LUIGI BÀCCOLO


CHE COSA HA VERAMENTE DETTO
IL MARCHESE DE SADE


2. LE LETTERE DEL DETENUTO:
UNA NASCITA

I germi filosofici raccolti in quel viaggio tra le illustri rovine, erano forse destinati a disperdersi nelle consuete orge del suo castello avignonese, se non fossero stati accolti ancòra vitali, e prodigiosamente sviluppati, nella calda incubatrice di una prigione.
Sul finire del 1776, Sade è di ritorno in Francia. Nell'ottobre, è già immerso fino al collo in un nuovo "affare", dei suoi soliti: si tratta questa volta di una ragazza sedotta, Catherine Trillet, di un padre sdegnato che spara qualche colpo di pistola contro il seduttore prima di denuciarlo alla polizia. Sade, col pretesto di recarsi a piangere sulla tomba della madre morta, lascia il castello di La Coste per Parigi. Il 13 febbraio del 1777, è arrestato e portato nel carcere di Vincennes: ci farà cinque anni e mezzo di detenzione, seguiti senza soluzione di continuità da altrettanti alla Bastiglia. Riacquisterà la libertà solamente il 2 aprile del 1790, cinquantenne, giusto in tempo per affrontare la Rivoluzione e le carceri del Terrore. A Vincennes Sade entra dunque, fornito di una "lettre de cachet" del sovrano, in qualità di gentiluomo libertino e scialacquatore, per uscirne scrittore, filosofo e Mostro laureato, già tutto pronto per diventare Sade "le dissqueur", l'infame Sade, il Divino Marchese della leggenda. Così, percorrendo le 107 lettere del detenuto, si ha piena coscienza di assistere a una nascita; che, almeno in letteratura, è sempre spettacolo curioso e appassionante.

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Solo a poco a poco però, Sade si rende conto del peso della propria irrecuperabilità. È vero che fin dai primi giorni scrive (lettera del 13 marzo 1777 alla suocera Madame de Montreuil): "Vi immaginate di correggermi coi castighi, come si fa coi ragazzini?", e sùbito dopo parla del "disordine spaventoso" che si sente nascere nella testa; ma il tono, prima di farsi fermo e duro, è a volta a volta tracotante o ipocrita, non di rado sinceramente nostalgico di una recuperabilità passata. Non si può dire che non abbia avvertito il mondo della guerra che lui stava preparando alle sue istituzioni: tuttavia da principio usa prudenza, spera ancòra di giocare coloro che, nella sua opinione, hanno giocato lui. Non si è ancòra affezionato alla prigione, garanzia di solitudine; è un detenuto che vuole uscire. Echeggiando le epistole di Ovidio dal Ponto, accenna alle proprie colpe definendole "errori di un momento", "imprudenze"; ma già tra minacce e blandizie si insinua un altro fra i grandi filoni dell'epistolario: il sospetto di un tranello e la mania di persecuzione: "Qual è l'autentico nodo di tutta questa storia?". Si compiace della descrizione del cupo carcere abbandonandosi alla captatio dei sentimenti del destinatario non meno che al gusto naturale dell'orrido, in cui fa già la sua apparizione lo scenario consueto delle segrete e dei supplizi: "Io mi trovo in una torre chiusa da diciannove porte di ferro". Di una delle prigioni dell'epoca, Bicêtre, esiste una impressionante descrizione nel Monsieur Nicolas di Restif de la Bretonne, che la visitò nel 1775. Anche del carcere di Bicêtre Sade sarà ospite nel 1803.
Contribuisce a rendergli insopportabile la detenzione, il suo orgoglio di gran signore del Settecento, punito per quel che i suoi avi facevano allegramente alla luce del giorno: abusare di "donne di quella specie", "quelle creature"; donde il suo odio costante per le prostitute e i robins, i magistrati, un odio che scorrendo sotterraneo in pressoché tutte le sue opere, fa sorgere molti dubbi sulla qualità del suo satanismo, quanto meno illumina le sue origini spicciole e occasionali. Sade si sente ingiustamente, o almeno sproporzionatamente punito; vale a dire che si giudica quello che in realtà fu, un limitato se non piccolo peccatore. E il Sade gran signore è ancòra nello sdegno per chi lo arrestò con brutalità come "l'ultimo scellerato della feccia del popolo". Tuttavia in queste prime lettere è difficile far la parte giusta della commedia e della ingenuità: per esempio quando pensa al dolore che il suo arresto deve aver arrecato alla sua "povera zia", la badessa di Saint-Laurent; ora noi posteri sappiamo che la povera zia si rallegrò molto vivamente di veder messo al sicuro lo scandaloso nipote. Sade non si rende conto se non molto tardi che tutti, tranne forse la moglie e la fedelissima amica Mademoiselle de Rousset, tiravano insieme alla povera zia un grosso sospiro di sollievo.

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Il Sade che entra a Vincennes ii 15 febbraio del 1777, cerca da ogni parte consolazioni, perché non è uno scrittore maledetto, è solo un libertino qualsiasi che ha fatto perdere la pazienza al re suo signore. Il lato più appassionante di queste lettere, è che scrittore a poco a poco lo vediamo diventare, non tanto scrittore nel senso di "uno che scrive" quanto nei senso di "uno che scriverà", che non potrà più fare a meno di scrivere. Vuol dire che non è importante in fondo che Sade entri presto o tardi nella storia letteraria per i suoi romanzi e i suoi drammi, è importante che prima di uscir dal carcere si è fatto uno stile, ha imparato a variare il periodo, a scoprire l'immagine giusta, a sfruttare la varietà delle idee e del vocabolario. Che se ne renda conto o no, è con questo esercizio che si è salvato dalla disperazione e dall'abbrutimento; corrispondenza e romanzi gli provano che è ancòra un uomo, in attesa di diventare un superuomo, che ha in mano un'arma capace di modificare gli eventi; questa devozione alla letteratura, che a poco a poco si farà ambizione letteraria e alla fine idea fissa di una vendetta privata contro la società attraverso la letteratura, è l'aspetto più persuasivo dell'uomo Sade quale ci appare dalle lettere.
Solo a un certo punto però, grosso modo verso la metà delle sue prigioni, Sade ha coscienza della funzione riparatrice che la letteratura può avere per lui; in coincidenza suppergiù con i primi tentativi filosofico-letterari (Le dialogue entre un prêtre et un moribond del 1782) e i primi tentativi teatrali. Ma fin dalle prime lettere, dalla vivezza con cui son buttati giù i profili dei personaggi, e dallo stile che varia a seconda del carattere del corrispondente, lo scrittore si presenta: tenero o untuoso quando si rivolge alla moglie; beffardo e altero quando spedisce le sue insolenti suppliche al luogotenente di polizia Le Noir, o al governatore di Vincennes Rougemont, gentiluomo che scrive a un "jean-foutre" qualsiasi; sornione ed equivoco coi notaio amico e forse traditore Gaufridy; mondano e, di passaggio, libertino con la Rousset, la più intelligente e viva delle sue corrispondenti, che sola meriterebbe un ritratto a parte; sboccato e geniale di canagliesca invenzione linguistica quando con il valletto La Jeunesse si risente il Don Giovanni del suo Leporello, e rimastica in solitudine il cibo che veramente era suo: files e vizi.

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Uno degli aspetti tragici di queste lettere è che noi sappiamo, leggendole oggi, quel che Sade non poteva sapere scrivendole: cioè che, esasperato fin dai primissimi giorni ("non potrei resistere un mese senza diventar pazzo", lett. del 6 marzo 1777), tra quattro mura avrebbe dovuto passare pressoché intero il resto della sua vita. L'effervescenza continua della mente sui pensiero della liberazione che per noi, come per quasi tutti i suoi consapevoli corrispondenti, gira a vuoto, spiega sufficientemente quel tanto di evidente squilibrio mentale [Secondo il dottor Jacques Cain, il Marchese sarebbe oggi definito: soggetto "squilibrato perverso megalomane e geniale" (pag. 283 del vol. Le Marquis de Sade, colloque d'Aix-en-Provence 1966, ed. Armand Colin, Parigi 1968)] che sarà corretto solo dallo sfogo dello scrivere.
I romanzi e la filosofia non sono il frutto della pazzia di Sade, come i contemporanei mostran di credere; al contrario, è loro il merito di averlo salvato dalla pazzia, quella vera. La pazzia dei signes, per esempio, di quei misteriosi "segnali" che esplode con impressionante parvenza di verità nella lettera dell'8 febbraio 1779, ma lo accompagna poi fino alla fine delle sue prigioni (è noto che Sade scovava, in una sorta di lucido delirio, significati e allusioni in ogni numero che gli si presentava sotto gli occhi, nelle lettere della moglie, nei discorsi dei secondini, in qualsiasi innocente data; e ne traeva auspici per la sua liberazione che, naturalmente delusi, lo mettevano continuamente in furore). Giorno dopo giorno, si salva rifiutando sempre più rigorosamente di pensare alla vita di fuori, anche agli affetti, se mai ne ebbe, o quanto meno alle relazioni sociali: è una specie di egoismo che non gli vieta di recitare la commedia dei sentimenti, né un culto della libidine scritta che, ripetiamo, appare documento non tanto della sua demenza quanto della sua capacità di sfuggire alla demenza.
E gran commediante era ("bon comédien", lo definisce già nel 1765 la suocera) non solo per ipocrisia con la suocera, con la moglie, con i secondini, ma anche e più per diletto: è anzi così che Sade si scopre artista. Recitar la commedia gli piace più che non gli serva: è in lui una mescolanza di sincerità e di alto istrionismo di cui riesce molto difficile sceverare di volta in volta i diversi elementi. Anzi è proprio tale ambiguità di tono a tener desta la pagina del miglior Sade. Per esempio nella lunga lettera del 17 febbraio 1779 diretta alla ingenua moglie (ma fino a che punto ingenua? Paul Sigisty ha scritto nel 1901 un bel libro su colei che sogliamo chiamare "la infelice donna", ma Gilbert Lely getta molta ombra su quella purezza, getta addirittura il sospetto che il marito abbia potuto averla compagna se non complice delle sue dissolutezze a La Coste), il povero prigioniero racconta che la sua antenata, la Laura petrarchesca, gli è apparsa in sogno come in un sonetto del Canzoniere, lo ha compianto per le sue sventure, lo ha chiamato a sé fino a farlo singhiozzare di tenerezza. La montatura letteraria qui appare evidente: "Era all'incirca mezzanotte. Mi ero appena addormentato, dopo aver letto di Laura. E all'improvviso ella mi apparve. Io l'ho veduta! L'orrore della tomba non aveva alterato lo splendore della sua bellezza, nei suoi occhi era intatto il fuoco per cui Petrarca li celebrava. Avvolta in un velo nero, i bei capelli biondi ne uscivano negligentemente sparsi. Pareva che l'amore, per renderla ancor bella, volesse addolcire il lugubre apparato in cui si mostrava ai miei occhi. 'Perché resti qui sulla terra?’ mi disse. ‘Vieni a raggiungermi: non più mali, non più dolori, non più angosce nello spazio immenso che io abito. Abbi il coraggio di seguirmi'. A tali parole mi prosternai ai suoi piedi, le gridai: 'O Madre mia!'. Ma i singhiozzi mi soffocavano. Inondai di lacrime la mano ch'ella mi porgeva; anche Laura piangeva. Aggiunse: 'Io godevo nel posare lo sguardo sull'avvenire allorché abitavo quel mondo che tu detesti; moltiplicavo la mia posterità fino a te ma non ti vedevo così sventurato'. Allora, sopraffatto dalla disperazione e dalla tenerezza, le ho gettato le braccia al collo per trattenerla, o seguirla, e bagnarla delle mie lacrime: ma il fantasma era scomparso, non era rimasto che il dolore".
In quel commediante nasce l'amore dello scrivere. Più o meno consapevomente, si rende conto che possedere uno stile è compiere un atto di libertà. A Mademoiselle de Rousset, la sua "cara santa", scrive ii 21 marzo 1779: "Voi che scrivete come un angelo", complimento che poi lei gli renderà intatto. Quando sa di rivolgersi a qualcuno che può apprezzano fa il diavolo a quattro per brillare, con la sua minuscola grafia di cui il servitore (ma scrittore anche lui pieno di talento) La jeunesse gli diceva: "Sembra che uno sciame di api abbia pasturato sul vostro foglio". Fra le più elaborate e ambiziose lettere, in cui Sade si va facendo le ossa, son certo da mettere la Grande Lettera del 1781 alla moglie, L'aigle, Mademoiselle del 17 aprile 1782 alla Rousset (e in genere tutte quelle indirizzate alla intelligentissima corrispondente), la lettera del 4 ottobre 1779 a La Jeunesse.

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Insieme allo stile, Sade va costruendosi una filosofia. I primi sfoghi sono del libertino incatenato e dell'aristocratico offeso: il "de consolatione philosophiae" si viene componendo giorno per giorno, nell'epistolario e nelle opere parallele di cui tace meditandoci sù: Le dialogue già citato, dell'82, Les 120 Journées de Sodome probabilmente dell'85. Non tace invece del teatro di cui, come succede, è particolarmente infatuato, ed è roba talmente scadente che neppure il devotissimo Lely si è sentito di pubblicarla [Se ne annuncia tuttavia (primavera 1970) una edizione completa presso J.-J. Pauvert]. L'orgoglio del Marchese e quello del filosofo si puntellano l'un l'altro, e gli permettono di sopravvivere: quando vedo, scrive alla Rousset, creature limitate quanto me volermi addottrinare sul bene e sul male, mi convinco di essere nella repubblica dei somari, in cui ciascuno dà consigli e poi tutti finiscono per brucare nel medesimo prato.
Uomo sospettoso e aspro con la suocera e con la moglie, che evidentemente non ritiene degne di un colloquio intellettuale, con gli altri filosofeggia e si scopre, annunciando con malignità vendicativa il nuovo sistema della Natura che sta nascendo in lui: "La mia ragione è un po' come l'agresto, non è vero?" (lett. del 21 marzo 1779). Già si paragona, con immagine che presterà poi non di rado ai suoi personaggi più scellerati, al leone schernito dai polissons. Legge D'Alembert (che uomo!), Diderot, Le Mercure, Le système de la nature (che dovrebb'essere in tutte le biblioteche e in tutte le teste); legge anche Prévost, e chiede qualche romanzo, però "né troppo nero né troppo sentimentale, perché detesto i due eccessi"... E in contraddizione curiosa con i suoi libri futuri: "Niente mi annoia quanto le ripetizioni", scrive alla Rousset nel maggio 1779, lui che nelle oscenità si ripeterà senza fine.
Anche qui si ripete (la detenzione è monotona) ma ogni volta con nuova efficacia. Si sente che il tempo non gli è mancato per ripulir lo stile: cerca l'effetto, come nella bellissima solenne apertura della celebre L'Aigle, Mademoiselle; o nel patetico colloquio con Laura; o in certi accostamenti nuovi e ricercati - le "pere d'angoscia", intendendo i frutti del giardino che il governatore vieta ai poveri prigionieri, nel timore che saccheggino gli alberi -; o nella genialità verbale della lettera a La jeunesse del 4 ottobre 1779, dove si trovano fusi almeno tre toni: quello ironico mondano delle lettere alla Marchesa, quello equivocamente amichevole a "Milli" Rousset, quello canagliesco del nobile che si ingaglioffa per divertimento. "Quando l'autore della natura ha fatto nascere le vigne e le vulve, siate certo che il suo disegno era che noi ne godessimo." Scrittor di razza, come una volta usava dire, percorre tutti i registri del prigioniero: il dignitoso-offeso con la suocera, il sentimentale-affettuoso con la moglie, il galante-libertino con la Rousset, l'autocaricaturale dell'uomo che si allegra del proprio tormento, con La Jeunesse.
Solo, sono rigorosamente assenti la generosità, il sentimento schietto, la gratitudine, l'affetto per qualcuno che non sia Sade. C'è la medesima freddezza di sguardo dei romanzi, la medesima mancanza di sfumature; dilaga troppo ego nel cosmo del Marchese, perché possa penetrarvi la psicologia: la suocera è sempre la beghina intrigante e malvagia, la moglie una sciocca debole da menar per il naso, Gaufridy, l'amico di infanzia che cura i suoi affari, un coquin da trattar con riguardo in omaggio al proprio particulare, mademoiselle de Rousset o più familiarmente "Milli", una fedele intelligente amica (quando non diventa una putain sospetta di tener mano alla Marchesa) a cui si può avere il piacere di scrivere lettere eleganti, i figli stessi una buona arma in mano per commuovere i persecutori.
La parte migliore, Sade la conserva per sé: la parte di gran signore iniquamente recluso a causa dei ridicoli risentimenti di quattro filles, della malvagità dei magistrati e dei maneggi di una vecchia intrigante ("Se è scritto - dice a Dio nella singolare Preghiera della sera nell'aprile 1782 - nel vostro grande libro che io sia venuto al mondo per servir da zimbello a delle p... e di pastura a dei porci"); mentre, progressivamente, il gran signore fa posto alla figura del Filosofo che sistema a modo suo il mondo per mezzo delle idee, come i suoi antenati avevano fatto per mezzo delle armi. Ma attenzione: basta che gli si annunci (il gennaio 1784) che il figlio Louis-Marie sta per entrare in un reggimento di fanteria, non nell'arma scelta dei carabiniers come il padre, ed ecco il filosofo andar su tutte le furie, e scagliar anatemi a destra e a manca. Sono disposto, scrive, a spogliarmi di tutto, purché mio figlio entri nel reggimento di Monsieur de Chabrillant!

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Tuttavia, in mezzo a contraddizioni e compromessi che poi sono di tutti gli scrittori, il mondo di Justine e di Juliette si va formando qui, a Vincennes e alla Bastiglia.
"L'innocente" Sade (innocente davvero se si misurano i suoi trascorsi ai trent'anni di galera) giudica e sentenzia senza contraddittorio cioè senza dialettica: questa è la sua forza di scrittore come la debolezza del suo sistema. Che "la migliore delle leggi sarà sempre quella del più forte" (lettera del giugno 1780) lo deduce dalle sue vicende personali; e ha abbastanza tempo a disposizione per trarre da quella regola generale i suoi piccoli corollari. Adesso che non gli è più possibile profittarne, vede e denuncia con assoluta chiarezza le iniquità sociali del suo Paese: "L'oro e il sesso, ecco le due divinità della mia patria (...) Non intendo più abitarci! Giuro che preferirei stare in Giappone, dove certo troverei maggior buona fede e meno orrori... E poi, si castiga. Ma se una buona volta si provasse a confrontare con equità la vita delle infelici vittime qui rinchiuse con le infamie di coloro che le hanno fatte rinchiudere, e si considerasse poi chi è più meritevole di tenere la chiave delle porte! Da una parte, una sventura, un'imprudenza, il tradimento di un servo o di un amico; dall'altra, mille ingiustizie, mille vessazioni, mille atrocità, coperte e soffocate dalla posizione sociale..." (lett. del 27 luglio 1780).
Il fascino di Sade, il suo debito al Settecento illuministico, è in questo appunto, che quel suo mondo demente è rigorosamente ragionevole. In Juliette e negli altri suoi scellerati, Sade ha fuso realisticamente l'immagine del prossimo, come ormai lo vedeva, e la sua propria; o anche il mondo dei liberi e il mondo del carcerato: ingiustizia e prepotenza oltre quelle mura, entro le mura il suo vizio erotico esasperato a crear fantasmi. La violenza della sua natura (è a Vincennes che ha luogo il famoso alterco col futuro tribuno Mirabeau) lo spinge a una tacita scommessa col mondo oltre le mura, di cui l'idolo polemico è la suocera: "Mi spaccherei la testa contro una parete, se non sapessi che un giorno costringerò la vostra esecrabile madre a dire: 'Aveva ragione, con un simile cervello si sarebbe dovuto agire altrimenti' ". È risaputo: ma non manca tuttavia di interesse rilevare come il filosofo Sade, assai più interessante del pornografo e oggi maestro di molti spiriti non spregevoli (si tratta del resto di una distinzione arbitraria e puramente di comodo), nasca da una rancorosa scommessa con la suocera benpensante: "Giurerei che credete di aver fatto un capolavoro, riducendomi a un'astinenza atroce nel peccato carnale. Ebbene, vi ingannate: avete scaldato la mia testa, mi avete costretto a formar fantasmi che dovrò ben realizzare. Stavo guarendo, e adesso tutto ciò ricomincia della più bella. Quando si fa troppo bollir la pentola, l'acqua finisce col traboccare. Se fosse toccato a me di curare un Signor 6 [Sade occupava a Vincennes la cella n. 6], avrei agito ben diversamente: invece di rinchiuderlo con gli antropofagi, lo avrei imprigionato con delle donne, e gliene avrei fornite tante che il diavolo mi porti se, allo scadere di sette anni, l'olio della sua lampada non si sarebbe consumato! (...) Il Signor 6, messo in un simile serraglio, sarebbe diventato amico delle donne; avrebbe capito e sentito che nulla è più bello, più grande delle donne, che fuori di esse non c'è salvezza. (...) Là avrebbe trovato pace; e così dal seno del vizio lo avrei guidato alla virtù. Perché per un cuore molto vizioso, un minor vizio equivale a una virtù" (lett. del luglio 1783).
Insomma, il Marchese non chiederebbe che di potersi occupare in pace di se stesso e dei suoi piaceri. Solo costretto, come ultima fuga dalla disperazione e dalla pazzia, acconsente a salire, generalizzando piaceri e vizi, ai templi astratti della filosofia. Tra l'astrazione del pensatore puro e la concretezza del poveruomo, la figura di Sade non viene fuori che più intera: non si tratta infatti di spiarlo mentre è in pantofole, ma di rendersi conto, dopo le maledizioni dell'Ottocento e i fanatismi dell'èra freudiana, che anche Sade è un uomo-scrittore, da studiarsi separatamente dalla sua leggenda. Uomo che per esempio indulge alla ghiottoneria (numerose lettere alla Marchesa invocano cioccolato, pécbes des chartreux, fichi, pasticci di anguille, sciroppi), alla vanità (si propone di metter parrucca all'uscir dal carcere, dove i suoi capelli non hanno avuto le cure necessarie), ma è poi capace a quarant'anni sonati di una malinconia non finta: "È tempo di cominciare poco a poco a prendere una tintarella di bara". E dalla quarantina è ricondotto ai piccoli ricordi d'infanzia, quando leggeva ad alta voce nei salotti per divertire la società (lett. del 14 dicembre 17870). Mentre poi scherza da libertino di buona compagnia sulle jolies fesses della mogliettina, e sembra tornare in buona fede ai primi tempi di un matrimonio da cui forse sperava la "normalità".
Ma è giusto dire che la propria statua - tel qu'en lui-méme... - Sade non ha aspettato che gliela edificassero gli Heine, i Bataile, i Klossowski, i Blanchot, i Lely: gli studiosi del nostro secolo che hanno operato la resurrezione di Sade, distruggendo il mito del Demente per edificare quello del Profeta. Allo scadere del quarto anno di detenzione, la Grande Lettera a madame de Sade è a un tempo prova della più superba chiaroveggenza sul proprio futuro e della più incredibile cecità sul presente, che uomo possa dare: Sade continua a insistere sui propri "peccatucci", sulla innocenza delle parties de filles e sulla ingiustizia dei magistrati mentre, lucido come si vanta di essere, non ha ancora capito quel che ciascuno dei corrispondenti si sforza inutilmente di fargli entrare in testa da tempo: che lui, Sade, è un uomo "marcato" e già, nel pensiero del re e dei congiunti, destinato a non più rivedere il sole (è al corrente tuttavia che l'immaginazione popolare fa, dei suoi peccatucci, "esperimenti" orrendi con mucchi di cadaveri seppelliti poi nei giardini del suo castello di La Coste). Non arriva a capire che, se la procedura sui suoi trascorsi è stata così sommaria, è perché suocera giudici e re erano già d'accordo sulla sua relegazione perpetua.
"Sono un libertino", confessa, o proclama, lungo tutta la Grande Lettera come un ritornello: ma un libertino, dice, che sa essere caritatevole - e noi ne abbiamo la prova nel suo contegno durante e dopo la Rivoluzione. Arriva a essere patetico, e qui si direbbe senza commedia, se pensiamo a certi passi analoghi di Justine: sono stato un giovane, un ragazzo innocente, come potrei essermi trasformato in un mostro? "Il delitto ha i suoi gradini". Ma accanto all'ingenuità di quella giustificazione c'è la chiaroveggenza che conta, quella con cui si giudica e si costruisce lucidamente e sapientemente, non inventando ma esaltando il Sade uomo nel Sade pensatore. È il momento cruciale delle lettere. Il Titano, l'Arcangelo del Male, il mostro orrendo vomitato dall'inferno come scriveva in brutti versi un contemporaneo, in realtà è persona seria e perfino compassata. Ma sarà giusto una volta tanto cedere alla tentazione e presentare nelle sue parti essenziali la Grande Lettera, indirizzata alla moglie da Vincennes in data 20 febbraio 1781: tanto si ha l'impressione che lo scrivente lanci un messaggio agli uomini futuri con intenti meno di giustificazione che di apologia di se stesso.
"Credo in verità, cara amica, che vostra intenzione sia di inculcarmi per le vostre piccole divinità il medesimo rispetto di cui voi siete penetrata. E siccome voi solete strisciare davanti a quella cricca, pretendereste che io faccia altrettanto: che un..., un..., un... un..., un... e un... [I nemici, gli accusatori, i giudici, i carcerieri di Sade] siano per me degli dèi come lo sono per voi. Se vi siete cacciata in mente una simile cosa, vi scongiuro di levarvela. La sventura non mi avvilirà giammai: NON HO NELLE CATENE FATTO UN CUORE DI SERVO, e mai lo farò. Dovessero, queste sciagurate catene, dovessero condurmi alla tomba, voi mi vedrete sempre il medesimo. La mia sventura è di aver ricevuto dal cielo un'anima salda che mai ha saputo piegarsi e mai si piegherà. Non c'è in me il timore di irritare chicchessia. Voi mi date troppe prove che il mio tempo è fissato, perché io possa dubitarne: di conseguenza, nessuno ha il potere di aumentarlo o diminuirlo. E ammesso che così non fosse, non è certo da quella gente che dipenderei; sarebbe dal re, il solo essere del regno che io rispetto - lui e i principi del suo sangue. Al di sotto di essi, non vedo all'ingrosso che qualcosa di così prodigiosamente uguale, che è meglio non cercar di scrutare, dato che allora la superiorità si troverebbe tutta dalla mia parte, e non ne deriverebbe che un più saldo sostegno al mio profondo disprezzo".
Dopo una dettagliata esposizione, nel complesso veritiera, dei vari "affari" che lo hanno condotto alla rovina, il Marchese conclude:
"Eccoli dunque, i miei pretesi torti, ecco ciò che io obietto e giuro di provare con prove e mezzi di una tale autenticità che sarà impossibile rifiutarsi alla loro evidenza. Sono dunque colpevole di puro e semplice libertinaggio, quale si pratica da parte di tutti gli uomini, più o meno, in ragione del più o meno di temperamento e di attitudini che ciascuno ha ricevuto dalla natura. Tutti abbiamo i nostri difetti; non facciamo paragoni: i miei carnefici finirebbero col rimetterci.
"SONO UN LIBERTINO, LO CONFESSO; TUTTO CIÒ CHE È POSSIBILE CONCEPIRE IN UN TAL GENERE DI COSE, IO L'HO CONCEPITO, MA NON HO CERTO REALIZZATO TUTTO CIÒ CHE HO CONCEPITO E NON LO REALIZZERÒ MAI. SONO UN LIBERTINO, MA NON UN CRIMINALE NÉ UN ASSASSINO, E DAL MOMENTO CHE MI SI COSTRINGE A PORRE LA MIA APOLOGIA ACCANTO ALLA MIA GIUSTIFICAZIONE, DIRÒ CHE I MIEI INGIUSTI GIUDICI NON SAREBBERO FORSE IN GRADO DI CONTROBILANCIARE LE LORO INFAMIE CON TANTE BUONE AZIONI QUANTE IO NE POSSO CONTRAPPORRE AI MIEI ERRORI. SONO UN LIBERTINO, MA TRE FAMIGLIE DOMICILIATE NEL VOSTRO QUARTIERE SI SONO NUTRITE PER CINQUE ANNI DEL MIO AIUTO, E IO LE HO SALVATE DALL'ESTREMA INDIGENZA. SONO UN LIBERTINO, MA HO SALVATO UN DISERTORE DALLA MORTE, ABBANDONATO DAL REGGIMENTO E DAL SUO COLONNELLO. SONO UN LIBERTINO, MA A EVRY, SOTTO GLI OCCHI DELLA VOSTRA STESSA FAMIGLIA, HO SALVATO UN BAMBINO SUI PUNTO DI ESSERE SCHIACCIATO SOTTO LE RUOTE DI UN CARRO DI CUI I CAVALLI AVEVANO PRESO LA MANO, E CIÒ CON RISCHIO DELLA MIA VITA. SONO UN LIBERTINO, MA NON HO MAI COMPROMESSO LA SALUTE DI MIA MOGLIE. NON MI SONO MAI LASCIATO ANDARE A TUTTI GLI ALTRI ASPETTI DEL LIBERTINAGGIO SPESSO COSÌ FATALI ALLA FORTUNA DEI FIGLI: FORSE CHE LI HO ROVINATI COL GIOCO O CON ALTRE DISSIPAZIONI CAPACI DI DISPERDER O ANCHE SOLO INTACCARE IL PATRIMONIO? HO MALE AMMINISTRATO I MIEI BENI, FIN CHE NE HO POTUTO DISPORRE? IN UNA PAROLA, HO FORSE ANNUNCIATO NELLA MIA GIOVINEZZA UN CUORE CAPACE DEGLI ORRORI DI CUI OGGI LO SI RITIENE CAPACE? NON HO AMATO TUTTO QUEL CHE DOVEVO AMARE? NON HO AMATO MIO PADRE? (E LO PIANGO ANCORA OGNI GIORNO), MI SONO CONDOTTO MALE CON MIA MADRE? E NON È FORSE MENTRE VENIVO A COGLIERE IL SUO ULTIMO RESPIRO E A DARLE L'ESTREMA PROVA DEL MIO AMORE, CHE VOSTRA MADRE MI HA FATTO TRASCINARE IN QUESTA ORRIBILE PRIGIONE DOVE DA QUATTR'ANNI MI LASCIA LANGUIRE? IN UNA PAROLA, MI SI ESAMINI DALLA PIÙ TENERA INFANZIA". [...] "Ecco una lettera ben lunga, non è vero? E tuttavia me l'ero promessa, me la dovevo allo scadere dei miei quattro anni di sofferenza. I quattro anni sono passati, ecco la lettera: scritta come in articolo di morte, affinché se essa mi sorprenderà senza che io abbia avuto la consolazione di stringervi ancora una volta fra le braccia, possa, morendo, rinviarvi ai sentimenti espressi in questa lettera, come agli ultimi che vi rivolgerà un cuore bramoso di portare almeno la vostra stima alla tomba. Né calcolata né ricercata, perdonate il suo disordine, e non cercateci che la natura e la verità. Non chiedo che tu mi risponda dettagliatamente, ma solo che mi dica di aver ricevuto la mia grande lettera: così la chiamerò; sì, così la chiamerò. E quando vi rinvierò ai sentimenti che vi son contenuti, allora voi la rileggerete... Mi capisci, mia cara amica? La rileggerai e vedrai che colui che ti amerà fino alla tomba ha voluto firmarla col suo sangue".

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Da questo momento, l'epistolario di Sade si confonde largamente con la sua opera di romanziere e di filosofo: mentre sta per nascere Le dialogue e prendon forma Les 120 journées. In una lettera alla moglie, del 1782, non c'è più l'eroico furore dell'inizio, che voleva dire anche speranza, ma l'accettazione di sé e per conseguenza del mondo, che è già dell'artista e dei filosofo: "sono incorreggibile".
"Per quel che mi riguarda, me personalmente, non vi prometto nulla. La bestia è troppo vecchia. Credetemi, rinunciate a educarla (...). Ci son sistemi troppo legati all'esistenza stessa, soprattutto quando si sono succhiati col sangue, perché sia mai possibile rinunciarvi. Lo stesso è delle abitudini: quando esse sono a tal punto prodigiosamente legate al fisico di un individuo, diecimila anni di prigione e cinquecento libbre di catene non avrebbero altro risultato che di conferire loro maggior forza. Vi meraviglierei se vi dicessi che tutte quelle certe cose [le sue fantasticherie erotiche] e il loro ricordo, io le chiamo in mio soccorso quando voglio stordirmi sulla mia situazione. I costumi non dipendono da noi, ma son legati alla struttura dei nostro organismo. Da noi, dipende se mai di non diffondere il nostro veleno, in modo che chi ci è vicino non solo non abbia a soffrirne ma neppur lo sospetti. (...) Questo è l'essenziale, ed è quanto posso promettere. Non è concesso crearsi delle virtù; nessuno, riguardo a quelle cose, è padrone di adottare un gusto piuttosto che un altro; come non si è padroni di diventar dritti quando si è nati storti, o come chi è nato rosso di capelli non può farsi bruno, così non possiamo sceglierci un sistema o una opinione. Tale è la mia eterna filosofia, dalla quale non mi scosterò mai. E tuttavia nel 1777 ero ancora abbastanza giovane; l'estrema infelicità nella quale mi trovavo avrebbe potuto preparare il terreno; la mia anima non era ancora indurita, non ancora inaccessibile ai buoni sentimenti quale voi l'avete ridotta con il vostro zelo. Una condotta opposta alla vostra avrebbe potuto operare grandi cose: voi non l'avete voluto. E io ve ne ringrazio. Preferisco dovermi cacciar dalla testa solamente le vostre cifre [i famosi segnali di cui si è detto più sù] piuttosto che doverne bandire una infinità di cose e di dettagli, infinitamente deliziosi secondo me, e tra i quali lasciando errare la mia immaginazione, i miei dolori si addolciscono. Si può ben dire che siete stata mal consigliata. Ma in coscienza, son contento che le cose siano andate così".
È sempre più convinto che i germi del male succhiati col latte, abbiano trovato un terreno propizio nel suo Fato personale; per questo il suo perseverare è diabolico, che "gli altri" io hanno spinto a forza nella solitudine infernale di Vincennes, ma lui ora non vorrebbe che ciò non fosse stato. Non solo per orgoglio di maschio e di aristocratico, ma per la consapevolezza che senza quella solitudine non avrebbe scoperto il pensiero e l'espressione. In una lettera, sempre alla moglie, del novembre 1783, ribatte il chiodo della sua felice irresponsabilità, e il tono è oramai quello eroico del martire, ossia del "testimone" di una scoperta: "Il mio modo di pensare, voi dite, non può essere approvato. E che volete che m'importi? Pazzo colui che adotta una maniera di pensare per gli altri! La mia, è frutto delle mie riflessioni; è legata alla mia esistenza e alla mia formazione. Né sono padrone di cambiarla, né, potendo, lo vorrei. Il mio pensiero, che voi biasimate, fa la consolazione della mia vita, la sola, allevia le pene del carcere, rappresenta i miei piaceri nel mondo e mi è più cara che la vita. Non è il mio modo di pensare che mi nuoce, è il modo di pensare degli altri. L'uomo che ragionando disprezza i pregiudizi degli sciocchi, necessariamente diventa il nemico degli sciocchi: deve aspettarselo e riderne. Un viaggiatore cammina su di una bella strada. È stata disseminata di trappole, una delle quali lo fa cadere. Secondo voi, la colpa è del viaggiatore, o dello scellerato che quelle trappole ha tese? E allora se, come voi dite, la libertà mi è offerta a prezzo del sacrificio dei miei principi o dei miei gusti, allora possiamo darci un eterno addio, perché io sacrificherò piuttosto, se le avessi, mille vite e mille libertà. Quei principi e quei gusti io li porto fino al fanatismo, e il fanatismo è nato dalle persecuzioni dei miei tiranni". In una lettera del mese successivo conclude: "Prepotente, collerico, impetuoso all'estremo in ogni cosa, sregolato nell'immaginazione erotica in modo che non ha il simile, ateo fino al fanatismo: eccomi in due parole, e ancora una volta: ammazzatemi o prendetemi come sono, perché io non cambierò".
Si sente insomma diventar l'Unico, con deliziata consapevolezza: quella che Gilbert Lely chiama felicemente la sua "allegrezza extra-temporale". Le stesse imprecazioni ai suoi carnefici prendono una tinta di fatalità quasi rassegnata: "Addio, carnefici, bisogna che io vi maledica".

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Il Sade filosofo e allucinato, quanto abbiano contribuito alla sua formazione gli anni di carcere, è difficile stabilirlo; ma di quella metamorfosi, da libertino di costumi a teorico del libertinaggio attraverso l'esaltazione visionaria della fantasia, le tappe sono evidenti. La follia dei segnali si fa sempre più esplicita, costituendo la vena più inquietante tra le tante che circolano in questo epistolario. Ma era poi veramente follia e mania di persecuzione? Resta qualche cosa di oscuro, qui, che nessuno ha mai saputo chiarire, come l'eco di società segrete, di cui ci siano rimasti sconosciuti i misteri. E chi sa se non si dovrebbe riesaminare l'opera intera cercandovi un segnale? Ma occorrerebbe una chiave. Si spiegherebbe allora anche la strana lettera del 28 marzo 1781, quella che chiamerei del "de mortibus persecutorum": tutti i miei nemici, dice Sade, sono stati colpiti dalla "giustizia dell'Eterno", morti, esiliati, impiccati, imprigionati. Avis au lecteur. (Avviso soprattutto al nemico numero 1, quella spietata Madame de Montreuil, suocera e carnefice, su cui Sade invoca i fulmini del Dio in cui non crede: "Fremi! Dio si stanca alfine dei delitti degli uomini, e già la folgore è sul tuo capo; la nube si va formando mentre tu prepari tranquilla gli strumenti della tua vendetta, ed è la vendetta del cielo che scoppierà su di te, durante l'ebbrezza della tua!").
Anche dopo la Grande Lettera, l'epistolario continua a toccare vari registri, il patetico, il ferocemente faceto, l'ironico; ma il "nobile", il nobilmente offeso, si impone, e l'affermazione incrollabile del Dei gratia sum id quod sum. Per grazia di Dio sono quel che sono. Quando parla delle sue sventure, è sincero; è già molto se non le chiama le sventure della virtù. Mai querulo, se si presenta peccatore pentito allora solamente senti che recita la commedia, ma al solito per strappare l'applauso più che per convincere o commuovere: allora tenta con efficacia il patetico, sogna di quando sarà libero, ritirato nelle sue terre o rifugiato all'estero, in Italia, vagheggia l'incontro con la famiglia, "mia moglie ed io saremo felici di portare i nostri ragazzi a prender aria". Più che una commozione o una autentica speranza, senti che la passione letteraria lo ha preso, e ci si dà tutto intero insieme all'altra passione, quella delle fantasie proibite. Le consolazioni della filosofia, dell'immaginazione erotica e della letteratura sono una cosa sola per lui; ma quest'ultima, per saltar meno agli occhi, non è la meno profonda.
"Il letterato Sade", è titolo che si addirebbe a uno studio che si proponesse di sgombrare il terreno dalle opposte leggende, quella a lui contemporanea del criminale demente, l'altra contemporanea a noi del precursore di Freud, di Nietzsche e di Stirner, dell'apostolo della Libertà e dell'Unico: mania dello scrivere e del divorar gli eventi per trarne stile, è questo che accomuna Sade ai grandi memorialisti e moralisti del Settecento. Come anche la gelosia del mestiere: "Non comprate niente di Restif, in nome di Dio. È un autore da Pont-Neuf e da biblioteca blu, ed è inaudito che abbiate pensato di mandarmi roba sua" (lett. alla moglie, del 23 ott. 1783). Come l'ambizione e il gusto dell'applauso. Commuove la tenerezza con cui ricopia le sue deboli commedie in versi o in prosa, l'ansia palese con cui aspetta il giudizio della moglie o dell'abate Amblet, il calore con cui difende il proprio talento in un genere per cui non ne possedeva alcuno, e denuncia le proprie speranze: "La migliore opera storica spesso non trova duecento lettori, mentre la più fiacca commedia attira sempre tre o quattro mila spettatori." E le enormità dei romanzi, non è detto che non corrispondano in buona parte alla sua libidine insoddisfatta di avere il mondo per uditorio delle sue prodezze erotiche, dell'iniquità dei familiari, della sua filosofia di ateo corrucciato.
Il gran mattatore che Sade è, celebra in queste lettere le sue orge letterarie. E va in estasi quando si concede al povero detenuto, nella sala del Consiglio della Bastiglia, davanti allo stato maggiore degli ufficiali, di dar lettura della tragedia patriottica Jeanne Laisné ou La siège de Beauvais. Il biglietto da giovane autore timido con cui fa gli inviti per la lettura, è cosa commovente: "Sacrificare una bella giornata per una cosa noiosa! Certo per l'autore sarebbe ben prezioso il Suo parere, ma egli si rende conto che una simile preghiera è importuna", eccetera.

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Curiosamente, per noi che leggiamo, i suoi sogni di autore novellino (Sade ha quarantasette anni) sono più vicini alla realizzazione di quel che lui osasse oramai sperare: la Rivoluzione gli concederà questa piccola soddisfazione di vanità, quando lui sarà segretario della Section des Piques e autore rappresentato. L'ultima delle "Lettere da Vincennes e dalla Bastiglia" porta la data: ottobre 1788. Un rapporto del governatore della Bastiglia De Launay chiude (provvisoriamente) la cronaca delle prigioni di Sade: "Sarebbe l'ora di liberarci della presenza di questo essere che nulla può domare, e sul quale nessun ufficiale può averla vinta." È il 2 luglio 1789. Due giorni dopo, il detenuto è trasferito al manicomio di Charenton, e la marchesa de Sade, che aveva assistito al trasloco e alla messa sotto sigillo dei manoscritti del marito, "andò a confessarsi, poi a dormire". Il 14 luglio Parigi sbastigliata era pronta per accogliere il Marchese, e il Marchese per incominciare le sue vendette, però solo sulla carta: "a noi due, ora!", come avrebbe detto Rastignac.

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Nelle successive prigioni, e nell'interregno fra le une e le altre, le lettere che Sade scrisse sono ancora numerose, nel 1929 raccolte in un prezioso volume da Paul Bourdin. Ce n'è di molto belle e di molto utili per la conoscenza dei suoi casi; ma la nascita dello scrittore e della sua leggenda era avvenuta qui, a Vincennes e alla Bastiglia, e nessuna delle lettere successive ne ritroverà più il tono eroico e beffardo, di scoperta avventurosamente condotta, tono legato all'età ancor relativamente giovane e alla situazione irripetibile dell'uomo che assiste e fa assistere orgoglioso e stupefatto allo spettacolo naturale di una crisalide che diventa farfalla (pipistrello, diremo nel caso di Sade).
Sade avrà dovuto constatare, come constatiamo noi, che per ingigantire se stessi agli occhi propri prima che del mondo, la segregazione può essere feconda quanto la libera solitudine: è la vita con gli altri che avvilisce. Sade, libero, finirà col distinguersi appena dall'avventuriero colto, sperduto in un mondo nuovo, accecato dal sole e dagli uomini nuovi della Rivoluzione, come ce ne furon tanti: e il sovvertitore di ogni ordine sociale, al contatto con la rivoluzione vera, darà nella reazione, alla maniera di Casanova e di Restif.
Non però senza aver realizzato in pieno le minacce comunicate alla moglie in una lettera dell'8 marzo 1784:
"Sareste la prima a perder la stima che avete in me, se gli episodi della mia vendetta non dovessero un giorno pareggiare i loro (dei suoceri). State tranquilla, siate certa che, né voi né il pubblico, avrete niente da rimproverarmi a tal proposito. Ma io non avrò né il merito né la fatica di inventare, di scovare a rabbia fredda, che cosa possa render più amaro il veleno. Tutto sorgerà spontaneo in me, non avrò che da svolgere il mio cuore, lasciarne agire i meccanismi; e state certa che ne usciranno serpenti non meno avvelenati dei serpenti che ora mi scagliate addosso".
Avis au lecteur.