Laureto Rodoni

Quattro poeti in cerca di soggetto
«Il Turco in Italia» di Rossini allestito a Zurigo


«Il Turco in Italia» del ventiduenne Gioachino Rossini è un'opera buffa tra le più raffinate e innovative non solo di Rossini ma anche di tutto il repertorio lirico; raffinata per il trattamento delle voci, per l'invenzione musicale e la strumentazione; talmente originale, specie nella concezione drammaturgica, che il pubblico, sconcertato, le decretò un clamoroso fiasco in occasione della prima assoluta alla Scala il 14 agosto 1814, mostrando di preferire di gran lunga la più tradizionale «Italiana in Algeri». L'elemento fortemente innovativo e scardinante è la presenza nella gustosa vicenda di un Poeta (Prosdocimo, proiezione teatrale del giovane librettista, allora ventiquattrenne, Felice Romani) in cerca di personaggi e situazioni per una pièce teatrale comica che si svolge nel contempo davanti ai suoi occhi e a quelli del pubblico; un Poeta che, per giunta, tent ando di modificare, a vantaggio suo e delle regole del teatro, il corso degli eventi, funge a tratti anche da regista 'interno', o meglio da maldestro burattinaio.
Il regista 'esterno' Cesare Lievi non si è lasciato sfuggire questa ghiotta occasione, valorizzando questo ruolo di straordinaria modernità (importantissimo ma, non certo a caso, senza arie) che anticipa addirittura aspetti della drammaturgia novecentesca, pirandelliana in particolare: il Poeta, nell'arguta «rilettura» zurighese di questo capolavoro, si presenta infatti quadruplicato: il cantante vero e proprio, il suggeritore (che, prelevato dal suo bugigattolo 'sotterraeo', assolve il suo compito sulla scena con partitura sott'occhio e in costume di scena) e altri due mimi nel ruolo di alter ego dei due burattinai. L'«innalzamento» fisico e drammaturgico del suggeritore è senza dubbio un guizzo geniale, il vertice di questa regia.
Altro vertice dello spettacolo sono le scene di Tullio Pericoli, che occhieggiano ai cartoons e il cui elemento centrale, sul quale i personaggi agiscono e interagiscono, è un enorme tavolo di legno chiaro, che riempie quasi tutto lo spazio scenico. La vicenda si snoda quindi sul luogo di lavoro per eccellenza del librettista e del compositore; esso diviene così il simbolo (con tanta ironia...: esilarante a esempio l'apparizione di una gigantesca rubrica semovente con immagini di ogni genere) della mente del Poeta stesso, la cui immaginazione è rappresentata dalla cangiante parete di fondo, formata da pannelli quadrati apribili da cui escono ed entrano i personaggi e il coro, e attraverso cui si vede la nave del Turco Selim. «Un'esplosione di forme, - ha scritto Angelo Foletto su 'Repubblica'. - Un pettinatissimo disordine in cui poltrone, divani e tavolini, alternati tra oggetti veri e ironicamente dipinti sono montati a mo' di trenino multicolor e» formando un bizzarro corteo di oggetti che compare, indugia, scompare e ricompare. Un effetto tra Botero e Jacovitti, continua il critico, «degno della follia organizzata della musica di Rossini».
Il cast è imperniato su
Cecilia Bartoli, Donna Fiorilla di scatenata vivacità, che, come nella recente registrazione discografica diretta da Chailly, sa alternare improvvisa esaltazione a sottile, subdola ironia che sconfina nella perfidia quando il suo diritto a una gioia di vivere senza limiti viene ostacolato dallo scorbutico e senile marito Don Geronio. Una Fiorilla «semplicemente sbalorditiva nella brillantezza incendiaria della coloratura e nell'eccentricità espressiva» (Foletto).
Imponente, ma nel contempo buffo e maldestro come esige il ruolo, il Turco di
Ruggero Raimondi. Sul piano vocale qualche lievissima défaillance poco o nulla toglie alla sua magnifica interpretazione, basata su un timbro sempre bellissimo e su un fraseggio rossiniano stilisticamente ineccepibile, forgiato nel corso degli anni anche dalle numerose e memorabili frequentazioni abbadiane.
Di buon livello il resto del cast:
Paolo Rumetz (Don Geronio), Judith Schmid (Zaida) e Valery Tsarev (Albazar). Un appunto lievemento negativo a Oliver Widmer (il Poeta) che mi è sembrato, soprattutto vocalmente, fuori ruolo.
Rigorosa, tersa, attenta al dettaglio, la direzione di
Franz Welser-Möst. Ma, forse, un poco più di 'ebbrezza' ritmica avrebbe meglio esaltato l'esilarante 'pazzia' rossiniana e giovato allo spettacolo nel suo complesso.