HANS PFITZNER
PERICOLO FUTURISTA
(A proposito dell'estetica di Busoni)

Stephen McClatchie
Hans Pfitzner's Palestrina and
the Impotence of Early Lateness


HANS PFITZNER GESELLSCHAFT

Ricordo ai lettori che il compianto Sergio Sablich, con esemplare generosità, mi permise di adoperare le pagine del suo libro su Busoni in tutta libertà. La FERUCCUIO BUSONI WEBSITE è anche a Lui dedicata.

Hans Pfitzner (1869-1949) pubblicò questo pamphlet contro l'Abbozzo di una nuova estetica della musica di Busoni (di cui, si ricorderà, nel 1916 era uscita presso l'Insel Verlag di Lipsia una ristampa riveduta e ampliata) nel 1917, per le edizioni dei Süddeutsche Monatshefte di Monaco. In quello stesso anno, sempre a Monaco, ebbe luogo la prima rappresentazione del Palestrina, l'opera di Pfitzner più autobiograficamente impegnata a salvaguardare la musica dalle nuove correnti dell'avanguardia tedesca, apertamente accusate di futurismo.
Ne nacque una polemica accesa che andò ben oltre l'attacco personale e frontale in essa contenuto. Busoni, pur amareggiato per il carattere della contestazione, rispose con una lettera aperta di tono assai conciliante e misurato, che apparve sulle colonne della «Vossische Zeitung» di Berlino il 3 giugno 1917. In essa, oltre a negare ogni relazione con il movimento futurista, Busoni ribatte colpo su colpo alle principali accuse di Pfitzner, ribadendo i cardini, evidentemente fraintesi, della propria poetica. «Io sono un adoratore della forma!», scriveva fra l'altro; «Sono rimasto sufficientemente latino per questo. Ma esigo - anzi lo esige il carattere organico dell'arte - che ogni idea si crei la sua propria forma da sé il carattere organico, non io, si ribella contro la rigidità di un'unica forma per tutte le idee: già oggi, quanto più nei secoli venturi!». Si veda questa "Lettera aperta a Hans Pfitzner" in Lo sguardo lieto cit., pagg. 109-11. (Sergio Sablich)

 ***

Dio me ne scampi!,
Eh via! La vecchia moda
usata a generare,
la dichiariamo adesso
una insipida farsa:
e nulla più.
[Goethe, Faust, parte II,
atto II, vv. 6838-39]

 

Ferruccio Busoni, mirabile virtuoso di pianoforte e mente versatilissima, ha di recente presentato al pubblico un Abbozzo di una nuova estetica della musica. L'opuscolo che reca questo titolo ambizioso conta appena quarantotto pagine a stampa in ottavo, può essere acquistato a poco prezzo (è uscito nella collana da cinquanta centesimi della casa editrice Insel di Lipsia) e tanto l'autore quanto l'editore sono famosi e popolari in Germania; posso perciò presumere che le idee in esso espresse siano note alla maggior parte dei lettori che vorranno prestare attenzione alle considerazioni esposte qui di seguito, e che io possa far riferimento senz'altro al contenuto dell'opuscolo.
Neppure per me è facile scoprire la ragione che mi spinge a parlarne. In fin dei conti bisognerà concludere che è mio desiderio farlo. Di per sé uno scambio di idee fine a se stesso è certo un piacere, ma soltanto quando esiste un certo accordo sui principi di fondo e soprattutto quando questo scambio di idee avviene a voce e nasce per caso in un'atmosfera favorevole tra persone che hanno interessi intellettuali comuni. Qui non si tratta però di questo raro piacere. Se io con ciò ammetto fin dall'inizio che non concordo con il contenuto dell'opuscolo di Busoni, non bisogna dedurne che mi propongo di controbatterlo o di confutarlo. Per diversi motivi: le polemiche in campo estetico non approdano mai a niente; e poi perché imbarcarsi in una polemica (almeno per iscritto) se non ci se ne aspetta alcun risultato pratico? Inoltre l'oggetto del contendere non offre appigli a vere e proprie confutazioni o controprove, giacché mancano tesi di natura concreta. Quel che nel volumetto si può per così dire cogliere, e su cui si può intervenire, sono solo numerosi argomenti secondari che esulano dal problema definito da Busoni, già nella prima pagina del libro, «assai grande», e che egli propone «con apparente disinvoltura». Quanto al resto le sue enunciazioni si riducono a profezie e sogni di sviluppi non ancora esistenti, ad annunci di teorie musicali parimenti futuriste, che dovrebbero portare a quegli sviluppi, e, naturalmente in stretta relazione con tutto questo, al rifiuto, piuttosto accennato che espresso in modo chiaro, di tutto quanto è esistito finora. Non ho dubbi che Busoni sia il portavoce di un gran numero di personaggi moderni i quali simpatizzano con le sue idee e le sue opinioni. Io però non sono affatto d'accordo e, se sostengo tutto un altro ordine di idee, non spero certo con questo di far mutare opinione anche a una sola di quelle persone, né di convincerla. In fondo si tratta di una questione di simpatia, e anche nel caso di problemi più semplici è raro che gli uomini si lascino convincere contro le loro inclinazioni, perfino dalle proprie stesse esperienze, fatti e osservazioni; quasi mai poi da ragioni addotte da altri. Altre forze che lo spirito umano tracciano il corso del mondo. Ciononostante credo però anche che molte persone concordino piuttosto con la mia visione delle questioni prospettate da Busoni. A queste non sarà forse sgradito apprendere qualcosa che segue la loro stessa tendenza; o forse mi sbaglio. Ma voglio tentare, mi va di farlo.
L'impressione generale che si ricava dalla lettura dell'opuscolo è in primo luogo che in musica, da che mondo è mondo, non è stato fatto ancora nulla. Soltanto un futuro ancora molto lontano, che nessuno di noi vedrà, porterà se mai a una fioritura, «forse la prima nella storia musicale dell'umanità» (alla lettera, fine di pagina 35, inizio di pagina 36). Fino ad ora abbiamo tutti balbettato, poveri barbari dell'età della pietra, in un mondo desolato, primitivo; e non siamo neppure un primo stadio sui quale possa costruirsi il futuro, insospettato splendore dell'evoluzione della musica, al contrario, anzi: soltanto quando avremo estirpato alle radici e annientato tutto, o quasi, ciò che abbiamo raggiunto finora - il nostro sistema musicale, le nostre forme musicali, il ricordo dei nostri Maestri, i nostri strumenti musicali - soltanto allora ci sarà una speranza che sorga un inizio. Quale potrà essere l'aspetto, anche approssimativo, di questo futuro, di ciò, naturalmente, nel libro non si trova traccia. Tutt'al più, fra le righe del libro o al di là di esso stesso, da quanto si conosce della personalità di Busoni, si può intuire in quale direzione vadano le sue simpatie. In tutte le quarantotto pagine del libro non si trova dunque una sola tesi afferrabile o almeno qualche cosa di simile a una legge estetica: in breve, niente di concreto in questa direzione. Nelle ultime pagine, da 36 a 46, troviamo una specie di enunciazione di una nuova teoria delle tonalità, che però non è, né vuole essere, qualcosa di più di una indicazione. Senza alcun ordine nel corso di tutto il libro sono toccati temi che poco o nulla hanno a che vedere con quel «problema assai grande» che l'autore evidentemente sente come contenuto fondamentale delle sue annotazioni (le quali, come egli stesso ammette, «nella forma letteraria si presentano alquanto slegate fra loro»). Se dunque vogliamo esaminare più da vicino questo Abbozzo di una nuova estetica della musica, la cosa migliore da fare sarà seguire l'autore nei suoi salti e nelle sue piroette.
Anzitutto è lecito chiedersi, benché a mio parere sia questione di importanza secondaria, se il titolo del libro sia ben scelto e se corrisponda al suo contenuto; giacché a me sembra che, se ciò che Busoni sogna si avverasse, non si tratterebbe di una nuova estetica della musica ma di un'arte del tutto nuova, un'arte che, a parte le vibrazioni dell'aria, non avrebbe nulla, proprio nulla in comune con ciò che finora abbiamo chiamato musica. Per estetica intendo una dottrina dei bello. I concetti di questa dottrina debbono pur venir dedotti da qualche cosa che esiste, o almeno da qualche cosa che si possa rappresentare. Come ho già detto, nel libro, prescindendo da alcuni temi minori collaterali, di concreto si trova soltanto la negazione di tutta quanta, si può ben dire in blocco, la pratica musicale fino ad oggi: quel che rimane è l'annuncio di un futuro ignoto «X». E non viene neppure fatto il tentativo di dare un'immagine afferrabile, o almeno un'indicazione concreta, di come debba esser costituito questo futuro «X». Soltanto a pagina 28 si propone qualcosa che dovrebbe forse dare un'idea della «nuova estetica». Vi si distingue «sentimento come gusto - come stile - come economia», e poi di seguito: «Ognuno un tutto, e ognuno un terzo del tutto. E in essi e sopra di essi regna poi una trinità soggettiva: il temperamento, l'intelligenza e l'istinto dell'equilibrio. Questi sei elementi conducono una danza così sottilmente ordinata nel loro appaiarsi e intrecciarsi, portare e venir portati, farsi avanti e trarsi indietro, muoversi e arrestarsi, quale è impossibile immaginarsi più ingegnosa». Superato il primo momento di vertigine, ho tentato onestamente di farmi un'idea di questo calcolo e di questo processo; purtroppo non ci sono riuscito; ad ogni modo di tutto il nostro patrimonio musicale non darei neanche un valzer di Lanner in cambio di questa danza promessa. Pretenderei garanzie più reali. Nemmeno quegli accenni di nuovi sistemi tonali che si trovano nelle ultime pagine possono far parte dell'estetica in senso stretto. Essi appartengono alla teoria musicale.
Ciò che nelle prime due pagine vien detto sulle arti non è nuovo ed è stato detto e scritto già varie volte. Che fra tutte le arti la musica occupi una posizione a sé e che questo problema sia oggetto di riflessione continua da parte di tutti coloro che si occupano d'arte e che pensano, è evidente. Sebbene nel complesso si possa concordare con la formulazione che vi si trova esposta riguardo alla materia e ai compiti delle altre arti, vorrei osservare di passaggio come la nostra epoca, con la sua notevole intemperanza, tenda a cancellare e a travalicare i confini delle singole arti ed esprima quindi anche punti di vista i quali rifiutano quelle definizioni in cui la pittura e la poesia (per nominare solo queste due) vengono contrapposte alla musica per il loro rapporto con la natura; in altre parole, i Busoni della pittura e della poesia negheranno anch'essi i limiti posti a queste arti. «Di fronte a loro [alle altre arti]», continua l'autore, «la musica è come un bambino». Un fanciullo prodigio senza dubbio, eppure un fanciullo assai piccolo che ha ancora davanti a sé la vita vera e propria. Una volta Wagner ha fatto un preciso paragone fra la musica e la donna [Opera e dramma, parte I, cap. VII]. Questi due paragoni mettono bene in luce la differenza fra punto di vista storico (Busoni) e filosofico (Wagner). Ma seguiamo qui Ferruccio Busoni e vediamo che cosa ne sarà di questo bambino. Quando a pagina 7 Busoni definisce la musica occidentale un fanciullo prodigio, dice ancora troppo poco per la sua concezione. Si dovrebbe dire piuttosto: un fanciullo magico. «ii fanciullo vola! I suoi piedi non toccano la terra. Non è soggetto alla gravità, quasi incorporeo. La sua materia è trasparente. Aria che vibra. Quasi la natura stessa. Egli è libero». Tutto ciò è molto bello; ma da queste qualità dell'essere magico come egli ce lo presenta, Busoni deduce che finora esso è stato trattato in maniera del tutto sbagliata. Accettiamo di buon grado il suo paragone. Lo chiama un fanciullo, un fanciullo prodigio; ma anche i fanciulli prodigio debbono imparare qualche cosa di solido, altrimenti non ne vien fuori nulla. Busoni invece ritiene che finora il fanciullo sia stato violentato e sottoposto a indebita costrizione. Non si sarebbero mai dovute formulare regole, né fissare principi, essi ostacolano l'arte, nata libera. Molti hanno già rifiutato la musica a programma, ma qui si rifiuta anche ciò che finora si è chiamato «musica assoluta». Forma, architettura, simmetria debbono esser cancellate dalla musica, tutto ciò che finora ha costituito per così dire il corpo di quest'arte deve sparire. A lui interessano lo sviluppo, soltanto lo sviluppo, e la meta, una qualche mèta lontana. Le strade battute fino ad ora conducono «sì ben lontano - ma non verso l'alto». (Che vuol dire?) «Lo sviluppo della musica naufraga sui nostri strumenti musicali, lo sviluppo del compositore sullo studio delle partiture». Che cosa si sarebbe dovuto fare del magico fanciullo in questi quattrocento anni - Busoni attribuisce all'incirca questa età alla musica d'arte occidentale - si cerca invano di saperlo. Si apprende soltanto che il bambino è stato incatenato e martirizzato, e ciò da una casta particolarmente malvagia e pericolosa, quella dei «legislatori». Io mi ero raffigurato lo sviluppo e l'educazione del fanciullo musica in modo del tutto diverso, e ho sempre guardato al processo educativo del «magico fanciullo» con soddisfazione e ammirazione. Allevato dalla sua balia fiamminga, si fece un bimbo mirabilmente grande, robusto e sano, visse poi tempi beati nella pensione italiana e ora, giovane forte e bello, è domiciliato da centocinquant'anni nella nostra Germania, dove si spera che si sentirà a suo agio ancora per lungo tempo.
Del resto non è facile capire che cosa Busoni intenda per «legislatori». Sono i cultori d'estetica, i teorici, gli insegnanti o i grandi compositori? Egli parla di «legislatori» e di «codici» non meno di undici volte in quarantotto pagine e sempre nello stesso senso, come se si trattasse di filistei dalle vedute ristrette, che hanno impedito qualsiasi sviluppo benefico. Ma dobbiamo pur ricordare che nessuna opera di teoria musicale, nessuna regola, è stata fissata arbitrariamente, così come in uno stato si stabilisce una legge che dovendo servire a uno scopo ben definito finisce per lo più per avvantaggiare solo un determinato gruppo di persone; invece tutte le «leggi e i codici» musicali - se si ritiene appropriato indicare con questa espressione ironica e sprezzante tutto quanto è stato prodotto nel campo della teoria musicale - sono nati in modo analogo alle opere di botanica, per esempio, o di zoologia, ossia attraverso la descrizione e l'osservazione di quanto esiste in natura: dalla pluralità e dalla diversità dei fenomeni si estrae quanto vi è di comune e di regolare, lo si dispone in un ordine chiaro, e questi risultati si chiamano leggi. A me pare un modo di procedere rispettabile e valido, al quale hanno rivolto le loro cure i migliori ingegni musicali di tutte le nazioni civili. Anche il vecchio Andreas Werckmeister, schernito da Busoni come «caporeparto dell'arte», non chiuse la porta al libero sviluppo dell'arte dall'oggi al domani per malignità filistea, ma compì l'ultimo passo di un cammino già percorso da lungo tempo, passo che, altrimenti, sarebbe stato fatto da altri. In musica sistemi, regole e forme crescono altrettanto spontaneamente delle specie animali e delle famiglie delle piante in natura; alcune si estinguono, qui come là; molte si mantengono. Il divieto delle quinte sarà eternamente giusto, come sente ogni vero musicista; tuttavia nessun compositore sensato esiterà oggi a scrivere in piena coscienza successioni di quinte, se vorrà farlo. Nel mio saggio Zur Grundfrage der Operndichtung (parte I, capitolo III: Del dramma musicale, pag. 110) ho chiamato accidentali le forme della musica rispetto a quanto vi è di essenziale, ossia l'idea musicale, la cellula primigenia, e anche rispetto alle forme poetiche; tuttavia esse non sono ideate arbitrariamente, ma dedotte dall'essenza di quest'arte, che tende verso figurazioni date, quasi cristallizzate. Non posso approfondire qui questo interessante problema. Va da sé che come in ogni scienza anche in musica ci sono state conquiste poi superate e migliorate, come avviene sempre in questo nostro mondo imperfetto. Ma che da tutto quanto è stato prodotto finora sia venuto qualche danno alla musica e al suo sviluppo, che l'essenza della musica sia stata grossolanamente misconosciuta per quattrocento anni, lo crederò soltanto quando mi si mostrerà anche solo un barlume di qualcosa di concretamente nuovo che sia più bello di quanto la musica ci ha dato sinora, che è certo assai soddisfacente.
Lungi da me non voler riconoscere a ciascuno il diritto di avanzare qualche critica, basata in modo serio, ai grandi del passato; credo anzi che non ci sia niente di più meschino che mettere in ridicolo un'opinione spregiudicata avvalendosi del peso di un grande nome, cosa, questa, facile e a buon mercato. Ma la disinvoltura con la quale Busoni tratta i nostri classici provoca la giusta reazione di coloro per i quali essi significano ben altro che un primo gradino logorato e per tre quarti superato dell'ascesa verso un luogo ignoto, fittamente velato, dove si suppone debba trovarsi il sancta sanctorum. Bach e Beethoven «debbono essere considerati un principio e non un punto d'arrivo da non superare». Qui si manifesta nel modo più lampante quell'atteggiamento di chi tende a una mèta che io ho sempre sentito come ostile e opposto alla natura dell'arte. Se si prescinde dalla precarietà della vita in senso assoluto, caratteristica generale del mondo, legato com'esso è all'infinito del tempo, se si prescinde cioè dal fatto che ogni mèta viene superata e tutto si evolve all'infinito, e ci si attiene invece a un punto di vista relativo, allora ha un senso, per esempio, parlare di una mèta della scienza, poiché questa serve a scopi ben definiti e produce risultati utili. Perciò se la scienza medica, faccio un esempio, trovasse una cura contro il cancro, questa sarebbe una mèta certa; e per quanti risultati fossero stati ottenuti fino ad allora si avrebbe il diritto di sentirsi insoddisfatti delle conquiste precedenti e di considerare invece giunta a un grado superiore di perfezione la scienza che avesse toccato quella mèta. Oppure se un filantropo si pone come mèta, diciamo, di migliorare i suoi simili sperando di rendere migliore la generazione seguente mediante istituti educativi, scritti, scuole e così via, questa mèta può essere ritenuta sensata (che si giudichino chimeriche o meno speranze del genere, per principio) poiché persegue uno scopo chiaro e consente, almeno teoricamente, di pensare a un progresso. Parlare di mète in arte è invece addirittura insensato. L'arte non ha né scopi né mète. Ogni opera d'arte è un mondo a sé stante; se è l'opera di un genio, se è riuscita, ci eleva, ci rende felici e non può essere superata da niente: ha raggiunto l'unico «scopo», l'unica «mèta» di cui si possa parlare in modo ragionevole nei suoi riguardi. Non l'arte, l'artista ha una mèta: convertire in opere perfette il talento di cui è dotato. L'arte ha qualità, forze, effetti; nasce ed esiste, ed ha la proprietà di destare sentimenti di piacere che vanno dal tranquillo godimento e dal diletto giocoso fino al più estasiato rapimento, alle più violente commozioni e alla elevazione. Questo è in grado di fare l'arte, e l'ha sempre fatto; se in qualche luogo o in qualche epoca non è esistita e non ha prodotto nulla, ciò non è dipeso dalla inadeguatezza dei mezzi esistenti e a disposizione del genio nato in quel dato luogo o tempo, ma dal fatto che le circostanze nella loro totalità erano d'ostacolo al suo sorgere e fiorire. La grandezza e la perfezione dell'arte non dipendono dalla grandezza e dalla perfezione dei mezzi, ma da quelle dell'artista. Non credo sia mai accaduto che un artista non abbia potuto svilupparsi perché i tempi non disponevano degli strumenti adeguati, necessari alla sua opera; e se veramente qualche cosa faceva difetto, proprio quel genio ha fornito il mezzo che mancava in virtù della potenza della sua concezione, creandolo dal nulla. La poesia Columbus di Schiller esprime assai bene questo concetto, soprattutto nella chiusa: «La natura ha stretto un patto eterno con il genio; / Quanto l'uno promette, l'altra produce». Questa è la strada, non viceversa. La «promessa» del genio si basa sulla certezza; nei suoi confronti la natura è sempre pronta a tutto, come un servo ubbidiente: non ha bisogno di muoversi in anticipo, ma offre i suoi doni spontaneamente quando il genio ne ha bisogno («se non esistesse ancora, sorgerebbe dalle acque», dice ancora Schiller!). Non accade che, per l'insoddisfazione di quanto esiste, venga fornito del nuovo materiale ritenuto migliore, nella speranza che poi tutti o quasi quelli che se ne servono producano cose straordinarie e che i genii, attratti da tanta perfezione del materiale, vengano al mondo a frotte in un luogo così benedetto, facendo spuntare un'età dell'oro dell'arte. Questi teorici si potrebbero paragonare a operai troppo zelanti, i quali accumulino pietre su pietre per la costruzione di una chiesa senza conoscere il piano dell'opera e senza aver interrogato prima il costruttore; così che quando costui arriva, non gliene serve nessuna: giacché è lui che decide quali pietre servono al suo progetto, come decide di tutto il resto.
Questo concetto dell'arte come evoluzione non è soltanto sbagliato in sé, ma porta anche ai giudizi più errati. Chi vive nella convinzione che tutto quanto esiste non rappresenti ancora nulla e critica il proprio tempo col pregiudizio: «Non abbiamo compositore che duri, cerchiamolo nel futuro», non sarà assolutamente in grado di riconoscere i Mozart e i Beethoven che un giorno gli si dovessero presentare sotto il naso. E quel che è ancora peggio, si dovrebbero ritenere genii di per sé produttivi tutti quelli che seguono soltanto la sua tendenza, rifiutando in blocco il passato. E questa l'esigenza che Busoni manifesta nel suo libro (soprattutto a pagina 35 e seguenti): se la riduciamo a un'unica frase, concentrando singoli passi sparsi, ci accorgeremo che essa comporterebbe il sovvertimento completo di tutto ciò che è stato finora insegnato, praticato e prodotto nella nostra arte. Giacché, se è vero che Busoni vuol vedere distrutti gli strumenti musicali, l'architettura e la simmetria della forma, la dottrina dell'armonia, il sistema tonale, c'è un altro elemento che, pur non essendo ancora completamente delineato, si intravede anche troppo chiaramente fra le righe, ed è l'eliminazione del tema, del motivo, dell'idea musicale. Chi ponga quindi le sue speranze soltanto nella riedificazione dopo il sovvertimento radicale, accogliendo con favore come arte creativa esperimenti spericolati in questa direzione, deve arrivare - parliamoci chiaramente - ad esaltare il Kitsch più ripugnante. In tutte le epoche del resto il Kitsch è in auge. Ne abbiamo e ne abbiamo avuti di tutti i tipi, quello esterofilo, quello triviale, quello brillante per orchestra, quello salottiero e altri ancora; alla nostra generazione era riservato di accogliere in mezzo a noi il Kitsch futurista. Esso si distingue dai suoi vari compari di ventura per il fatto che non reca diletto a nessuno, neppure ai futuristi. L'operaccia italiana, la musica da café-chantant, la musica d'operetta che si suona come accompagnamento nei cinematografi, la musica delle canzonette più in voga, hanno tutte il loro bravo pubblico, di cui vivono. I futuristi invece vivono di un pubblico sotto molti aspetti tutt'altro che fidato, soprattutto però vivono l'uno per l'altro. Dalla loro attività questi poveracci non traggono alcun piacere, alcun godimento né emozioni più elevate, poiché non concepiscono neppure l'arte come qualcosa di cui godere. Imperterriti, senza tollerare scherzi, con il sudore della loro fronte questi miseri facchini accumulano materiale per creazioni future, per creatori futuri dei quali non sanno nulla.
È naturale che chi giudica e sente a questo modo non possa essere soddisfatto da nessuna opera d'arte esistente. Colui che aspira veramente al godimento artistico, colui che intende e ama l'arte, colui al cui cuore i capolavori dicono qualcosa, si accorgerà dell'inadeguatezza della materia o ne prenderà piena coscienza soltanto qualora l'opera stessa, il suo contenuto artistico, siano di qualità scadente. C'è forse qualcuno che dica di capire la musica al quale nell'Ottava Sinfonia di Beethoven dia fastidio la vecchia forma, la strumentazione semplice, la «tonica e dominante»? O, per dirla in altro modo, ha il diritto di nominare Beethoven o di professarsi suo ammiratore chi, ascoltando l'Ottava Sinfonia, si crucci del fatto che essa non presenti le forme gigantesche del Crepuscolo degli dèi o le splendide e colorite sonorità di un'opera ultramoderna? La capacità di immedesimarsi ogni volta in modo totale in un'opera è una di quelle facoltà che solo l'arte può prestare all'uomo, ma solo all'uomo che le è affine. «Dove c'è un entusiasta, là è la vetta del mondo», ha detto Eichendorff. Questa frase è non soltanto molto bella, ma anche per così dire rigorosamente esatta; è ovvio che per entusiasta non bisogna intendere il giovane che si precipita subito dopo il concerto nel camerino degli artisti brandendo l'album degli autografi e la penna stilografica, ma un ispirato, uno che è pervaso dallo Spirito sia in senso creativo che ricettivo. Una vetta di questo genere non può «venir superata»; rimane, e di posto ce n'è per tutte.
Per rimanere ai classici, Busoni riconosce che ci sono molte bellezze in Wagner, ma ritiene che egli rappresenti una specie di strada senza uscita sulla quale non è possibile proseguire. Lasciamo stare, e soffermiamoci piuttosto su un passo, uno di quei temi secondari già menzionati che non si capisce come possano trovar posto in un'estetica di appena quarantotto pagine. Questo passo si trova alle pagine 32 e 33. In una lettera privata a Lisa Wagner si lamenta con lui, da amico ad amico, perché non riesce a procedere con il Tristano, e ne dà la colpa alla sua mancanza di routine. Busoni vuole coglierlo qui nell'atto di ingannare se stesso e crede anzi di doverlo smascherare come un routinier, fedele alla propria convinzione secondo la quale la libertà del comporre, cioè l'esatto opposto della routine, possa avere inizio soltanto quando sarà sovvertito tutto ciò che Wagner ha invece lasciato ancora sussistere. Di Wagner si dice poi, alla lettera: «Di routine Wagner ne aveva anche troppa, e il suo macchinario compositivo si fermava ogni volta che insorgeva uno di quegli intoppi che sono superabili soltanto con l'aiuto dell'ispirazione». E Busoni conclude la sua argomentazione così: «La sua frase è un capolavoro della naturale scaltrezza dell'istinto di conservazione - ma ci dimostra... il misero luogo che la routine occupa nel processo creativo» (Busoni intende certo lo scarso valore della routine nel processo creativo). Ho citato questo passo solo per mostrare come Busoni, per amore delle sue teorie, non arretri di fronte a nulla, né di fronte allo spirito né di fronte al cuore dei nostri grandi. La sua argomentazione appare estremamente scaltra e sottile, ma non persuade affatto. Se si vuoi chiamare così lo stile di Wagner, quello stile che egli, sostenuto da tutta la forza del suo straordinario talento, si era conquistato con strenua lotta, con lavoro continuo e ferrea volontà di arrivare più in alto, e che maneggiava ormai con una certa sicurezza - non bisogna dimenticare che nell'ambito di questo stile ogni opera rappresenta a sua volta un diverso mondo espressivo, quindi ognuna di esse presa singolarmente ha un suo proprio stile -, se tutto questo lo si vuole chiamare routine, ebbene, si tratta di una parola e nulla più. Wagner «troppa routine», e per di più nel Tristano, eh via, è un'affermazione che lascio perdere, tanto è stravagante! Quel che Wagner intendeva dire, ciò che intendeva dire realmente, non soltanto con piena consapevolezza ma anche istintivamente (Busoni gli concede infatti onestà istintiva), è messo in luce da quanto egli affermò una volta di Mozart [Opera e dramma, capitolo II]: Mozart era un uomo talmente intriso di musica da poter scrivere musica sempre e in ogni situazione; ma musica come quella del Don Giovanni la poteva scrivere solo quando era ispirato, in quanto autore drammatico, da un argomento teatrale che gli diceva qualcosa. Per parte mia non dubito dell'onestà di Wagner, né di quella consapevole né di quella inconsapevole, se egli, che in primo luogo era un poeta, in qualche misura non si sentiva sempre padrone del linguaggio musicale al pari di nature di musicisti come Mozart.
Anche un altro dei nostri classici non gode dei favori di Busoni: Robert Schumann. A dire il vero nel libro non c'è gran che a suo carico, è rammentato solo due volte, brevemente; ma quel che Busoni pensa di Schumann non è un segreto, e in relazione con la mancanza di comprensione, che lo scritto trasuda da tutti i pori, nei confronti di ciò che è tedesco nella musica, non vorrei passare sotto silenzio questi due passi. Anche per un altro motivo, ossia che non mi lascio sfuggire occasione di oppormi al disprezzo, da tempo divenuto una moda nei paesi tedeschi, con il quale viene trattato Schumann. Quel che mi sorprende di più nel rifiuto radicale di Schumann da parte di Busoni (egli me l'ha espresso personalmente) è che proprio Schumann dovrebbe andargli particolarmente a genio. Se infatti si pensa a ciò che Busoni esige da un vero creatore: assoluta mancanza di presupposti, nessuno studio di partiture altrui, linguaggio musicale del tutto nuovo, «né sviluppi né code», indipendenza dalle caratteristiche degli strumenti, estrema originalità in tutto, e se ne cerca un esempio, uno solo si impone: Schumann. Busoni parla di lui, di fronte a Beethoven, come del «tanto minore»; ciò non fa specie, certo, poiché migliaia di musicisti la pensano allo stesso modo, né è mia intenzione misurare con il metro grandezze e valori di questo genere. Ma, senza volerne dedurre affatto scale di valori - qui vorrei esser letto con attenzione e non venir frainteso -, pure si deve enunciare una buona volta un dato di fatto a mio parere inoppugnabile: né Beethoven, né Mozart, né Bach, né Wagner, insomma, nessun altro compositore ha esibito agli inizi della sua attività creativa tanta maestria, tanta originalità, tanta perfezione quanto Robert Schumann. Questo suo primo periodo creativo ha avuto parecchi imitatori, ma nessun precursore. Perché lo Schumann più tardo sia diventato un altro, perché la sua produzione abbia seguito una curva discendente, questi sono problemi finora mai trattati a fondo ed esaurientemente, sui quali si potrebbe scrivere un grosso volume ma che riguardano questioni che esorbitano assai dall'interesse specifico e coinvolgono campi diversissimi. Devo perciò interrompere qui questo discorso.
La musica tedesca non è solo un gioco cerebrale, è anche arte del cuore; e se vogliamo che ci si manifesti lo spirito di uno dei nostri Grandi, dobbiamo poterlo accogliere come si conviene, chiamare «principe e padre» e non affilare le armi contro di lui; altrimenti rimarrà muto.
Berlioz e Liszt sono ritenuti da Busoni, e purtroppo anche da una fazione ben nutrita di musicisti, grandi compositori. Ma soltanto i futuristi ne formulano esattamente la ragione. Nel fondo, dietro la stima per questi due compositori, una stima altrimenti inspiegabile da parte di musicisti di vaglia, onesti e bene informati, si nasconde la riflessione che deforma ogni giudizio e ogni impressione diretta: «furono degli innovatori». A loro merito non viene ascritto quel che hanno fatto, ma quello verso cui hanno aspirato; costoro sono però alcool senza uva: si conservano a lungo, ma non sanno di nulla. Il vero innovatore non «vuole» il nuovo, ma produce qualcosa di nuovo. Dice come Brand: «Non aspiro alla mera novità, / Dò peso solo a quanto è eterno» [H. Ibsen, Brand, atto I, quadro I].
Le opere pianistiche schumanniane del primo periodo (cito ad esempio l'op. 6, l'op. 11, l'op. 12, l'op. 16, l'op. 17; e potrei continuare) furono ai loro tempi qualcosa di nuovo, di inaudito sotto ogni aspetto, mentre ora ci appaiono naturali, profondamente familiari. Debbo confessare apertamente che nutro un'invincibile diffidenza per l'estetica di colui al quale queste geniali creazioni non dicono nulla e che invece ha un'evidente, altissima stima per le composizioni di Liszt e che chiama Berlioz un grande compositore (pag. 26). Come si spiega allora che nonostante siano eseguiti di continuo e con ogni cura, nonostante siano propagandati e altamente elogiati, costoro non diventino mai veramente popolari e che neppure uno dei loro temi passi di bocca in bocca, come avviene per i più grandi e anche per i meno grandi compositori di fama? Il fatto è che qui la musica non parla il suo proprio linguaggio, e questo si sente e si sentirà sempre nonostante tutto quello che un intelletto in errore possa addurre in contrario. Anche in questo caso è assente «l'effetto che tocca l'anima e il cuore» di cui parla Wagner (Giudaismo nella musica), quell'effetto che ognuno di noi ha «sentito innumerevoli volte non appena un eroe della nostra arte ha per così dire aperto la bocca per parlarci». L'elogio di Liszt compositore fatto da Wagner è una delle più funeste falsificazioni della storia della musica.
Che il rinnovamento della musica non debba dipendere per forza da forme nuove, di ciò Hans von Bülow era pienamente convinto. Una volta, durante il suo periodo brahmsiano, fece sentire al pianoforte a Liszt un nuovo lavoro di quel compositore intimista dalla tendenza spiccatamente retrospettiva. Liszt, vedendo venire dopo qualche pagina uno sviluppo o una parte simile della vecchia forma, sfogliò annoiato le pagine con uno sprezzante «eccetera, eccetera», come per dire: «Ho già capito che cosa viene ora, lo sviluppo»; ma Bülow, con la sua visione più profonda, e sapendo che una musica può essere nuova anche se è scritta nella forma tradizionale, voltò energicamente le pagine all'indietro e con un furente «niente affatto eccetera» obbligò Liszt ad ascoltare il pezzo fino in fondo.
Perché Busoni cita il passo in cui Nietzsche mette in guardia dalla musica tedesca? Perché non le era riuscito il «salto gallico»? [F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cap. VIII, § 254]. Nei suoi rapporti con la musica questo Nietzsche non è certo da prendere sul serio; il suo distacco da Wagner dimostra qualcosa solamente per quel che concerne colui che se ne staccò, e cioè che costui non ha mai capito niente dell'essenza fondamentale, di ciò che di più profondo, di più bello esiste in Wagner. Se si pensa alla sua stima per Peter Gast e ai suoi dilettanteschi tentativi musicali ci coglie quasi un senso di profonda pietà. Quel passo con la «musica sovratedesca», la «musica sovraeuropea», la cui «anima è parente alla palma», con la «nostalgia di navigante» e le «ombre dorate» eccetera, starebbe molto bene in bocca a un bohémien, la sera, al caffè, davanti a un cognac e con la sigaretta fra le dita, ma non ha niente a che fare con una seria estetica della musica.
Avanti con il libriccino dell'Insel. Posso saltare le considerazioni sulla musica a programma, quelle sulle possibilità espressive della musica e sulla musica teatrale: esse si ricollegano solo superficialmente al tema centrale dell'opuscolo e svilupparne qui i pro e i contro ci porterebbe troppo lontano. Significativo ed estremamente caratteristico del modo di concepire l'arte da parte dell'autore, delle sue mète e dei suoi ideali, è invece ciò che egli afferma sull'argomento riproduzione della musica (pagg. 20-24). Qui per Busoni l'interprete era chiaramente della massima importanza reclamare la libertà più ampia e illimitata. Lo spregiativo concetto «legislatori» compare non meno di cinque volte in tre pagine. Se io ora lo contraddirò con assoluta decisione, egli metterà anche me nel novero dei «legislatori»; non così però chi ha letto con serietà e attenzione quel che su questo tema ho scritto già molto tempo fa (1905). Tutti i problemi sollevati da Busoni nelle pagine 20-24 li ho infatti già trattati (vedi il citato Del dramma musicale) in modo se non esauriente almeno accurato ed esteso; soprattutto quelli che riguardano il cammino percorso dalla concezione nel passaggio dal cervello alla pagina scritta. Io giungo però a risultati del tutto diversi. Proprio perché un'esattezza e una fedeltà assolute non sono possibili, proprio per questo e a maggior ragione è un dovere, anzi il primissimo comandamento dell'esecutore, quello di aspirare con tutte le sue forze alla fedeltà. Questo obbligo mi sembra tanto ovvio in campo artistico che vorrei quasi trasferirlo a quello morale. Se fosse accettata come valida l'affermazione che non solo è assai difficile trovare l'esecuzione giusta di un lavoro ma anche che non è affatto necessario volerlo, anzi che bisogna cercare il contrario perché questo è il modo di procedere giusto e geniale, sarebbe il caos più completo. No e poi no! Anche ammettendo che comunicare tutto ciò che è sotto ogni accezione spirituale è possibile solo entro certi limiti, non è lecito approfittare in modo sacrilego di questi difficili e sottili problemi per spalancare le porte a ogni arbitrio, a ogni travisamento, a ogni soggettività, la quale, nella maggior parte dei casi, non è che meschina vanità. Per quante polemiche si vogliano sollevare sull'argomento, esiste una fedeltà nei confronti dell'opera d'arte che tutti debbono riconoscere e per la quale tutti debbono adoperarsi. Ogni opera dello spirito di valore durevole, che sia adeguato o meno il sistema di notazione, è scritta con una tale somma di sforzi e di scelte minuziose dei mezzi onde tramandarla alle generazioni future, con tanto sacrificio e con tanta speranza, che migliaia e migliaia di persone la comprenderanno soltanto così ed essa penetrerà in loro così come il creatore l'ha concepita nella sua visione interiore. Né deve servire a che ognuno la modifichi a proprio piacimento, meno che mai colui il quale si sente in diritto di eseguirla per gli altri. Le opere d'arte non sono sedie da barbiere, costruite allo scopo di adattarsi a tutti e di adeguarsi a ogni tipo di costituzione fisica (ne invito a leggere la lode in Tutto è bene quel che finisce bene di Shakespeare, atto secondo, scena seconda). Il contrasto profondamente sentito fra ciò che è spirituale, eterno, libero e ciò che è legato al corpo, limitato, contrasto che sta alla base anche dei problemi della notazione, della comunicazione dell'idea individuale eccetera, non è mai stato trattato e trasfigurato in modo più bello e profondo che nella poesia di Goethe Contemplando il teschio di Schiller.
A pagina 24 l'autore compie di nuovo una digressione scagliandosi contro una parola e impiegando tre pagine intere (fino all'inizio di pagina 27) per cercare di privarci di un concetto di uso frequente e inesprimibile con altro termine. E il concetto di «musicale». Sentiamo quel che dice: «Musikalisch è concetto che appartiene ai tedeschi, in nessun'altra lingua la parola 'musicale' è usata in quel senso. È un concetto che appartiene ai tedeschi e non alla cultura universale, e il" suo significato è errato e intraducibile. La parola 'musikalisch' deriva da musica, come 'poetico' da poesia e 'fisico' da fisica. Se io dico: Schubert fu uno degli esseri più 'musicali', è come se io dicessi: Helmholtz fu uno degli esseri più 'fisici'». E più sotto: «Solo in Germania essere musicali, cioè, non solo sentire amore per la musica, ma principalmente comprenderla nei suoi mezzi tecnici d'espressione e ritenerne le leggi, è un punto d'onore».
Ah così! Dunque noi sciocchi tedeschi, colti e ignoranti, abbiamo impiegato per secoli una parola completamente sbagliata e non ce ne siamo mai accorti, fino a che non è venuto Busoni il quale per caso, di passaggio, richiama la nostra attenzione su questo svarione nazionale. Bene, questa grande cortesia è senza dubbio degna di un esame accurato. Prendiamo l'esempio di Schubert e Helmholtz. Busoni basa la sua opinione su questa prova, come se il suffisso ( «alisch») definisse il significato della radice nella parola. Egli afferma: alisch = alisch, quindi se «alisch» in «musikalisch» significa dotato di talento musicale, lo stesso deve valere per «physikalisch»: ossia dotato di talento per la fisica. E poiché un Helmholtz «fisico» («physikalisch») è un nonsenso, è un nonsenso anche uno Schubert «musicale». Invece la cosa sta così: la radice determina ovviamente il significato del suffisso nella parola. Ma la radice della parola «musikalisch» non è «musik», ma «mus»; «ik» è già un suffisso. Anche «alisch», a voler essere precisi, è composto di due suffissi; così la parola «musikalisch» ha ben tre suffissi: «ik» viene dal greco, «al» dal latino e «isch» dal tedesco. Se riduciamo questi due aggettivi alla radice e a un solo suffisso, ci avviciniamo maggiormente al nocciolo della questione e vediamo che la differenza fra un essere «musisch» e uno «physisch» è analoga a quella che passa fra un essere «musikalisch» e uno «physikalisch». La radice della parola «musisch» è la Musa; attenendoci al significato e al senso del concetto di «Musa», «musisch» significa ciò che esprimiamo poeticamente con la frase: «è baciato dalle Muse». Per una persona «musisch», qualora impiegassimo questa insolita espressione, intenderemmo con ogni probabilità una persona dotata e interessata artisticamente in ogni fibra del suo essere. Ogni sillaba aggettivante aggiunta non farebbe che restringere e diminuire in qualche modo il concetto; così come «genialisch», almeno al giorno d'oggi, indica piuttosto un comportamento esteriore, cioè meno di «genial», il quale a sua volta vale meno che se di una persona si dice semplicemente che è un genio. «Musikalisch» è quindi una persona che è stata favorita e dotata dalla Musa per la sua arte eletta, la Musica. Se applichiamo questo procedimento a «physisch» e «physikalisch», la conclusione viene da sé. Infatti la radice «phys» significa qualche cosa di molto diverso dalla radice «mus», ed è naturale e logico che anche il suffisso abbia un altro significato, corrispondente a quello della radice. «Physisch» e «physikalisch» non possono dunque significare mai dotato di questo o di quello, giacché il senso della radice «phys» non è quello di attribuire talento; così come la frase: un allievo molto «lateinisch», non significa un allievo particolarmente dotato per questa lingua, e così via. Non c'è bisogno di continuare più a lungo questa dimostrazione.
Ma la parola «musikalisch» non è impiegata in Germania soltanto in questo senso ristretto, ma anche in quello assai più generale e libero che attribuiamo a tutti gli aggettivi in «alisch», e il cui senso è semplicemente: che si riferisce a questo o a quello. Parliamo di un tè musicale, di una regola musicale, di un'idea musicale, di un istituto musicale, perfino di un animale musicale. È evidente che in questi casi «musicale» ha ogni volta un significato diverso; in linea generale soltanto quello di cosa che si riferisce alla musica. Busoni però non espelle dei tutto questa parola dalla lingua, e a pagina 25 decreta: «Musicale vuol dire: ciò che a noi riesce percepibile in ritmi e intervalli. Musicale può essere un armadio se contiene un carillon. In senso traslato, ad ogni modo 'musicale' può voler dire armonioso». Prendendo alla lettera questa definizione - e bisogna prendere alla lettera distinzioni così rigorose - si potrebbe adoperare l'epiteto «musicale» soltanto in senso pleonastico, per oggetti che già risuonano (una sinfonia musicale, una scala musicale, eccetera). Pertanto tutti gli esempi che Busoni porta per avvalorare il suo concetto di «musicale» o sono di carattere figurato o rappresentano delle eccezioni: l'armadio «musicale», i versi,«musicali», gli spiriti che vibrano «musicalmente» di Edgar Allan Poe, il clown «musicale» che emette suoni servendosi di qualche trucco, il cantante «musicale» che è musicale perché risuona egli stesso. Non un solo esempio corrisponde sul serio alla sua definizione, trattandosi per la maggior parte di pleonasmi. Invece nella lingua tedesca non si può quasi fare a meno di servirsi continuamente del concetto di «musikalisch» nel suo senso più ampio. Faccio un esempio. Sto leggendo un libro, l'Abbozzo di una nuova estetica della musica di Busoni. A pagina 26 trovo: «In un paese come l'Italia, dove il senso della gioia musicale è generale, la distinzione è superflua, e la parola per designarla non esiste». Ma a risuonare in ritmi e intervalli non è la gioia, bensì lo spettacolo che produce questa gioia. E questa frase non è neppure un traslato figurato come il «riso musicale». Inoltre a pagina 35 sta scritto: «Colui che sarà nato per creare avrà prima di tutto un compito negativo e di grande responsabilità, quello di liberarsi da tutto ciò che ha appreso e udito, da tutto ciò che è apparentemente musicale». Per «apparentemente musicale» non si deve evidentemente intendere ciò che risuona apparentemente in ritmi e intervalli, ma senza dubbio alcuno qualcosa che pretende di avere un contenuto che si possa chiamare vera musica proprio in un senso più profondo del mero, generico risuonare. Busoni ha vissuto troppo a lungo in Germania per non servirsi involontariamente dei vantaggi offerti dalla nostra lingua. Del resto, anche supponendo che la mia spiegazione fosse errata - la derivazione della parola «musikalisch» nel senso di «dotato per la musica» -, ciò non cambierebbe affatto niente all'esattezza dell'uso di una parola proprio in questo senso. Giacché anche l'uso linguistico ha i suoi diritti e se una sola parola è a nostra disposizione per esprimere un concetto che figura tanto spesso, quale appunto «dotato per la musica», non si può non rallegrarsi del fatto che la nostra lingua disponga di tale parola. Non ci passa nemmeno per la testa di barattare la ricchezza della lingua tedesca con la povertà delle lingue neolatine, di fare lunghi e tediosi giri di parole, come sono costretti a fare i francesi e gli italiani, dove possiamo fare uso di un'unica parola, buona e chiara. Se dunque gli italiani non hanno questa parola (si veda più sopra il passo sulla «gioia musicale») e se, come Busoni aggiunge: «In Francia, dove il sentimento della musica non vive nel popolo, esistono musicisti e non musicisti. Degli altri alcuni 'aiment beaucoup la musique' oppure 'ils ne l'aiment pas'», siamo ben felici di lasciare a questi due popoli le loro perifrasi, ci rallegriamo della nostra ricchezza e continueremo a chiamare, con ottime ragioni e con giustissimo senso della lingua, Schubert uno degli uomini più musicali e Helmholtz invece un uomo con spiccato talento per la scienza fisica; e quanto al resto ci meravigliamo soltanto che un uomo così intelligente come Busoni ammannisca sciocchezze simili a una cerchia di lettori colti, quali deve pur presumere siano i suoi.
Ma perché Busoni insiste a volerci dare lezioni di tedesco? A pagina 29 ecco che scova di nuovo una parola tedesca usata in modo errato: «Gli 'Apostoli della Nona Sinfonia' inventarono nella musica il concetto di profondità. Esso possiede ancora tutto il suo valore, specialmente in Germania». Poi si dilunga per quasi una pagina e mezza sul concetto di profondità, definisce il concetto di profondità del sentimento come sentimento completo, distingue la profondità di pensiero letteraria dalla profondità del sentimento propria della musica, trova una profondità che diventa estensione e così via. Questi giochi intellettuali sono certo assai piacevoli, ma perché metter tutto sottosopra?
Al caffè, in compagnia di un cognac e di una sigaretta, sono pronto a dimostrare che, a ben guardare, il leggero è pesante e il pesante leggero; ma per quale motivo non è permesso chiamare profonda una musica che ci mette in uno «stato d'animo profondo», che ci stimola a pensieri e considerazioni profonde, e invece si deve chiamare profonda l'aria del vino del Don Giovanni? La percezione immediata si ribella a queste nuove definizioni. È vero, la musica dell'aria del vino prilla proprio come le bollicine dello champagne, è spumeggiante ed effervescente, ma non potrei mai chiamare profondo il sentimento che provo nell'ascoltarla, mentre i pensieri e i sentimenti che risveglia in me la Nona Sinfonia, e soprattutto il suo primo movimento, li definirei senz'altro profondi: è un'oziosa disputa sulle parole. Ma chi sono, a parte tutto, gli «Apostoli della Nona Sinfonia»? Tutte le persone che si interessano di musica, di arte, di questioni spirituali; tutto il mondo della cultura, si spera! O Busoni pensa soltanto a quelli che scrivono grandi opere sinfoniche che si concludono con un coro, come per esempio Gustav Mahler? In questo caso avremmo il piacere di annoverare fra questi rari apostoli anche Ferruccio Busoni, che ha scritto un Concerto per pianoforte e orchestra di vaste proporzioni al quale nel quinto movimento si aggiunge un coro.
Volgiamoci di nuovo a quelle parti che toccano veramente il problema centrale, parti che bisogna cercar di radunare andandole a trovare fra le continue digressioni e interruzioni. Come abbiamo già visto, Busoni pone tutte le sue speranze in realtà che vengono dall'esterno, ciò che esiste, le forme, gli strumenti, lo disturbano; ma più di ogni altra cosa lo disturba il sistema tonale. Solo quando esso sarà stato capovolto, perfezionato, raffinato, soltanto allora si potrà sperare, egli pensa, che la musica trovi le possibilità espressive di essa degne: «i milioni di melodie che un giorno risuoneranno esistono sin dall'inizio, sono pronte, aleggiano nell'etere, e con loro altri milioni di melodie che non saranno udite mai. Basta tendere la mano ed eccovi un fiore, un soffio d'aria marina, un raggio di sole». Tutto ciò suona molto bello e attraente; e forse la colpa è solo nostra se, a causa del secolare, aberrante sviluppo del nostro sistema musicale, non possiamo godere già oggi di queste fantastiche meraviglie! E ancora: «Così angusto è divenuto l'ambito della nostra musica, la forma dell'espressione musicale così stereotipa, che oggigiorno non esiste un motivo conosciuto a cui non si conformi un altro motivo, tanto che potrebbero venir suonati insieme». Busoni racconta quindi che una volta ha stabilito per scherzo che almeno una quindicina di pezzi di musica universalmente noti sono costruiti secondo lo schema (certo quello armonico) del secondo tema dell'Adagio della Nona Sinfonia. Da ciò egli deduce la ristrettezza del nostro ambito tonale, le premesse insufficienti a permettere un pieno spiegamento delle possibilità melodiche; io invece ne deduco che esso è sconfinato. Mi si rivela qui quanto grande e incomprensibile sia il miracolo dell'idea musicale. Un esempio:

 

Se si propone questo basso a centinaia di migliaia di musicisti di ogni tempo e paese ognuno di essi scriverà una voce superiore diversa; certo molte si somiglieranno, ma si potrebbero moltiplicare queste centinaia di migliaia per qualsiasi cifra e soltanto una volta, e mai più, ne nascerebbe la melodia dello «Jungfernkranz» [C. M. von Weber, Der Freischütz, atto III, n. 14, coro «Wir winden dir den Jungfernkranz»]. Provate voi, dottissimi musicisti di tutte le epoche, voi compositori dotati della più ricca fantasia, a trovare, con tutta la vostra cura e il vostro acume, questa melodia - se già non esistesse -, a farla fiorire dall'universo con l'aiuto di questo basso; a nessuno di voi riuscirà! In quanto idea musicale essa non ha niente a che vedere con questo schema, che è dei più primitivi, di basso musicale, e niente con le centomila melodie belle o brutte che si adattano allo stesso basso. E questa melodia fra pochi anni compirà un secolo, ha fatto il giro del mondo e ha toccato, commosso, reso felici uomini di molte generazioni! Dice il grande e semplice Schopenhauer: «L'inesauribile ricchezza di possibili melodie corrisponde all'inesauribile ricchezza della varietà d'individui, fisionomie e carriere vitali nella natura» [Il mondo come volontà e rappresentazione, libro terzo, § 52]. Un altro esempio. I toni e i semitoni non bastano a Busoni, egli pensa che un sistema di terzi e di sesti di tono accrescerebbe in modo corrispondente le possibilità e creerebbe figure più raffinate e più espressive. Io sono di opinione del tutto opposta e penso che il compositore sia tutto e che il suo sistema musicale si trovi sempre a sua disposizione. La possibilità di creare più melodie con frazioni di tono sempre più piccole sembra del tutto evidente. Lascio al sistema musicale di raccogliere la sfida che gli viene lanciata e ne lancio ora una io, apparentemente assurda, a un vero compositore. In un tema che consti di quattordici note si lascino invariati i primi undici suoni, la stessa nota, cioè, sia ripetuta per undici volte consecutive. Senza dubbio a tutti parrà subito impossibile trovare un motivo che risponda a questa condizione e che nel contempo sia anche solo approssimativamente utilizzabile in modo espressivo, o che addirittura possa essere definito un motivo. Per conferire un qualche interesse a queste undici note si potrebbero eventualmente impiegare l'armonia o ritmi ricercati, sì da non dare nemmeno il senso della carenza melodica; giacché una figura del genere non corrisponderebbe neppure al concetto di melodia, che si intende essenzialmente come una linea ascendente e discendente. Eppure una delle melodie più popolari della musica operistica tedesca è costruita proprio in questo modo, addirittura senza alcuna interpretazione armonica e con un ritmo quasi uniforme. una melodia che viene senz'altro compresa da tutti quanti hanno anche solo un minimo di sensibilità musicale, una melodia che conta quasi tre quarti di secolo di vita e che non ha pari per accessibilità, per caratterizzazione, in breve, per altissima genialità d'invenzione. La riporto qui; è di quel Lortzing che a suo tempo moriva di fame in Germania e che ancora oggi è guardato dall'alto in basso:

 

 

[G. A. Lortzing, Zar und Zimmermann, atto III, n. 13]

 

Se dovessi scrivere un abbozzo di una estetica della musica, partirei da questa melodia, passerei quindi a trattare l'essenza dell'idea musicale e soltanto dalla comprensione di questa essenza trarrei le speranze in un futuro prospero per la musica.
Un esempio lampante di come Busoni faccia dipendere da fattori esterni ciò che invece appartiene all'interiorità è - non si crede ai propri occhi - l'affermazione secondo la quale è dipeso dalla notazione, dai nostri metri, dalle nostre tonalità, eccetera, se E. T. A. Hoffmann non è stato come compositore altrettanto grande di quanto lo è stato come scrittore. Per amore di questa motivazione assolutamente insostenibile Busoni non si avvede del fatto ovvio che il talento creativo di Hoffmann per la musica non era pari al suo appassionato amore per quest'arte. Il bel passo sullo «spirito cosmico che tutto permea» (esso si trova nel secondo volume dei Fratelli di San Serapione, all'inizio del quarto capitolo) è completamente frainteso dal nostro futurista. Il Cipriano-Hoffmann aspira non a una nuova musica con mezzi espressivi nuovi, ma a una nuova vita «pia» in cui la musica sia finalmente percepita di nuovo nella sua vera essenza. Soprattutto però è il sentimento ad essere agli antipodi di quello di Busoni, giacché in questo passo traspare proprio un fervido amore per l'antico.
Arriviamo così alla parte espressamente dedicata alla teoria musicale, cui accennavamo all'inizio. Constatiamo con soddisfazione che qui il conversatore polemico lascia il posto all'uomo del mestiere, che ha qualcosa da dirci; e infatti, finalmente, a questo punto si parla per dieci pagine di un unico argomento con una sola digressione (il passo sul riformatore e sulla natura, con la necessità di costringere a suon di frustate i sostenitori dei modi maggiore e minore a «varcare d'un balzo il tratto perduto», vedi pag. 40). Esamineremo le ricerche e le aspirazioni, i tentativi e gli esperimenti di Busoni con la massima serietà; il fatto che personalmente provi scarso interesse per i problemi di teoria musicale e mi aspetti ben poco giovamento dai rivolgimenti in questo campo non mi impedisce di ammettere le più ampie possibilità di nuove teorie e di riconoscere il diritto a cercarle. A ciascuno il suo: se un interesse si fa vivo, ha anche il diritto di essere esercitato. È indubbio che risultati concreti e utilizzabili in quel campo sarebbero accolti con gioia da molti nel mondo musicale e accettati seriamente da tutti; ma di tali risultati, va da sé, qui ancora non si parla. Perciò è ben poco quello che se ne può dire. Sentiamo parlare di terzi e di sesti di tono, di 113 nuove possibili scale, ma soprattutto di un gigantesco apparecchio elettrico inventato in America dal dott. Thaddeus Cahill, che ha l'aspetto di una «sala macchine» e con la sua capacità di produrre tutti i suoni naturali e armonici sostituisce al tempo stesso tutti gli strumenti e tutti i sistemi tonali. Del resto anche questa parte dell'opuscolo è permeata da uno scetticismo addirittura illimitato; non c'è che dire: è la negazione di tutto l'esistente. Strano! Non crede a ciò che esiste, crede a ciò che non esiste! Questo avrebbe un senso su un piano strettamente filosofico, se si parlasse del mondo nel suo complesso, della sua idealità; riferito alle cose di questo mondo è semplicemente assurdo. Busoni nega i segni di notazione e la teoria degli intervalli, vuole eliminare i modi maggiore e minore, rifiuta tutti gli strumenti, della dottrina dell'armonia dice: «Quale sistema forzatamente limitato sia sorto da questa iniziale confusione si può vedere consultando i codici e non staremo a ripeterlo» (pag. 37). Nega che le nostre tonalità siano tali; sarebbero trasposizioni (e va bene, lo si può ammettere, è una disputa sulle parole; ma non che siano prive di valore). A tutto questo posso solo opporre in tutta semplicità che ammiro sinceramente, lo confesso, la costruzione del nostro sistema tonale, il suo divenire e ciò che è stato creato nel suo ambito e per suo mezzo, e che fra tutte queste creazioni mi trovo perfettamente a mio agio. Per quel che concerne i modi maggiore e minore, ammiro questa scoperta e la trovo anzi sensazionale; e sono d'accordo col non-musicista Schopenhauer quando dice: «Ma come mirabile è l'effetto di maggiore e minore! Come stupisce che il mutar d'un semitono, il subentrar della terza minore in luogo della maggiore, c'inspiri immediatamente e inevitabilmente un senso d'angoscia e di pena, dal quale con la stessa rapidità ci libera il modo maggiore!» [Il mondo come volontà e rappresentazione, libro terzo, par. 52]. Quando Busoni afferma: «Oggi una marcia funebre non si può 'comporre', è già lì una volta per tutte», intende dire con questo che in una marcia funebre egli sente soltanto il modo minore, e non la marcia funebre, solo l'elemento tonale, e non la composizione, solo il suono, e non il linguaggio, della musica; dal che si può dedurre senz'altro che qualora, viceversa, qualcuno gli offrisse solo un nuovo elemento tonale e non una nuova composizione, Busoni crederebbe di sentire già una composizione. Afferma inoltre poco più in là: «È strano che il maggiore e il minore siano sentiti come opposti». Di primo acchito il senso di una frase come questa mi appare incomprensibile. Se però mi sforzo di costringere il mio cervello a cancellare questi limiti a non distinguere più maggiore e minore, a non riconoscere più le nostre tonalità in favore dei terzi e dei sesti di tono, non provo affatto una sensazione come se dal lontano futuro mi giungesse l'eco di una grande gioia inebriante; anzi, mi sembrerebbe di dover stravolgere tutto quanto ho appreso, per capire la musica di una tribù selvaggia o il linguaggio musicale di millenni passati. Gli eschimesi, i papuasi, i negri Swahili non distinguono probabilmente neanche loro maggiore e minore. I sistemi tonali degli indiani e degli arabi presentavano più gradi del nostro. I neumi erano una notazione imprecisa che, verosimilmente, permetteva ogni sfumatura nell'altezza dei suoni. Nulla di nuovo sotto il sole. Se non percepissi più maggiore e minore, non potrei più capire, per esempio, il Lied di Schubert Fremd bin ich eingezogen, fremd zieh' ich wieder aus [Winterreise, N. 1, «Gute Nacht»], con il suo alternarsi di minore e maggiore tanto commovente. E certo non darei questo solo Lied in cambio dell'intero apparecchio del dott. Cahill. Di quale infinita, meravigliosa ricchezza di tesori dovremmo fare a meno se rinunciassimo al nostro sistema tonale, ai nostri strumenti e così via! E che cosa non è possibile all'interno del nostro sistema tonale tanto denigrato in questo opuscolo? Persino quelle figure melodiche e armoniche proposte a pagina 41 sono - per quanto quelle successioni di suoni su quegli accordi ripugnino alla nostra sensibilità musicale -possibilissime nel corso di un lavoro a patto che necessità e relazioni melodiche, motiviche, contrappuntistiche o anche poetiche ne creino la condizione e la ragione. E difatti sono assai più frequenti di quanto non si creda. Da ciò nasce il fenomeno per il quale un accordo può essere sentito in modo diverso a seconda di come si presenti; ossia che, date certe condizioni, possa essere sentito e interpretato come eufonico, o almeno come una particolarità caratteristica, quel che avulso dal flusso dell'intera composizione e lasciato a se stesso sarebbe una insensata cacofonia. Le partiture moderne ce ne offrono numerosi esempi.
L'opuscolo volge alla fine e anch'io concludo. Nel complesso, con le sue promesse trascendentali da un lato, i suoi sesti di tono dall'altro, l'impressione che desta ricorda quella dei romanzi di Jules Verne, il quale ci invita a fare un viaggio sulla luna e vuoi renderne plausibile la riuscita mediante numeri e aridi calcoli di cui non si sentirà pienamente soddisfatto né colui che cerca informazioni scientifiche né colui che si aspetta un godimento artistico: rimane soltanto uno stimolo divertente, e nient'altro. Le ultime pagine conducono dall'invenzione di mister Cahill a speranze trascendentali per la musica, quindi, passando attraverso il rifiuto nicciano della musica tedesca e dopo aver citato Tolstoj, alla speranza di raggiungere il nirvana per mezzo della nuova musica futurista, evidentemente con l'aiuto del «trascendentale generatore di suoni» (pag. 44) del dott. Cahill, confortato da una lettera di Vincent d'Indy.
Bene, non vogliamo ostacolare lo spirito cosmico che tutto permea: quel che deve accadere accadrà. Ma se ciò che verrà sarà bello, è altra questione; e se sarà più bello di quanto già abbiamo, è un problema che ci preoccupa. Se a parlare per bocca di Busoni è davvero lo spirito della musica, se essa non è soddisfatta delle sue forme, eccetera, non le accadrà forse come al cavallo della favola Zeus e il cavallo di Lessing? Busoni ripone nel futuro tutte le sue speranze per la musica occidentale e considera presente e passato un balbettante inizio, una preparazione. Ma se le cose stessero diversamente? Se ci trovassimo invece a un punto saliente, o se lo avessimo addirittura oltrepassato? Se i nostri ultimi cento anni, o centocinquant'anni, rappresentassero la massima fioritura della musica occidentale, il vertice, la vera e propria epoca d'oro, che non tornerà mai, alla quale seguirà un deperimento, una decadenza, come avvenne dopo la splendida fioritura della tragedia greca? La mia sensazione è che si vada piuttosto in questa direzione. Già Rubinstein ha parlato seriamente di un «Finis musicae». Non sarebbe forse compito del nostro tempo, invece di andare alla ricerca dei sesti di tono, di volersi precipitare in avanti a folle velocità, di voler distruggere per amore della novità tutto quello che si è conquistato, non sarebbe forse piuttosto compito auspicabile del nostro tempo quello di richiamare a una amorevole riflessione su quanto è stato fatto e quanto si fa nel presente, e non solo su quel che naviga alla superficie? L'errore trionfa in ogni tempo, ma ha ogni volta una connotazione diversa. Può darsi che la caratteristica dell'epoca appena trascorsa sia stato il filisteismo; oggi però non è più così, semmai vale il contrario. Di fronte a ogni novità l'epoca passata si domandava: fa al caso mio, posso capirla? Quella presente si chiede: non farò la figuraccia di passare per arretrato? Qui sta tutta la differenza.
Se realmente l'epoca che va da Bach a Beethoven a Wagner a oggi rappresenta la vetta più alta dello sviluppo della nostra amata arte, in parte dobbiamo ringraziare anche il lavoro instancabile, proficuo e talvolta geniale dei teorici e degli insegnanti. Assai più che questi insostituibili maestri si potrebbe definire Busoni un «legislatore»: egli è il Mosè futurista che indica ai suoi seguaci la terra promessa, e se si volesse ridurre il contenuto della sua estetica della musica alla formula più onesta e concisa, avremmo la forma negativa nella quale si esprime il Decalogo: l'imperativo negativo. Non scrivere nelle forme tradizionali! Io sono il dinamofono di mister Thaddeus Cahill, non avrai altri strumenti musicali all'infuori di me! Non desiderare le scale maggiori e minori! Eccetera.
Busoni è davvero straordinariamente «musicale», ma «il n'aime pas la musique», almeno non la nostra. Si potrebbe rifiutare il contenuto effettivo del suo scritto e nello stesso tempo ciononostante provare molta simpatia per esso se l'autore stesso, dopo aver assorbito tutto il patrimonio musicale del nostro tempo, entusiasticamente, in un trasporto di felicità, volesse ancora di più, si struggesse per la brama e desiderasse afferrare le stelle per trovarvi un mondo musicale senza confini. Ma questa Sehnsucht entusiastica (Sehnsucht, concetto che i popoli latini non conoscono e per il quale di conseguenza non hanno una parola nella loro lingua) è estranea al nostro legislatore. Egli è uno spirito freddo, fluttuante. Per lui l'arte è cosa più dell'intelletto che del cuore, come del resto la musica del nord è più calda di quella del sud. Con il suo talento straordinario ha sperimentato tutte le possibilità tecniche, tutto ciò di cui è già padrone ora lo annoia, e per questo motivo i limiti lo infastidiscono. Siede al pianoforte. Che ostinazione da parte dei tasti non consentire un passaggio delicato dal si al do. Questi limiti debbono sparire! Ascolta un'orchestra: sono press'a poco lo stesso clarinetto, la stessa tromba, lo stesso violino che figuravano in orchestra già all'epoca di Beethoven e di Wagner. Come sono noiosi questi limiti! Apre una musica: come salta in mente a questo compositore tirannico e pedante di pretendere da me che suoni cento battute sempre nel medesimo tempo? Non lo sopporto per più di otto battute! Ostacola la mia libertà! E questi punti neri, questi segni e queste linee, dovrebbero esprimere gli elevati pensieri dell'uomo? Via questi limiti! E la chiave di violino, questa chiave di basso qui, non sono particolarmente sospette? Posso immaginarmi che sensazioni del genere si facciano largo qualche volta in ogni uomo, in rapporto a se stessi, a tutta la propria esistenza, al proprio sentire; posso credere che quando si è in cattiva disposizione spirituale e fisica si trovi strano che vita natural durante ci si debba vestire ogni mattina per spogliarsi ogni sera, che il corpo occupi sempre lo stesso volume, che occorra guadagnarsi ogni minuto della propria esistenza con il respiro, che si trovi estremamente noioso avere sempre lo stesso naso in mezzo al viso. Se questi stati d'animo diventano permanenti, un bel giorno ci si impicca. Il nostro scrittore d'estetica vuole che la nostra musica commetta suicidio: staremo a vedere se è ancora tanto sana da non farlo.
È ben vero però che se imparassimo a vedere con i suoi occhi, essa non potrebbe far altro che sparire del tutto. Giacché egli la vede così: una contrada incolta coperta di erbacce selvatiche e fastidiose su un terreno trascurato, alcune pietre logore su tombe di eroi e qua e là qualche indicatore stradale di legno che punta verso l'ignoto. E tutt'intorno si estendono bei prati verdeggianti.
(Traduzione di Laura Dallapiccola e Sergio Sablich)