GUILLAUME APOLLINAIRE

Sade amava la libertà più di ogni altra cosa. Tutto in lui, le sue azioni, il suo sistema filosofico testimoniano di un amore appassionato per la libertà.
Un gran numero di scrittori, di filosofi, di economisti, di naturalisti, di sociologi, da Lamarck fino a Spencer, si trovarono d'accordo con il marchese di Sade, e molte delle sue idee che spaventarono o sconcertarono i suoi contemporanei sono ancora completamente nuove. «Si dirà forse che le mie idee sono un po' troppo forti», scriveva Sade, «ma che importa? Non abbiamo forse conquistato il diritto di dire tutto?». Sembrava giunto il momento di mostrarsi alla luce per queste idee maturate nell'atmosfera maledetta degli Inferni delle biblioteche, e quest'uomo che fu considerato assolutamente privo d'importanza per tutto l'Ottocento potrebbe caratterizzare il nostro tempo.
Il marchese di Sade, senz'altro l'uomo più spregiudicato che sia mai esistito, aveva sulla donna idee del tutto personali e pensava che essa dovesse godere della stessa autonomia di cui gode l'uomo. Da queste sue teorie, che un giorno o l'altro saranno estratte dalla sua opera e raccolte, sono nati due romanzi: Justine e Juliette. Non a caso il marchese ha scelto come protagoniste due donne. Justine è la donna del passato, asservita, infelice e neppure considerata alla stregua di un essere umano; Juliette, invece, rappresenta la donna nuova che Sade intravede, creatura ancora sconosciuta, che procede dall'umanità stessa, che avrà ali e rinnoverà l'universo.


ANDRÉ BRETON

Alla disposizione di spirito che chiamiamo surrealista e che vediamo così attenta a se stessa, ci pare sempre meno necessario cercare degli antecedenti [...]. Niente è più sterile, in definitiva, di quel perpetuo interrogare i morti: [...]. Sade in piena Convenzione ha agito in senso controrivoluzionario? Basta lasciar formulare queste domande per sentire tutta la fragilità della testimonianza di quelli che non sono più. Troppe canaglie hanno interesse al successo di quest'impresa di grassazione spirituale perché io le segua su questo terreno. In materia di rivolta, nessuno di noi deve aver bisogno di antenati. Tengo a precisare che, secondo me, bisogna diffidare del culto degli uomini, per quanto grandi possano apparire. A parte uno solo: Lautréamont, non ne vedo alcuno che non abbia lasciato qualche traccia equivoca sul suo cammino.

[Secondo manifesto, 1929, in Breton e il surrealismo, ed. cit., p. 428]

Se poi mi si oppone ancora «il gesto conturbante del marchese de Sade rinchiuso tra i pazzi, che si fa portare le rose più belle per sfogliarne i petali nella melma di una latrina»
[Questo aneddoto, riferito da Victorien Sardou in La Chronique médicale (15 dic. 1902, p. 808), è ripreso da Bataille nel suo pezzo Le language des fleurs, uscito sul n. 3, giugno 1929, della rivista «Documents». Il «basso materialismo» di Bataille, «svelando le radici oscene della civiltà che "fiorisce" sul "maiheur" delle vittime, conferisce una portata sconvolgente al gesto di Sade che, imprigionato tra i pazzi, sfoglia i petali delle più belle rose sul putridume di un rigagnolo di fogna.» (S. Finzi, La dialettica delle forme visibili, introduzione a G. Bataille, Documents, trad. di S. Finzi, Bari, Dedalo, 1974, p. 9). Nelle ultime pagine del Secondo Manifesto Breton attacca il materialismo di Bataille come «vecchio materialismo antidialettico» (Secondo Manifesto, ed. cit., p. 4.66). «Bataille passa allora al contrattacco e si sforza di dimostrare che se lui non è un materialista dialettico, Breton è in compenso un perfetto idealista, e, politicamente, un borghese scalmanato, ambiguo e velleitario» (I. Margoni, op. cit., p. 100)], risponderò che quell'atto di protesta perderebbe la sua straordinaria portata, se venisse non da parte di un uomo che ha trascorso per le sue idee ventisette anni della sua vita in prigione, ma da un assis di biblioteca [Si allude a Bataille]. Tutto porta a credere, infatti, che Sade, la cui volontà di affrancamento morale e sociale, contrariamente a quella di Bataille, è fuori questione, per obbligare io spirito umano a scrollare le sue catene, abbia semplicemente inteso offendere attraverso quel gesto l'idolo poetico, e con esso quella «virtù» di convenzione, che, si voglia o no, fa di un fiore, nella misura stessa in cui ciascuno può offrirlo, il veicolo brillante dei sentimenti più nobili come dei più bassi. Conviene, del resto, sospendere la valutazione di un fatto simile che, posto che non risultasse puramente leggendario, non potrebbe infirmare minimamente la perfetta integrità del pensiero e della vita di Sade, e quel suo bisogno eroico di creare un ordine di cose che non dipendesse, per così dire, da tutto ciò che aveva avuto luogo prima.

[Secondo Manifesto, 1929, in op. cit., p. 468]

Sade è tornato all'interno dei vulcano in eruzione
Dal quale era venuto
Con le sue belle mani ancora frangiate
I suoi occhi da giovinetta
E quella ragione da fiore di si-salvi-chi-può che fu
Solo sua
Ma dal salotto fosforescente a lampade di viscere
Non ha cessato di lanciare ordini misteriosi
Che aprono una breccia nella notte morale
Attraverso questa breccia vedo
Le grandi ombre vacillanti la vecchia scorza minata
Dissolversi
Per permettermi d'amarti
Come il primo uomo amò la prima donna
In tutta libertà
La libertà
Per la quale il fuoco stesso s'è fatto uomo
Per la quale Sade sfidò i secoli con i suoi grandi alberi astratti
D'acrobati tragici
Aggrappati alla fibrilla del desiderio.

[Da L'air de l'eau (1934), in A. Breton, Poesie, trad. di G. Neri, Torino, Einaudi, 1977, p. 101]

C'è voluta tutta l'intuizione dei poeti per salvare dalla notte senza fine cui l'ipocrisia la votava, l'espressione di un pensiero considerato fra tutti sovversivo, il pensiero del marchese de Sade [...] E per porre in evidenza le aspirazioni fondamentali di questo pensiero, c'è voluta tutta la volontà che anima i veri analisti di estendere, al di là di tutti i pregiudizi, il dominio della conoscenza umana [...]. Grazie a Maurice Heine la vera portata dell'opera sadiana è oggi fuori discussione: dal punto di vista della psicologia, può considerarsi come la più autentica anticipazione dell'opera di Freud e di tutta la psicopatologia moderna; dal punto di vista sociale tende addirittura a un risultato sempre differito di rivoluzione in rivoluzione, cioè a fondare una vera e propria scienza morale.

[Antologia dell'humor nero (1940; nuova ed. riveduta e corretta 1966), a cura di M. Rossetti e I. Simonis, Torino, Einaudi, 1970, p. 35]

Se il surrealismo ha portato allo zenith il senso di quell'amor «cortese» da cui si fa in genere partire la tradizione dei Càtari, si è spesso anche chinato con angoscia sul suo nadir, ed è questo moto dialettico che gli ha fatto risplendere innanzi, come un sole nero, il genio di Sade [...]. La magnifica, l'abbagliante luce della fiamma non deve nasconderci di che cosa sia fatta, né celarci le sue profonde gallerie sotterranee, spesso percorse da soffi mefitici, che tuttavia hanno permesso l'estrazione della sua sostanza, una sostanza che deve continuare ad alimentare quella fiamma se non vuole che si spenga. Partendo da questo punto di vista il surrealismo ha fatto di tutto per abolire i tabù che impediscono di parlare liberamente del mondo sessuale, di tutto il mondo sessuale, comprese le perversioni - mondo del quale ebbi a dire più tardi che, «malgrado i tanto memorabili sondaggi compiuti da Sade e da Freud, non ha cessato, per quanto io ne sappia, di opporre alla nostra volontà di penetrazione dell'universo il suo infrangibile nucleo di notte».

[Entretiens (1952), Paris, Galliinard, 1969, pp. 144-5, trad. di E. D'Ambrosio]


PAUL ELUARD

Nella vecchia casa del nord della Francia che è abitata dagli attuali conti di Sade, l'albero genealogico dipinto su una delle pareti della sala da pranzo ha una sola foglia morta, quella di Donatien-Alphonse-François di Sade, che fu imprigionato da Luigi XV, da Luigi XVI, dalla Convenzione e da Napoleone. Chiuso in carcere per trent'anni, morì in un manicomio, più lucido e più puro di qualsiasi altro uomo del suo tempo. Nel 1789, colui che ha ben meritato d'esser chiamato per derisione il Divino Marchese, chiamava il popolo dalla sua cella della Bastiglia perché venisse in aiuto ai prigionieri; nel 1793, pur essendo devoto anima e corpo alla Rivoluzione, e membro della Section des Piques, si opponeva energicamente alla pena di morte e riprovava i delitti commessi senza passione. Egli rimane ateo di fronte al nuovo culto, quello dell'Ente Supremo, che Robespierre fa celebrare; vuole confrontare il proprio genio con quello di tutt'un popolo discepolo della libertà [...].
Sade ha voluto restituire all'uomo civilizzato la forza dei suoi istinti primitivi, ha voluto liberare dai propri oggetti l'immaginazione amorosa. Egli ha creduto che da questo, e solo da questo, nascerà l'eguaglianza vera.
Poi che la virtù porta in se stessa la sua felicità, egli s'è sforzato, in nome di tutto quel che soffre, di abbassarla, di umiliarla, di imporle la suprema legge della infelicità, contro ogni illusione, contro ogni menzogna, perché essa possa aiutare tutti coloro che ha condannati a costruire un mondo adatto all'immensa misura dell'uomo. La morale cristiana, con la quale - con disperazione e vergogna, bisogna spesso confessarlo - si è ancora lontani d'averla fatta finita, è una galera. Contro di essa, tutti gli appetiti del corpo immaginante insorgono. Per quanto tempo ancora bisognerà urlare, agitarsi, piangere, prima che le figure dell'amore divengano le figure della facilità, della libertà?
Ascoltate la tristezza di Sade: «Amare o godere sono due cose molto differenti; la prova ne è che si ama tutti i giorni senza godere e che ancor più spesso si gode senza amare». E constata: «I godimenti isolati hanno dunque un loro fascino, possono dunque averne anche più di tutti gli altri godimenti; se così non fosse come potrebbero godere tanti vecchi, tanta gente deforme e piena di difetti fisici? Sanno benissimo di non essere amati, son certi che è impossibile la partecipazione ai loro piaceri: forse per questo la voluttà loro è minore?»
E Sade, giustificando gli uomini che nelle cose d'amore introducono l'eccezione, si scaglia contro tutti coloro che riconoscono l'amore indispensabile solo per perpetuare la loro sporca genia: «Pedanti, carnefici, secondini, legislatori, canaglia tonsurata, che cosa farete quando saremo arrivati a quel punto? Che cosa diventeranno le vostre leggi, la vostra morale, la vostra religione, le forche, il paradiso, i vostri dèi, il vostro inferno, quando sarà dimostrato che questo o quel moto delle linfe, questa o quella specie di fibre, questo o quel grado di acidità nel sangue o negli spiriti animali bastano a fare d'un uomo l'oggetto delle vostre pene o delle vostre ricompense?».
La più gelida ragione gli viene da questo perfetto pessimismo [...].
Ambedue [Sade e Lautréamont] hanno lottato accanitamente contro gli artifici, grossolani o sottili, contro i tranelli che ci vengono tesi dalla falsa realtà indigente che abbassa l'uomo. Alla formula: «Siete quel che siete», essi hanno aggiunto: «Potete essere altro».
Con la violenza, Sade e Lautréamont sbarazzano la solitudine di tutti i suoi drappeggi. Nella solitudine, ogni oggetto, ogni essere, ogni conoscenza, persino ogni immagine, premedita di ritornare alla sua realtà senza divenire, di non dover più rivelare nessun segreto, di essere covata tranquillamente, inutilmente dall'atmosfera che crea.
Sade e Lautréamont, che furono orribilmente soli, se ne sono vendicati impadronendosi del triste mondo che veniva loro imposto. Nelle loro mani, terra, fuoco, acqua; nelle loro mani, l'arido godimento della privazione; ma armi, anche; e, nei loro occhi, furore. Vittime micidiali, essi replicano alla calma che li coprirà di cenere. Spezzano, impongono, atterriscono, saccheggiano. Le porte dell'amore e dell'odio sono aperte e danno, libero passaggio alla violenza. Inumana, essa metterà l'uomo in piedi, veramente in piedi e non vorrà nemmeno supporre la possibilità d'una fine per questo fardello del mondo. L'uomo uscirà dai suoi ripari e, faccia a faccia col vano ordine degli incanti e dei disincanti, si inebrierà con la forza del suo delirio. Allora non sarà più un estraneo, né per se medesimo, né per gli altri.

[Poesie, con un'appendice di Prose, introduz. e trad. di F. Fortini, Milano, Mondadori, 1976, pp. 541-4]


MAX HORKHEIMER E THEODOR W. ADORNO

L'affinità di conoscenza e piano (fondata trascendentalmente da Kant), che dà all'esistenza borghese, razionalizzata fin nelle sue pause, un carattere, in tutti i particolari, di finalità ineluttabile, è stata esposta empiricamente da Sade un secolo prima dell'avvento dello sport. Le moderne squadre sportive, dal gioco collettivo perfettamente regolato, dove ogni giocatore sa quello che deve fare e una riserva è pronta a sostituirlo, hanno il loro preciso modello nei teams sessuali di Juliette, dove non un istante rimane inutilizzato, un'apertura del corpo trascurata, una funzione inattiva. Nello sport come in tutti i settori della cultura di massa regna un'attività intensa e funzionale, dove solo lo spettatore perfettamente iniziato è in grado di capire la differenza delle combinazioni e il significato delle vicende, che si misura a regole arbitrariamente stabilite. La peculiare struttura architettonica del sistema kantiano, come le piramidi ginniche delle orge di Sade e la gerarchia dei principi delle prime logge borghesi - il suo pendant cinico è il severo regolamento della società libertina delle 120 journées -, preannuncia un'organizzazione di tutta la vita destituita di ogni scopo oggettivo. Ciò che sembra importante, in queste istituzioni, più ancora del piacere, è la sua gestione attiva e organizzata, come già in altre epoche illuminate, la Roma dell'età imperiale e del Rinascimento oppure il Barocco, lo schema dell'attività contava più del suo contenuto. Nell'età moderna l'illuminismo ha svincolato le idee di armonia e perfezione dalla loro ipostasi nell'aldilà religioso, e le ha assegnate come criteri allo sforzo umano nella forma del sistema. Poi che l'utopia che aveva dato la speranza alla rivoluzione francese si fu travasata - potente e impotente insieme - nella musica e nella filosofia tedesca, l'ordine borghese stabilito ha definitivamente funzionalizzato la ragione. Essa è diventata «finalità senza scopo», che, appunto perciò, si può adoperare a tutti gli scopi. E' il piano considerato in se stesso.

[Dialettica dell'illuminismo (1944-'47)]

I comportamenti preistorici, su cui la civiltà ha posto un veto, hanno condotto un'esistenza sotterranea, trasformandosi, sotto il marchio della bestialità, in comportamenti distruttivi. Juliette li esegue, non più come naturali, ma proprio perché vietati. Essa compensa il verdetto contro di essi, infondato come tutti i giudizi di valore, con un giudizio di valore opposto. Quando essa ripete le reazioni primitive, esse non sono più, così, primitive, ma bestiali.

Egli [Sade] ha spinto la dissoluzione dei vincoli, che Nietzsche s'illudeva - idealisticamente - di poter superare con «l'io superiore», la critica alla solidarietà con la società, l'ufficio, la famiglia, fino a proclamare l'anarchia. La sua opera smaschera il carattere mitologico dei principi su cui riposa, secondo la religione, la civiltà: il decalogo, l'autorità paterna, la proprietà [...] Ciascuno dei dieci comandamenti riceve la dimostrazione della sua nullità davanti al tribunale della ragione formale. Essi sono smascherati senza residui come ideologie [...]. Non solo l'amore sessuale romantico è caduto come metafisica sotto i colpi della scienza e dell'industria, ma ogni amore in generale; poiché nessun amore può reggere di fronte alla ragione: quello della donna per il marito non più di quello dell'amante per l'amata; l'amore materno o paterno non più di quello filiale [...] Dolmancé dà la demistificazione materialista dell'amore paterno e materno. [...] Ma Sade sconsacra anche l'esogamia, il fondamento della civiltà. Non ci sono, secondo lui, motivi razionali contro l'incesto [...]. La famiglia [...] entra in conflitto con la società stessa. «[...] Se è estremamente nocivo permettere che i bambini assorbano nelle loro famiglie interessi che spesso divergono profondamente da quelli della patria, è estremamente vantaggioso separarli da esse» [...] La conoscenza del padre è «absolument interdite ai figli, che sono «uniquement les enfants de la patrie», e l'anarchia, l'individualismo, proclamato da Sade in lotta contro le leggi, sfocia nel dominio assoluto dell'universale, della repubblica. Come il dio abbattuto ritorna in un idolo più spietato, così il vecchio stato borghese «guardiano notturno» nella violenza del collettivo fascista. Sade ha pensato fino in fondo il socialismo di stato, ai cui primi passi sono caduti Robespierre e Saint-Just. Se la borghesia ha mandato alla ghigliottina i suoi politici più fedeli, ha relegato il suo scrittore più sincero nell'enfer della Bibliothèque Nationale. Poiché la chronique scandaleuse di Justine e di Juliette, che sembra scritta al nastro automatico, e anticipa, nello stile del secolo decimottavo, il romanzo d'appendice ottocentesco e la letteratura di massa del Novecento, è l'epos omerico che si è liberato fin dell'ultimo velo mitologico: la storia del pensiero come organo del dominio. In quanto inorridisce alla vista della propria immagine, esso apre uno spiraglio su ciò che è al di là di esso. Non l'armonico ideale sociale che balena, anche per Sade, nel futuro («gardez vos frontières et restez dica vous»), e neppure l'utopia socialista sviluppata nella storia di Zamé [Aline et Vancour] ma il fatto che Sade non abbia lasciato solo agli avversari il compito di far inorridire l'illuminismo su se stesso, fa della sua opera una leva del suo possibile riscatto.
Gli scrittori «neri» della borghesia non hanno cercato, come i suoi apologeti, di palliare le conseguenze dell'illuminismo con dottrine armonicistiche. Non hanno dato ad intendere che la ragione formalistica sia in rapporto più stretto con la morale che con l'immoralità. Mentre i chiari o sereni coprivano, negandolo, il vincolo indissolubile di ragione e misfatto, società borghese e dominio, gli altri esprimevano senza riguardo la verità sconcertante [...]. I vizi privati, in Sade come già in Mandeville, sono la storiografia anticipata delle virtù pubbliche dell'era totalitaria. Il fatto di non aver mascherato, ma proclamato ad alta voce l'impossibilità di produrre, in base alla ragione, un argomento di principio contro l'assassinio, ha alimentato l'odio di cui proprio i progressisti perseguitano ancora oggi Sade e Nietzsche. Diversamente dal positivismo logico, l'uno e l'altro hanno preso in parola la scienza. La loro insistenza sulla ratio, tanto più decisiva di quella del positivismo, ha il senso segreto di liberare dal bozzolo l'utopia che è racchiusa, come nel concetto kantiano di ragione, in ogni grande filosofia: quella di un'umanità che, non più deformata essa stessa, non ha più bisogno di deformazioni. Proclamando l'identità di ragione e dominio, le dottrine spietate sono più pietose di quelle dei lacchè della borghesia.


ALBERT CAMUS

L'idea, almeno, che Sade si fa di Dio è [...] quella di una divinità criminale che schiaccia l'uomo e lo nega. Che l'omicidio sia un attributo divino, lo si vede abbastanza, secondo Sade, nella Storia delle religioni. Perché dunque l'uomo sarebbe virtuoso? Il primo moto del prigioniero [Sade] consiste nel saltare alla conseguenza estrema. Se Dio uccide e nega l'uomo, nulla può vietare che si neghino e uccidano i propri simili [...].
[Sade] negherà dunque l'uomo e la sua morale perché li nega Dio. Ma negherà al tempo stesso Dio che finora gli era mallevadore e complice. In nome di che? In nome dell'istinto più forte in colui che l'odio degli uomini fa vivere tra le mura di una prigione: l'istinto sessuale. Che è quest'istinto? È da un lato il grido stesso della natura e, d'altra parte, l'impeto cieco che esige il possesso totale degli esseri, a prezzo della loro stessa distruzione. Sade negherà Dio in nome della natura [...] e farà della natura una potenza di distruzione. La natura, per lui, è il sesso; la sua logica lo conduce in un universo senza legge in cui sola signoreggia l'energia smisurata del desiderio [...].
Senza dubbio, Sade ha sognato la repubblica universale di cui ci fa esporre il piano da un saggio riformatore, Zamé. Ci mostra così che una delle direzioni della rivolta, in quanto, accelerandosi il suo moto, sempre meno essa sopporta dei limiti, è la liberazione del mondo intero. Ma tutto in lui contraddice questo pio sogno. Non è amico del genere umano, odia i filantropi. L'eguaglianza di cui talvolta parla è un concetto matematico: l'equivalenza di quegli oggetti che sono gli uomini, l'abietta uguaglianza delle vittime [...].
La repubblicà universale ha potuto essere per Sade un sogno, mai una tentazione. In politica, la sua vera posizione è il cinismo. Nella sua Società degli Amici del Crimine, ci si dichiara ostensibilmente per il governo e le sue leggi, che tuttavia ci si dispone a violare. Allo stesso modo, i lenoni votano per il deputato conservatore. Il progetto che Sade volge nella mente presuppone la neutralità benevola dell'autorità. La repubblica del delitto non può essere, per lo meno provvisoriamente, universale. Deve fingere d'obbedire alla legge. Tuttavia, in un mondo che non ha altra norma che l'omicidio, sotto il cielo del crimine, in nome di una criminale natura, Sade obbedisce in realtà solo alla legge instancabile del desiderio. Ma desiderare senza limiti significa anche accettare di essere desiderati senza limiti. La licenza di distruggere implica che si possa essere distrutti. Si dovrà dunque lottare e dominare. Sola legge di questo mondo è la legge della forza: suo principio motore, la volontà di potenza [...].
Non possono [i libertini] sperare d'imporsi a tutto l'universo finché l'universo non avrà accettato la legge del crimine [...]. Ma se il delitto e il desiderio non sono legge di tutto l'universo, se non regnano almeno sovra un dato territorio, non sono più principi di unità, ma fermenti di conflitto. Non sono più legge e l'uomo ritorna alla disperazione e al caso. Bisogna dunque creare ex novo un mondo che sia esattamente adeguato alla nuova legge. L'esigenza di unità, delusa dalla creazione, si appaga a forza in un microcosmo. La legge della potenza non ha mai la pazienza di conseguire l'imperio sul mondo. Ha bisogno di delimitare senza indugio il terreno ove esercitarsi, anche se debba circondano di reticolati e di scolte.
Con Sade, essa crea dei luoghi chiusi, castelli a settemplice cinta, dai quali è impossibile evadere, e dove la società del desiderio e del crimine funziona senza scosse, secondo un regolamento implacabile. La più sbrigliata rivolta, la rivendicazione totale della libertà fanno capo all'asservimento della maggioranza [...].
La rivolta assoluta si rintana con lui [Sade] in una fortezza sordida da cui nessuno, perseguitato e persecutore, può uscire. Per fondare la propria libertà, egli è obbligato a organizzare la necessità assoluta. La libertà illimitata del desiderio significa la negazione dell'altro, e la soppressione della pietà [...].
Sade, secondo l'usanza del suo tempo, costruisce così delle società ideali. Ma all'opposto del suo tempo, codifica la malvagità naturale dell'uomo. Costruisce meticolosamente la città della potenza e dell'odio, da precursore qual è, fino a mettere in cifre la libertà che ha conquistato. Riassume allora la sua filosofia nella fredda contabilità del delitto: «Massacrati prima del 1º marzo: 10. Dopo il 1º marzo: 20. Ritornano: 16. Totale 46». Precursore senza dubbio, ma ancora modesto, come si vede [] [...] Se la natura sola è vera, se, in natura, solo il desiderio e la distruzione sono legittimi, allora, di distruzione in distruzione, non bastando più alla sete di sangue lo stesso regno umano, bisogna correre all'annientamento universale. Bisogna farsi, secondo la formula di Sade, il carnefice della natura. Ma neppure questo si ottiene tanto agevolmente. Quando la contabilità è chiusa, quando sono state massacrate tutte le vittime, i carnefici restano faccia a faccia, nel castello solitario. Qualche cosa ancora manca loro. I corpi torturati tornano, nei loro elementi, alla natura, da cui rinascerà la vita [...]. Sade medita l'attentato contro la creazione [...]. Per quanto fantastichi di un meccanico che possa polverizzare l'universo, sa che nella polvere dei globi la vita continuerà. L'attentato contro la creazione è impossibile. Non si può distruggere tutto, c'è sempre un re siduo [...].
Bisogna uccidere ancora; a loro volta, i padroni si dilanieranno. Sade scorge questa conseguenza e non indietreggia. Un curioso stoicismo del vizio viene a rischiarare un poco questi bassifondi della rivolta [...] Il signore accetta di essere schiavo a sua volta e fors'anche lo desidera [...].
I padroni si scagliano uno sull'altro [...]. Il più potente che sopravviverà sarà il solitario, l'Unico, di cui Sade ha iniziato la glorificazione, lui stesso insomma. Eccolo regnare alfine, signore e Dio. Ma all'istante della più alta vittoria il sogno si dissolve [...]. Non ha trionfato se non in sogno e quelle decine di volumi, zeppi d'atrocità e di filosofia, riassumono una sventurata ascesi, un procedere allucinante dal no totale al sì assoluto, un consenso alla morte infine, che trasfigura l'uccisione di tutto e di tutti in suicidio collettivo.
[...] Il suo merito, incontestabile, sta nell'aver immediatamente illustrato, nella sciagurata chiaroveggenza di una rabbia accumulata, le conseguenze estreme di una logica messa al servizio di una rivolta, quando almeno questa dimentichi la verità delle proprie origini. Queste conseguenze sono la totalità chiusa, il delitto universale, l'aristocrazia del cinismo e la volontà d'apocalisse. Si ritroveranno molti anni dopo di lui [...].
Il successo di Sade nella nostra epoca è spiegato da quel sogno che egli ha in comune con la sensibilità contemporanea: la rivendicazione della libertà totale, e la disumanizzazione operata a freddo dall'intelletto. La riduzione dell'uomo a oggetto d'esperimento, il regolamento che precisa i rapporti tra la volontà di potenza e l'uomo-oggetto, il campo chiuso di questo mostruoso esperimento, sono lezioni che i teorici della potenza ritroveranno, quando dovranno organizzare l'epoca degli schiavi.
In anticipo di due secoli, e in scala ridotta, Sade ha esaltato le società totalitarie in nome della libertà frenetica che, in realtà, la rivolta non reclama. Con lui hanno realmente inizio la storia e la tragedia contemporanee. Soltanto, egli ha creduto che una società fondata sul delitto dovesse andar congiunta alla libertà del costume, come se la servitù avesse dei limiti. Il nostro tempo s'è limitato a fondere curiosamente il suo sogno di una repubblica universale e la sua tecnica d'avvilimento. Infine, ciò che Sade maggiormente odiava, il delitto legale, ha utilizzato a proprio beneficio le scoperte che egli voleva mettere a servizio dell'omicidio per istinto. Il delitto, che egli voleva fosse frutto eccezionale e delizioso del vizio scatenato, non è più, oggi, se non tetra consuetudine di una virtù fattasi poliziotta. Sono le sorprese della letteratura.

[L'uomo in rivolta]

SIMONE DE BEAUVOIR

Attribuire a Sade una troppo facile simpatia significa tradirlo; infatti, ciò che lui vuole è la mia infelicità, la mia soggezione e la mia morte; e ogniqualvolta prendiamo partito per il bambino scannato da un satiro, ci erigiamo contro di lui. Così pure, egli non mi vieta di difendermi, ammette che un padre di famiglia vendichi o prevenga, magari con l'omicidio, che il proprio figlio venga violentato. Quello che reclama è che, nella lotta che contrappone tra loro esistenze inconciliabili, ognuno si impegni concretamente nel nome della propria esistenza. Approva la vendetta, e non i tribunali: si può uccidere, ma non giudicare. Le pretese del giudice sono più arroganti di quelle del tiranno, poiché questi si limita a coincidere con se stesso, mentre il primo cerca di erigere le proprie opinioni a legge universale; il suo tentativo poggia su una menzogna: ognuno infatti è racchiuso nella propria pelle, non può diventare mediocre fra individui separati, nel cui ambito è anch'egli separato. Il fatto poi che molti individui si coalizzino, che si alienino insieme in istituzioni di cui nessuno è più il padrone, non conferisce loro nessun diritto nuovo: la quantità numerica non prova nulla. Non c'è nessun modo di misurare quello che è incommensurabile. Per sfuggire ai conflitti dell'esistenza, ci rifugiamo in un universo di apparenze e l'esistenza stessa si sottrae; credendo di difenderci, ci annientiamo. L'immenso merito di Sade consiste nel suo rivendicare, contro le astrazioni e le alienazioni che sono solo una fuga, la verità dell'uomo. Nessuno più di lui si è appassionatamente legato al concreto. Egli non ha mai attribuito credito alcuno ai «si dice» di cui i mediocri si rimpinzano pigramente; non aderisce se non alle verità che gli sono offerte nell'evidenza della sua esperienza vissuta; in tal modo, ha superato il sensualismo della sua epoca per trasformarlo in una morale dell'autenticità.
Questo non significa che la soluzione da lui proposta ci possa soddisfare. Se infatti la grandezza di Sade dipende dal suo aver voluto cogliere nella propria singolare situazione l'essenza medesima della condizione umana, da ciò derivano anche i suoi limiti. La via d'uscita che si è scelta, egli l'ha considerata valida per tutti, e a esclusione di ogni altra: in questo si è doppiamente ingannato. Nonostante tutto il suo pessimismo, è socialmente dalla parte dei privilegiati e non ha capito che l'iniquità sociale intacca l'individuo persino nelle sue possibilità etiche; persino la rivolta è un lusso che necessita di cultura, di tempo libero, di tranquillità nei confronti dei bisogni dell'esistenza; quando gli eroi di Sade pagano la rivolta con la vita, per lo meno sanno di dare, a questa loro vita, un senso valido in seguito; mentre per l'immensa maggioranza degli uomini, la rivolta coinciderebbe con uno stupido suicidio. Contrariamente ai suoi desideri, è la fortuna, non il merito ciò che potrebbe operare la selezione di una élite criminale. Se si obietta che egli non ha mai ambito all'universalità, che gli bastava garantire la propria salvezza, non gli si rende giustizia; egli si è proposto come esempio, dal momento che ha scritto e con quanta passione - la propria esperienza; e probabilmente non dava per scontato che il suo appello fosse inteso da tutti; ma non pensava neppure di rivolgerlo esclusivamente ai membri delle classi privilegiate, delle quali detestava l'arroganza; questa specie di predestinazione a cui credeva, la concepiva democraticamente e non avrebbe voluto scoprire che potesse dipendere dalle circostanze economiche: a esse, anzi, dal suo punto di vista, doveva permettere di sfuggire.
D'altra parte Sade non ha supposto che potesse. esistere una via diversa da quella della ribellione individuale; egli conosce una sola alternativa: o la morale astratta o il delitto; ignora l'azione. Che una comunicazione concreta fra i soggetti sia consentita attraverso un'impresa che integri tutti gli uomini al progetto generale di essere uomini, egli l'ha forse intuito, ma senza soffermarcisi; rifiutando all'individuo la sua trascendenza, lo condanna a un'insignificanza che autorizza a violentarlo; ma tale violenza, esercitandosi a vuoto, diventa derisoria, e il tiranno che cerca per suo tramite di affermarsi non scopre altro, allora, che il proprio nulla.
A questa contraddizione, tuttavia, Sade può opporne un'altra. Il sogno accarezzato dal XVIII secolo, infatti, quello di conciliare gli individui sul terreno della loro immanenza, è comunque impraticabile: la smentita che doveva infliggergii il Terrore, Sade l'ha incarnata alla sua maniera, pateticamente; l'individuo che non consente a rinnegare la propria singolarità, viene ripudiato dal concerto sociale. Ma se scegliamo di riconoscere in ogni soggetto solo la trascendenza che in concreto lo unisce ai suoi simili, siamo indotti ad alienarli tutti a nuovi idoli, e la loro singola insignificanza apparirà tanto più evidente; sacrificheremo l'oggi al domani, la minoranza alla maggioranza, la libertà di ognuno alle realizzazioni collettive. La prigione, la ghigliottina saranno le logiche conseguenze di questo rinnegamento. La menzognera fratellanza si conclude con delitti nei quali la virtù riconosce il proprio volto astratto. «Nulla assomiglia più alla virtù d'un grande delitto», ha detto Saint-Just. Non è meglio assumere il male piuttosto che accettare quel bene che implica, dopo di sé, astratte ecatombi? Probabilmente è impossibile eludere questo dilemma. Se la totalità degli uomini che popolano la terra fosse presente a tutti, in tutta la sua realtà, nessuna azione collettiva sarebbe permessa e per ognuno l'aria diverrebbe irrespirabile. A ogni istante, migliaia di individui soffrono e muoiono, invano, ingiustamente, e la cosa non ci tocca; solo a questo prezzo la nostra esistenza è possibile. Il merito di Sade non sta solo nel fatto che abbia gridato ad alta voce ciò che ciascuno si confessa vergognosamente: sta nel non averne tratto vantaggio. Contro l'indifferenza, ha scelto la crudeltà. Ecco perché, mi sembra, trova tante eco oggi, che l'individuo si sa vittima, non tanto délla malvagità degli uomini, quanto della loro buona coscienza; scuotere questo terrificante ottimismo significa accorrere in suo aiuto. Nella solitudine delle celle, Sade ha realizzato una notte etica analoga alla notte intellettuale di cui si, e avvolto Cartesio; non ne ha fatto scaturire un'evidenza: ma per lo meno ha contestato tutte le risposte troppo facili. Se si può sperare di superare un giorno la separazione tra gli individui, sarà solo a condizione di non misconoscerla; altrimenti le promesse di felicità e di giustizia nascondono le peggiori minacce. Sade ha vissuto fino alla feccia il momento dell'egoismo, dell'ingiustizia, dell'infelicità, e ne rivendica la verità. Ecco ciò che costituisce il supremo valore della sua -testimonianza e che, nel contempo, ci inquieta. Egli ci obbliga a rimettere in causa il problema essenziale che, in altre forme, assilla il nostro tempo: il vero rapporto fra uomo e uomo.

[Dobbiamo bruciare Sade?]

MICHEL FOUCAULT

Il classicismo non aveva rinchiuso soltanto una stagione astratta, in cui si confondevano folli e libertini, malati e criminali, ma anche una prodigiosa riserva di fantastico, un mondo addormentato di mostri inghiottiti nella notte di Bosch, che un giorno li aveva proferiti. Si direbbe che le fortezze dell'internamento avessero aggiunto alla loro funzione sociale di segregazione e di purificazione una funzione culturale del tutto opposta. Nel momento in cui separavano ragione e stagione alla superficie della società, conservavano in profondità delle immagini in cui l'una e l'altra si mescolavano e si confondevano. Hanno funzionato come una grande memoria a lungo silenziosa; hanno mantenuto nell'ombra una potenza immaginaria che si poteva credere esorcizzata; costruite dal nuovo ordine classico, hanno conservato, contro di lui e contro il tempo, delle figure proibite che si sono trasmesse intatte dal XVI al XIX secolo [...]. L'internamento ha permesso e ha evocato questa resistenza dell'immaginario.
Ma le immagini che si liberano alla fine del XVIII secolo non sono del tutto identiche a quelle che il XVII secolo aveva cercato di cancellare. Nell'oscurità si è compiuto un lavoro che le ha distaccate da quel retroterra in cui la Renaissance, dopo il Medioevo, le aveva attinte; esse hanno preso posto nel cuore, nel desiderio, nell'immaginazione degli uomini; e invece di manifestare allo sguardo l'improvvisa presenza dell'insensato, lasciano sorgere la strana contraddizione degli appetiti umani: la complicità del desiderio e del delitto, della crudeltà e della sete di sofferenza, della sovranità e della schiavitù, dell'insulto e dell'umiliazione. Il grande conflitto cosmico, di cui l'Insensato, nel XV e nel XVI secolo, ha svelato le peripezie, si è spostato fino a divenire, al termine estremo del classicismo, la dialettica senza mediazione del cuore. Il sadismo non è un nome dato infine a una pratica vecchia come l'Eros; è un fatto culturale massiccio, apparso appunto alla fine del XVIII secolo e che costituisce una delle più grandi svolte del pensiero occidentale: la stagione diventata delirio del cuore, follia del desiderio, dialogo insensato dell'amore e della morte nella presunzione senza limiti dell'appetito. L'apparizione del sadismo avviene in un momento in cui la stagione, reclusa da più di un secolo e ridotta al silenzio, ricompare, non più come figura del mondo, non più come immagine, ma come discorso e desiderio. E non è un caso che il sadismo, come fenomeno individuale che reca il nome di un uomo, è nato dall'internamento e nell'internamento, se tutta l'opera di Sade è ispirata dalle immagini della Fortezza, della Cella, del Sotterraneo, del Convento, dell'Isola inaccessibile, che formano così come il luogo naturale della sragione.

[Storia della follia]

La calma, il paziente linguaggio di Sade raccolgono [...] le ultime parole della sragione e danno loro un senso più lontano, per l'avvenire [...].
Nel castello in cui si rinchiude l'eroe di Sade, nei conventi, nelle foreste e nei sotterranei in cui si prosegue indefinitamente l'agonia delle sue vittime, sembra a prima vista che la natura possa dispiegarsi in piena libertà. L'uomo vi ritrova una verità dimenticata, benché manifesta: quale desiderio potrebbe essere contro natura, se è stato messo nell'uomo dalla natura stessa, e se gli è insegnato da essa nella grande lezione di vita e di morte che il mondo non cessa di ripetere? La follia del desiderio, le uccisioni insensate, le passioni più sragionevoli, sono saggezza e ragione, poiché appartengono alla natura. Tutto ciò che la morale e la religione, tutto ciò che una società malfatta hanno potuto soffocare nell'uomo, riprende vita nel castello dei delitti. L'uomo è infine accordato con la sua natura; o piuttosto, per un'etica caratteristica di questo strano internamento, l'uomo deve vegliare e conservare, senza cedimenti, la sua fedeltà alla natura [...]. Quando l'uomo avrà ferito o alterato la natura, tocca a lui riparare il male col calcolo di una sovrana vendetta: «La natura ci ha fatto nascere tutti uguali; se la sorte si diverte a sconvolgere questo piano delle leggi generali, tocca a noi correggerne i capricci e porre rimedio con la nostra abilità alle usurpazioni del più forte». La lentezza della rivincita e l'insolenza del desiderio appartengono alla natura. Non c'è niente di ciò che inventa la follia degli uomini che non sia natura manifesta o natura restaurata.
Ma nel pensiero di Sade questo non è che il primo momento: l'ironica giustificazione razionale e lirica, il gigantesco pastiche di Rousseau. A partire da questa dimostrazione per assurdo dell'inanità della filosofia contemporanea e di tutto il suo cianciare sull'uomo e la natura, saranno prese le vere decisioni: decisioni che sono tante rotture in cui si abolisce il legame dell'uomo col suo essere naturale. La famosa Società degli Amici del delitto, il programma di costituzione per la Svezia, quando siano spogliati dei loro sferzanti riferimenti al Contratto sociale e alle costituzioni progettate per la Polonia e per la Corsica, non stabiliscono mai se non il rigore sovrano della soggettività nel rifiuto di ogni libertà o di ogni uguaglianza naturale: esercizio smisurato della violenza, applicazione illimitata del diritto di morte; tutta questa società, il cui solo legame è il rifiuto stesso del legame, appare come il congedo dato alla natura, e agli individui del gruppo si domanda una coesione non per proteggere un'esistenza naturale, ma il libero esercizio della sovranità sulla e contro la natura [...]. Il rapporto stabilito da Rousseau è esattamente rovesciato; la sovranità non traspone più l'esistenza naturale; quest'ultima non è che un oggetto per il sovrano, ciò che gli consente di prendere le misure della sua totale libertà. Seguito fino all'estremo della sua logica, il desiderio non conduce apparentemente che alla scoperta della natura. In realtà, non c'è in Sade ritorno alla terra natale, né speranza che il primo rifiuto della socialità ridiventi furtivamente l'ordine prestabilito della felicità, con una dialettica della natura che rinuncia a se stessa e così si conferma. La follia solitaria del desiderio che, ancora per Hegel, come per i filosofi del XVIII secolo, immerge infine l'uomo in un mondo naturale subito ripreso in un mondo sociale, per Sade, non fa che gettarlo in un vuoto che domina da lontano la natura, in un'assenza totale di proporzioni e di comunità, nell'inesistenza sempre ricominciata dell'appagamento. La notte della follia è a questo punto senza limiti; quello che si poteva scambiare per la violenta natura dell'uomo non era che l'infinito della non-natura.
Qui prende origine la grande monotonia di Sade: a mano a mano che egli procede, gli scenari scompaiono; spariscono le sorprese, gli incidenti, i legami patetici o drammatici delle scene. Quello che in Justine era ancora peripezia (avvenimento subito, quindi nuovo) diventa in Juliette gioco sovrano sempre trionfante, senza negatività, la cui perfezione è tale che la sua novità non può essere che somiglianza con se stessa. E tuttavia in questa assenza di scenario, che può essere tanto notte totale quanto giorno assoluto (non c'è ombra in Sade), si avanza lentamente verso un termine: la morte di Justine. La sua innocenza aveva tanto stancato fino a desiderare di schernirla. Non si può dire che il delitto avesse trionfato della sua virtù; bisogna dire invece che la sua virtù naturale l'aveva condotta al punto di esaurire tutti i modi possibili di essere oggetto per il delitto. A questo punto, e quando il delitto non può far altro che scacciarla dal dominio della sua sovranità (Juliette scaccia sua sorella dal castello di Noirceuil), la natura, così a lungo dominata, schernita, profanata, si sottomette a sua volta interamente a ciò che la contraddiceva: a sua volta entra in follia e, per un istante soltanto, restaura la propria onnipotenza. La tempesta che si scatena, la folgore che colpisce e distrugge Justine, è la natura diventata soggettività criminale. Questa morte, che sembra sfuggire al regno insensato di Juliette, gli appartiene più profondamente di ogni altra; la notte della tempesta, il lampo e la folgore indicano a sufficienza che la natura è straziata, che giunge all'estremo del suo conflitto, e che lascia scorgere una sovranità che è se stessa e qualcosa di molto diverso: la sovranità di un cuore in follia che ha raggiunto nella sua solitudine i confini del mondo, che lo lacera, lo rivolta contro se stesso, e l'abolisce nel momento in cui potrebbe identificarsi con esso dopo averlo così ben dominato. Questo lampo istantaneo che la natura ha estratto da se stessa per colpire Justine è una cosa sola con la lunga esistenza di Juliette, che sparirà ugualmente da sola, senza lasciare traccia né cadavere né niente su cui la natura possa riprendere i suoi diritti. Il nulla della sragione in cui aveva taciuto per sempre il linguaggio della natura è diventato violenza della natura e contro la natura, fino all'abolizione sovrana di se stessa.
In Sade come in Goya la sragione continua a vegliare nella sua notte; ma con questa veglia essa prende contatto con nuovi poteri. Il suo non-essere diventa potenza annientatrice. Attraverso Sade e Goya il mondo occidentale ha raccolto la possibilità di oltrepassare la sua ragione nella violenza e di ritrovare l'esperienza tragica al di là delle promesse della dialettica.
Il linguaggio [nell'età classica] non è che la rappresentazione delle parole; la natura non è che la rappresentazione degli esseri, il bisogno non è che la rappresentazione del bisogno. La fine del pensiero classico e dell'episteme che rese possibili la grammatica generale, la storia naturale, e la scienza delle ricchezze - coinciderà con l'avvenuto arretramento della rappresentazione, o piuttosto con l'affrancamento, nei riguardi della rappresentazione, del linguaggio, del vivente e del bisogno. Lo spirito oscuro ma ostinato d'un popolo che parla, la violenza e lo sforzo incessante della vita, la forza sorda dei bisogni, sfuggiranno al modo d'essere della rappresentazione. E questa sarà accompagnata, limitata, orlata, mistificata forse, governata ad ogni modo esternamente dall'enorme spinta d'una libertà, o di un desiderio o d'una volontà che si daranno in quanto rovescio metafisico della coscienza. Qualcosa come un volere o una forza sorgerà nell'esperienza moderna, a costituirla forse, a, segnalare ad ogni modo che l'età classica si è conclusa e con essa il regno del discorso rappresentativo, la dinastia d'una rappresentazione autosignificantesi e che enunci, nella successione delle proprie parole, l'ordine assopito delle cose.
Tale rovesciamento è contemporaneo a Sade. O piuttosto tale opera impraticabile manifesta il precario equilibrio fra la legge senza legge del desiderio e l'ordinamento meticoloso d'una rappresentazione discorsiva.
L'ordine del discorso vi trova il proprio Limite e la propria Legge; ma ha ancora la forza di restare coestensivo a ciò che lo governa. Ivi senza dubbio è il principio di quel «libertinaggio» che fu l'ultimo del mondo occidentale (dopo di esso comincia l'età della sessualità): il libertino è colui che, obbedendo a tutti i capricci del desiderio e a ognuno dei suoi furori, può ma deve altresì rischiararne i minimi moti attraverso una rappresentazione lucida e volontariamente messa in opera. Esiste un ordine rigoroso della vita libertina: ogni rappresentazione deve di colpo animarsi nel corpo vivo del desiderio, ogni desiderio deve enunciarsi nella pura luce d'un discorso rappresentativo. Donde la successione rigida di «scene» (la scena, in Sade, è la sregolatezza coordinata alla rappresentazione) e, all'interno delle scene, l'equilibrio meticoloso fra la combinatoria dei corpi e il concatenarsi delle ragioni. Forse Justine e Juliette, di fronte al nascere della cultura moderna, sono nella stessa posizione di Don Chisci otte tra Rinascimento e classicismo. L'eroe di Cervantes, leggendo i rapporti tra mondo e linguaggio come si faceva nel XVI secolo, decifrando, attraverso il solo gioco della somiglianza, castelli nelle locande e dame nelle ragazze di fattoria, s'imprigionava senza saperlo nel mondo della pura rappresentazione; ma dal momento che tale rappresentazione non aveva come legge che la similitudine, essa doveva inevitabilmente apparire nella forma derisoria del delirio. Nella seconda parte del romanzo, tuttavia, Don Chisciotte riceveva dal mondo rappresentato la sua verità e la sua legge; non gli restava più che attendere dal libro in cui era nato, che non aveva letto ma di cui doveva seguire il corso, un destino che gli era ormai imposto dagli altri. Gli bastava lasciarsi vivere in un castello in cui egli stesso, essendosi inoltrato attraverso la sua follia nel mondo della pura rappresentazione, diveniva infine puro e semplice personaggio nell'artificio d'una rappresentazione. I personaggi di Sade gli rispondono all'altro capo dell'età classica, cioè al momento del declino. Non si tratta più del trionfo ironico della rappresentazione sulla somiglianza; è l'oscura violenza ripetuta dal desiderio che sopraggiunge a percuotere i limiti della rappresentazione. Justine corrisponderebbe alla seconda parte del Don Chisciotte; essa è oggetto indefinito del desiderio di cui costituisce la pura origine, allo stesso modo in cui Don Chisciotte è suo malgrado l'oggetto della rappresentazione con cui nel suo essere profondo coincide. In Justine, il desiderio e la rappresentazione comunicano solo in virtù della presenza d'un Altro il quale vede l'eroina come oggetto di desiderio, mentre questa non conosce del desiderio che la forma leggera, remota, esterna e gelida della rappresentazione. Tale è la sua sventura: la sua innocenza si frappone sempre tra il desiderio e la rappresentazione. Quanto a Juliette, essa non è altro che il soggetto di tutti i desideri possibili; ma tali desideri sono interamente ripresi nella rappresentazione che li fonda ragionevolmente in discorsi e li trasforma volontariamente in scene. Di modo che la grande narrazione della vita di Juliette dispiega, lungo l'intero arco dei desideri, delle violenze, delle efferatezze e della morte, il quadro scintillante della rappresentazione. Ma tale quadro è così sottile, così trasparente per tutte le figure del desiderio chenfaticabilmente in esso si accumulano e si moltiplicano ad opera della sola forza della loro combinatoria, da non essere meno irragionevole di quello di Don Chisciotte, allorché, di similitudine in similitudine, credeva inoltrarsi nei cammini misti del mondo e dei libri, ma s'immergeva invece nel labirinto delle proprie rappresentazioni. Juliette estenua lo spessore del rappresentato affinché vi affiorino, senza la minima pecca, la minima reticenza, il minimo velo, tutte le possibilità del desiderio.
Per questo tale narrazione chiude l'età classica su se stessa, così come Don Chisciotte l'aveva aperta. E se è vero che essa è l'ultimo linguaggio ancora contemporaneo di Rousseau e di Racine, se è, insomma, l'ultimo discorso che si accinge a «rappresentare», cioè a nominare, è ben noto che, contemporaneamente, essa riduce questa cerimonia al massimo dell'esattezza (chiama le cose col loro nome diretto, disfacendo in tal modo l'intero spazio retorico) e la allunga all'infinito (nominando tutto, e senza dimenticare la più irrilevante delle possibilità, poiché queste sono tutte percorse secondo la caratteristica universale del Desiderio). Sade raggiunge il termine del discorso e del pensiero classici. Regna rigorosamente sul loro limite. A partire da lui, la violenza, la vita e la morte, il desiderio, la sessualità, stenderanno, al di sotto della rappresentazione, un'immensa falda d'ombra [...].

[Le parole e le cose, ed. cit., pp. 229-30]

Nel corso di un'intervista, che rilasciò a Paolo Caruso nel maggio del 1967, Foucault collegò Sade al tema «della dissoluzione, della scomparsa, del rinnegamento del soggetto» e; quindi, a quello del dispiegamento assoluto delle strutture. «Sade - disse Foucault - è un ottimo esempio sia del rinnegamento del soggetto nell'erotismo, sia dell'assoluto dispiegarsi delle strutture nella loro positività più aritmetica. Poiché dopotutto, Sade non è altro che lo sviluppo sino alle estreme conseguenze di tutta la combinatoria erotica in quel che essa ha di più logico, e ciò in una specie di esaltazione (per lo meno, nel caso di Juliette) del soggetto stesso, esaltazione che porta alla sua esplosione completa» (Cfr. Conversazioni con Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault, Jacques Lacan, a cura di P. Caruso, Milano, Mursia, 1969, pp. 120-1).

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