentarsi mentre ci si addormenta. Più che da questo tentativo di addurre alcuni argomenti probanti, l'impossibilità dell'impresa è dimostrata dalla posizione degli studiosi dei nostri tempi, che è quella delle ipotesi fantasiose. Del problema dell'essenza del talento e del genio ci si è occupati con giustificata fiducia di successo. Schopenhauer considera il talento un «eccesso di conoscenza», e il genio una sovrabbondanza di conoscenza di tal misura da pareggiare la potenza della volontà.

La differenza sarebbe dunque quantitativa.
Max Nordau (1) combatte questa opinione al suo modo brillante; per esempio così: «Talento è un essere che esercita attività generalmente o frequentemente praticate, ma meglio della maggioranza di coloro che hanno tentato di acquisire le capacità necessarie a praticarle; genio è un uomo che inventa attività nuove, non mai praticate prima di lui, oppure esercita capacità vecchie con un metodo suo proprio, puramente personale».

«Un can barbone che si può ammaestrare a bravure più complicate di quelle di cui son capaci altri cani è un talento...»
«Tra il talento e il genio non esiste una differenza quantitativa, ma qualitativa.»
Infine però anche Nordau deve ammettere «che la differenza si basa sulla misura diversa delle stesse qualità» e «che il Monte Bianco e un granellino di sabbia di quarzo differiscono solo quantitativamente, ma in fondo sono la stessa cosa».
Secondo Lemcke (2) ciò che permette di concludere se un artista è un talento o un genio è il modo del suo processo creativo. La teoria di Lemcke si può riassumere nei semplici concetti di spontaneità e riflessione: secondo il quale principio il raggiungimento, in arte, del nuovo e dell'originale, nella misura in cui sia attuato per mezzo della riflessione sarebbe pur sempre opera del mero talento; mentre la perfezione, anche se ottenuta con mezzi già esistenti, purché raggiunta inconsciamente sarebbe in quanto tale il segno indicatore del genio. Ma Nordau, che fa scaturire il nuovo soltanto dal genio, distingue inoltre geni dell'emozione e della cogitazione (e a questi ultimi assegna la preminenza, nominando in successione discendente condottieri, uomini di stato e legislatori, ricercatori, scopritori e inventori, pensatori e filosofi, e in seconda linea geni emozionali nell'ordine di poeti, artisti e musicisti) e con ciò la teoria della riflessione e della spontaneità quali segni distintivi del talento e del genio viene confutata a sua volta.
A mio modo di vedere un'opera d'arte in cui contenuto e forma si uniscano in uguale perfezione, sia essa nata inconsciamente o per riflessione, purché non tradisca in modo evidente la ponderazione e la lima, è sempre prodotto del genio. Lo attestano le opere di Raffaello e di Dürer, di Lessing e di Goethe, di Beethoven e di Mozart.

Tuttavia per i più il problema rimane altrettanto insoluto quanto quello, per esempio, della differenza tra il sublime e il bello. E poiché nel corso del mio saggio questi termini torneranno più di una volta, cercherò di esaminare brevemente la differenza che corre tra loro.
Il sublime è semplicemente un accrescimento del bello mediante l'ingrandimento delle proporzioni, oppure è un concetto a sé stante? Quando Lemcke nella sua estetica popolare afferma: «Il sublime è ciò che è governato da una misura le cui misure sfuggono ai nostri criteri di misurazione», risponde alla prima domanda affermativamente, in quanto per «misura» certamente intende soltanto le proporzioni della bellezza. Deve allora il sublime essere sempre bello, non potrà spesso il brutto valere come sublime?
Un temporale nello scatenamento della sua massima potenza, una valanga, persino l'incendio d'un vasto abitato possono produrre un effetto, sublime. Sebbene belle [per « bello » intenderò qui sempre la bellezza estetica] secondo i concetti degli studiosi di estetica tali cose non siano, né governate dalla misura. A queste condizioni corrisponderebbe forse lo spettacolo del mare calmo, o quello del sorgere del sole in un paesaggio alpino, mentre ad esempio certi momenti del Finale della IX Sinfonia di Beethoven sono sublimi nel senso del temporale e della valanga.
D'altra parte: davvero le misure del sublime sfuggono sempre ai nostri criteri di misurazione? Non dipende spesso dal modo piuttosto che dalla sua grandezza, il fatto che un pensiero ci appaia sublime? Nel capolavoro di Mozart le parole ammonitrici del Commendatore nella scena del cimitero, con il loro ritmo misurato e gli accordi pieni dei tromboni tra le frasi staccate del recitativo secco, traggono il loro effetto sublime dalla posizione in cui si trovano e dal contrasto che ne risulta.
Se abbiamo confrontato il carattere di Beethoven con la grandiosità di un temporale, Mozart è invece un perpetuo giorno di sole. Che questo giorno illumini una campagna ridente, il mare possente o un luogo selvaggio e roccioso, sempre è luminoso, lieto, chiaro. Se la serenità e la spontaneità devono essere i contrassegni del genio, Mozart li possedeva in pieno; e in realtà nessuno con maggior diritto può pretendere al nome di «genio», per la piena validità del quale le sue opere parlano, risuonano e sussistono con insistenza inoppugnabile.
Poste di fronte alla potenza di questa musica, al dato di fatto della sua permanente vitalità, tutte le teorie sono inutili, l'estetica è vana, il filosofare chiacchiera. Anzi queste tre cose, quanto alla musica, sono soltanto il risultato, la conseguenza, la necessità soddisfatta derivanti dalle creazioni di quel sommo, sulle quali appunto in massima parte la nostra teoria, la nostra estetica e la nostra filosofia musicali si basano.

Alla domanda ingenua e dilettantesca «quale si debba stimare il più grande dei musicisti» non ho mai risposto perché la risposta - che apparentemente si vorrebbe far consistere nella semplice enunciazione di un nome - in realtà dovrebbe estendersi alle proporzioni di una conferenza di estetica popolare. Ma se si vuole quella risposta, essa suona: «Mozart».
Nonostante l'inevitabile pericolo di dover ripetere cose sicuramente già note e accettate e lungamente confermate dal tempo e dall'esperienza, non mi posso rifiutare di tentare - per esprimermi in termini filosofici - la dimostrazione a priori di questo fatto empirico.
Il primo argomento in favore della grandezza di Mozart, finora non eguagliata da altri, è la sua versatilità. Mozart ha creato cose perfette, ha raggiunto la bellezza assoluta in tutti i campi e in tutti i rami della musica, ha saputo stabilire modelli per ogni genere musicale, è riuscito a fare qualcosa di completo e di finito di ciò che nei suoi modelli esisteva soltanto come accenno. Ha scritto musica lirica, drammatica, liturgica e pura. E compositore di musica pura è stato sempre e senza eccezioni: uno dei suoi contrassegni più importanti è appunto il fatto che la sua composizione, anche quando aderisce con mirabile fedeltà a un testo conserva tuttavia pieno valore anche come pezzo di musica.
Con le sue sonate Mozart ha ampliato la tecnica pianistica, con i concerti è stato il primo a dare l'avvio all'importanza e indipendenza odierne dello strumento; con i suoi quartetti ha introdotto profondità e sostanza nel disinvolto discorso a quattro voci delle composizioni per archi di Haydn, senza privarle per questo della loro serenità; con le sue sinfonie l'orchestra ha raggiunto la compiutezza del proprio eloquio, e la forma quel carattere monumentale che più tardi Beethoven nei suoi quattro ultimi colossi sinfonici di numero dispari, avrebbe scolpito in proporzioni gigantesche: con l'Ave Verum e con il Requiem ci ha offerto la realizzazione musicale più pura e fedele delle concezioni cattoliche della beatitudine e della morte, della resurrezione e della pena; con successo parimenti inuguagliato ha trattato infine la commedia musicale, il dramma, e, per primo, la tedesca Spieloper. (3)
Palesemente Mozart parte dal canto: da ciò deriva l'ininterrotta configurazione melodica che traspare nelle sue composizioni, come le belle forme muliebri attraverso le pieghe di una veste leggera. Si segua per esempio nelle sue partiture la seconda voce di uno dei legni: è sempre il contralto di un canto a quattro voci, subordinato quanto a registro e posizione, ma non nella condotta melodica; e appunto questo fluire del canto plasma le sue composizioni contrappuntistiche in tale leggerezza e piacevolezza, che anche nella condotta più severa, ben lontani dal percepire un lavoro faticoso, sentiamo invece la gioia e l'appagamento più puro. Ascoltate una di quelle progressioni in lui cosI caratteristiche, che sono un intreccio meraviglioso di finezza armonica, di leggerezza contrappuntistica e di articolazione melodica, e vi sentirete trasportati in uno stato d'animo a mezzo tra il riso e il pianto, che pertanto vi commuoverà e allieterà insieme. [Non occorre rimandare espressamente il lettore agli splendidi esempi del Flauto magico (ouverture, canto degli uomini armati) o al finale della Sinfonia Jupiter.]
Di pari passo con la leggerezza della realizzazione va in Mozart la leggerezza della concezione; e davvero non si finisce mai di ammirare come nel più semplice egli trascelga e colga anche sempre il più giusto.
Gli è facile, ad esempio, far spiccare l'individualità di due o anche più caratteri in un periodo ininterrotto di sedici battute, là dove con un certo sforzo altri avrebbe accatastato due o tre motivi, l'uno accanto o sopra l'altro, deturpando così l'architettura del periodo. Ricordo soltanto, per esempio, le osservazioni maligne di Don Giovanni e di Leporello inserite nella prima aria di Donna Elvira («Udisti? Qualche bella / dal vago abbandonata?» ecc.), le parole «Signorina! Signorina!», con cui le si rivolge Don Giovanni, magistralmente connesse con la coda dell'aria, il quartetto «Non ti fidar, o misera», e soprattutto l'ultima scena, in cui spesso Mozart congloba in un tutto compositivo la caratterizzazione musicale della cavalleresca tracotanza di Don Giovanni, della comica paura di Leporello e della spettrale severità del Commendatore, senza turbare il periodo.
Il dominio, il trattamento eccezionalmente bello della forma conferiscono alla sua scrittura quella particolare calma estetica che, se fosse lecito pensare a una parentela tra la musica occidentale e l'arte ellenica, potrebbe indurre a un parallelo con questa. Il paragone sarebbe confermato dall'uso di «riservare mezzi di espressione rilevanti a un momento drammatico rilevante». (Così Rietz nella Prefazione alla sua edizione del Don Giovanni). È questo un procedimento che Mozart sa impiegare con la massima efficacia: con le proporzioni regolari della forma, tanto nell'ambito dei singoli pezzi, quanto nei rapporti tra i singoli pezzi; con la costruzione architettonicamente articolata della scrittura orchestrale; infine serbando la misura della bellezza persino nei momenti della più alta tragicità e della più violenta passione, cosa che gli fu spesso rimproverata (certo soltanto da parte di cervelli limitati) come un difetto di forza espressiva, e in cui con logica tanto convincente Lessing addita uno dei pregi più notevoli del gruppo del Laocoonte.
A documentare che con il mio ardito paragone seguo l'esempio di persone più importanti e più autorevoli di me mi avvalgo di un passo della citata prefazione di Rietz. Il 29 dicembre 1797 Schiller scrisse a Goethe: «Ho sempre confidato nell'opera in musica, pensando che da essa, come dagli antichi cori delle feste bacchiche, si sarebbe sviluppata la tragedia», al che l'indomani Goethe rispose: «La speranza che Ella riponeva nell'opera, l'avrebbe vista realizzata finalmente in sommo grado nel Don Giovanni, d'altra parte però quest'opera è un caso assolutamente isolato, e con la morte di Mozart ogni prospettiva del genere è andata perduta.»

Tedesco di nascita, italiano di educazione, soggetto nella sua prima giovinezza all'influsso di un maestro di tendenza fortemente francese - Gluck - Mozart assorbì gli insegnamenti e le leggi delle tre scuole senza specialmente inclinare, nel suo modo di comporre, verso l'una o l'altra. E in seguito il suo carattere musicale sfociò in quella indipendenza e in quell'oggettività che, libere da ogni manierismo, prive di qualsiasi tinteggiatura nazionale, dovevano avere come risultato necessario la nascita di un'opera d'arte musicale assoluta la quale, incurante di differenze di lingua, di costumi e di tempi, si è mantenuta per cent'anni di tale viva freschezza presso tutte le nazioni intelligenti dell'arte, che ancora oggi offre incentivo al lavoro più fecondo e soddisfacente di esecutori, elaboratori, traduttori e studiosi, e la cui sopravvivenza è fissata per un tempo di cui, per il momento, non si vedono ancora i termini. Dedicheremo a quest'opera - il Don Giovanni - la seconda metà di questo studio critico.

* * *

«Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, Dramma giocoso in due atti. La Poesia è dell'Abbate Da Ponte, Poeta de' Teatri imperiali. La Musica è del Sig. Wolf ango Mozart, Maestro di Cap.» Questo è il titolo letterale dell'originale mozartiano.
Quel che prima di tutto ci salta agli occhi è l'indicazione «dramm giocoso»: in primo luogo per la dicitura italiana che differisce dall'usuale «opera buffa», (4) in secondo luogo per il suo rapporto negativo con il contenuto e con l'azione.
Sebbene nelle parole del testo e persino nelle situazioni del dramma l'elemento comico sia presente a sufficienza, tutta l'impostazione del libretto, e specialmente l'idea fondamentale di colpa e castigo che vi è contenuta, denotano il carattere tragico del lavoro. Anche se l'idea del castigo nel fallimento della goffa impresa di Masetto appare ridicola, anche se Ottavio non riesce a condurre in porto i suoi progetti di vendetta, che sono seri e comunque pericolosi per Don Giovanni, tuttavia il meritato destino raggiunge infine il protagonista; ed è al più grave dei suoi delitti - l'assassinio e la derisione dell'assassinato - che corrisponde la perdizione, verso cui lo trascina alla fine la sua sempre più audace tracotanza, con un crescendo veramente drammatico e che si conclude con il suo annientamento.
Anche in Shakespeare incontriamo parecchi momenti comici inseriti nella tragedia, ma le sue scene di buffoni e di tangheri non sono sempre così intimamente intrecciate con l'azione e non sempre i suoi personaggi comici stanno in un rapporto così stretto con i personaggi tragici, come la personalità e le azioni di Leporello con i personaggi del dramma di Da Ponte. Pure Shakespeare presenta esempi di questo genere e a nessuno verrebbe in mente - nonostante la prepotente personalità di Falstaff - di applicare l'attributo «giocoso» ai drammi dei re inglesi.
Degli otto personaggi dell'azione del Don Giovanni, cinque sono di carattere serio (Don Giovanni, il Commendatore, Donna Anna, Don Ottavio, Elvira), uno di genere grazioso (Zerlina) e solo due (Leporello e Masetto) destinati alla comicità. Fatta una rigida scelta, soltanto cinque dei ventisei numeri musicali dell'opera sono di contenuto prettamente comico [Precisamente «Notte e giorno faticar» (Leporello) - l'aria del catalogo, l'aria di Masetto «Ho capito, signor sì» - il duetto «Eh via, buffone» (Leporello e Don Giovanni) - l'aria di Don Giovanni «Metà di voi qua vadano»] poiché tra questi non si possono contare né il duetto nel cimitero in cui la statua scaglia il suo ferreo «Verrò», per quanto inizi con la comica paura di Leporello, né il duetto aggiunto posteriormente e regolarmente tagliato «Per queste tue manine» (Zerlina-Leporello).
Naturalmente prescindiamo dai numerosi recitativi, che di smaccata comicità ne contengono spesso anche più del necessario, ma per il carattere musicale fondamentale dell'opera non sono determinanti.
Tuttavia i due elementi, quello comico e quello tragico, nella musica di Mozart prevalgono chiarissimamente, e già l'ouverture nelle sue due parti, nettamente separate, presenta il più stridente contrasto e, se posso esprimermi cosí, scompone la designazione del lavoro summenzionata nelle sue due componenti: «dramma» e «giocoso».

Se abbiamo trovato una somiglianza con Shakespeare già nella distribuzione di tali contrasti, questo pregio risalta ancora più chiaramente se osserviamo il modellamento, la coerenza e il diverso contegno dei personaggi. La casta alterezza di Donna Anna si contrappone all'amore offeso di Elvira, appassionata e incapace di agire, e tutte e due insieme si distinguono nettamente, a loro volta, dalla grazia ingenuo-furbesca di Zerlina.
Di fronte alle tre donne trova risalto la virilità cavalleresca, «la personalità travolgente» [Così Max Kalbeck nella sua prefazione (alla sua traduzione dell'opera)] dello spensierato Don Giovanni, che persino il terribile monito della sua vittima e castigatore non riesce a piegare. Vero è che Leporello (da lepus, leporis - cioè propriamente «cuor di coniglio») si distingue dai «personaggi comici» di Shakespeare in quanto, a differenza di questi, non esprime dure verità e non dispensa sapienza sotto il manto dello scherzo e del giuoco di parole, ma piuttosto, per il modo con cui intende gli avvenimenti a cui partecipa, vi getta una luce di ridicolo. Solo una volta la verità scoppia nuda e cruda dalla sua bocca, ma non prima ch'egli abbia prudentemente provveduto alla sua sicurezza strappando una parola d'onore. [« D.G.: Orsù, spicciati presto... Cosa vuoi? / LEP.: L'affar di cui si tratta / è importante. D.G.: Lo credo. LEP.: È importantissimo. / D.G.: Meglio ancora: finiscila. LEP.: Giurate / di non andare in collera. / D.G.: Lo giuro sul mio onore: / purché non parli del Commendatore. / LEP.: Siamo soli. D.G.: Lo vedo. / LEP.: Nessun ci sente... D.G.: Via! LEP.: Vi posso dire / tutto liberamente. D.G.: Sì! / LEP.: Dunque, quand'è dosì: / (all'orecchio, ma ad alta voce) caro signor padrone, / la vita che menate è da briccone!» (I, 4).]
La figura più scialba e la sola che susciti qualche dubbio è quella di Don Ottavio, lo spasimante e indeciso fidanzato di Donna Anna. In tutta l'azione egli non ha propriamente altro da fare che consentire con lei, l'amata; egli agisce «sotto suggestione», per usare un termine fisiologico, ma questa influisce soltanto sulle sue intenzioni e non riesce a portarlo al punto di intraprendere un'azione risoluta. È Donna Anna che lo costringe a giurar vendetta, che scopre, insegue e smaschera l'assassino del padre nella sua stessa casa.
La maggior parte dei traduttori del Don Giovanni si sono onestamente sforzati di salvare questo personaggio e soprattutto due passi - pur essendo al tempo stesso i più scabrosi - hanno offerto l'occasione più favorevole di nobilitarlo in un colpo solo.
Il primo dei due passi
[Mi astengo dal riferire il corso dell'azione relativa a questi due passi, supponendola nota al lettore] costituisce la conclusione del recitativo che precede l'aria «Il mio tesoro intanto».

I. Amici miei, dopo eccessi si enormi,
dubitar non possiam che Don Giovanni

non sia l'empio uccisore
del padre di Donn'Anna. In questa casa
per poche ore fermatevi; un ricorso
vo' a far a chi si deve e in pochi istanti
vendicarvi prometto;
così vuole dover, pietade, affetto.
Al quale luogo si riferisce il secondo passo, l'inizio del recitativo prima della cosiddetta «Aria della lettera» («Non mi dir bell'idol mio»):

II. «Calmatevi, idol mio: di quel ribaldo / vedrem puniti in breve i gravi eccessi, / vendicati sarem.»
Gugler (nella sua edizione del Don Giovanni secondo l'originale, pubblicata da Leuckart) non cambia nulla del modo di agire di Don Ottavio, ma lo giustifica nella maniera seguente:

I. «Rimanete qui in casa sua, a proteggerla; perché io vado ad accusarlo di assassinio. Il sangue di quel vile non deve macchiare la mia spada, ma la sua punizione ha da compiersi.»

II. «Ho tutto disposto; non potrà pii sfuggire al castigo e già domani il suo destino l'avrà raggiunto.»

Invece A. von Wolzogen non fa esprimere a Ottavio l'intenzione di denunciare Don Giovanni alla giustizia e lascia che lo spettatore interpreti i suoi disegni come vuole.

I. «Perciò seguitela (Donna Anna) ora e aspettate presso ai lei il mio ritorno! Presto la mia vendetta piomberà sul colpevole! Ciò che tanto intensamente bramo riuscirà! Lo richiedono il dovere, l'amore, l'onore!»

II. «Oh, consólati amor mio! Ancora una volta il malfattore si è sottratto alla mia vendetta, ma la sua ora si avvicina.»

Simile, quasi identica, è l'interpretazione di Grandaur:

I. «Lasciate ch'io vi vendichi tutti senza indugio e punisca il malfattore.»

II. «Su, consólati, mia cara! Una giusta punizione colpirà presto quel ribaldo; la vendetta già pende minacciosa sul suo capo.»

Max Kalbeck ha adottato un metodo completamente diverso, e molto più felice. Nell'estirpare la malattia di cui soffre il libretto Kalbeck sembra un chirurgo che affondi energicamente il bisturi nella carne, mentre i suoi predecessori somigliano a medici di campagna che prescrivono impiastri e farmaci casalinghi.
Rinviando dunque tutti i lettori competenti direttamente al suo testo mi permetterò di citare alcuni passi della sua prefazione che si riferiscono alle citate parole di Don Ottavio.
«Per aiutare il tanto denigrato carattere di Don Ottavio a raggiungere la dignità che gli spetta, nel recitativo secco che precede l'aria della lettera mi sono permesso di scostarmi dall'originale, naturalmente senza che la pagina musicale ne fosse minimamente toccata. Secondo i concetti d'onore vigenti un Don Ottavio che si reca con passo energico alla polizia fa una figura pietosissima, si che lo spettatore indignato gli tirerebbe dietro volentieri un paio di mele marce. Fuori di scena Ottavio può essere un inattaccabile cavaliere senza macchia e senza paura - a che gli serve se non è capace di sostenere le luci della ribalta, se sulla scena ideale del suo valore si riduce a quel personaggio pietoso che siamo soliti deplorare? No, chi vuoi salvare il carattere di Don Ottavio deve affrontare questa lodevole operazione con maggior decisione e con un'energia senza riguardi.»
Kalbeck motiva qui i suoi cambiamenti molto abilmente, spiegando e seguendo le azioni di Ottavio in scena e fuori di scena, i moti del suo animo, le sue decisioni mutevoli, fino all'ultimo dei passi di recitativo citati, al quale dà la forma seguente: «Rallègrati, diletta! Ho sfidato quell'impudente briccone a battersi con me, domani ci incontriamo!». Omette invece il primo del tutto.

Tralascio tutti gli altri dubbi minori, le finezze e limature su cui i traduttori si sono affaccendati con maggiore o minore successo in questi e altri momenti del libretto. Tralascio ugualmente l'analisi del testo e mi astengo dal mettere in risalto le bellezze musicali, rinviando il lettore desideroso di notizie biografiche all'opera, quanto mai favorevolmente nota, di Otto Jahn. (5)
Diamo però ancora un po' di spazio al problema della traduzione dall'una all'altra lingua in generale e alle sue applicazioni nel caso specifico.
Le difficoltà maggiori che si presentano nel tradurre in tedesco un testo italiano scritto per la musica sono: 1. la riproduzione della bella sonorità; 2. l'imitazione di quel metro particolarmente elastico in cui - per contrazione della vocale finale di una parola con quella iniziale della seguente, o per separazione delle due - un trocheo può trasformarsi in un dattilo e viceversa. Il seguente verso, pensato in origine dal poeta come giambo di cinque piedi:

 

Più grave difficoltà si presenta ancora al traduttore quando lo stesso piede viene trattato dal compositore due volte, alternativamente come trocheo e come dattilo.
Terzo punto: la traduzione di quelle frasi (sopra tutto nella parte buffa) che sono calcolate per la lingua sciolta dei cantanti latini. In queste frasi bisogna evitare un accumularsi di consonanti e di suoni difficili (kn, schn, chs ecc.) tali da frenare la lingua. Quarto: l'impiego di suoni chiari su note acute del canto e nelle colorature. Quinto: l'adattamento delle parole, ch'è da realizzare mantenendo fedelmente il senso nelle finezze musicalmente descrittive, in cui a volte lo spostamento di una sola sillaba può disturbare.

Nelle rielaborazioni tedesche del testo del Don Giovanni posteriori a quella di Rochlitz si aggiunsero i due elementi seguenti: a) la resistenza opposta da molti incipit divenuti popolari, l'eliminazione dei quali avrebbe disorientato il pubblico borghese e il cui mantenimento, d'altra parte, non sempre era giustificabile; b) le difficoltà pratiche che s'incontrano per la scarsa disposizione dei nostri cantanti a apprendere un testo nuovo.
Per chiarire queste brevi regole con un esempio, notiamo di passaggio che l'aria del catalogo presenta nella traduzione difficoltà del terzo e del quinto genere: sopra tutto bisognava badare ad alcune singole frasi importanti e assai concise, di cui la musica di Mozart tiene conto (tutte le mie citazioni riguardano la seconda parte dell'aria): per esempio «è la grande maestosa», nella quale la musica si leva in crescendo sino ad una maestosa corona, e che finora è riuscita meglio di tutti a Kalbeck (il quale si basa sulla versione di Grandaur):

«Grosse prachtig,
Stolz und machtig,
Gravitätisch,
Majestätisch! » (6)

Mentre la maligna osservazione di Leporello, che ce lo fa balzare letteralmente davanti in atto di strizzare furbescamente l'occhio:

«Ma (7) passion predominante
è la giovin principiante»

trova l'interpretazione più pertinente in Grandaur:

«Doch wofür er immer gluhte,
ist der Jugend erste Blüte» (8)

mentre quella di Kalbeck

«Doch daneben
Junges Leben,
Maienblüte
Im Gemute» (9)

è troppo poco drastica. Ma di nuovo la chiusa:

«Voi sapete, quel che fa»

in cui così deliziosamente Mozart si copre d'un velo di discrezione, è riuscita soltanto a Kalbeck, grazie a una traduzione fedele alla lettera:

«Nun, ihr wisst ja, wie er's macht»,(10)

di fronte alla quale la circonlocuzione di Grandaur:

«Kennt ja selbst ihn ganz genau» (11)

perde di parecchio.

Rietz riporta un'antica e preziosa «deformazione» di quest'aria, un frammento della quale può ben trovar posto qui:

«Zwar die Bionden lobt er immer
Als die feinsten Frauenzimmer;
Aber die mit dunklen Haaren
Lässt er gleichwohl niemals fahren.
Ofters fragt er: Ist sie dicke?
Ofters noch: Ist sie auch flicke?
Manchmal sucht er nach der Grössten,

Doch die Kleinen sind die besten,
Auch die Alien muss ich fangen,
Im Register mitzuprangen;
Doch das meiste, was ich miete,
Ist die Jungfern in der Blüte.» (12)

Se con Max Kalbeck ho nominato sempre anche Grandaur è perché Kalbeck stesso lo definisce «l'ultimo e il più dotato dei suoi predecessori», e perché l'opera stessa di Kalbeck, come si legge nella sua prefazione, si è sviluppata da una rielaborazione del testo di Grandaur, divenendo in seguito un lavoro indipendente. Le difficoltà di traduzione di cui abbiamo parlato sono state risolte nel modo migliore appunto da Kalbeck: meritano speciale considerazione e un alto riconoscimento la sua fortunata «ricerca» di una forma poetica flessibile, affine alla musica, che nella frase legata riconosce il supporto naturale della melodia legata, e che con la ricchezza della rima tenta di sostituire quel tanto di fascino sonoro sensuale che manca alla poesia tedesca in confronto a un libretto colmo del bel suono della vocalica lingua italiana - oltre a quella trasformazione della figura di Don Ottavio, che abbiamo già ammirato.
E quanto al primo di questi non mai abbastanza lodevoli meriti parla chiaro la Canzonetta, che Kalbeck ha tradotto con cura particolare, e del cui godimento non voglio privare il lettore:

«Die Laute fleht: Erscheine, du holde Kleine
Vor Gram und Sehnsucht hier vergeht der Deine!
O, schenke Mitleid mir, erhör' meim Werben!
Denn sonst, zu Füssen Dir, siehest Du mich sterben!

Vertraue susse Kunde deinem Munde,
Dass von tödlicher Wunde mein Herz gesunde!
Du kannst nicht grausam sein, bei meinen Tränen,
Lass mich zu Dir hinein und stile mein Sehnen!» (13)

Prima di volgermi all'importante questione con cui concluderò questo saggio vorrei dare un elenco delle edizioni e delle traduzioni del Don Giovanni: ma sarà piuttosto uno sguardo d'insieme che un elenco completo.
L'autografo è in possesso della signora Pauline Viardot-Garcia. (14)

La partitura fu pubblicata per la prima volta nel 1861, secondo la copia manoscritta del Teatro di Corte di Stoccarda, per i tipi di Breitkopf e Härtel, e reca anche la traduzione di Rochlitz.
Quest'ultima era stata stampata per la prima volta nel 1840. Su queste prime edizioni Peters basò la sua edizione della partitura. Gugler e Rietz si contendono l'onore di averla pubblicata per la prima volta secondo gli autografi (Gugler presso Leuckart nel 1869 e Rietz presso Breitkopf e Härtel nel 1871). Sembra che Rietz abbia intrapreso il lavoro per primo, ma sia arrivato a stampano pni tardi. Tutti e due si distinguono per la straordinaria accuratezza e fedeltà all'originale, ma quello di Gugler anche per una veste tipografica particolarmente splendida. Tra le edizioni musicali degne di nota ricordiamo con onore quella pubblicata da Gutmann in occasione del centenario. [Don Giovanni. Opera buffa di Lorenzo Da Ponte. Libera rielaborazione dell'originale per le scene tedesche di Max Kalbeck. Musica di W.A. Mozart. Spartito per canto e pianoforte dalla partitura originale con i recitativi secchi al completo, di Joh. Nep. Fuchs. Vienna, Albert J. Gutmann (Edizione del centenario). La più recente pubblicazione di questo tipo è l'«Edition modèle» della partitura edita da Heugel, Parigi, sempre in occasione del centenario.]
Delle traduzioni citeremo:
Der bestrafte Wollustling, oder Der Krug geht solange zum Wasser bis er bricht (15) - 1789, E.G. Neefe. Die redende Statue (16) -1790, Augusta. Le traduzioni preparate per i teatri di Berlino (1790) e Amsterdam (1794). Rochlitz (1801). Il «rimpasticciamento» di Kalkbrenner per Parigi (1805; cfr. la prefazione all'edizione di Rietz). Sever (1854). Dott. W. Viol (Breslavia, Leuckart 1858). Bischoff (1858). La nuova rielaborazione di A. von Wolzogen, pubblicata in «Die deutsche Schaubuhne» (1860, fasc. 9), con la completa disposizione scenica. (La ristampa dell'originale di Da Ponte, pubblicata da Sonnleithner nel 1865). Bitter (1866). Mode (1868). Gugler (1869, sulla base del testo di Wolzogen). Th. Epstein (1870). La redazione di Rietz (1871). Niese (1874). Grandaur (1871, 1874 e 1882, presso Ackermann, Monaco), H.M. Schietterer (Don Juan oder Der stejnerne Gast) (17) e finalmente Max Kalbeck (1886, 1887).
Vengo ora a quel problema che tanti animi musicali ha già messo in agitazione, dando da pensare a più di un attento studioso: il problema dell'autenticità dei tromboni nel Finale secondo.
Due critici tra i più coscienziosi, esperti e autorevoli, Gugler e Rietz, che con uguale diligenza hanno saputo approfondire la questione, e con uguale tenacia penetrare nello spirito dell'opera mozartiana, su questo punto discordano. Ognuno dei due possiede forti motivi e più di un'ottima prova a sostegno della propria opinione, ma nessuno è in grado di sconfiggere l'altro. Sul quale punto il lettore non potrà rimanere in dubbio, purché segua le loro dimostrazioni.Le conclusioni di Gugler suonano: 1. «I tromboni nel finale sono un'aggiunta posteriore, nelle prime esecuzioni di Praga non esistevano ancora.» 2. «La congestione che deriva da questa aggiunta in generale, e in particolare il trattamento dei tromboni, non si accorda alla scrittura mozartiana ma piuttosto la contraddice, anzi va contro ogni sentimento musicale raffinato, e per vari aspetti così fortemente che un'origine mozartiana dell'aggiunta non è credibile.» 3. «Se si potesse dimostrare che i tromboni erano presenti già alla prima esecuzione viennese, e dunque sono stati ficcati nell'orchestra (da Siessmayr?) (18) a conoscenza di Mozart, allora Mozart li avrebbe non già chiamati in causa lui stesso ma solo indulgentemente tollerati; e ciò non muterebbe nulla al fatto che il finale ne scapita. Comunque, fino a prova contraria rimane di gran lunga più verosimile che i tromboni siano stati aggiunti dopo la morte di Mozart.»
«Nella prima copia della partitura di Praga sono aggiunti in appendice le trombe e i timpani del secondo finale, ma non i tromboni: se questi fossero già esistiti, perché siano stati omessi nell'appendice non si spiegherebbe.» «Se il finale a Praga non aveva ancora i tromboni, questo sarebbe assai significativo, anche a prescindere totalmente dal problema dell'autenticità, perché, se anche Mozart li avesse aggiunti in seguito per il pubblico viennese, tuttavia non li aveva in mente nella concezione originale della sua opera.» - Così Gugler.

Rietz scrive: «Le trombe, i timpani e i tromboni mancano. A proposito di questi ultimi B. Gugler ha pubblicato una ricerca molto particolareggiata («Algemeine musikalische Zeitung») 1867, n. 1/3) il cui risultato egli riassume nelle seguenti proposizioni» (e qui riporta le citate proposizioni conclusive 1, 2, 3 di Gugler). «Gugler dichiara insufficiente, a dedurre l'autenticità dei tromboni, l'assicurazione da me resa alla redazione dell'«Allgemeine musikalische Zeitung» subito dopo la comparsa del saggio citato (1867, n. 4) di aver visto e avuto più volte in mano presso il consigliere di corte Anton André ad Offenbach (19), nel 1834 e nel 1836, il foglio con i tromboni espressamente scritti; ed egli non rinuncia al sospetto che Süssmeyer (Rietz scrive Süssmeyer, non Siessmayr) ne sia l'autore, dato che la grande somiglianza tra la calligrafia di Süssmeyer e quella di Mozart è ben nota».
Le prove addotte ora da Rietz sono di natura puramente artistica e sebbene in quanto tali pienamente giustificate e in grado di ottenere il consenso di ogni buon musicista, tuttavia non posseggono un carattere sufficientemente positivo e basato su dati di fatto. Colpisce però che Rietz, al contrario di Gugler, affermi «che la vecchia e tanto citata copia di Praga, riproduzione tanto fedele dell'autografo quanto si può richiedere da un copista salariato, contiene i tromboni»!
Se esaminiamo le asserzioni dei due autorevoli scrittori, alla proposizione di Gugler «che il trattamento dei tromboni non corrisponde alla scrittura di Mozart», si potrebbe anzitutto ribattere che Mozart ci ha lasciato per trombone un numero troppo piccolo di passi perché si possa dedurne il suo modo di scrivere per questo strumento, e stabilirne una regola. La sua opinione che questo trattamento vada «contro ogni senso musicale raffinato» è di natura puramente soggettiva e quindi non può essere determinante. Inoltre le due dichiarazioni a proposito del manoscritto di Praga non concordano e l'ostinato puntare sulla somiglianza tra la calligrafia di Süssmeyer e quella di Mozart non convince affatto.
Quanto all'affermazione che nella concezione originale della sua opera Mozart non aveva in mente i tromboni, essa può restar confutata da un semplice dato di fatto, in base al quale la questione dovrebbe addirittura aver trovato la sua soluzione. Come si sa, nel recitativo secco della scena del cimitero sono inseriti due passi in adagio, nei quali la voce del Commendatore interrompe la frivola conversazione di Don Giovanni con Leporello; e questi due periodi sono accompagnati da due oboi, due clarinetti, due fagotti, gli archi bassi e tre tromboni. Ora Rietz e Gugler concordano nell'asserire che nell'autografo manca tutto il recitativo, insieme con i passi che lo accompagnano. Ma è curioso che sull'auterticItà di questi tromboni non sia venuto in mente di elevare obiezioni o dubbi a nessuno dei due, né a nessun altro mai.
Si è invece ritenuto, e a ragione, che il passo andasse perfettamente, e all'inizio di questo saggio ho tentato di dimostrare con quale maestria il suo effetto sconvolgente è concepito e calcolato.
Non è forse evidente che l'impiego dei tromboni in questa scena è la prova decisiva che Mozart ha pensato di affidare la caratterizzazione speciale dell'apparizione del Commendatore, appunto ai tromboni, e non è coerenza artistica evidentissima, e appropriatissima logica, che essi accompagnino sempre quest'apparizione, e perciò tornino anche alla fine? Per concludere si potrebbe citare ancora una frase di Gugler che suona: «Nell'autografo non ci sono tromboni: e mancano anche le trombe e i timpani». Confrontata con l'assicurazione di Rietz che la copia di Praga contiene i tromboni, questa frase dà un secondo risultato favorevole alla loro autenticità.
Come italiano, infine, devo constatare il triste fatto della scomparsa del Don Giovanni dal repertorio italiano. La ragione può essere anzitutto la graduale estinzione delle buone voci (che nel Don Giovanni sono necessarie in numero notevole) e d'altra parte la diminuzione della sensibilità schietta del pubblico. Colà questa musica si giudica invecchiata e infantile. Io piuttosto trovo il gusto rovinato e la capacità di comprendere diminuita. Colà bisognerebbe ricordare alla gente la confessione di Lessing che dice, seppure con altre parole: «Ho imparato a riconoscere che se qualcosa non mi piace in Omero la colpa non è di Omero ma mia ». Con ragione del resto Schumann afferma: «Forse solo il genio capisce completamente il genio», e chissà quanto c'è ancora, nel Don Giovanni, che non siamo in grado di afferrare e di cui forse un giorno un nuovo genio ci darà la chiave! Ma nell'attesa non diminuiamo i nostri sforzi per trovare noi stessi un nuovo godimento, un continuo arricchimento delle nostre conoscenze, una nobilitazione del nostro gusto nelle opere di quel maestro dei suoni, fonte di beatitudine inesauribile, che ha soddisfatto i migliori del suo tempo e ha vissuto per tutti i tempi. (20)


(1) Max Nordau, pseudonimo di Max Simon Südfeld (1849-1923), scrittore e giornalista d'indirizzo positivistico, che combatté quasi ogni altra tendenza culturale del tempo come dogmatica (misticismo, idealismo, decadentismo, Wagner, Nietzsche, ecc.).

(2) La Populäre Asthetik di Karl Lemcke, pubbl. a Lipsia nel 1865 e oggi affatto dimenticata, fu ai suoi tempi assai diffusa, più volte tradotta, e arrivò nel 1890 alla VI ed. (col titolo Asthetik in gemeinverstandlichen Vortragen, 2 voll.).

(3) E il termine con cui si designa nell'Ottocento il Singspiel (cioè l'opera tedesca mista di canto e di dialoghi parlati) di genere comico; perciò Mozart non può citarsi in proposito che a titolo di precursore (Busoni pensa probabilmente al Ratto al serraglio, 1781).

(4) In realtà «dramma giocoso» non è che uno dei tanti termini con cui indifferentemente si designava, nel Settecento e oltre, quel genere di teatro musicale italiano, definito da caratteristiche di forma, stile e contenuto ben precise (presenti anche nel Don Giovanni) che noi astoriograficamente chiamiamo opera buffa (termine viceversa non frequente nei libretti del tempo); e dove «dramma» denota genericamente un'azione teatrale qualsiasi, senza alcuna connotazione «seria». Che dunque con la locuzione «dramma giocoso» gli autori del Don Giovanni intendessero additare quel dualismo tra «serio» e «comico» che Busoni riscontra nella loro opera, è da escludere nel modo più assoluto; e pensare il contrario era possibile soltanto in un'epoca in cui non solo un compositore e pianista di appena ventun anni come Busoni, ma la massima parte dei musicologi di professione non conosceva, dell'opera del Settecento, se non alcune vette isolate. È anche da ricordare, per intendere l'opinione di Busoni sul ruolo minore che il comico sosterrebbe in quest'opera, che per tutto l'Ottocento (e ancora sotto la bacchetta di Mahler) nei teatri dell'area germanica l'opera terminava, salvo ben rare eccezioni, con lo sprofondare di Don Giovanni nelle fiamme infernali (che infatti Busoni chiama «l'ultima scena»), con soppressione delle scene successive: deformazione di grandissimo peso che invece Busoni, così attento a discettare sulle sottili varianti verbali introdotte dai traduttori in un paio di battute di Don Ottavio, significativamente non menziona affatto.

(5) W.A. Mozart, Lipsia, 1856-59. la biografia fondamentale: più volte ristampata nell'Ottocento (infine con aggiornamenti postumi di H. Deiters), è stata poi interamente rifatta da Hermann Abert, ivi 1919-21, ultima ed. 1923-24, rist. nel 1955.

(6) «Grande, splendida, / fiera e possente, / impettita, / maestosa».

(7) In realtà non «Ma» bensì «Sua».

(8) «Ma ciò per cui sempre arde / è la giovenpi in fiore».

(9) «Ma accanto a questo / la giovinezza, / fiore di maggio / nell'animo.»

(10) «Ben sapete come fa.»

(11) «Lo conoscete molto bene da voi.»

[12.] «Certo loda sempre le bionde / come le più belle, / ma non per questo / si lascia sfuggire le brune. / Spesso chiede se è grassa, / ma spesso anche se è magra. / Qualche volta cerca quelle alte, / ma le migliori son quelle piccole, / e anche le vecchie devo accalappiare / per farne sfoggio nel catalogo; /ma il meglio ch'io gli procuro / è la vergine in fiore.»

(13) «Il liuto implora: appari, piccola mia soave! / Di cruccio e nostalgia colui ch'è tuo vien meno! / Abbi pietà di me, la mia richiesta ascolta / se non vuoi che ai tuoi piedi io cada morto! / La dolce nuova affida alla tua bocca, / ché della ferita mortale sia risanato il mio cuore. / Non puoi esser crudele alle mie lacrime, / lasciami entrare da te, acqueta la mia brama!»

(14) (1821-1910), la celebre cantante figlia del tenore Manuel Garcia (il primo Figaro di Rossini), sorella di Maria Malibran e di Manuel Garcia figlio, massimo didatta di canto del secolo. L'autografo, incompleto, si trova ora alla Bibliotèque Nationale di Parigi, e il suo facsimile è in commercio.

(15) «Il Dissoluto punito ossia Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.»

(16) «La Statua parlante.»

(17) «Don Giovanni ossia Il convitato di pietra»

(18) In realtà il nome dell'allievo di Mozart, rimasto famoso per aver compiuto il suo Requiem, era Franz Xaver Süssmayr. Sia Busoni che Rietz (cfr. poco oltre) ne danno grafie errate.

(19) Johann Anton André (1775-1842), compositore ed editore, dopo la morte di Mozart acquistò i suoi manoscritti in possesso della vedova, e ne pubblicò un catalogo tematico.

(20) «Ha soddisfatto» ecc.: la frase è di Schiller, Prologo del Campo di Wallenstein.