MILANO 1913


NOTE ILLUSTRATIVE
AGLI OTTO CONCERTI DI BUSONI

DEL DOTT. HUGO LEICHTENTRITT

Gli otto programmi di questo ciclo di concerti offrono i tratti salienti dello svolgimento della letteratura pianistica, da Giovanni Sebastiano Bach al tempi nostri. La grande intrapresa doveva forzatamente dar luogo ad una selezione provocata dall'enorme materiale di questa letteratura. Essa comprende un mondo intero: tutti i climi, tutti i paesi, tutte le nazioni, tutti i temperamenti, tutti i moti dell'anima, in quanto essi siano accessibili alla musica. Da sè sola essa ci offre, per mole e per varietà, più di qualsiasi altro genere di musica, sia vocale, teatrale, orchestrale, da camera, ecc. E si aggiunga, che pel pianista esperto è accessibile quasi tutto ciò che per la musica sinfonica e drammatica è stato scritto e che tutto ciò può venir suonato anche da un'unica persona. Veramente dunque un mondo a sè. L'invito ad un viaggio in tale mondo ci è dato dagli otto concerti di pianoforte di Ferruccio Busoni. Essi si soffermano sui punti più luminosi, ci guidano ad altezze dalle quali si godono le più incantevoli prospettive; ed in pari tempo essi ci fanno passare sotto gli occhi lo sviluppo, l'evoluzione tecnica del pianoforte moderno. Incominciano là, dove, per la prima volta compare, con G. S. Bach, una musica per pianoforte di grande stile. Certo, per poter comprendere Bach, è necessario conoscere anche l'arte del pianoforte del XVII e XVIII secolo; quelle graziose e capricciose miniature, tutte finezza e movimento, dei vecchi maestri
del clavicembalo, del Couperin, del Rameau, dello Scarlatti. Nelle sue "Suites" e "Partite" G. S. Bach ci offre la perfezione di quest'arte minuscola. Ciò che Bach porta di suo in questa musica gentile e delicata, in questa musica Rococò, è la grandezza dell'espressione fino allora sconosciuta, ed una trasformazione in proporzioni più ampie e poderose. Questo si mostra già in molti punti, specialmente nei "Preludi" delle "Suites Anglaises", in molti pezzi del "Clavicembalo ben temperato". Per quanto Bach rimanga qui pur sempre nei limiti del sensibile clavicordo, dei fini e pallidi colori del vecchio strumento, pur tuttavia egli li ha già varcati di molto in un gran numero dei suoi pezzi per clavicembalo: egli scrisse per un istrumento immaginario, dalla tempera vigorosa, dalla forte sonorità, dal suono metallico, come se egli avesse presentito il moderno pianoforte a coda. E per un simile istrumento. Bach dovrebbe risorgere in tutta l'intera e piena sua grandezza, egli, Bach, il grande maestro dell'organo, egli, che coll'organo era abituato ad immergersi in un mare di suoni, a sfrenare la fremente armonia dell'intero congegno, a lasciar vagare lontano la libera sua fantasia. A questi pezzi di grande getto e di grandi linee appartiene la
Fantasia e Fuga Cromatica. L'ampiezza e grandezza dello stile dell'organo deve venire strappata ai tasti del pianoforte. La libertà e l'audacia, l'arditezza della fantasia, la ricchezza dell'armonia cromatica danno al pezzo un'impronta molto moderna. In viva antitesi con questa libera e sbrigliata fantasia, sta la severa legatura, l'architettonica chiusa e perfetta della fuga, che si svolge con una logica poderosa ed inesorabile, che prorompe alla meta superando ogni ostacolo, con un resultato impressionante, passo passo, adagio, pensosa eppur irresistibile, vittoriosa, trionfante. Quest'opera dà, per così dire, un'immagine dell'individualità di Bach nei suoi tratti essenziali e caratteristici: un temperamento passionale ed ardente unito all'intelligenza più fredda e cristallina.
Dopo dunque che Bach stesso qua e là, come per esempio, nella "Fantasia cromatica", aveva trasformato in organo il pianoforte, era ovvio che si utilizzassero più tardi anche pel pianoforte le opere per organo. L'istrumento moderno era in grado di soddisfare alle esigenze di Bach. Liszt fu il primo che trascrisse per pianoforte le opere per organo di Bach; cioè egli non riportò per il pianoforte solamente le note dello spartito dell'organo, ma cercò anche di riprodurre, per mezzo d'una tecnica speciale, gli effetti di suono che l'organo ci offre, grazie al suoi molteplici registri, o, per meglio dire, egli cercò di tradurre la lingua dell'organo nella lingua del pianoforte. Liszt fece scuola. Tausig, D'Albert, Stradal ed altri seguirono con trascrizioni simili.
E
Ferruccio Busoni portò ancor più innanzi l'arte delle trascrizioni, strappando al pianoforte con mezzi pianistici, prettamente tecnici, un suono ancor più conforme all'organo, accrescendo ed arricchendo così la potenza ed i mezzi d'espressione del pianoforte. Sono esempi brillanti le sue trascrizioni del Preludio e della Fuga in re maggiore dei Tre Preludi Corali. Un còmpito ancor ben più difficile egli si assunse colla celebre Ciaccona che, scritta originariamente per violino, dovette pel pianoforte venir completamente rifusa: qui dal tema di Bach, Busoni creò qualcosa di nuovo: egli ne mantenne, è vero, inalterate la linea melodica, la trama armonica, ma trasse dal pianoforte queste melodie ed armonie con una libertà sovrana, con una padronanza del materiale che ci fa ricordare l'audacia con cui Bach stesso trattò la parte del violino nella Ciaccona.

Beethoven è la nuova meta del nostro viaggio mondiale. Abbiamo dovuto sorvolare su una serie di altre opere piene di grazia e d'incanto, d'attrattive e di fascino, fra Bach e Beethoven. Il clavicembalo, ed il cembalo si sono frattanto trasformati nella spinetta. È sorto ed è già scomparso lo stile "galante" di Filippo Emanuele Bach. Da Filippo Emanuele Bach, impara Giuseppe Haydn; la sonata classica appare, discreta ed umile, quasi timida e pur materiata di nuove grazie intime. Dopo Haydn compare Mozart, un genio del pianoforte nel suo genere:, le sue Sonate per pianoforte, e soprattutto i suoi concerti, sono la musica ideale inventata e dettata dalla tecnica e dalla natura proprie dell'istrumento dì quei tempi. Dopo Mozart l'arte della tastiera batte due diverse vie: da un lato i pianisti puri: Hummel, Field, Cramer, Clementi, che raggiungono l'apogeo con Chopin, dall'altro un gigante che impara, da tutti ì suoi predecessori e da tutti i suoi contemporanei, che li supera, tutti, che tutti li batte nel loro proprio dominio, che conquista al pianoforte un possente impero, nel quale egli domina come sovrano incontestato, non sempre con mano soave, qualche volta anzi con violenza, senza riguardi, quasi dispoticamente. Beethoven ha fatto il suo ingresso nella Storia dell'Universo. Questa titanica personalità ha dato a tutte le sue opere un'impronta personale. Uno sguardo ampio e libero, superiore a tutte le pedanterie delle scuole, che si eleva al di sopra di tutto ciò che di bourgeois vi è nell'arte, il nobile suo cosmopolitismo, la grandiosità, profondità e serietà nel concepire il mondo e la vita, la sua magnanima etica dell'arte, il senso della responsabilità, di cui era compenetrato il suo genio; tutte caratteristiche, tutti tratti grandi osi che la sua musica rispecchia. E fra queste creazioni, le sue opere per pianoforte sono fra le più grandi e più vaste, giacché esse abbracciano un mondo di sensazioni, di percezioni, di sentimenti, a partir dalle piccole sonatine dell'età giovanile, dai graziosi rondò, dalle "bagatelle" genialmente gettate, sin alla meravigliosa costruzione, all'edificio magnifico e superbo dell'ultima sonata. Delle sonate ne sono state scelte sei.
Questa scelta è stata fatta per mostrare i rapporti del Maestro col suo istrumento favorito in ognuno dei suoi tre periodi creatori. Ai primi tempi appartiene l'
op. 26. Nel trattamento tecnico dell'istrumento, Beethoven si riallaccia, nelle prime sonate, strettamente a Mozart e Clementi, benché egli vi riveli già chiaramente la sua propria personalità nell'intrinseco contenuto intellettivo, nel tema. Una delle più belle fra queste sonate è l'op. 26. Il tema con variazioni, lo scherzo, la marcia funebre ed il finale si uniscono l'un all'altro, è vero un po' a forma di "Suites", manca ancora l'intima e convincente coesione delle singole frasi, quale poi Beethoven la seppe quasi, sempre trovare, ma ogni frase è un capolavoro a sé, tanto nelle nobili, melodiose Variazioni, nell'impetuoso Scherzo, che è già tutto Beethoven, quanto nella patetica "Marcia Funebre" nel Finale, tutto squisitezza e movimento.
La
sonata op. 53, la celebre Waldsteinsonate, è un'opera tipica per lo stile del periodo di mezzo di Beethoven. Egli ha ormai completamente trovato il suo proprio stile. Splendore e grandezza, potenza ed esuberanza, altezza del pensiero, audacia nell'allargare le forme, getto ardito e sicuro contraddistinguono le opere di questo periodo. Come un trionfatore Beethoven, procede in queste sue magnifiche creazioni. È un autocrate, colla piena coscienza di sè stesso, della sua potenza e della sua forza. La prima frase è eretta in vaste poderose proporzioni; piuttosto gettata giù come un affresco per ciò non sottilmente, finemente lavorata nei particolari; un pezzo di grande, nobile virilità. Un breve e lento intermezzo trae i suoi effetti dalle sonore note tenorili del pianoforte; un effetto nuovo di suoni, le cui bellezze, Beethoven, primissimo tra tutti, ci ha intimamente rivelate. Un brillante Rondò costituisce la chiusa; uno di quei pezzi pieni di robusta vitalità per i quali Beethoven scelse così volentieri il tono elementare del Do maggiore, come nel Finale della V Sinfonia, nelle ouvertures della "Leonora", nel Finale del "Fidelio". Lo stile di concentramento della Waldsteinsonate è caratteristico per un gruppo intero delle Sonate del periodo medio, soprattutto per l' "Appassionata".
Nel terzo periodo lo stile del Maestro si modifica ancora. Ombroso e riservato, solitario, isolato dal mondo esterno dalla sordità e dalla sua diffidenza, egli innalza nella sua immaginazione, fantasmi, creazioni maravigliose d'una tale profondità d'espressione psichica, d'una tale intensità di percezione e di sentimento, d'un tale estremo affinamento di sfumature dell'animo, che il Beethoven dell'ultima maniera è sinonimo di tutto ciò che di più alto e profondo, di più sentito e vero la musica possiede. Tre delle ultime sonate vengono qui riprodotte. Tutte mostrano le libertà di forma caratteristiche dell'ultimo periodo. L'
op. 109 si compone d'una lunga introduzione a forma di fantasia, alla quale fa seguito un energico allegro, ristretto e portato ad una semplice formola. Un tema con variazioni forma la chiusa, variazioni di quel sublime genere che solamente Beethoven ha nelle. sue ultime opere. Già qui si rimane sorpresi delle. rassomiglianze colle estatiche e mistiche visioni dell'op. 111.
L'
op. 106 in Si bemolle maggiore, la più grande e difficile di tutte le sonate, rivela le caratteristiche violente e dispotiche, di cui abbiamo parlato più su. Beethoven costringe l'istrumento ad esprimere cose e suoni, di cui mai prima lo si era ritenuto capace. Ed alla possente e pesante mano del Maestro si piega infine il pianoforte, benché a malincuore, quasi riluttante e restìo. Ad una prima frase di gigantesche proporzioni, costrutta con maestosa larghezza, segue uno Scherzo di dionisiaco carattere: i ritmi alati del tema principale vengono ripetutamente interrotti da alcuni punti cupamente risuonanti, per poi precipitosamente rialzarsi.
Il sublime Adagio si sprofonda negli abissi del mare. Un canto, un inno che si, eleva nelle sfere celesti, estatico, una possente visione trascendentale che ci viene da altri mondi, soprannaturale: queste melodie sembrano rilevarci una profonda serietà, una brama ardente, un anelito appassionato, che poi ricade in una torpida apatia, senza desideri, in un Nirvana.
Il Finale, preceduto da un'introduzione a forma di fantasia, a frasi tronche, di drammatica tensione ed effetto. Questo singolare preludio passa inaspettatamente nella violenta Fuga finale, un pezzo dalla fantasia più ardita, d'una mancanza di riguardi senza esempi nell'arte classica, per quel che riguarda il armonia, l'intelligibilità, la chiarezza, l'esecuzione. Nel corso di lunghi decenni si è infine riusciti a vincere, a superare tecnicamente anche questo pezzo, forse il più difficile di tutti i pezzi per pianoforte, a seguire tutti i suoi bizzarri ed aggrovigliati intrecciamenti, a riconoscere il genio che anche qui si palesa, benché più difficilmente intelligibile.
L'op. 111, l'ultima delle sonate, ci trasporta dagli abissi della passione riflessa in à stessa sino alle sommità della luce trasfigurante. Nel Maestoso dell'introduzione la melodia s'inalbera, s'impenna, fiera e possente; ma ben presto svaniscono i forti accenti, i grandi voli, e, quasi paurosi e timidi, si fondono l'uno nell'altro gli accordi; e poi accenti di dolore, un rumoreggiar sordo nella profondità, un rapido crescendo, e l' "Allegro con brio ed appassionato" è raggiunto. Con una violenza selvaggia il tema fondamentale prorompe dall'abisso: come marosi spumeggianti, i passaggi si precipitano l'uno sull'altro, ed ecco che, improvvisamente, cadon dall'alto sereni accenti di conforto, ben presto nuovamente ricoperti dal tumultuare dei suoni violenti. In questi contrasti si muove l'intero tempo. Il secondo tempo l'Arietta con variazioni, è una delle più sublimi ispirazioni di Beethoven; una musica che s'innalza ad altezze celesti, eteree; una musica incorporea, libera di tutto ciò che sa di terrestre, pura di ogni torbida passione. Un canto grave e serio, e pur infinitamente soave, nei bassi, prelude alla frase. Le variazioni passano dai bassi a note sempre più alte, risolvendo in pari tempo sempre più; in un intreccio di figurazioni, i massicci accordi, sinché l'armonia si libra in alto come in mezzo a chiare nubi, svanisce nell'infinità dell'universo, dell'etere. Alle sonate, l'opera suprema del Maestro, non si poteva dare una chiusa migliore e più bella di questo ultimo suono soave e serafico.

Se nella musica per clavicembalo di Bach si può sempre riconoscere l'organista; se le sonate di Beethoven ricordano sempre il sinfonista, il maestro dell'orchestra, è Chopin quegli che ha scoperto, per così dire, il pianoforte come individualità propria e ben distinta. Non c'è nei tempi a noi vicini, alcun maestro che sia così indissolubilmente, così esclusivamente unito al pianoforte. Il suo pianoforte non rivaleggia né con l'organo, né coll'orchestra: vuol essere soltanto pianoforte e da questa sua voluta limitazione esso trae grazie e fascini insospettati. Va anzi notato come le opere di lui vennero meno influenzate dal grandi classici viennesi che non dagli specialisti del pianoforte come Hummel, Field, Clementi. Chopin stesso divenne il più grande specialista del pianoforte ed in pari tempo un grande compositore, e ciò è tanto più degno di nota in quanto l'ideale d'arte del suo tempo mirava all'universalità, giacché tutti i grandi maestri d'allora cercavano di essere il più possibile versatili. I progressi tecnici di Chopin si riconoscono nel modo più evidente nel 24 Studi. La sua frase pianistica è caratterizzata dall'assenza d'ogni rigidità, d'ogni asprezza, dall'agilità, dalla fluidità, dall'ingegnosa elaborazione delle figurazioni, delle figure d'accompagnamento e da un'ampiezza di tocco fino ad allora non usata. Grazie a questa agilità della frase, egli riesce con poche voci effettive a dare l'impressione della pienezza dell'armonia. Raramente egli scrive a più di tre voci, in senso pianistico, ben inteso: la voce superiore per la melodia, i bassi come base armonica la voce media, come complemento. Ma queste tre voci sono impiegate con peregrina arditezza. Per mezzo di ampi disegni, l'autore estende le linee della melodia e le abbellisce con una quantità di graziose ornamentazioni. Emancipa poi l'accompagnamento con ingegnose varianti, ove le melodiose figurazioni e la pienezza delle armonie s'impongono colle seduzioni di una spiccata originalità. La voce media poi, anche per l'uso raffinato del pedale e la conseguente libertà d'azione della mano sinistra, completa questo mirabile tessuto polifonico. La nuova tecnica, associata alla ricercata arte dell'armonia chopiniana, celebra negli "Studi" i suoi trionfi. Chopin trae qui dal pianoforte dei suoni, delle melodie quali prima non si erano mai udite. Gli dobbiamo un genere nuovo portato a perfezione sino dal suo primo apparire. Già i soli "Studi" sarebbero bastati a rendere immortale il nome di Chopin. Ma per quanto valore ed interesse questi "Studi" abbiano come studi tecnici, tuttavia il loro vero e proprio valore artistico essi lo acquistano per la loro straordinaria poesia.
I
24 preludi sono dei piccoli pezzi a mo' d'improvvisazione, degli arabeschi stilizzati, degli schizzi rapidamente buttati giù: sono impressioni che nell'acutezza delle loro caratteristiche, nell'incanto dell'esecuzione, nel trattamento superiore del pianoforte non possono essere superate. In brevi limiti ognuno di questi pezzi manifesta il suo peculiare carattere. È sorprendente la loro varietà: notturni, romanze, capricci, idilli, quadretti di paesaggio, ma anche selvaggiamente passionali, lugubri, sinistri fantasmi, suoni minacciosi di tempesta.
Come artefice maestro dei piccoli pezzi sentimentali, della poesia intima, Chopin si palesa anche nei Walzer, nelle Mazurke, nelle Polonaises, nei Notturni, negli Impromptu, (Scherzi), (Ballate), ecc. Già nella forma tutte queste composizioni si distinguono dalla sonata ciclica, grazie alla loro composizione ad un unico periodo. Benché Chopin abbia avuto alcuni predecessori in queste piccole forme, come Field nei Notturni, Schubert negli Impromptu, Weber nell'Invito alla Danza, e nella Polacca, pure è stato Chopin che per il primo ha trattato questo stile con una varietà e pienezza d'espressione. Egli merita quindi di essere chiamato il classico dei piccoli pezzi per pianoforte. Ma Chopin si rivela romantico specialmente negli Scherzi e nelle Ballate. La fantasia e passionalità, la vivacità abbagliante dei colori ricorda fortemente Byron e Shelley. Si dice che, nelle Ballate, Chopin sia stato inspirato dalle poesie del suo grande compatriota Mickiewicz. Queste melodie sono in realtà di intensa espressione, di natura rapsodica. Molto simili alle Ballate sono gli Scherzi, che, a, vero dire, portano impropriamente questo nome perché non hanno quasi traccia di festività. Ai grandi Scherzi sinfonici di Beethoven non si potrebbe forse paragonare che lo
Scherzo in Do diesis minore di Chopin, op. 39, che nella sua parte centrale ci offre anche deliziosi effetti. lunghi accordi, robusti, vigorosi, come di corni e trombe, e, su di essi, volta per volta, gettato un trapunto scintillante e delicato. Esso risuona dal pianoforte come un insieme di mille voci soavi, come un'apparizione, un'eco incantata di ninfe.
La
Barcarola è uno dei pezzi più affascinanti di Chopin. Sul ritmo di dodici ottavi si svolge una deliziosa scena amorosa, piena di aneliti appassionati, di canti dolcissimi, a gradazioni di colore e di espressione sempre crescenti; il tutto immerso in una ammagliante atmosfera campestre. Questa Barcarola nella sua lirica, ebbra di sentimento, è imparentata coi Notturni, dei quali due dei più belli vengono qui offerti : il Notturno in Re bemolle maggiore (op. 27, n. 2) che è un dolce canto d'amore, risuonante in una notte d'estate al chiaro di luna tremolante sullo specchio dell'acque, pervasa da una armonia di suprema bellezza. Ben differente è invece l'altro in Do minore (op. 48, n. 1) l' "eroico" dei Notturni, epico, rapsodico, passionalmente eccitato e commosso.
La brillante
Polacca in La bemolle maggiore è l'apogeo del genere, per lo slancio dell'esecuzione, la sua cavalleresca natura, il fuoco giovanilmente impetuoso, la nobiltà dell'espressione.
Chopin non ha tentato che raramente le grandi forme sinfoniche; egli non si sentiva a suo agio in questo campo. Le sue due sonate sono, è vero, mirabili composizioni; ma come sonate non si possono misurare alla stregua di quelle di Beethoven. La più serrata nella forma, è la
Sonata in Si bemolle minore, (op. 35), un'opera assolutamente tragica. il primo motivo vibrante d'ansia affannosa; in un punto solo ride la calma: là dove si sviluppa il secondo tema, nobile, melodioso. La parte di transizione nel mezzo è sorprendente per la tecnica dell'armonia che rammenta Wagner. Come armonista Chopin è uno dei più forti creatori della musica moderna. Segue un selvaggio Scherzo, nel quale molti punti ricordano nuovamente Wagner, come, ad esempio, ì sibilanti passaggi di sesta. La Marcia funebre ha acquistato fama mondiale. Il Finale, uno dei pezzi più singolari di tutta la letteratura pianistica, è stato, paragonato da Rubinstein all'ulular del vento sui cimiteri; dal principio sino alla fine un mormorio uni.forme, che si eleva qua e là sin ad un grido, ad un piante, lamentoso.
L'opera 58, la
Sonata in Si minore, è una delle più brillanti opere di Chopin, per la pienezza, la vigoria, la bellezza, delle idee ; ma in verità, più che una Sonata, sono quattro singoli pezzi. Il primo periodo lo si potrebbe contare fra le ballate, così pure il Finale; il Largo potrebbe passare come Notturno. Soprattutto l'ultimo tempo, selvaggio nel carattere, di slancio irresistibile, è uno splendore di virtuosismo pianistico che prima di Chopin nessuno tentò di affrontare.


Franz Liszt non ha chi gli sia pari nel dominio dei tasti. Altri gli sono superiori nella potenza ìnventiva, in ciò che riguarda ì temi, nella potenza d'espressione dei motivi per se stessi, nella elaborazione polifonica, nel magistero della forma, ma nessuno ha mai posseduto una capacità pari alla sua: quella di poter rendere tutti gli stati d'animo, tutte le immagini possibili, senza richiedere di più di quello che le dieci dita possano dare. Certamente Lìszt insegnò ad ottenere e ricavare dalle dieci dita ciò che prima di lui non si sarebbe potuto ottenere con ventì. La sua impareggiabìle, abbagliante virtuosità e maestria gli avevano sgOmbrato il terreno di qualsiasi ostacolo nell'esecuzione: egli trovò i mezzi d'espressione per i compiti meno comuni e più rari. Il maestro compositore è in lui inseparabilmente unito il virtuoso. Per sviluppare pienamente il suo talento di suonatore di pianoforte, non gli bastava la letteratura pianistica allora esistente: egli si sentì costretto ad esprimere ciò che pensava potersi ottenere dal pianoforte ìn composizìoni che nella tecnica si elevano ben al disopra di tutto ciò che sino allora esisteva. Già neì suoi verd'anni questi problemi lo occupavano intensamente ed egli impiegò dei decenni a sviluppare e completare queste sue idee. A tal riguardo non c'è cosa più istruttiva della lettura dei suoi Etudes d'exéution transcendentale nella nuova edizione completa delle sue opere (pubblicata da Breìtkopf & Härtel, dì Lipsìa, a cura di Ferruccìo Busoni): spesso egli dà, in perìodi dìversi, tre versioni degli stessi pezzi, e da esse si può vedere con quale impegno egli si occupava della frase pianistica per esprimere la sua, idea nel modo più chiaro possibile. Di questi studi, che sono fra i più importanti dei suoi lavori, tre vengono qui riprodotti: L'Appassionata, impetuosa, infocata di passìone; il fantastico, spettrale studio Feux follets, ed ìl grandioso, selvaggio, eroico studio Mazeppa (sulla poesia di Víctor Hugo). Sulla evoluzione di Liszt ebbe influenza decisiva Paganini, che faceva allora stupire ed esaltava tutta l'Europa. Liszt ha trascrìtto per pianoforte i famosi Capricci per violino di Paganini, ed in modo estremamente ingegnoso egli tradusse la frase eminentemente violinistica di Paganini in frasi eminentemente pianistiche. In questi tre capricci: "Andanlino capriccioso", "La Chasse", "La Campanella", si vede come Liszt seppe accrescete ed arricchire colla tecnica del violino i mezzi d'espreissione del pianoforte.
Una gran parte delle opere per pianoforte di Lìszt costituita dalle
Trascrizioni. Liszt comprese in un senso affatto nuovo l'arte della trascrizione. Non ci troviamo di fronte alla riduzione per pianoforte, nemmeno alla brillante e banale fantasia, allora in voga, su melodie di opere. Liszt invece traduce la composizione d'un Maestro nella lingua del pianoforte, liberamente ed in modo tanto fine ed appropriato che la trascrizione risuona come se fosse un'opera originale. Ne sono brillanti esempi la sua trascrizione dell' "Erlkönig" di Schubert, nella quale egli fa risaltare il canto assieme all'accompagnamento a due mani, sì che la musica segue nel modo più convincente le sfumature dell'esecuzione e della dicitura, quali le darebbe un cantante dì valore. E sorprendente poi come l'intera orchestra risuoni colle corde del pianoforte nella trascrizione della Marcia Nuziale e della Danza delle Silfidi composte da Mendelssohn per il "Sogno d'una notte d'estate", tanto nelle note pompose della Marcia che nelle melodie delicate e fini della danza delle ninfe. Ma ancor più liberamente procede e dìspone Liszt del suo materiale nella Fantasia del Don Gtovanni. Dai temi di Mozart egli trae qualchecosa di affatto nuovo, uno dei suoi pezzi più brillanti, affascinanti colle, ingegnose combinazioni dei temi, coll'audacia della frase, colla passionalità ardente, colle sue spiccate caratteristiche. Qui, come in molte altre sue fantasie su opere italiane, Liszt manifesta un'insuperabile attitudine ed abilità a trasportare, a fissare sui lasti tutto l'apparato scenico, gli assolo, gli assieme, il coro, l'orchestra. E parimenti mirabile è l'agilità della fantasia e la padronanza dei mezzi di espressione del pianoforte che egli vi rivela.
Liszt tenta di allargare in ogni senso i confini del pianoforte. Egli gareggia con successo colla scena, coll'orchestra; egli domanda le ispirazioni al violino; vuole, adattare al pianoforte anche le vibranti melodie dell'organo, maestoso. Si dovrebbero menzìonare qui le opere per organo di Bach che Liszt ha trascritte, anzitutto le
Variazioni su un Basso ostinato di Bach, tema che Bach utilizza in una cantata: «Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen», ed anche nel "Crucifixus" della sua gran "Messa in Si minore". Se da un lato le variazioni sottolineano, accentuano in modo impressionante, col loro motivo fondamentale, cromaticamente discendente, il pianto, il lamento, l'ansia, lo sgomento; dall'altro il Finale porta la liberazione, il conforto coll'inizio del Corale «Quel che Dio fa è ben fallo» che è d'effetto veramente meraviglioso.
Delle
composizioni originali di Liszt una delle più grandi e potenti è la Sonata in Si minore. Essa dà un'idea particolarmente esatta e precisa del pensiero di Liszt riguardo alle forme. Egli sviluppa tutti i temi delle sue composizioni maggiori partendo da uno o due motivi per mezzo di variazioni ritmiche, melodiche o armoniche. Egli si riafferra così, senza saperlo forse, ad una vecchia teoria delle forme, che era stata già sistematicamente sviluppata dagli organisti italiani del 1600, da Claudio Merulo, a Gerolamo Frescobaldi, ma che era poi caduta in dimenticanza. Anche la maniera ad una sola frase è caratteristica per i motivi sinfonici a forma di sonata del Liszt. Se quattro tempi della sonata classica: l'Allegro, l'Adagio, Scherzo e Finale, vengono da lui uniti in un'unico e grande tempo; egli presenta lo stesso materiale tematico sotto i diversi punti di vista di questi quattro episodi.
Nelle
Rapsodie Ungheresi egli ha innalzato un monumento alla sua nativa Ungheria; per mezzo di esse egli introdusse, per la prima volta nella musica europea, la fantastica musica degli zingari: rapsodica, ardente, fremente nella vita dei sensi.
La proteiformità e duttilità della sua natura fanno apparire quasi come una necessaria conseguenza, che anche i sentimenti e stati d'animo religiosi, il misticismo del cattolicismo trovino in lui un'eco potente, tanto più forte quanto più egli volgeva verso l'occaso della vita. Se è vero che le sue grandi opere di musica sacra furono scritte per coro ed orchestra, pure egli ha confidato anche al pianoforte alcune di queste sue confessioni. Di esse fanno parte due delle sue più nobili ispirazioni, le due leggende:
La predica di San Francesco agli uccelli ed il San Francesco camminante sulle onde del mare, pezzi d'una forte e pur moderata fantasia, d'una perspicua musica imitativa, ricca d'immagini ed ardita.
Come egli abbia saputo trarre ispirazioni feconde per la sua arte dal paesaggio, dalle arti figurative, dalla poesia, dalle sue esperienze della vita e del mondo, dal suoi viaggi, si può vedere particolarmente nei suoi pezzi intitolati : Années de Pélérinage, di cui la seconda collezione,
Italie, compare nel sesto concerto. In nessun'altra parte appare forse più evidente l'unione dei molti elementi formanti la ricca e profonda coltura dell'animo di Liszt. In una lingua melodica veramente nobile ed elevata, pura di tutte le scorie del materialismo, spiritualizzata, egli vi descrive leggende sacre, come nello Sposalizio, sulle tracce di Raffaello, o si abbandona a meditazioni cupe e pessimistiche, come nel Pensieroso, cui fa precedere elevati versi di Michelangelo; egli si inabissa nella grandiosa fantasia della trilogia dantesca colla Fantasia Après une lecture de Dante; egli trova i versi amari e pur dolci, spirituali, diffusi di passione, rattenuta e di soave sensibilità del Petrarca; egli persegue persino le differenti sfumature di queste poesie, nella musica, per diversi sonetti: ed in mezzo a queste sue entusiastiche effusioni mistiche ed esaltate, egli ha pur l'orecchio pronto alla semplice, fresca, graziosa melodia della musica popolare italiana e ne scrive pezzi incantevoli nella "Canzonetta del Salvalor Rosa" e nella "Canzonetta Veneziana".

Agli altri romantici Schumann, Brahms, Alkan, César Franck è dedicato il settimo programma. L'importanza di questi Maestri non è tanto nel campo strettamente pianistico quanto in quello estesissimo della musica.
Il più caratteristico nel modo di trattare il pianoforte è
Schumann, benchè i suoi mezzi pianisfici non siano né troppo ricchi né varii. Negli accordi, tuttavia, egli ha introdotto parecchie novità armoniche.
Brahms continua la tradizione di Bach, di Beethoven e di Schumann ed ottiene spesso grandiosi effetti col suo stile massiccio e serrato.
Alkan è uno specialista spiritoso, non scevro di bizzarria. Seguendo l'indirizzo di Chopin e di Liszt egli tenta, non senza successo, soggetti poco comuni e arriva con molta raffinatezza a sommità tecniche prima di lui non ancora raggiunte.
César Franck si serve dei materiale tecnico di Bach, di Beethoven e di Schumann, e presenta nell'insieme effetti singolari e di vero sentimento: i suoi progressi si avvertono soprattutto dal lato armonico. Certe unioni arcaicizzanli di accordi rammentano le vecchie melodie sacre. Tutti questi Maestri prediligevano i colori oscuri, densi, la pienezza dell'armonia, i gravi effetti degli accordi.

Ferruccio Busoni
è ricordato nell'ultimo concerto con una serie di composizioni per pianoforte che bene illustrano la sua evoluzione quale compositore. Quasi ognuna di queste opere rappresenta - un perspicuo progresso, un passo in avanti verso sempre nuove finalità. Il loro ordine, progressivo, secondo il tempo in cui vennero composte e la loro evoluzione stilistica, sarebbe il seguente: Scena di balletto, Fantasia funebre, Elegie, Capriccio, Sonatina prima, Berceuse, Sonatìna seconda.
L'evoluzione di Busoni quale compositore stata straordinariamente variabile e saltuaria. Già nella sua prima gioventù gli era familiare tutto l'apparato tecnico della composizione dei suoi tempi, cui appartengono quasi tutte le sue prime trenta opere. A questo primo periodo, che rimonta a 20 anni e più, succede una lunga pausa e quando Busoni ricompare con nuove composizioni, verso il 1900, si manifesta una lenta ma continua modificazione delle sue idee d'arte e della loro espressione. Ne fanno prova le opere degli ultimi dieci anni.
La Scena di balletto rivela evidentemente il punto di partenza da modelli antecedenti. La Fantasia funebre appartiene per lo stile alle Trascrizioni che Busoni fece di opere per organo di Bach. In essa si trova già evidente l'accenno di uno dei suoi più grandi e recenti lavori in questo stile, la "Fantasia contrappuntistica" su di un tema dell'ultima opera di Bach, rimasta incompiuta: l'Arte della Fuga.
Le sei
Elegie, pubblicate nel 1908, si possono mettere, riguardo allo stile, assieme al Concerto op. 39 di Busoni ed alla sua musica per la Turandot di Gozzi. Un parallelo colle "Harmonies poétiques" et religieuses e colle Années de Pélérinage di Liszt servirebbe a rivelare tanto le analogie di stile, quanto i punti da cui esso se ne scosta per raggiungere nuove finalità. Tutti questi pezzi hanno comune un'ideazione pianistica che ricerca gli effettì di colore mirabilmente associati ad una magistrale polifonia di carattere bachiano. Ed è mirabile constatare come questa polífonia sia essenzialmente pianistìca, mediante l'impiego alternato delle mani, aprendo così nuovi orizzonti all'arte della tastiera. La libertà di movimento delle due mani viene ancora aumentata utilizzando le pause d'ogni durata, grazie all'uso intelligente del pedale. Un esempio calzante vien dato a tal riguardo dalla Tarantella, nella seconda metà del pezzo All'Italia, nel quale le due mani si alternano l'una all'altra nella melodia onde guadagnare tempo per gli accordi d'accompagnamento. Per quanto concerne l'armonia, l'innovazione più importante è qui l'uso dell'accordo triplo in tono maggiore o minore, immediatamente l'un dopo l'altro nella figurazione, portati ad un'unica consonanza per mezzo del pedale. Anche la risonanza contemporanea di accordi differenti produce effetti di attrattiva singolare, in ispecie, verso la fine del N. 3, dove ci si presenta un arpeggio di sette terze sovrapposte l'una all'altra come figura d'accompagnamento.
La
Berceuse è uno studio preliminare al pezzo d'orchestra dello stesso nome, uno dei lavori più notevoli ed individuali di Busoni. Il contenuto psichico è indicato dal secondo titolo del pezzo d'orchestra: Nenia funebre dell'uomo presso la bara di sua madre. Riguardo allo stile la "Berceuse" si può mettere insieme alla Sonatina seconda. Busoni ha qui cercato ed ha trovato nuovi valori armonici.
La prima parte del
Capriccio Paganinesco, scritta per la sola mano sinistra, rivela in modo meraviglioso ciò che coll'arte progredita di esecuzione e del fraseggiare si possa ottenere con una sola mano.
Le due Sonatine di Busoni non si devono considerare ed intendere come sonatine nel senso comune. Esse non sono destinate a bambini o principianti, nè sono semplici, facili o brevi. Solamente il materiale tematico, relativamente modesto, l'intima espressione giustificano il titolo Sonatina.
La
Sonalina prima, comparsa nel 1900, è una composizione a tema unico, che segue i modelli di Liszt. Una grande Fantasia su due semplici motivi.
L'intera composizione è in quattro parti, conforme alle singole fasi d'una sonata.

Prima parte: Semplice, commovente, in Ire per otto sul primo motivo

a)

con un crescendo nella parte media, ripresa variata nella terza parte,- corrispondente al primo tema della sonata.

Seconda parte: Più tranquillo in sei per otto, fugato sul secondo motivo.

Terza parte: Allegro elegante (Finale) dal punto in cui comincia la figurazione a gamma intera, gran crescendo, che chiude alla fine in una brillante cadenza. Il motivo b) risuona continuamente per opera della mano sinistra.

Quarta parte: Coda, che riprende l'armonia dal principio della prima parte, continuata a mo' d'improvvisazione con molta fantasia: qui vi è intrecciato anche il secondo motivo.

La
Sonalina seconda, di fattura simile alla prima, è ancora più difficile e singolare perchè essa abbandona completamente il principio di una tonalità fissa ed è scritta in liberi ritmi alternati, invece che in un tutto determinato e predominante, come si era finora usato.
L'ottava serata acquista dunque tanta maggiore importanza in quanto che come compositore, Busoni si fa sentire per la prima volta nella sua patria dopo un intervallo di circa tre decenni, cioè dalla sua adolescenza.

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