ARMANDO PLEBE

NIETZSCHE VOLGARIZZATO

Se nel decennio 1860-70 il fatto che un biologo come Darwin sostenesse la derivazione dell'uomo dalla scimmia aveva potuto costituire scandalo, appena vent'anni dopo lo scandalo darwiniano appariva cosa da nulla al confronto dei ben più sconvolgenti attacchi al senso comune che venivano susseguendosi. E bensì vero che all'epoca dell'«affare Darwin», Stuart Mill aveva detto che “la filosofia è lotta contro l'abitudine”; ma il modo in cui pensatori come Darwin, Mill, Spencer lottavano contro la maniera abituale di pensare restava ancora nei quadri di un pensiero ordinato, che rispettava le norme consuete di coerenza. Ma, a partire dal capolavoro di Friedrich Nietzsche, Così parlò Zaratustra (1884), si può dire che la filosofia diventa “lotta contro l'abitudine” in un senso ben più radicale: nel senso cioè di sconvolgere radicalmente tutta la maniera consueta di pensare, compiendo quella che Nietzsche definiva l’«inversione di tutti i valori» (Umwertung aller Werte), cioè il capovolgimento di ogni criterio di valutazione, per cui quello che tradizionalmente era buono diventa cattivo e viceversa. Si può dire che a partire da Nietzsche l'esaltazione dell'assurdo divenga un atteggiamento obbligato che s'accompagna costantemente alla storia del pensiero sino ai giorni nostri, così come alla letteratura, al teatro, all'arte: tanto che oggi, dopo almeno ottant'anni di filosofia dell'assurdo e di letteratura dell'assurdo, può esser più facilmente oggetto di meraviglia e di scandalo se appare una filosofia della coerenza che non se appare un'ennesima teoria dell'assurdità universale.
All'epoca di Nietzsche, però, questa tendenza non era ancora una moda sbiadita per l'uso e l'abuso, e Friedrich Nietzsche (1844-1900) fu certamente un grande iniziatore di questa grande svolta del pensiero che avviene a fine Ottocento. Dopo aver esordito come professore di filologia classica a Basilea dal 1869 al 1879, Nietzsche lasciò l'insegnamento per seguire una vita disordinata di viaggi in Svizzera e in Italia, tormentato da una malattia che lo condusse alla pazzia nel 1889. Le sue opere sono capolavori non soltanto della storia del pensiero, ma anche della storia della letteratura; e la sua visione del mondo, anche se è talmente esasperata da non poter essere quasi mai convincente, tuttavia è così ricca di umanità, di cultura (non soltanto greca, ma anche moderna: Nietzsche era studioso appassionato di Schopenhauer e attento e spietato critico di tutto l'illuminismo francese e dell'idealismo tedesco) e di arte (Nietzsche esordì come ammiratore di Wagner) che la lettura dei suoi libri risulta sempre avvincente.
Nota dominante degli scritti di Nietzsche è quello stesso gusto proibito che già aveva animato un secolo prima le opere del Marchese de Sade. Ma al di sotto di questo gusto del proibito sta in entrambi la radicata convinzione che la vita sia essenzialmente un'esplosione di potenza e di attività, per cui quanto più uno è potente e attivo tanto più è vitale; e che invece il sentimento, soprattutto nelle forme dell'amor del prossimo, della ripugnanza per il delitto, della compassione, non sia altro che una manifestazione di debolezza. Il lettore del secondo volume della nostra Storia ricorderà come per Sade l'individuo virtuoso si identificasse con l'individuo 'indolente e inattivo', il quale era quindi da lui considerato 'il più riprovevole' di fronte alla natura. Nietzsche, che pur non conosceva Sade, esalta in maniera analoga quella ch'egli denomina la volontà di potenza, cioè il prorompere di una volontà prepotente e sopraffattrice, caratteristica degli uomini forti, ch'egli identifica con la vita:

Pretendere dalla forza che essa non si manifesti come forza, che non sia volontà di sopraffare, di abbattere e di dominare, sete di nemici, di resistenza e di trionfi sarebbe tanto assurdo come chi volesse che la debolezza si manifestasse come forza.

Con un'immagine semiseria Nietzsche raffigura la personificazione dell'ozio nel diavolo della teologia, e sostiene che Dio stesso diventi diavolo allorché si stanca della sua attività e resta inoperoso:

Teologicamente parlando fu Dio stesso che, finito il suo lavoro e assunta la forma di serpente, si mise ai piedi dell'albero della conoscenza: così si riposò dell'esser Dio... Il diavolo non è altro che l'ozio di Dio, ogni sette giorni.

Naturalmente, il vero Dio non può essere, per Nietzsche, quello del cristianesimo o delle altre religioni praticate, in quanto sia il cristianesimo che le altre religioni condannano la prepotenza ed esaltano l'umiltà. Per Nietzsche il Dio di tali religioni ormai “è morto”, mentre l'unica divinità che s'identifica con la vita è l'antico Dioniso, che esprimeva quello che Nietzsche denomina il 'grande circolo' e 'l'eterno ritorno' alla vita, cioè l'eterna alternanza della nascita con la morte, che egli denota simbolicamente con la figura dei serpente attorcigliato su se stesso. E siccome il serpente è la figura impiegata tradizionalmente dalla teologia cristiana per designare il diavolo, Nietzsche intende con essa fare dell'antico diavolo, simbolo del peccato e del proibito, la nuova divinità: se da un lato il diavolo, nel suo aspetto passivo, è l'ozio del Dio tradizionale allorché cessa la sua attività, d'altro lato, siccome il Dio tradizionale per Nietzsche è morto, il diavolo, o, com'egli lo definisce (e definisce se stesso), l'Anticristo, risorge a nuova divinità come simbolo di un'attività meramente vitale, al di sopra dei vincoli della morale.
Uno dei massimi romanzieri del Novecento, Thomas Mann, volle riprodurre, nel suo romanzo «Doktor Faustus», la vicenda umana e filosofica di Nietzsche immaginando che il suo protagonista, Adrian Leverkühn, ammalatosi anch'egli per un'infezione venerea e avviandosi a poco a poco verso la pazzia, sfrutti il suo lento cammino verso la pazzia allo scopo di creare un'arte disumana (che nella fattispecie è la musica dodecafonica) e tragga impulso da ciò proprio con lo stringere un patto col diavolo, alla maniera del Faust della leggenda. E il diavolo descritto da Thomas Mann è proprio il diavolo di Nietzsche, che esige dai suoi adepti soprattutto una cosa: il non lasciarsi trascinare dal sentimento; si veda appunto la condizione che egli pone al patto con Adrian Leverkühn:

L'amore ti è vietato in quanto riscalda. La tua vita dev'essere fredda, perciò non devi amare alcuna creatura umana... Freddo ti vogliamo, tanto freddo che le fiamme della produzione basteranno appena a scaldarti.

Così dipingendo, in via romanzesca, la figura di Nietzsche come l'espressione della disumanità, Mann non andava lontano dal vero. Nietzsche stesso, infatti, finì col denominare 'superuomo' (Übermensch) l'ideale di individuo da lui teorizzato come al di sopra dei sentimenti che legano fra loro gli uomini, indicando con tale termine ch'egli intendeva ripudiare i sentimenti umani insiti in ogni individuo e porsi “al di sopra” di essi. La teorizzazione del 'superuomo' fu realizzata da Nietzsche nella sua opera principale, Così parlò Zaratustra, nella quale egli, rievocando la figura del mistico, antico sacerdote persiano, si esprime in termini sacrali e in un linguaggio metaforico e arduo a intendersi. In tale libro Nietzsche scrive appunto che “l'uomo è una corda, tesa tra il bruto e il superuomo”.
La teoria dei 'superuomo' costituì un precedente pericoloso, e di questo l'umanità non può certo esser grata a Nietzsche: il miraggio del sentirsi 'al di sopra' degli altri, ai di fuori delle comuni norme della convivenza civile sarà uno dei veleni più dannosi che intossicheranno il mondo del primo e soprattutto del secondo Novecento, a partire dalle fazioni politiche ispirate alla violenza degli 'exlege' sino a giungere al fanatismo spicciolo per i supermen dei fumetti infantili e non infantili. Tuttavia v'è pure un altro aspetto dell'immoralismo di Nietzsche, che trae invece le sue radici da un'acuta analisi dei comportamenti umani, e che costituisce tuttora una diagnosi importante, i cui sviluppi saranno talora assai positivi e di notevole peso nell'etica novecentesca: cioè la sua teoria del risentimento. Il 'risentimento', ovvero quello che Nietzsche denomina pure come 'la morale degli schiavi' è l'atteggiamento di quei deboli, o incapaci, o falliti, i quali anziché desiderare di riscattarsi, cercano di ostacolare la libera attività di chi è forte e capace, condannandolo attraverso una morale ispirata all'istinto di vendetta contro i forti e i capaci. Ricordando ciò che non ha fruito in passato e presagendo di non fruirne mai in avvenire l'uomo dal temperamento di 'schiavo' condanna le virtù attive che sorgono dall'accettazione della vita ed esalta soltanto le virtù passive, quali la rassegnazione, la pazienza, la diligenza, la compassione:

Lo schiavo guarda con occhio torvo le virtù del potente: egli è diffidente e sospettoso, ed è raffinato nella diffidenza contro tutto quello che dai potenti è rispettato e tenuto in conto di 'buono': egli vorrebbe illudere se stesso sforzandosi a credere che anche la felicità di cui essi godono non sia autentica. Invece farà risaltare e metterà in luce le virtù adatte a rendere sapportabile l'esistenza dei reietti; per cui terrà in onore la pietà, [...] la pazienza, l'assiduità, l'affabilità.

Vi è, in questa denunzia della morale del risentimento, un indubbio fondo di verità. Troppe volte la morale si è indirizzata sostanzialmente a predicare la rinunzia all'azione anziché incoraggiare gli uomini ad agire. E il rifiutare la 'morale della rinunzia' comporta sovvertire davvero molti valori tradizionali, come era negli intenti dell' 'inversione dei valori' auspicata dallo Zaratustra di Nietzsche:

chi vuoi essere un creatore nel bene e nel male, dev'essere prima un distruttore e spezzare dei valori.

Senonché il distruggere per il distruggere è ingenuo e sterile tanto quanto quel conservare per il conservare, tipico della 'morale della rinunzia' contro cui combatteva Nietzsche. E il gusto gratuito del distruggere è appunto il limite del pensiero di Nietzsche, scintillante e geniale nelle sue denunzie demolitrici, ma alla fine ingenuo nel significato ch'egli dà alle sue distruzioni. In tal senso appare quasi un'illuminata autocritica la teoria delle 'tre metamorfosi' che Nietzsche avanza nel suo Zaratustra. In essa egli auspica il passaggio dell'uomo dallo stadio del cammello a quello del leone e infine a quello del fanciullo. Lo stadio del cammello è quello tradizionale dello spirito pigro, la cui virtù essenziale è l'obbedienza; ad esso subentra, nella metamorfosi che Nietzsche intendeva promuovere, lo stadio del leone, che rappresenta la libertà negativa del coraggio di dir di no. Ma, per Nietzsche, lo stadio del leone non è quello conclusivo: ad esso deve subentrare uno stadio finale in cui l'individuo 'oblia' le sue precedenti debolezze e comincia una vita autentica con la purezza del fanciullo. La psicanalisi chiarirà molto di quest'inconscia metamorfosi, auspicata da Nietzsche, del distruttore nel fanciullo; ma forse ad essa non fu estranea, già nella sua formulazione originaria, un'oscura consapevolezza, da parte di Nietzsche, del carattere infantilistico dello spirito puramente distruttore, alla vigilia del nostro secolo, tanto tormentato.