DONATIEN ALPHONSE FRANÇOIS DE SADE

LE SVENTURE DELLA VIRTÙ

TRADUZIONE RIVISTA SUL TESTO
ORIGINALE DA LAURETO RODONI


LES INFORTUNES DE LA VERTU

OEUVRES DU MARQUIS DE SADE

OPERE DEL MARCHESE DE SADE


Per la filosofia sarebbe un vero e proprio trionfo illuminare le oscure vie seguite dalla provvidenza per attuare i suoi progetti sull'uomo, e redigere quindi un piano di condotta capace di indicare a questo bipede infelice, da sempre sballottato dai capricci di quell'essere che, a quanto sembra, tanto tirannicamente lo controlla, come debba interpretare i decreti della provvidenza nei suoi confronti e quale via è utile che egli imbocchi per prevenire i bizzarri capricci di quel destino a cui si danno una ventina di nomi diversi, senza che si sia ancora a definirlo.
Posto che, sulla base delle nostre convenzioni sociali e non dimenticando mai il rispetto inculcatoci per esse dall'educazione, a noi purtroppo capita d'imbatterci per la perversità degli altri solo e sempre in spine, mentre i perfidi raccolgono le rose, non potrà capitare che alcuni di noi, senza un fondo di virtù così solido da superare le riflessioni originate da queste meste circostanze, decidano che sia meglio lasciarsi trascinare dalla corrente piuttosto che opporvisi e dicano che la virtù, per quanto sia bella, quando diventa malauguratamente troppo debole per lottare contro il vizio, si riveli il peggio che si possa scegliere, e che in un secolo completamente corrotto è più sicuro comportarsi come gli altri? Un po' più istruiti, magari, e con l'abuso dei lumi acquisiti, non diranno costoro con l'angelo Jesrad di Zadig
[Cfr. cap. XVIII di Zadig ou la Destinée di Voltaire: «Mais quoi, dit Zadig, il est donc nécessaire qu'il ait des crimes et des malheurs, et que les malheurs tombent sur les gens de bien! Les méchants, repondit Jesrad, sont toujours malheureux. Ils servent à éprouver un petit nombre de justes répandus sur la Terre, et il n'y a point de mal dont il ne naisse un bien»] che non può esistere alcun male da cui nasca un bene? E non aggiungeranno di testa loro che, essendoci nell'imperfetta costituzione del nostro malvagio mondo una quantità di male pari a quella del bene, è essenziale per mantenere l’equilibrio che esistano tanti buoni quanti malvagi e che quindi è indifferente per il piano generale che un essere umano sia buono o cattivo? Che, se la sventura perseguita la virtù e la prosperità accompagna quasi sempre il vizio, essendo ciò identico per la natura, è infinitamente meglio far parte dei malvagi che prosperano piuttosto che dei virtuosi che periscono? È perciò importante prevenire questi sofismi perniciosi della filosofia, ed essenziale mostrare come gli esempi della virtù sfortunata, presentati ad un'anima corrotta, in cui tuttavia ci siano ancora alcuni buoni principi, possano riportare quest'anima al bene con altrettanta certezza che se le fossero offerte sulla via della virtù le palme più fulgide e le ricompense più lusinghiere. È certamente crudele dover dipingere da un lato il cumulo di sventure che opprime la donna dolce e sensibile che più ha rispetto per la virtù, e da un altro la fortuna più sfacciata per colei che la disprezza vita natural durante; ma se può nascere del bene dal concepimento di questi due quadri, saremo forse biasimati per averli offerti al pubblico? Dovremo nutrire rimorso per aver accertato un fatto da cui risulti per il saggio che legge con profitto la lezione così utile della sottomissione agli ordini della provvidenza, un lacerto del chiarimento dei suoi enigmi più segreti e l'ammonimento fatale che è per richiamarci ai nostri doveri che spesso il cielo colpisce, accanto a noi, gli esseri che pure sembrano aver meglio soddisfatto i loro?
Questi sentimenti ci spingono a prendere la penna in mano, ed tenendo conto della loro buona fede chiediamo ai nostri lettori un po' di attenzione e di interesse per le disgrazie dell’infelice e miseranda Justine.

La Contessa de Lorsange era una di quelle sacerdotesse di Venere, la cui fortuna dipende da un volto affascinante, di gran condotta riprovevole e di malizia, titoli che, per quanto pomposi, si trovano soltanto negli archivi di Citera, forgiati dall'impertinenza che li accetta e sostenuti dalla becera credulità che li assegna. Bruna, molto vivace, di bell'aspetto, gli occhi neri straordinariamente espressivi, ricca di spirito e soprattutto di quello scetticismo di moda che, aggiungendo un che di eccitante alle passioni, rende più attraente la donna in cui lo si intuisce; tuttavia era stata educata in modo quanto mai accurato. Figlia di un ricco commerciante di rue Saint-Honoré, era stata istruita, insieme a una sorella più giovane di lei di tre anni, in uno dei migliori conventi di Parigi e lì, fino all'età di quindici anni, nessun consiglio, nessun insegnante, nessun buon libro, nessun piacere le era stato rifiutato. A quell'epoca, fatale per la virtù di una fanciulla, tutto le venne a mancare d’improvviso. Una bancarotta catastrofica gettò suo padre in una situazione a tal punto insostenibile che il solo modo per sfuggire ad un destino ancor più avverso fu quello di trasferirsi precipitosamente in Inghilterra, lasciando le figlie alla moglie, che spirò di dolore otto giorni dopo la partenza del marito. Quei due o tre parenti rimasti decisero quel che era più opportuno per le fanciulle e, visto che ognuna non possedeva più di cento scudi, diedero loro quello di cui avevano diritto e le resero padrone delle proprie azioni. La signora de Lorsange, che allora si chiamava Juliette e aveva un carattere ed un animo di una donna di trent'anni, età che aveva al tempo della storia che stiamo narrando, si mostrò sensibile soltanto al piacere di essere libera, senza per nulla riflettere alle crudeli sventure che spezzavano le sue catene. Invece sua sorella Justine, che aveva compiuto appena dodici anni, dal carattere serio e malinconico, di una delicatezza e di una sensibilità sorprendenti, e, al contrario della sorella, ingenua, candida e sempre in buona fede, pregi che l'avrebbero fatta cadere in più di un tranello, avvertiva tutto l'orrore della sua situazione. Questa fanciulla aveva una fisionomia completamente differente da quella di Juliette; se nei lineamenti dell'una non poteva sfuggire l’artificio, la malizia e la civetteria, in quelli dell'altra si ammirava il pudore, la delicatezza e la timidezza. Un aspetto verginale, grandi occhi azzurri estremamente espressivi, una carnagione luminosa, una figura esile, un tono di voce commovente, denti candidi e bei capelli biondi; tale il ritratto di questa bellissima fanciulla, dalle grazie ingenue e dai lineamenti deliziosi troppo delicati per non sfuggire al pennello bramoso di immortalarli.
Furono date ad ambedue ventiquattro ore di tempo per abbandonare il convento, libere di sistemarsi dove volessero con quei cento scudi. Juliette, affascinata dall'essere padrona di se stessa, per un po' cercò di asciugare le lacrime di Justine, ma, visti inutili i suoi tentativi, si mise a rimproverarla invece di consolarla, dicendole che era una sciocca e che non si erano mai viste delle ragazze così giovani e belle come loro morire di fame; le portò come esempio la figlia di una loro vicina, che era fuggita di casa ed ora faceva la signora con tanto di carrozza a Parigi, mantenuta da un appaltatore generale. Questo insano esempio inorridì Justine: avrebbe preferito morire piuttosto che imitarlo e rifiutò con determinazione di abitare con la sorella, vedendo Juliette decisa di abbandonarsi al genere di vita indecoroso che le stava esaltando.
Le due sorelle si separarono dunque senza neanche la promessa di rivedersi, giacché le loro intenzioni erano così diverse. Juliette, a sentir lei, sarebbe diventata una gran dama, e come avrebbe potuto accettare di rivedere una ragazzina dalle inclinazioni virtuose e modeste che l'avrebbero fatta sfigurare? E d'altronde Justine come avrebbe potuto mettere in pericolo i suoi principi morali frequentando un essere perverso che stava per diventare vittima della smoderatezza e del vizio? Ciascuna dunque prese la sua strada e lasciò il convento fin dal giorno successivo, come era stato stabilito.
Justine, coccolata da bambina dalla sarta di sua madre, pensò che quella donna si sarebbe intenerita alla sua sorte; andò a trovarla, le narrò la sua sciagurata situazione, le chiese da lavorare e ricevette un duro rifiuto...
«Oh cielo!» disse quella povera piccola creatura, «sono destinata fin dai primi passi che compio nel mondo ad avere sùbito dei dispiaceri... questa donna un tempo mi voleva bene, ora perché mai mi respinge?... Ahimé! È perché sono orfana e povera... non ho più risorse, e invece le persone sono stimate soltanto per gli aiuti o dei benefici che si pensa di poter ricevere da loro».
Considerato ciò, Justine andò a trovare il prete della sua parrocchia, gli chiese qualche consiglio, ma il pio ecclesiastico le rispose in modo ambiguo che la parrocchia era tanto aggravata, che non era possibile darle un po' di elemosina, ma che comunque egli l'avrebbe accolta volentieri in casa se voleva entrare al suo servizio; ma giacché, mentre le parlava, quel sant'uomo le aveva messo una mano sotto il mento, dandole un bacio un po' troppo lascivo per un uomo di Chiesa, Justine, che l'aveva capito fin troppo bene, si ritirò di scatto dicendogli:
«Signore, non vi chiedo né l'elemosina né un posto di serva, perché da troppo poco tempo ho lasciato una condizione superiore a quella che può sollecitare queste due sistemazioni, per esser ridotta a questo punto; vi chiedo i consigli di cui hanno bisogno la mia giovinezza e la mia sciagura, e voi volete che li ottenga con un crimine...»
Il curato, infastidito da questa parola, apre la porta, la scaccia brutalmente e Justine, respinta due volte fin dal primo giorno in cui è abbandonata a se stessa, entra in una casa dove vede un'insegna, affitta una cameretta ammobiliata, la paga in anticipo e lì almeno può dare libero sfogo al dolore che le procurano la sua condizione e la crudeltà di quei pochi individui con cui la sua sorte avversa l'ha già costretta ad avere a che fare.
Il lettore ci permetterà di abbandonarla per qualche tempo in quell'oscuro tugurio, per tornare a Juliette e informarlo, nella maniera più breve possibile, di come ella in quindici anni, da quell'umile stato in cui la vediamo all'inizio della sua storia, sia diventata una donna titolata, con una rendita di più di tremila libbre, bellissimi gioielli, due o tre case in campagna e a Parigi e, allo stato attuale, il cuore, la ricchezza e la fiducia del signor de Corville, consigliere di Stato, uomo di grandissimo prestigio e in procinto di entrare nel ministero... La strada fu piena di spine... indubbiamente è con un tirocinio vergognoso e durissimo che certe ragazze fanno la loro strada, e quella che oggi è nel letto di un principe porta forse ancora su di sé i segni umilianti della brutalità dei libertini, fra le cui mani la fecero cadere una prima volta la giovinezza e l'inesperienza.
Uscendo dal convento, Juliette andò molto semplicemente alla ricerca di una donna che aveva sentito nominare da quella sua amica del vicinato che si era corrotta e della quale aveva tenuto con sé l'indirizzo; sfrontatamente si presenta con il fagotto sotto il braccio, un vestitino sciupato, il viso più aggraziato di questo mondo e un'aria proprio da educanda; racconta la sua storia alla donna, la supplica di proteggerla come ha fatto qualche anno prima con la sua vecchia amica.
«Quanti anni avete, bambina mia?» le domanda la Du Boisson.
«Quindici fra qualche giorno, signora.»
«E mai nessuno...»
«Oh no, signora, ve lo giuro.»
«Il fatto è che in certi conventi a volte un elemosiniere... una monaca, una compagna... Mi occorrono prove sicure.»
«Sta a voi, signora, procurarvele...»
E la Du Boisson, inforcati gli occhiali e verificato di persona lo stato esatto delle cose, dice a Juliette:
«Allora, bambina mia, non dovete far altro che fermarvi qui: molta sottomissione ai miei consigli, molta compiacenza con i miei clienti, pulizia, economia, sincerità con me, amabilità con le compagne, malizia con gli uomini, e nel giro di pochi anni vi metterò in grado di ritirarvi in una camera con un comò, uno specchio, una cameriera; l'arte che avrete imparato da me vi darà la possibilità di procurarvi il resto.» -
La Du Boisson s'impossessò del fagottino di Juliette, le chiese se avesse soldi e, poiché ella con troppa franchezza le aveva confessato di aver cento scudi, la cara mamma l'intascò assicurando la giovane allieva che avrebbe messo quella piccola somma a suo profitto, ma che non era il caso che una ragazza avesse del denaro... era un mezzo per agire male e in un secolo così corrotto una ragazza saggia e ben nata doveva evitare con cura quanto potesse farla cadere in qualche trappola. Finita la predica, la nuova venuta fu presentata alle compagne, le fu indicata la camera nella casa e già dal giorno dopo le sue primizie furono in vendita; in quattro mesi la stessa merce fu successivamente venduta a ottanta persone che la pagarono tutte come nuova, e solo alla fine di questo spinoso noviziato Juliette fu riconosciuta una conversa. Da quel momento fu realmente trattata come una ragazza della casa e ne condivise le lascive fatiche... altro noviziato; se nel primo, eccetto alcuni casi, Juliette aveva servito la natura, nel secondo ne dimenticò le leggi: ricerche criminose, piaceri vergognosi, vizi sordidi e immondi, gusti scandalosi e bizzarri, fantasie umilianti, e, tutto questo, frutto, da una parte, del desiderio di godere senza mettere a rischio la propria salute e, da un'altra, di una sazietà pericolosa che, disincantando l'immaginazione, non permette di ravvivarsi se non con gli eccessi e appagarsi soltanto con la dissolutezza... Juliette corruppe completamente i suoi costumi in questa seconda scuola e i trionfi che vide ottenere con il vizio degradarono del tutto la sua anima; si rese conto che, nata per il crimine, doveva perlomeno arrivare in alto e rinunciare a languire in uno stato subalterno che, facendole commettere le stesse colpe, avvilendola ugualmente, non le procurava tuttavia un uguale profitto. Piacque a un vecchio signore debosciato che dapprima l'aveva presa con sé per lo svago di un quarto d'ora, poi ella ebbe l'arte di farsi magnificamente mantenere e così comparve agli spettacoli, alle passeggiate a fianco dei benemeriti dell'ordine di Citera; fu ammirata, citata, invidiata e la bricconcella seppe farci così bene che in quattro anni rovinò tre uomini, il più povero dei quali aveva centomila scudi di rendita. Non ci volle altro per costruire la sua reputazione; la cecità delle persone del nostro secolo è tale che più una di queste disgraziate ha dato prova della sua disonestà, e più si è desiderato essere nella sua lista, tanto che il grado della sua abiezione e della sua corruzione regola i sentimenti che si osano ostentare per lei.
Juliette aveva appena compiuto vent'anni quando un conte de Lorsange, gentiluomo angioino di circa quarant'anni, s'innamorò così appassionatamente di lei che decise di darle il suo nome, non essendo abbastanza ricco per mantenerla; le riconobbe una rendita di dodicimila libbre, le lasciò in eredità il resto del patrimonio, che arrivava ad otto, nel caso fosse morto prima di lei, le regalò una casa, alcuni domestici, uno stemma e una certa considerazione in società così che, in due o tre anni, riuscì a far dimenticare le sue origini. Ma fu a questo punto che la sciagurata Juliette, dimenticando tutti i sentimenti della sua onesta nascita e della buona educazione, pervertita dai cattivi libri e dai cattivi consigli, desiderosa di godere in libertà, di avere un nome e nessuna catena, osò abbandonarsi allo scellerato pensiero di abbreviare i giorni di suo marito... Lo concepì e lo mise in atto con tale segretezza che, purtroppo, si mise al riparo delle conseguenze e seppellì con questo sposo, che le era di peso, ogni traccia del suo efferato misfatto.
Tornata libera, e contessa, la signora de Lorsange riprese le sue vecchie abitudini, ma considerandosi ormai qualcuno in società, ci mise un po' più di decenza; non era più una mantenuta, ma una ricca vedova che offriva piacevoli cene e in casa della quale la città e la corte erano ben contenti di venire ammesse e che pure andava a letto con chiunque per duecento luigi e si concedeva per cinquecento al mese. Fino a ventisei anni fece ancora brillanti conquiste, rovinò tre ambasciatori, quattro appaltatori generali, due vescovi e tre cavalieri degli ordini del re, e giacché è raro che ci si fermi dopo un primo delitto, soprattutto quando ogni cosa si è risolta felicemente, Juliette, la disgraziata e colpevole Juliette, si macchiò di due nuovi delitti simili al primo, l'uno per derubare un suo amante che le aveva affidato una somma considerevole all'insaputa della sua famiglia, e messa quindi al sicuro dalla signora de Lorsange grazie all'odioso crimine; l'altro per ottenere prima del tempo un’eredità di centomila franchi che un suo adoratore aveva iscritto nel testamento a suo favore, a nome di un terzo che avrebbe dovuto consegnare la somma in cambio di una piccola retribuzione. A questi orrori la signora de Lorsange aggiunse due o tre infanticidi; il timore di compromettere la sua graziosa figura, il desiderio di nascondere un duplice intrigo, tutto la spinse alla fermezza di abortire più volte, e questi delitti, ignorati come gli altri, non impedirono a quella creatura astuta e ambiziosa di trovare ogni giorno nuove vittime e accrescere sempre di più la sua fortuna, accumulando contemporaneamente i suoi crimini. È dunque disgraziatamente proprio vero che la prosperità può accompagnarsi al delitto e che, nell’ambito dello stesso disordine e della corruzione, tutto quanto gli uomini chiamano felicità può indorare il filo dell'esistenza; ma questa crudele e fatale verità non allarmi! L'immancabile sventura che al contrario perseguita ovunque la virtù, come tra poco proveremo con l'esempio, non tormenti l'animo delle persone oneste! Questa prosperità del delitto non è che apparente; indipendentemente dalla provvidenza che deve necessariamente punire tali successi, il colpevole nutre nel fondo del proprio cuore un tarlo che, rodendolo senza tregua, gli impedisce di godere di quel calore di felicità che lo circonda e gli lascia al suo posto soltanto il ricordo lacerante dei crimini che gliel'hanno procurata. Per quanto riguarda la sfortuna che si accanisce sulla virtù, lo sventurato perseguitato dal destino trova consolazione nella sua coscienza, e le segrete gioie che egli trae dalla sua purezza lo ricompensano ben presto dell'ingiustizia degli uomini.
Tale era dunque io stato degli affari della signora de Lorsange quando il signor de Corville, di cinquant'anni e godendo del credito di cui abbiamo detto in precedenza, decise di sacrificarsi completamente per questa donna e legarla per sempre a sé. Fosse per le attenzioni e le buone maniere, o fosse per saggezza da parte della signora de Lorsange, è un fatto che ci era riuscito, e da quattro anni viveva con lei proprio come con una moglie legittima, quando una meravigliosa terra, che egli aveva comprato per lei vicino a Montargis, li aveva spinti ad andarci a passare qualche mese d'estate. Una sera di giugno, il bel tempo li aveva convinti ad arrivare a piedi fino in città, poi troppo stanchi per far ritorno allo stesso modo, erano entrati nella locanda dove sosta la diligenza di Lyon, con l'intenzione di inviare di li una persona a cavallo che prendesse una carrozza al castello; stavano riposando in una sala bassa e fresca che dava sul cortile, quando la diligenza di cui abbiamo parlato arrivò alla locanda. È un divertimento naturale osservare attentamente dei viaggiatori. Qualsiasi persona che stia senza far nulla si abbandona a questo passatempo non appena se ne presenti l'occasione. La signora de Lorsange si alzò, il suo amante la segui e videro entrare nella locanda tutto il gruppo dei viaggiatori. Sembrava non ci stesse più nessuno nella vettura quando scese un cavaliere di polizia, trascinandosi dietro per il braccio, consegnatagli dall'interno da un collega che sedeva vicino a lui, una giovane di ventisei ventisette anni, avvolta in una mantellaccia di tela indiana e legata come un criminale. Al grido d'orrore e di sorpresa sfuggito alla signora de Lorsange la ragazza si voltò mostrando i suoi lineamenti dolci e delicati, una figura così fine e ben fatta che de Corville e la sua amante non riuscirono a non interessarsi al caso di questa miserabile creatura. De Corville si avvicina e chiede a uno dei cavalieri cosa abbia mai commesso quella sventurata.
«Per quanto ne so, signore,» risponde il poliziotto, «è accusata di tre o quattro crimini spaventosi, come furto, omicidio e incendio, ma vi confesso che il mio collega ed io non abbiamo mai condotto un criminale con tanta repulsione; è la creatura più dolce e sembrerebbe la più onesta...»
«Ah, ah!» disse il signor de Corville, «non potrebbe trattarsi di uno di quegli errori ordinari nei tribunali subalterni?
E dov'è stato commesso il delitto?».
«In una locanda a tre leghe da Lyon; a Lyon è stata giudicata, va a Parigi per la conferma della sentenza e tornerà a Lyon per essere giustiziata.»
La signora de Lorsange che si era avvicinata e aveva sentito il racconto, rivelò sottovoce al signor de Corville che desiderava ascoltare dalla viva voce di quella ragazza la storia delle sue disgrazie, e il signor de Corville, che aveva io stesso desiderio, lo manifestò ai gendarmi, rivelando la propria identità; quelli non si opposero affatto: si convenne che era opportuno passare la notte a Montargis, fu richiesto un comodo appartamento accanto al quale se ne trovò uno per i cavalieri. Il signor de Corville rispondeva della prigioniera che fu sciolta e poté passare nell'appartamento del signor de Corville e della signora de Lorsange, le guardie cenarono e andarono a dormire, fu dato da mangiare qualcosa a quella poveraccia, e la signora de Lorsange che non riusciva a soffocare quel vivissimo interesse che aveva per lei e diceva certamente a se stessa: «Questa miserabile creatura, forse innocente, è trattata come una criminale, mentre tutto prospera intorno a me, che lo sono certamente più di lei»; la signora de Lorsange, dicevo, come vide quella povera ragazza abbastanza rimessa, consolata in qualche modo dalle gentilezze che le venivano fatte e dall'interesse che si manifestava per lei, la incitò a raccontare per quali circostanze lei, con quell'aspetto così onesto e giudizioso, fosse finita in una situazione così funesta.
«Raccontarvi la storia della mia vita, signora,» disse la bella sventurata rivolgendosi alla contessa, «significa dimostrarvi nel modo più evidente le sventure dell'innocenza. Significa accusare la provvidenza, significa lamentarsene, e questo è come un delitto e io non oserei mai...».
Dagli occhi di quella povera ragazza colarono a questo punto copiose lacrime e, dopo aver dato loro libero sfogo per un istante, ella cominciò il suo racconto in questi termini.

Mi permetterete di nascondere il mio nome e la mia nascita, signora; senza essere illustre, è onesta, ed io non ero destinata all'umiliazione da cui si sono originate perlopiù le mie sciagure. Giovanissima, persi i miei genitori, e col poco che mi avevano lasciato credetti di poter raggiungere una sistemazione onesta, rifiutando con fermezza tutte quelle che non lo erano, ma per mangiare consumai senza rendermene conto quel poco che mi era toccato; più diventavo povera e più ero disprezzata; più avevo bisogno di aiuti, meno speravo di ottenerne o più me ne era offerti di indegni e ignominiosi. Di tutte le avversità che sopportai in quella situazione sventurata, di tutti gli orribili discorsi che mi furono fatti, vi citerò solo quanto mi capitò presso il signor Dubourg, uno dei più ricchi appaltatori della capitale. Mi avevano indirizzata a lui come a un uomo il cui credito e la ricchezza potevano meglio rasserenare il mio destino, ma quelli che mi avevano dato questo consiglio o volevano ingannarmi o non conoscevano la durezza d'animo di quell'uomo e la depravazione dei suoi costumi. Dopo aver atteso due ore in anticamera, infine venni introdotta; il signor Dubourg, di circa quarantacinque anni, si era appena alzato dal letto, avvolto in una vestaglia che nascondeva appena il suo disordine; stavano per pettinarlo, fece ritirare il domestico e mi chiese cosa volessi.
«Ahimè, signore,» gli risposi, «sono una povera orfana che non ha ancora quattordici anni e pure già conosce tutte le sfumature della disgrazia».
E gli raccontai allora in particolare le mie sventure, la difficoltà di trovare un posto, la disgrazia di aver finito quel poco che avevo per mangiare mentre ne cercavo altro, i rifiuti sofferti, le difficoltà che incontravo per trovare un lavoro in un negozio o in una casa, e la speranza che lui mi potesse far realizzare con facilità un mezzo per vivere.
Dopo avermi ascoltato con sufficiente attenzione, il signor Dubourg mi chiese se ero sempre stata una brava ragazza.
«Non sarei né così povera né così imbarazzata, signore,» gli risposi, «se avessi voluto smettere di esserlo».
«Bambina mia,» mi disse allora, «e a che titolo pretendete che la ricchezza vi aiuti se voi non la servite in nulla?»
«Servire, signore? Ma io non chiedo di meglio!»
«I servizi di una bambina come voi sono scarsamente utili in una casa, e non mi riferisco a questo, perché non avete né l'età né il fisico per fare quanto chiedete, ma potete con meno ridicolo rigore pretendere un'onesta sorte presso tutti i libertini. E a questo solo dovete mirare; quella virtù che mettete tanto in mostra in società non serve a nulla, per quanto la sbandiererete non ne ricaverete neanche un bicchier d'acqua. Persone come noi che facciamo anche troppo dando l'elemosina, che è una delle cose per cui spendiamo il meno possibile e che maggiormente ci ripugnano, vogliono ricavare un profitto dal denaro che tirano fuori di tasca, e cosa può mai offrire una fanciulla come voi in cambio di questi aiuti, se non l'abbandono più completo di quanto si può pretendere da lei?»
«Oh, signore, dunque non esistono più spirito di carità e sentimenti onesti nel cuore degli uomini?»
«Sempre meno, bambina mia, sempre meno! Son finiti i tempi in cui si era presi dalla mania di obbligare gratuitamente gli altri; forse l'orgoglio per un momento ne era lusingato, ma non essendoci nulla di così chimerico e di così facile a svanire come le sue gioie, se ne sono pretese di altre più consistenti, e si è capito che con una fanciulla come voi, per esempio, era molto meglio ricavare per interesse dei propri anticipi tutti quei piaceri che possono derivare dal libertinaggio piuttosto che andare orgogliosi per averle fatto l'elemosina. La fama di uomo liberale, caritatevole e generoso per me non vale la più lieve sensazione di piacere che voi potreste procurarmi; vi renderete conto the proprio per questo, bambina mia, io non vi sarò di aiuto con tutte le persone che più o meno abbiano i miei gusti se non in ragione della vostra obbedienza a tutto quello che mi piacerà di esigere da voi.»

«Che durezza, signore che durezza! e credete che il cielo non vi punirà?»
«Piccola novizia, sappi che il cielo è la cosa che meno ci interessa a questo mondo e che, gli piaccia o meno quanto facciamo sulla terra, la cosa non ci turba affatto; troppo sicuri del suo insignificante potere sugli uomini, lo sfidiamo quotidianamente senza timore, e le nostre passioni non ci affascinano veramente se non quando contrastano nel modo migliore le sue intenzioni o almeno quelle che vengono assicurate per tali da alcuni sciocchi, ma che in fondo costituiscono solo l'illusoria catena con cui l'impostura ha voluto render schiavo il più forte.»

«Eh, signore, con tali principi lo sventurato muore certamente! »
«E che importa? Ci sono più sudditi in Francia di quanti ne occorrano; il governo, che vede tutto in grande, si preoccupa a malapena dei singoli, purché l'ingranaggio si conservi.»
«E i figli come rispetteranno un padre che li maltratta?»
«È cosa interessa a un padre l'amore di quei figli che non gli sono di alcun aiuto?»
«Ma allora sarebbe meglio che ci avessero soffocati appena nati! »
«Più o meno, ma lasciamo da parte certi discorsi più grandi di voi. E poi perché lamentarsi di un destino che noi stessi possiamo dominare?»
«Ma a che prezzo, santo cielo!»
«A quello di una chimera, di una cosa senza valore all'infuori di quello che le attribuisce il vostro orgoglio... Ma mettiamo da parte certi principi e occupiamoci di quel che riguarda ambedue adesso. Voi tenete in gran considerazione questa chimera, vero? e io pochissimo, per cui ve la lascio; i doveri che vi imporrò, e per i quali riceverete un'onesta retribuzione pur non eccessiva, saranno di tutt'altro genere. Vi metterò con la mia governante, la servirete, e tutte le mattine davanti a me questa donna e il mio domestico vi sottoporranno... Signora, come riferirvi quella orrenda proposta? Troppo umiliata nel sentirmela fare, rimasi stordita, per così dire, nel momento stesso in cui le parole venivano pronunciate... troppo vergognosa per ripeterle, la vostra bontà vorrà riempire questa lacuna... Il crudele aveva scelto per me i grandi officianti e io dovevo servire da vittima...
«Questo è tutto quello che posso fare per voi, bambina mia,» continuò quell'uomo abietto, alzandosi con fare indecente, «e inoltre non vi prometto per una simile cerimonia, piuttosto lunga e dolorosa, altro che un mantenimento di due anni. Ora avete quattordici anni; a sedici potrete cercare fortuna altrove, e fino ad allora sarete vestita, nutrita e riceverete un luigi al mese. È molto onesto, non davo tanto a quella che sostituirete; è vero che ella non aveva come voi quella intatta virtù a cui voi date tanta importanza e che io stimo, come vedete, circa cinquanta scudi l'anno, somma superiore a quella spettante a chi vi ha preceduta. Riflettete attentamente, pensate soprattutto allo stato di miseria in cui vivete, pensate che quelli che non hanno di che vivere soffrono per procurarsene, che anche voi soffrirete come loro, ne convengo, ma guadagnerete molto di più della maggior parte di loro».
I discorsi indegni di quel mostro avevano riscaldato le sue passioni; mi prese brutalmente per il colletto del vestito e disse che come prima volta mi avrebbe fatto vedere di persona di cosa si trattava... Ma la mia sventura mi dette coraggio e forza, così che riuscii a divincolarmi e slanciandomi verso la porta:
«Uomo odioso,» gli dissi andandomene, «che il cielo da te offeso così crudelmente ti punisca un giorno per la tua odiosa barbarie! Non sei degno n delle ricchezze che usi così vilmente, né della stessa aria che respiri in un mondo insozzato dalle tue atrocità!».
Tornai triste a casa, tutta presa da quelle riflessioni misere e cupe che la crudeltà e la corruzione degli uomini necessariamente fanno nascere, e proprio allora per un istante un lampo di prosperità sembrò balenare dinanzi ai miei occhi. La donna presso cui alloggiavo, e che era a conoscenza delle mie sventure, mi venne incontro dicendo che finalmente aveva trovato una casa in cui m'avrebbero accolta volentieri, a patto che mi comportassi bene.
«Oh cielo, signora!» le dissi abbracciandola entusiasta. «Ma è proprio la condizione che io stessa vorrei; pensate voi quindi se non accetto con piacere!»
L'uomo presso cui dovevo andare a servizio era un vecchio usuraio, che, a quanto si diceva, si era arricchito non soltanto prestando soldi su pegno, ma anche rubando impunemente a chiunque aveva creduto di poterla far franca. Abitava in rue Quincampoix, al primo piano, insieme ad una vecchia che chiamava sua moglie ed era cattiva perlomeno quanto lui.
«Sophie,» mi disse quest'avaro, «Sophie,» era questo il nome che mi ero data per nascondere il mio, «la prima virtù che serve in casa mia è la probità... Se soltanto osaste rubare la decima parte di un denaro, vi farei impiccare, Sophie, chiaro? vi farei impiccare fino a vedervi morta. Se mia moglie ed io possiamo godere un po' di benessere in vecchiaia, è grazie alle immense fatiche e all'estrema sobrietà... Mangiate molto, bambina mia?»
«Qualche oncia di pane al giorno, signore,» gli risposi, «acqua e un po' di minestra se sono così fortunata da averne».
«Della minestra, perdio! della minestra... avete sentito, amica mia?» disse il vecchio avaro alla moglie. «Ecco a cosa porta il lusso! Questa cerca da un anno una sistemazione, muore di fame da un anno e vuole mangiare la minestra. Ma se la mangiamo a malapena soltanto la domenica noi che lavoriamo come dannati da quarant'anni! Avrete tre once di pane al giorno, figlia mia, mezza bottiglia d'acqua di fonte, un vecchio vestito di mia moglie ogni diciotto mesi per farvi delle sottane e tre scudi di paga all'anno, se saremo contenti del vostro servizio, se sarete economa come noi e se infine avrete mandato avanti la casa con ordine e destrezza. Come servizio c'è ben poco da fare; siete sola, ma si tratta di strofinare e pulire tre volte a settimana un appartamento di sei stanze, rifare il letto di mia moglie e il mio, aprire la porta, incipriare la mia parrucca, pettinare mia moglie, badare al cane, al gatto e al pappagallo, accudire alla cucina, pulire gli utensili che siano o no serviti, aiutare mia moglie quando cucina qualcosa e utilizzare il resto della giornata a cucire la biancheria, a far la calza, berretti e altre cosette. Come vedete non è nulla, Sophie, e vi resterà tanto tempo per voi; potrete impiegarlo come vorrete, accudendo così alla biancheria personale e ai vestiti di cui avrete bisogno.»
Come potete facilmente immaginare, signora, bisognava trovarsi nello stato di miseria in cui ero per accettare un simile posto; non solo c'era tanto più lavoro di quanto potessi svolgerne per la mia età e le mie forze, ma potevo forse vivere con quel che mi veniva offerto? Mi guardai bene dal sollevare obiezioni e presi servizio quella sera stessa.
Se la crudele situazione in cui mi trovo, signora, mi permettesse di pensare un istante solo a divertirvi, mentre devo cercare soltanto di commuovere il vostro animo nei miei confronti, credo che vi farebbe sorridere il racconto di tutti i particolari dell'avarizia di cui fui testimone in quella casa, ma al secondo anno di permanenza mi aspettava una catastrofe così terribile che mi è difficile offrirvi qualche esempio divertente prima di avervi narrato la disgrazia che mi capitò. Comunque, signora, vi dirò che in quella casa non si adoperava mai un lume l'appartamento del padrone e della padrona era fortunatamente disposto di fronte al lampione della strada, cosa che li dispensava dall'aver bisogno di altra illuminazione anche per mettersi a letto. Non usavano biancheria; alle maniche della giacca del signore e a quelle del vestito della signora erano attaccate delle vecchie mezzemaniche cucite sulla stoffa, che lavavo ogni sabato sera perché: fossero asciutte la domenica; niente lenzuola o asciugamani, e questo per evitare il bucato, che in una casa costa caro, secondo quanto affermava il signor Du Harpin, mio rispettabile padrone. In casa sua non si beveva mai vino, perché l'acqua chiara, diceva la signora Du Harpin, è la bevanda naturale usata dai primi abitanti dei terra e la sola che ci indichi la natura; ogni volta che veniva affettato il pane, si metteva sotto un cestino per raccogliere quel che cadeva, vi si aggiungevano scrupolosamente tutte le briciole che si formavano durante i pasti, e il tutto, la domenica, fritto con un po' di burro rancido, costituiva il piatto forte di quel giorno di riposo. Abiti e mobili non dovevano essere strofinati; si potevano rovinare! Bastava spolverarli leggermente con un piumino. Le scarpe del signore e della signora erano suolate in ferro ed entrambi gli sposi conservavano con venerazione quelle usate il giorno delle nozze. Ma dovevo fare un lavoro ancor più singolare, e regolarmente una volta a settimana. Nell'appartamento c'era uno stanzino piuttosto grande i cui muri erano privi di tappezzeria; con un coltello dovevo raschiare dai muri una certa quantità d'intonaco che poi passavo con un setaccio fine e con il frutto di questa operazione, che fungeva da cipria, spolveravo la parrucca del signore e lo chignon della signora. Dio volesse che certe infamie fossero le uniche di quella gente volgare! Niente di più naturale del desiderio di mantenere i propri beni, ma non si può dire altrettanto della voglia di raddoppiarli con quelli degli altri; e non ci voile molto a capire che solo così li Harpin si arricchiva. Sopra di noi abitava un ricco gentiluomo che possedeva numerosi gioielli, e i cui effetti, sia per ragioni di vicinato, sia per averli avuti in pegno, erano conosciuti perfettamente dal mio padrone. Spesso rimpiangeva con la moglie una scatola d'oro del valore di trenta o quaranta luigi che sarebbe senz'altro rimasta nelle sue mani, diceva, se il suo procuratore fosse stato un po' più capace; l'onesto Du Harpin infine, per consolarsi di aver restituito quella scatola, pensò di entrarne in possesso e dette incarico e me della cosa.
Il signor Du Harpin cominciò col farmi un bel discorso sulla semplicità del furto e sulla sua stessa utilità in seno alla società in quanto riusciva a ristabilire una specie di equilibrio, mettendo totalmente in subbuglio l'ineguaglianza delle ricchezze; poi mi consegnò una chiave falsa che avrebbe aperto con facilità l'appartamento del vicino; la scatola si trovava in un secrétaire lasciato sempre aperto, l'avrei potuta prendere senza alcun pericolo; infine, per un servizio così importante, avrei avuto uno scudo in più sul mio salario per due anni.
«Signore,» esclamai, «possibile che un padrone corrompa in questo modo la sua domestica? Nessuno m'impedirebbe di usar contro di voi le armi che mi mettete in mano, e cosa direste voi se, seguendo i vostri principi, finissi per derubarvi?».
Il signor Du Harpin rimase stupito per la mia risposta, non osò insistere e, con malcelato rancore, mi disse che l'aveva fatto per mettermi alla prova, che dovevo ritenermi fortunata d'aver resistito all'insidia della sua proposta, perché sarei finita sulla forca se malauguratamente avessi accettato. La risposta fu per me soddisfacente, ma intuii quali disgrazie da quel momento incombevano su di me per quella proposta; avevo avuto torto a rispondere con tanta fermezza. D'altronde non c'erano scappatoie; o accettavo di commettere quel crimine o dovevo respingere duramente la proposta; fossi stata più esperta, avrei lasciato subito quella casa, ma era già scritto sulla pagina del mio destino che ogni prova onesta della mia indole sarebbe stata ripagata con una sventura. Dovevo quindi subire il mio destino senza possibilità di sfuggirgli.
Il signor Du Harpin fece passare un mese circa, ossia fin quasi al termine del secondo anno di soggiorno in casa sua, senza dir nulla e far intuire un sia pur minimo risentimento per quel rifiuto, finché una sera, terminato il mio lavoro e ritiratami in camera per riposare, sentii improvvisamente forzare la porta e vidi spaventata il signor Du Harpin introdurre fin presso il mio letto un commissario e quattro guardie.
«Fate il vostro dovere, signore,» disse al rappresentante della legge, «questa sciagurata mi ha rubato un diamante che vale mille scudi; lo troverete senz'altro su di lei o nella stanza».
«Io rubare, signore?» dissi gettandomi turbata ai piedi del letto. «Io? Chi meglio di voi sa quanto una simile azione mi ripugni e come sia impossibile che io l'abbia compiuta?»
Ma Du Harpin faceva rumore apposta per impedire che fossero udite le mie parole; insistette per la perquisizione e quel maledetto anello fu trovato in un materasso. Di fronte a una prova così lampante, non potei obiettar nulla; venni subito presa, legata e condotta ignominiosamente in prigione, senza la minima possibilità di giustificarmi almeno in parte.
A una sventurata in Francia il processo è presto fatto; non ha credito, non ha protezione.
La virtù è ritenuta incompatibile con la miseria, e la prova inconfutabile contro l'accusato nei nostri tribunali è la disgrazia; un iniquo pregiudizio fa credere colpevole chi è indiziato, i sentimenti vengono misurati dallo stato in cui vieni colto e dal momento che né titoli né ricchezza provano che sei onesto, è presto dimostrata l'impossibilità che tu lo sia.
Invano mi difesi, invano fornii i migliori mezzi all'avvocato d'ufficio che mi fu concesso per un istante; il padrone mi accusava, il diamante era stato trovato nella mia camera, quindi era chiaro che l'avevo rubato. Quando volli denunciare il comportamento del signor Du Harpin e provare che la sventura che mi era capitata era soltanto una conseguenza della sua vendetta e del desiderio che aveva di liberarsi di una creatura che, mantenendo il segreto, teneva in pugno la sua onorabilità, certe lamentele furono ritenute basse recriminazioni, mi fu detto che Du Harpin era conosciuto da quarant'anni come uomo onesto e incapace di un simile orrore, e così mi vidi prossima a pagare con la vita il rifiuto di partecipare a un crimine, quando sopraggiunse inatteso un avvenimento che mi restituì la libertà ma mi precipitò nuovamente in un mare di sventure.
Una donna di circa quarant'anni, detta la Dubois, celebre per aver commesso crimini d'ogni specie, era come me in attesa della condanna a morte, più meritata della mia in verità, dal momento che le sue colpe al contrario delle mie erano comprovate. Questa donna si era interessata al mio caso e una sera, poco prima del giorno in cui avremmo dovuto entrambe morire, mi disse di non addormentarmi ma di restarle accanto, con indifferenza, il più vicino possibile alle porte della prigione.
«Fra mezzanotte e l'una,» aggiunse quell'accorta sciagurata, «l'edificio prenderà fuoco... e questo accadrà perché lo voglio io. Forse qualcuno morirà tra le fiamme, ma non importa; quel che è certo è che noi ci salveremo; tre uomini, complici miei e amici, si uniranno a noi e io rispondo della tua libertà».
La mano del cielo, che aveva punito fino a poco prima in me l'innocenza, ora aiutava il crimine nella persona di quella mia benefattrice; divampò il fuoco, nel terribile incendio dieci persone arsero vive, ma noi ci salvammo. Lo stesso giorno raggiungemmo la capanna di un bracconiere nella foresta di Bondy, uno strano tipo di farabutto, ma intimo della nostra banda.
«Sei libera, mia cara Sophie,» disse allora la Dubois, «ora puoi scegliere la vita che più ti piace, ma se posso consigliarti, rinuncia a pratiche di virtù che, come hai visto, risultano un fallimento; un delicato sentimento mal inteso ti ha portato ai piedi del patibolo, un orrendo delitto mi ha salvato. Quanto serve il bene a questo mondo? Vale la pena sacrificarsi per lui? Sei giovane, sei graziosa, via! Ci penso io a far la tua fortuna a Bruxelles; vado là, perché là sono nata. Vedrai che in due anni ti porterò in alto! Ma, è chiaro, non ti farò raggiungere la fortuna attraverso le angustie della viri; alla tua età bisogna concedersi a più di un mestiere, sottostare a più di un intrigo se si vuoi procedere in fretta per la propria strada... Mi capisci, vero, Sophie?... mi capisci, e allora deciditi, via! Dobbiamo scappare per i campi, qui possiamo restare qualche ora, poi diventa pericoloso».
«Oh, signora,» risposi alla mia benefattrice, «vi devo molto, mi avete salvata la vita, anche se sono disperata di doverla grazie ad un delitto; state certa che se ci fosse stato bisogno dei mio intervento, avrei preferito morire piuttosto che acconsentire. Conosco fin troppo i pericoli corsi per aver seguito i giusti sentimenti che vivranno sempre nel mio cuore, ma preferirò sempre le eventuali spine della virtù ai falsi splendori della prosperità, pericolosi piaceri che accompagnano per un istante il crimine. Certi sentimenti mi derivano dalle mie convinzioni religiose che, grazie al cielo, non mi abbandoneranno mai. Se la provvidenza rende penoso il corso della mia vita, è per ricompensarmi più ampiamente in un mondo migliore; questa speranza mi consola, addolcisce tutte le mie pene, placa i miei lamenti, mi fortifica nell'avversità e mi aiuta ad affrontare tutti i mali che vorrà darmi. Questa gioia si spegnerebbe subito nel mio cuore se lo macchiassi di delitti e, con il timore di disgrazie ancor più terribili, in questo mondo mi si rivelerebbe il quadro orrendo di castighi che la giustizia celeste riserva nell'altro a quanti l'oltraggiano».
«Questi sono sistemi assurdi che ti trascineranno prima o poi in un ospizio, figlia mia!» disse la Dubois aggrottando le sopracciglia. «Credimi, lascia perdere la giustizia celeste, i suoi castighi o le ricompense future; son cose fatte per esser dimenticate quando si lascia la scuola o si finisce per morir di fame se, una volta fuori di lì, si è così sciocchi da crederci ancora. La durezza dei ricchi rende legittima la ribalderia dei poveri, bambina mia; s'apra la loro borsa ai nostri bisogni, regni pure l'umanità nel loro cuore, e allora sì che le viri potranno stabilirsi nel nostro! Ma finché la nostra sventura, la nostra sopportazione, la nostra buonafede, la nostra servitù non faranno altro che raddoppiare le nostre catene, i nostri crimini saranno opera loro e noi saremmo proprio stupidi a non commetterli solo per attenuare un po' il giogo con cui ci opprimono. La natura ci ha fatti nascere tutti uguali, Sophie; se il destino si diverte a sconvolgere quel piano originario delle leggi generali, noi dobbiamo correggerne i capricci e riparare con la nostra scaltrezza alle usurpazioni dei più forti... divertente ascoltarli, i ricchi, i giudici, i magistrati, è divertente vederli predicare la virtù; è difficile, oh sì, proteggersi dal furto quando si possiede tre volte più di quanto serva per vivere; è proprio difficile non concepire mai l'assassinio quando si è circondati solo da adulatori o schiavi sottomessi; è enormemente arduo in verità essere temperanti e sobri quando si è ebbri di voluttà e circondati dai cibi più succulenti; e che fatica esser leali quando non si ha alcun interesse a mentire! Ma noi, Sophie, noi condannati dalla provvidenza barbara, che tu follemente hai elevato a tuo idolo, a strisciare sulla terra come il serpente nell'erba, noi visti con disprezzo perché poveri, noi umiliati perché deboli, noi che infine sulla faccia della terra raccogliamo solo fiele e spine, come vuoi che ci asteniamo dal crimine, l'unica mano che ci apra la porta della vita, ci mantenga, ci conservi o ci impedisca di perderla! Come vuoi che per noi eternamente sottomessi e umiliati, mentre una classe di gente spadroneggia ed ha per sé tutti i favori della fortuna, come vuoi che per noi ci sia solo pena, solo abbattimento e dolore, solo bisogno e lacrime, solo infamia e condanna! No, no Sophie, no! o quella provvidenza da te venerata merita il nostro disprezzo, o non sono queste le sue intenzioni... Conoscila meglio, Sophie, conoscila meglio e convinciti the, poiché essa ci mette in una situazione in cui il male diventa necessario per noi e nello stesso tempo ci offre la possibilità di esercitano, vuol dire che questo male serve alle sue leggi come il bene e che essa ricava tanto dall'uno quanto dall'altro. Lo stato in cui essa ci crea è l'uguaglianza; colui che lo turba non è più colpevole di colui che cerca di ristabilirlo, perché ambedue agiscono sulla base di impulsi ricevuti, ambedue devono seguirli, bendarsi gli occhi e rallegrarsene.»
Confesso che, se mai fui scossa, lo fui dalle seduzioni di quella donna avveduta, ma una voce più forte di lei combatteva nel mio cuore i suoi sofismi; l'ascoltai e per l'ultima volta dichiarai che ero decisa a non farmi mai corrompere.
«Ebbene,» mi disse la Dubois, «ti abbandono alla tua malasorte, ma se dovessi finire impiccata, come potrà facilmente succedere perché la fatalità, proteggendo il crimine, immola inevitabilmente la virtù, ricordati almeno di non far parola di noi».
Mentre parlavamo, i tre compagni della Dubois bevevano col bracconiere, e siccome il vino fa dimenticare facilmente al malfattore i crimini spingendolo spesso a commetterne altri, proprio sull'orlo del precipizio, dal quale è appena scampato, quegli scellerati vedendomi così ostinata a sfuggire alle loro grinfie furono presi dalla voglia di divertirsi a mie spese. I loro principi, le loro abitudini, lo squallido luogo in cui ci trovavamo, una certa recuperata sicurezza, l'ubriachezza, la mia età, la mia innocenza, il mio aspetto, tutto li incoraggiò. Si alzarono da tavola, confabularono tra di loro, consultarono la Dubois, tutti atteggiamenti misteriosi che mi facevano rabbrividire; il risultato fu che dovevo decidermi, prima di andarmene, a passare per le mani di tutti e quattro, con le buone o con le cattive; se lo avessi fatto con le buone, ognuno mi avrebbe regalato uno scudo per potermene andare dove volevo, visto che mi rifiutavo di accompagnarli; se avessero dovuto ricorrere alla forza, la cosa sarebbe andata in porto lo stesso, ma per tenerla segreta, l'ultimo ad abusare di me m'avrebbe ficcato un coltello nel petto e sarei stata sepolta sotto un albero. Pensate, signora, che effetto provocò in me l'orrenda proposta; mi gettai ai piedi della Dubois, la scongiurai d'essere una seconda volta mia protettrice, ma la scellerata non fece che ridere di una situazione per me spaventosa e che a lei sembrava una sciocchezza.
«Perdio,» disse, «e la chiami disgrazia il dover servire quattro giovanotti grandi e grossi come questi! Diecimila donne a Parigi, figlia mia, pagherebbero per essere al tuo posto... Ascolta,» aggiunse però dopo un attimo di riflessione, «ho potere abbastanza su quei bei tipi per salvarti, se sai esserne degna».
«Ahimè, signora, che devo fare?» gridai tra le lacrime. «Comandate, sono pronta».
«Seguirci, unirti a noi e compiere le stesse azioni senza la minima ripugnanza: a questa condizione ti garantisco il resto.»

Non ritenni opportuno tergiversare; accettando correvo nuovi pericoli, ne convengo, ma erano meno incombenti dei presenti; avrei potuto forse evitarli, mentre nulla poteva sottrarmi a quelli che mi minacciavano.
«Andrò ovunque, signora,» dissi alla Dubois, «andrò ovunque, ve lo prometto, ma salvatemi dal furore di questi uomini e non vi lascerò mai».
«Ragazzi,» disse la Dubois ai quattro banditi, «questa figliola è della banda, io ce la faccio entrare, io l'accolgo; vi proibisco di violentarla, non disgustiamola del mestiere fin dal primo giorno; come vedete la sua età e la sua presenza possono esserci utili, serviamocene per i nostri interessi e non sacrifichiamola per i nostri piaceri...».
Ma nell'uomo le passioni raggiungono un tale livello per cui le parole non riescono a placarle; le persone con cui dovevo avere a che fare non sentivano ragioni; presentandosi a me tutti e quattro insieme nello stato meno adatto perché io potessi sperare di salvarmi, dichiararono all'unanimità alla Dubois che dovevo essere la loro preda, anche se ci fosse stato il pericolo della forca.
«Io per primo,» disse uno agguantandomi per la vita.
«E con che diritto devi cominciare tu?» disse un secondo dando una spinta al compagno e strappandomi brutalmente dalle sue mani.
«Perdio, dopo di me,» disse un terzo.
La disputa si riscalda, i quattro bellimbusti si prendono per i capelli, si gettano in terra, si rotolano l'uno sull'altro picchiandosi, ed io troppo felice di vederli in una situazione che mi dà il tempo di scappare, mentre la Dubois cerca di separarli, di slancio raggiungo la foresta e perdo di vista in un istante la casa.
«Essere supremo,» dico cadendo in ginocchio, appena mi credo al sicuro, «essere supremo, mio vero protettore e mia guida, abbi pietà della mia miseria! Vedi la mia debolezza e la mia innocenza, vedi con che fede ripongo in te tutta la mia speranza! Degnati di liberarmi dai pericoli che mi perseguitano o richiamami prontamente nel tuo grembo con una morte meno ignominiosa di quella da cui sono ora fuggita!»
La preghiera è la consolazione più dolce dello sventurato, degli diventa più forte dopo aver pregato; mi tirai su piena di coraggio, e siccome cominciava a imbrunire m'inoltrai tra gli alberi per passarvi la notte con minor rischio; il considerarmi ormai al sicuro, l'abbattimento in cui mi trovavo, la piccola gioia che avevo provato, tutto contribuì a farmi trascorrere una notte tranquilla, e il sole era già piuttosto alto quando i miei occhi si riaprirono alla luce. Il risveglio è il momento più fatale per gli sventurati; il riposo dei sensi, la calma delle idee, l'oblio momentaneo dei propri mali, tutto li riporta alla coscienza della disgrazia con più forza, tutto gliene rende più gravoso il peso.
«Ebbene,» mi dissi, dunque è vero che esistono creature umane destinate dalla natura al medesimo stato delle bestie feroci! Acquattata nella loro tana, lontano dagli uomini come loro, che differenza c'è tra me e loro? Dunque vale la pena nascere per una sorte casi pietosa?» Mentre avevo questi tristi pensieri piangevo abbondantemente. Mi ero appena calmata, quando sentii un rumore vicino a me; credetti per un istante che si trattasse di qualche animale, ma a poco a poco distinsi le voci di due uomini.
«Vieni, amico mio, vieni,» dice uno dei due, «staremo tanto bene qui; la crudele e fatale presenza di mia madre non m'impedirà di godere almeno un istante con te i piaceri che mi sono così cari...».
Essi si avvicinano, si mettono proprio di fronte a me per cui non può sfuggirmi nessuna parola... nessun movimento, e vedo...
«Santo cielo, signora,» dice Sophie interrompendosi, «possibile che il destino mi abbia sempre messo in situazioni così critiche da rendere difficile per il pudore sia ascoltarle che descriverle?... Quel crimine orribile che oltraggia ugualmente la natura e le leggi, quel misfatto spaventoso sul quale la mano di Dio si è abbattuta tante volte, quella infamia insomma così nuova per me che riuscivo appena a concepirla, io la vidi consumare sotto i miei occhi, con tutte le impure affettazioni, con tutti i particolari raccapriccianti che poteva sollecitare la più avvertita depravazione».
L'uomo che stava sopra l'altro dimostrava un ventiquattro anni, ed era così in gamba e distinto che lo si poteva ritenere di buona famiglia; l'altro doveva essere un giovane domestico della sua casa, di diciassette o diciotto anni e veramente bello. La scena fu tanto lunga quanto scandalosa e la durata mi parve più crudele perché non osavo muovermi per la paura di esser scoperta.
Finalmente i criminali attori che l'interpretavano, certamente appagati, si rialzarono per riprendere la strada che doveva riportarli a casa, quando il padrone si avvicinò al cespuglio dietro cui mi nascondevo per soddisfare un bisogno. Il mio berretto alto mi tradì; e lui lo vide.
«Jasmin,» disse rivolto al suo giovane Adone, «siamo traditi, caro mio... Una ragazza, una profana ha assistito ai nostri misteri; vieni, tiriamo fuori questa puttanella e sentiamo cosa stava facendo lì dietro».
Non detti loro neanche la pena di aiutarmi a uscire dalla mia tana; mi tirai fuori io stessa di lì e cadendo ai loro piedi: «Signori,» gridai tendendo le braccia verso di loro, «abbiate pietà di una sventurata, il cui destino è più penoso di quanto pensiate; ben poche disgrazie possono eguagliare le mie; la situazione in cui mi avete trovata non vi faccia nascere alcun sospetto su di me, perché è la conseguenza della mia miseria più che dei miei torti; non aumentate i mali che mi opprimono, piuttosto alleviarmene, aiutandomi a sfuggire quelli che ancora mi insidiano».
Il signor de Bressac, come appunto si chiamava il giovane fra le cui mani cadevo, aveva uno spirito estremamente libertino e non era provvisto di eccessiva dote di pietà nel suo cuore. Disgraziatamente è fin troppo comune vedere la dissolutezza dei sensi soffocare completamente la pietà nell'uomo; in genere io indurisce; sia che le sregolatezze perlopiù abbiano bisogno d'una sorta di apatia nell'animo, sia che la scossa violenta impressa alla massa dei nervi diminuisca la sensibilità della loro azione, ne consegue che un debosciato di professione sia raramente un essere pietoso. Ma a questa crudeltà, naturale in certi individui di cui ho abbozzato il carattere, nel signor de Bressac si aggiungeva un disgusto così spiccato per il nostro sesso, un odio così inveterato per tutto quello che lo caratterizzava, che era difficile che io riuscissi a suscitare nel suo animo i sentimenti con cui intendevo commuoverlo.
«Che fai qui insomma, tortorella dei boschi?» mi disse per tutta risposta quell'uomo che volevo intenerire... «Di' la verità, hai visto tutto quel che abbiamo fatto io e questo ragazzo, eh?»
«Ma signore!» gridai subito, e non ritenevo di agire male nascondendo la verità. «State tranquillo che ho visto soltanto cose più che normali; ho visto voi e il signore seduti entrambi sull'erba; mi è sembrato che abbiate parlato fra di voi, e nient'altro!»
«Voglio crederlo,» rispose il signor de Bressac, «e questo per tua tranquillità, perché se io immaginassi che tu avessi visto qualche altra cosa, tu non usciresti viva da questo cespuglio... Su, Jasmin, è ancora presto, abbiamo tempo per sentire le vicende di questa puttana; ce le dica subito, poi la legheremo a quella grossa quercia e proveremo i nostri coltelli da caccia sul suo corpo».
I due giovani si sedettero, mi ordinarono di mettermi vicino a loro e io gli raccontai ingenuamente quanto mi era accaduto da quando ero nata.
«Via, Jasmin,» disse il signor de Bressac alzandosi quando ebbi finito, «cerchiamo di essere giusti una volta tanto in vita nostra, caro mio; la giusta Temi ha condannato questa puttanella, ma noi non sopportiamo che le mire della dea siano così crudelmente frustrate, per cui facciamo subire alla criminale la condanna che doveva subire; non commetteremo un crimine, ma una virtù, amico mio, ristabiliremo l'ordine morale delle cose, e poiché a volte noi abbiamo la sventura di metterlo a soqquadro, ristabiliamolo con coraggio almeno quando se ne presenta l'occasione!».
Quei crudeli mi tirarono via di li trascinandomi verso l'albero indicato, senza essere commossi da gemiti e lacrime.
«Leghiamola per questo verso,» disse Bressac al suo domestico spingendomi col ventre contro l'albero.
Le loro giarrettiere, i loro fazzoletti, tutto servi e in un minuto mi trovai legata così fortemente che mi era impossibile muovere una qualunque parte del corpo; eseguita questa operazione, gli scellerati mi tirarono giù la gonna, mi alzarono la camicia sulle spalle e misero mano ai coltelli da caccia: ero certa che mi avrebbero trafitto nelle parti posteriori che avevano brutalmente messe a nudo.
«È sufficiente,» disse Bressac senza che io avessi ancora ricevuto un colpo, «è sufficiente perché lei ci conosca, perché capisca cosa possiamo far di lei e perché sia in nostro potere. Sophie,» continuò sciogliendomi, «rivestitevi, siate discreta e seguiteci; se vi legate a me, bambina mia, non ve ne pentirete; a mia madre serve una seconda cameriera, vi presenterò a lei... Mi fido di quanto mi avete raccontato e risponderò della vostra condotta, ma se abusate della mia bontà o tradite la mia fiducia, guardate bene quest'albero: sarà il vostro letto funebre. Ricordatevi che è ad appena una lega dai castello dove sto per condurvi, basterà un piccolo errore e vi ci riporterò subito...».
Già riassettata, trovavo a stento le parole per ringraziare il mio benefattore, mi gettai ai suoi piedi... strinsi le sue ginocchia, gli feci tutti i giuramenti possibili sulla mia buona condotta, ma insensibile alla mia gioia come al mio dolore: «Andiamo,» disse il signor de Bressac, «la vostra condotta parlerà per voi, essa sola regolerà la vostra sorte».
C'incamminammo; Jasmin e il suo padrone chiacchieravano, e io li seguivo umilmente senza aprir bocca; in un'oretta arrivammo al castello della signora contessa de Bressac e la magnificenza del luogo mi fece capire come, qualsiasi posto avessi occupato in quella casa, sarebbe stato più vantaggioso per me di quello di governante in capo presso i Du Harpin. Mi fecero aspettare in un tinello dove Jasmin mi offrì adeguatamente da mangiare; nel frattempo il signor de Bressac salì da sua madre, la informò e mezz'ora dopo venne a cercarmi lui stesso per presentarmi a lei.
La signora de Bressac era una donna di quarantacinque anni, ancora molto bella, e che mi parve assai onesta e soprattutto ricca di umanità, nonostante la severità dei suoi principi e dei suoi discorsi; era vedova da due anni di un uomo d'illustre casato ma che l'aveva sposata senza altra ricchezza che il bel nome; tutti i beni su cui poteva contare il giovane marchese de Bressac dipendevano dunque da questa madre, e quanto gli era venuto da suo padre bastava appena a mantenerlo. La signora de Bressac vi aggiungeva una considerevole pensione, ma poco ci mancava che bastasse alle spese notevoli e irregolari di suo figlio; c'erano almeno sessantamila libbre di rendita in quella casa, e il signor de Bressac non aveva fratelli o sorelle; non si era mai riusciti a farlo lavorare; tutto quel che lo allontanava dai suoi piaceri particolari gli era così insopportabile che era impossibile fargli accettare un qualsiasi legame. La signora contessa e suo figlio passavano tre mesi all'anno in quella terra e il resto a Parigi, e quei tre mesi che ella esigeva che suo figlio passasse con lei erano già un gran fastidio per un uomo che non lasciava mai il centro dei suoi piaceri senza esser preso dalla disperazione.
Il marchese de Bressac mi ordinò di raccontare a sua madre le stesse cose che avevo detto a lui e quando ebbi finito:
«Il vostro candore e la vostra ingenuità,» mi disse la signora de Bressac, «non mi permettono di dubitare della vostra innocenza. Non prenderò altre informazioni, cercherò solo di sapere se siete realmente la figlia dell'uomo da voi indicato; se è cosi, ho conosciuto vostro padre e questa sarà una ragione in più per interessarmi a voi. Per quanto riguarda la vicenda in casa Du Harpin, m'incarico di sistemarla con un paio di visite al cancelliere, mio amico da secoli; è l'uomo più onesto che esista in Francia; è sufficiente provargli la vostra innocenza per annullare tutto quello che è stato fatto contro di voi e per consentirvi di vivere nuovamente a Parigi senza alcun timore... Ma riflettete bene. Sophie; tutto quel che vi sto promettendo dipende esclusivamente da una condotta irreprensibile, per cui la riconoscenza che esigo da voi tornerà sempre a vostro vantaggio».
Mi gettai ai piedi della signora de Bressac, l'assicurai che sarebbe stata sempre contenta di me e da quel momento fui accolta come seconda cameriera in casa sua. Nel giro di tre giorni le informazioni richieste a Parigi giunsero alla signora de Bressac proprio secondo i miei desideri, così tutte le sensazioni di disgrazia svanirono dal mio spirito per far posto alla speranza delle più dolci consolazioni a cui potessi aspirare; ma in cielo era scritto che la povera Sophie non doveva mai esser felice e se le capitarono alcuni istanti di calma fu solo per renderle più amari quelli colmi d'orrore che dovevano sopraggiungere.
Appena fummo a Parigi la signora de Bressac si dette da fare per me. Il primo presidente volle vedermi, ascoltò le mie sventure con interesse, meglio approfondita venne alla luce la ribalderia di Du Harpin, ci si convinse che se avevo approfittato dell'incendio delle carceri, perlomeno non vi avevo partecipato per niente, e così fu annullata tutta la procedura a mio carico (come mi venne assicurato) senza che i magistrati che se ne occuparono ritenessero di dover ricorrere ad altre formalità.
È logico immaginare come queste circostanze mi legassero alla signora de Bressac; d'altronde anche se non mi avesse mostrato tante prove di bontà, certe iniziative come non avrebbero potuto legarmi ad una protettrice così preziosa? Non era certo nelle intenzioni del giovane marchese de Bressac legarmi così intimamente a sua madre; a parte certi raccapriccianti disordini di cui vi ho detto, in cui quel giovane ciecamente s'immergeva più ancora a Parigi che in campagna, non ci misi molto a capire che egli detestava enormemente la contessa, vero che costei faceva di tutto per frenare le sue dissolutezze o per ostacolarle, e si impegnava nella cosa forse con troppa fermezza e il marchese, ancor più infiammato da questa stessa severità, ci si abbandonava con maggior passione, così che la povera contessa ricavava dalle sue persecuzioni soltanto un odio implacabile.
«Non pensate,» mi diceva molto spesso il marchese, «che mia madre agisca sempre di testa sua nei vostri confronti; credetemi, Sophie, che se non la incitassi in continuazione, lei si ricorderebbe a stento delle attenzioni che vi ha promesso; lei pone in risalto ogni iniziativa, ma è grazie a me che tutto questo succede. Oso affermare dunque che dovete riconoscenza solo a me e quella che esigo deve apparirvi tanto più disinteressata in quanto sapete bene per averlo visto, bella mia, che non aspiro affatto ai vostri favori... No, Sophie, no! I servizi che mi aspetto da voi son di tutt'altro genere, e quando vi sarete resa conto di quanto ho fatto per voi, spero che troverò nel vostro animo quel che sono in diritto di ricevere...».
Certi discorsi mi sembravano così oscuri, che non sapevo come rispondere; e lo facevo a caso, forse con troppa facilità.
A questo punto voglio rivelarvi, signora, il solo torto effettivo che devo rimproverarmi nella mia vita... ma che dico un torto, una stravaganza senza pari... ma comunque non si tratta di un crimine, un semplice errore che ha punito solo me e di cui mi sembra che la giusta mano del cielo si sia servita per trascinarmi nell'abisso che gradatamente si apriva sotto i miei piedi. Un sentimento di tenerezza mi spingeva verso il marchese de Bressac senza che io riuscissi a soffocarlo dentro di me. Per quanto avessi riflettuto sulla sua avversione per le donne, sulla depravazione dei suoi piaceri, sulle distanze morali che ci separavano, nulla, nulla al mondo poteva spegnere quella passione nascente e se il marchese mi avesse richiesto la mia vita, gliel'avrei sacrificata mille volte, convinta di non far nulla che bastasse per lui. Ed egli era lontano dal sospettare certi sentimenti che io tenevo così gelosamente chiusi nel mio cuore... era lontano, l'ingrato, dal comprendere la causa delle lacrime che versava ogni giorno la sventurata Sophie sui vergognosi disordini che lo perdevano, ma era impossibile tuttavia che non si rendesse conto dei desiderio che avevo di precedere ogni suo volere e non avvenisse le mie premure... Troppo cieche indiscutibilmente, esse giungevano anche a soccorrere i suoi errori fin dove perlomeno mi permetteva la decenza e comunque fino al punto di nasconderli sempre a sua madre. Questo modo di comportarmi mi aveva in qualche modo valso la sua fiducia, e tutto quel che veniva da lui mi era così prezioso, ero talmente accecata da quel poco che mi offriva il suo cuore che a volte ebbi l'orgoglio di credere che non gli ero indifferente, ma l'eccesso delle sue sregolatezze come mi disilludeva prontamente! Esse erano tali che non solo la casa era piena di domestici con le stesse esecrabili inclinazioni, ma lui pagava anche fuori una schiera di manigoldi o dai quali andava o che venivano giornalmente a fargli visita, e siccome quel piacere, oltre ad essere odioso, non è dei meno cari da soddisfare, il marchese si rovinava incredibilmente. A volte mi prendevo la libertà di sottolineargli certi inconvenienti della sua condotta; lui mi ascoltava senza ripugnanza, poi finiva col dirmi che non ci si poteva liberare da quel vizio particolare che lo dominava; riproducendosi sotto mille aspetti diversi, esso presentava varie propaggini per ogni età, e, rinnovando ogni dieci anni sensazioni sempre nuove, legava a sé fino alla tomba quanti avevano la disgrazia di coltivarlo... Ma se tentavo di parlargli di sua madre e delle pene che le procurava, non scorgevo in lui altro che dispetto, malumore, irritazione e impazienza di vedere trattenuto così a lungo nelle sue mani un bene che gli sarebbe già dovuto appartenere, l'odio più inveterato contro quella madre rispettabile e la rivolta più ferma contro i sentimenti naturali. È dunque vero che, quando si è giunti a trasgredire in maniera così formale nei propri piaceri le leggi di quell'organo sacro, dopo quel primo crimine si è necessariamente portati con facilità a commettere impunemente tutti gli altri?
Talvolta mi attaccavo alla religione; quasi sempre consolata da quella, io cercavo di rendere quell'animo perverso partecipe di certe dolcezze, come sicura di avvincerlo con simili legami se fossi riuscita a fargliene apprezzare l'incanto. Ma il marchese non mi dette molto tempo per usare certi accorgimenti; nemico dichiarato dei nostri santi misteri, ostinato schernitore della purezza dei nostri dogmi, antagonista estremo dell'esistenza di un essere supremo, il signor de Bressac invece di farsi convincere cercò di corrompermi.
«Ogni religione parte da un principio falso, Sophie,» mi diceva, «quello di sostenere necessariamente il culto di un essere creatore; ora, se questo mondo, eterno come tutti quelli in mezzo ai quali esso fluttua nelle infinite distese dello spazio, non ha mai avuto un principio e non avrà mai una fine, se tutti i prodotti della natura sono effetti risultanti dalle leggi che dominano essa stessa, se la sua azione e la sua reazione eterne costituiscono il movimento essenziale alla sua essenza, cosa ne è del motore che voi gratuitamente le attribuite? Credimi, Sophie, quel dio che tu ammetti è puro frutto d'ignoranza, da un lato, e di tirannia, da un altro; quando il più forte volle sottomettere il più debole, lo convinse che un dio santificava le catene con cui lui l'opprimeva, e questi abbrutito dalla sua miseria credette tutto quello che l'altro volle. Ogni religione, fatale conseguenza di questa prima favola, deve dunque essere disprezzata come quella, perché non ce n'è una che non abbia in sé l'emblema dell'impostura e della stupidità; in ognuna vedo misteri che fanno rabbrividire la ragione, dogmi che oltraggiano la natura e cerimonie grottesche che suscitano soltanto derisione. Io appena aprii gli occhi, Sophie, detestai certi orrori, m'imposi di calpestarli, giurai di non tornare mai ad essi; imitami se vuoi essere ragionevole.»
«Oh signore,» risposi al marchese, «privereste una sventurata della sua più dolce speranza se le toglieste questa religione che la consola! Fermamente attaccata a quanto essa m'insegna, assolutamente convinta che chi gli va contro lo fa per libertinaggio e per seguire le passioni, come potrei sacrificare il pensiero più dolce della mia vita a sofismi che mi fanno rabbrividire?»
Aggiunsi mille altri argomenti dettati dalla mia ragione, sgorganti dal mio cuore, ma il marchese non faceva die ridere, i suoi principi capziosi, nutriti di una eloquenza più maschia, sostenuti da letture che non avevo fortunatamente mai fatte, rovesciavano regolarmente i miei. La signora de Bressac, piena di virtù e pietà, sapeva che suo figlio sosteneva le sue sregolatezze con tutti i paradossi dell'incredulità; se ne lagnava spesso con me e siccome si degnava di trovare in me un po' più di buon senso che nelle altre donne che le stavano intorno, le piaceva confidarmi le sue pene.
Nel frattempo il cattivo comportamento del figlio nei suoi confronti aumentava; egli ormai non dissimulava più, e non soltanto aveva circondato sua madre di tutta quella canaglia pericolosa che serviva ai suoi piaceri, ma aveva spinto l'insolenza fino al punto di dichiarare davanti a me che se lei avesse ancora macchinato per ostacolare le sue inclinazioni, lui l'avrebbe convinta del fascino che esse possedevano abbandonandovisi dinanzi ai suoi occhi. Quei discorsi e quel comportamento mi facevano piangere, e cercavo di trovare in me reazioni capaci di soffocare nel mio animo la sventurata passione che mi attanagliava... ma l'amore è un male da cui si può guarire? Tutto quello che tentavo di opporgli attizzava più vivamente la sua fiamma, e il perfido Bressac non mi sembrava mai più amabile di quando avevo ben chiari davanti a nie quei motivi che avrebbero dovuto farmelo odiare.
Ero in quella casa da quattro anni, sempre perseguitata dalle, stesse tristezze, sempre consolata dalle stesse dolcezze, quando il nefando motivo delle attenzioni del marchese mi fu chiaro in tutto il suo orrore. A quei tempi eravamo in campagna, e io sola assistevo la contessa; la sua prima cameriera aveva ottenuto il permesso di restare quell'estate a Parigi per restare con suo marito. Una sera, alcuni istanti dopo aver lasciato la stanza della mia padrona, mentre stavo sul balcone della mia camera a prendere un po' di fresco, visto che non riuscivo ad addormentarmi per il gran caldo, improvvisamente il marchese bussa alla porta; voleva chiacchierare con me qualche ora quella notte... Ahimè! tutti gli istanti che quel crudele autore dei miei mali mi accordava mi sembravano troppo preziosi perché osassi rifiutargliene qualcuno; entra, chiude con cura la porta dietro di sé e sprofondando in una poltrona vicino a me:
«Ascoltami, Sophie,» mi dice con un po' d'imbarazzo. «devo confidarti cose della più grande importanza, ma comincia a giurarmi che non rivelerai mai nulla di quanto ti dirò.»
«Oh signore, mi credete capace di abusare della vostra fiducia?»
«Non sai cosa rischieresti se avessi la prova che mi sono sbagliato accordandotela.»
«La pena più grande sarebbe quella di averla perduta, non ho bisogno di minacce maggiori.»
«Ebbene, Sophie... ho congiurato contro la vita di mia madre e ho scelto la tua mano per il mio scopo.»
«Io, signore?» gridai indietreggiando inorridita. «Come possono esservi venuti in mente due simili progetti? Prendete la mia vita, signore, è vostra, fatene quel che volete, vi sono debitrice, ma non pensate di costringermi a partecipare a un crimine la cui sola idea è insostenibile per il mio cuore.»
«Ascolta, Sophie,» mi disse il signor de Bressac riprendendomi con molta calma, «mi aspettavo la tua ripugnanza, ma siccome sei un essere ragionevole, ho pensato di poterla vincere facendoti capire che questo delitto, che tu ritieni un'enormità, è in fondo una cosa semplicissima. Due misfatti si presentano ora ai tuoi occhi poco filosofici, la distruzione di un essere umano e l'aggravante che si tratta di una madre.
Per quanto riguarda la distruzione di un essere umano, stai tranquilla, Sophie, è puramente chimerica, perché l'uomo non ha il potere di distruggere, ma tutt'al più quello di mutare le forme e non di annientarle; ora, ogni forma agli occhi della natura è uguale, nulla si perde nell'immenso crogiuolo dove si svolgono le sue trasformazioni, tutte le porzioni di materia che vi si gettano si rinnovano incessantemente sotto altre parvenze e, quali che siano le nostre azioni su di esse, nessuna la offende direttamente, nessuna le reca oltraggio, le nostre distruzioni danno vigore al suo potere, trattenendo la sua energia senza capacità di attenuarla. Ma cosa importa alla natura, eterna creatrice, che questa massa di carne costituente oggi una donna, si riproduca domani sotto la forma di mille insetti diversi? Oseresti forse dire che modellare un individuo come il nostro costi alla natura più della sagoma di un verme e che a lei debba di conseguenza interessare maggiormente? Ora, se il grado di attaccamento o piuttosto di indifferenza è lo stesso, cosa può importarle che, per mezzo di quel che viene definito il delitto di un uomo, un altro sia cambiato in mosca o in lattuga? Provatemi la sublimità della nostra specie, dimostratemi che essa è così importante per la natura che con la sua distruzione le leggi ne risultano di conseguenza sconvolte, e solo allora io potrò credere che questa distruzione è un crimine; ma se lo studio più approfondito della natura mi avrà provato che tutto quanto vegeta sul globo, anche la più imperfetta tra le sue opere, ai suoi occhi ha un identico valore, non potrò mai concepire che il mutamento di uno di questi esseri in mille altri possa minimamente oltraggiare le sue leggi. E mi dirò: tutti gli uomini, tutte le piante, tutti gli animali crescono, vegetano, si distruggono allo stesso modo non ricevendo mai una morte reale, ma una semplice variazione di quanto li modifica; tutti, dico, spingendosi, distruggendosi, procreandosi indifferentemente, ora appaiono sotto una forma, un istante dopo sotto un'altra, e a capriccio dell'essere che vuole o che può muoverli possono mutarsi mille e mille volte in un giorno, senza che una sola legge della natura ne possa essere anche per un solo istante guastata. Ma questo essere che aggredisco è mia madre, l'essere che mi ha portato in grembo. E sarà questa vana considerazione a fermarmi? E a che titolo essa potrà riuscirci? Questa madre pensava a me quando la sua lubricità le fece concepire il feto da cui derivo? Le devo esser riconoscente per aver assecondato il proprio piacere? D'altronde non è il sangue della madre che determina il figlio, ma solo quello del padre; il seno della donna fruttifica, conserva, elabora, ma non fornisce nulla e per questo non avrei mai attentato alla vita di mio padre, mentre ritengo una cosa più che normale uccidere mia madre. Se è dunque possibile che il cuore del figlio possa giustamente riempirsi di sentimenti di gratitudine nei confronti di una madre, tutto dipenderà dal suo comportamento verso di noi appena saremo in età di goderne. Se ella si mostrerà buona, potremo anche amarla, anzi forse dovremo amarla; ma se si mostrerà cattiva, sciolti da ogni legge di natura, non soltanto non le dovremo più nulla, ma tutto ci impone di disfarci di lei, in virtd di quella potente forza dell'egoismo che naturalmente e invincibilmente spinge l'uomo a sbarazzarsi di quanto gli nuoccia».
«Oh, signore,» risposi sconvolta al marchese, «questo concetto dell'indifferenza nella natura deriva dalle vostre passioni; degnatevi di ascoltare un istante il vostro cuore, invece di quelle, e vedrete come condannerà certi imperiosi ragionamenti del vostro libertinaggio. Questo cuore, al cui tribunale vi rimando, non è forse il santuario dove la natura che voi oltraggiate vuole che la si ascolti e la si rispetti? Se essa vi imprime l'orrore più fremente per quel crimine che voi meditate, mi concederete che esso va condannato? Mi direte che il fuoco delle passioni distrugge in un istante quest'orrore, ma non farete a tempo a ritenervi soddisfatto che esso rinascerà e si farà vivo in voi con l'imperioso strumento dei rimorsi. Più è grande la vostra sensibilità, più il loro dominio sarà assillante per voi... ogni giorno, ogni minuto, la vedrete davanti ai vostri occhi, questa madre tenera che la vostra barbara mano avrà sospinto nella tomba, sentirete la voce lamentosa pronunciare ancora il dolce nome che costituiva l'incanto della vostra infanzia... vi apparirà nelle vostre veglie, vi tormenterà in sogno, aprirà con le sue mani sanguinanti le piaghe che le avrete inferto; da allora neanche un momento felice risplenderà per voi sulla terra, tutti i vostri piaceri saranno avvelenati, tutte le vostre idee sconvolte, una mano celeste di cui non volete riconoscere il potere vendicherà i giorni che voi avrete distrutto avvelenando tutti i vostri, e senza aver goduto dei vostri misfatti morirete nel rimpianto mortale di aver osato commetterli».
Pronunciando queste ultime parole scoppiai in lacrime, mi gettai ai piedi del marchese, lo scongiurai per quanto poteva avere di più caro di metter da parte quell'infame scelleratezza, che io gli giuravo di nascondere per tutta la vita, ma non conoscevo il cuore che cercavo d'intenerire. Per quanto vigore ancora potesse avere, il crimine ne aveva spezzato gli impulsi e in tutta la loro foga le passioni vi facevano regnare soltanto il delitto. Il marchese si alzò con freddezza.
«Vedo che mi ero sbagliato, Sophie,» mi disse, «ne sono forse altrettanto rincresciuto per voi che per me; non importa, troverò altri mezzi, e voi avrete perduto tanto nei miei riguardi senza che la vostra padrona ci abbia guadagnato qualcosa».
Questa minaccia sconvolse le mie idee; non accettalo il crimine che mi si proponeva, rischiavo molto per me e la mia padrona sarebbe morta ugualmente; acconsentendo alla complicità, mi mettevo al riparo dalle ire del mio giovane padrone e potevo salvare sua madre. Fu una riflessione rapida che mi fece cambiare idea in un istante, ma siccome un cambiamento così improvviso avrebbe potuto apparire sospetto, traccheggiai a lungo sulla mia disfatta, misi il marchese in condizione di ripetermi spesso i suoi sofismi, assunsi a poco a poco l'aria di chi non sa cosa rispondere, il marchese mi credette vinta, io giustificai la mia debolezza con la potenza della sua maestria, alla fine feci capire di accettare tutto, e il marchese mi si buttò al collo... Di quale gioia mi avrebbe riempita quel gesto, se quei barbari progetti non avessero annullato tutti i sentimenti che il mio debole cuore aveva osato concepire per lui... se fosse stato possibile che io l'amassi ancora...
«Sei la prima donna che abbraccio,» mi disse il marchese, «e in verità lo faccio con tutto il cuore... sei deliziosa, piccola mia; dunque nel tuo spirito è penetrato un raggio di filosofia!
Possibile che questa testolina restasse così a lungo avvolta nelle tenebre?».
Ci mettemmo allora d'accordo sul da farsi: perché il marchese cadesse meglio nella trappola io seguitai a mantenere una certa aria di ripugnanza ogni volta che lui chiariva meglio il suo progetto o me ne illustrava i mezzi, e fu questa finzione che mi permise, nella sventurata situazione, d'ingannarlo meglio possibile. Restammo d'accordo che nel giro di due o tre giorni, colto il momento favorevole, avrei svuotato abilmente una bustina di veleno datami dal marchese in una tazza di cioccolata che la contessa prendeva sistematicamente ogni mattina; il marchese si rese garante per tutte le conseguenze e mi promise duemila scudi di rendita da godere o presso di lui o in qualsiasi altro luogo ritenessi opportuno trascorrere la mia vita; mi firmò questa promessa senza specificare per quale motivo mi sarebbe toccato questo favore, e ci separammo.
Nel frattempo accadde qualcosa di molto insolito e così adatto a farvi capire il carattere di quell'uomo atroce con cui avevo a che fare, e senza indugio seguiterò il racconto di quest'avventura crudele in cui mi trovavo coinvolta, perché voi sarete certamente in attesa della sua conclusione. Il giorno dopo quel nostro colloquio, il marchese ricevette la notizia che uno zio, sulla cui eredità egli non faceva alcun affidamento, morendo gli aveva lasciato ottantamila libbre di rendita. "Oh, cielo!" mi dissi appena lo venni a sapere, "è così dunque che la giustizia celeste punisce certi crimini? Credevo di morire per averne rifiutato uno molto inferiore ed ecco quest'uomo premiato per averne concepito uno spaventoso." Ma mi pentii di quella bestemmia verso la provvidenza, mi gettai in ginocchio, chiesi perdono a Dio e mi illusi che quella inattesa eredità avrebbe perlomeno cambiato i progetti del marchese... Mi sbagliavo, onnipotente Dio!
«Mia casa Sophie,» mi disse il signor de Bressac accorrendo quella sera stessa nella mia camera, «che pioggia di prosperità su di me! Te l'ho detto tante volte, nulla di meglio che il concepire un crimine per far arrivare la fortuna; sembra che la sua strada s'apra con facilità solo ai malfattori. Ottanta e sessanta, bambina mia, fanno centoquaranta libbre di rendita che serviranno ai miei piaceri».
«Come, signore!» risposi con sorpresa moderata dalle circostanze alle quali ero legata, «questa fortuna inattesa non vi convince ad aspettare pazientemente quella morte che volete affrettare?»
«Aspettare? Non aspetterei due minuti, bimba mia; ma lo sai che ho vent'otto anni? E alla mia età è duro aspettare. Nessun cambiamento per questo nei nostri progetti, te ne supplico, e dobbiamo fare in modo di concludere prima del nostro ritorno a Parigi... Vedi che sia per domani, dopodomani al massimo, desidero assegnarti un quarto della tua pensione e farti entrare in possesso del totale.»
Feci del mio meglio per dissimulare lo sgomento che m'ispirava quell'accanimento nel crimine, ripresi il mio comportamento del giorno prima, ma i miei sentimenti si spensero completamente e mi convinsi che uno scellerato così duro di cuore non doveva ispirarmi altro che orrore.
Nulla di più imbarazzante della mia posizione; se non fossi passata all'esecuzione, il marchese si sarebbe ben presto reso conto che l'ingannavo; se avessi avvertito la signora de Bressac, qualunque fosse stato l'effetto della rivelazione del delitto su di lei, il giovane si sarebbe visto sempre ingannato e si sarebbe forse deciso a usare mezzi più sicuri che avrebbero fatto ugualmente morire la madre esponendomi alla vendetta del figlio. Non mi restava che il ricorso alla giustizia, ma per niente al mondo avrei preso questa risoluzione; decisi dunque, indipendentemente dalle conseguenze, di avvertire la contessa; di tutte le possibili risoluzioni, quella mi parve la pi conveniente e mi ci affidai.
«Signora,» le dissi il giorno dopo l'ultimo colloquio con il marchese, «ho qualcosa della massima importanza da dirvi, ma per quanto essa personalmente vi riguardi, non parlerò se non mi darete la vostra parola d'onore di non mostrare alcun risentimento nei confronti di vostro figlio per ciò che egli ha l'ardire di progettare; voi vi comporterete, signora, come meglio riterrete opportuno, ma non direte una parola, degnatevi di promettermelo, altrimenti tacerò».
La signora de Bressac, che suppose trattarsi di qualche ordinaria stravaganza del figlio, s'impegnò con il giuramento che pretendevo, e io le rivelai ogni cosa. Quella madre sventurata si sciolse in lacrime di fronte a una simile infamia.
«Scellerato!» gridò, «cosa ho fatto mai che non fosse per il suo bene? se ho voluto ostacolare i suoi vizi o correggerli, quali altri motivi potevano spingermi a questa severità se non il suo bene e la sua tranquillità? A chi deve l'eredità che gli toccata se non alle mie cure? Se glielo nascondevo era per delicatezza. Mostro! Sophie, provami l'atrocità del suo progetto, mettimi nella situazione di non poterne dubitare, ho bisogno di soffocare completamente nel mio cuore i sentimenti della natura...».
E allora feci vedere alla contessa la bustina di veleno che mi era stata consegnata; ne facemmo inghiottire una piccola quantità al cane, nascondendolo poi con precauzione; morì nel giro di due ore fra spaventose convulsioni. La contessa, non potendo più dubitare, decise all'istante quel che doveva fare; ordinò che le dessi il resto del veleno e avvisò subito per iscritto tramite un corriere il duca de Sonzeval suo parente di andare dal ministro in gran segreto, illustrargli il misfatto orrendo di cui ella sarebbe stata vittima, fornirsi di un ordine di arresto per suo figlio, accorrere nelle sue terre con quell'ordine e con un ufficiale, liberarla al più presto possibile di quel mostro che cospirava alla sua vita... Ma era scritto nel cielo che quel crimine abominevole fosse eseguito e la virtù umiliata cedesse agli assalti della 'scelleratezza.
Il cane sventurato sul quale avevamo fatto la nostra prova permise al marchese di capire tutto. Lo senti guaire; sapendo quanto sua madre l'amasse, chiese con premura notizie del cane. Quelli ai quali si rivolse non seppero cosa rispondergli perché non sapevano nulla. Ma da quel momento formulò certamente dei sospetti; non ne parlò, ma lo vidi inquieto, agitato, e tutto il giorno all'erta. Lo feci notare alla contessa; bisognava metter fretta al corriere, pur nascondendogli l'oggetto della missione. La contessa disse al figlio che lo inviava in gran fretta a Parigi per pregare il duca de Sonzeval di interessarsi della successione dello zio che lui aveva ereditata, perché se qualcuno non se ne incaricava subito; c'era il pericolo di un processo; aggiunse che richiedeva al duca di venirle a riferire ogni cosa, perché lei potesse partire con suo figlio se la situazione lo esigeva. Il marchese, troppo buon fisionomista per non scorgere l'imbarazzo sul volto di sua madre e non osservare un po' di confusione nel mio, non volle sapere pir di quanto ma restò più che mai all'erta. Col pretesto di una passeggiata con i suoi favoriti, si allontanò dal castello e attese il corriere nel punto in cui doveva inevitabilmente passare. Quest'uomo, più devoto a lui che a sua madre, non ebbe alcuna difficoltà a consegnargli i dispacci, e il marchese, venuto a conoscenza di quello che certamente chiamava il mio tradimento, dette cento luigi al corriere con l'ordine di non farsi più vedere da quelle parti e tornò a casa con la rabbia nel cuore. Facendo tuttavia del suo meglio per contenersi, quando m'incontra mi coccola come al solito, mi fa osservare che è importante che tutto sia fatto prima dell'arrivo del duca e se ne va a dormire tranquillamente senza tradirsi. Se quello sciagurato delitto fu consumato, come poi il marchese mi rivelò, non poté essere che nel modo in cui vi dirò... La signora prese il cioccolato il giorno dopo come era sua abitudine, e siccome non era passato che per le mie mani, sono sicurissima che non vi era mescolato nulla; ma il marchese verso le dieci del mattino entrò in cucina, vi trovò solo il cuoco al quale ordinò di andar subito a cogliere delle pesche in giardino. Costui fece notare che non poteva interrompere il suo lavoro, ma il marchese insistette che gli era venuta questa voglia di pesche e disse che avrebbe badato lui al forno. Il cuoco esce, il marchese esamina tutte le portate del pranzo e verosimilmente versa sui cardi, di cui la signora era golosa, il fatale veleno che doveva farla morire. A tavola la contessa mangia certamente quella pietanza funesta e il crimine è compiuto. Vi riferisco soltanto dei sospetti, ma il signor de Bressac mi assicurò nello sventurato seguito di quest'avventura che il suo colpo era andato in porto e le mie riflessioni non mi hanno suggerito altro mezzo se non quello con cui egli avesse potuto compierlo. Ma lasciamo da parte certe orribili congetture e arriviamo al modo crudele con cui fui punita per non aver voluto partecipare a quell'atrocità e averla rivelata... Subito dopo essersi alzati da tavola, il marchese avvicinandosi:
«Ascolta, Sophie,» mi dice con la flemma apparente della tranquillità, «ho trovato un mezzo più sicuro di quello che t'avevo proposto per realizzare i miei progetti, ma occorre una spiegazione; non oso venire così frequentemente nella tua camera, temo sguardi indiscreti; tròvati alle cinque precise all'inizio del parco, ti raggiungerò e faremo insieme una lunga passeggiata durante la quale ti spiegherò tutto».
Confesso che, fosse concessione della provvidenza o eccesso d'ingenuità o accecamento, nulla mi fece supporre la spaventosa disgrazia che mi attendeva; mi credevo così sicura del segreto e degli accorgimenti della contessa che non immaginavo proprio che il marchese li avesse potuti scoprire. Tuttavia mi trovavo in un certo imbarazzo.

Lo spergiuro è virtù quando si promette un crimine

ha detto un nostro poeta tragico, ma io spergiuro è sempre odio per l'animo delicato e sensibile che si vede costretto a ricorrervi; la situazione era imbarazzante, ma non durò a lungo. L'odioso comportamento del marchese, dandomi nuovi motivi di dolore, mi tranquillizzò in questo senso. Mi si avvicinò
con l'aria più allegra e sincera di questo mondo; procedemmo nella foresta e lui non faceva che ridere e scherzare con me secondo le sue abitudini. Come cercavo di far scivolare il discorso sul motivo che aveva sollecitato l'incontro, mi diceva sempre di pazientare; temeva che qualcuno ci osservasse e che ancora non fossimo al sicuro. Senza accorgermene giungemmo a quel cespuglio e quella quercia dove mi aveva incontrato la prima volta; non riuscii a trattenere un brivido rivedendo quei luoghi, e l'imprudenza con la precarietà del mio destino sembrò allora rivelarsi ai miei occhi in tutta la sua estensione, e pensate come aumentò il mio timore quando vidi ai piedi della quercia funesta dove avevo già provato una terribile crisi, due giovani favoriti del marchese che erano a lui più cari! Si alzarono quando fummo vicini e gettarono sul prato corde, nervi di bue e altri strumenti che mi fecero rabbrividire. Allora il marchese rivolgendosi a me con epiteti volgari e orribili:
«B....» mi disse senza che i giovani potessero ancora udirlo, «riconosci il cespuglio da cui ti ho tirata fuori come una bestia selvaggia per restituirti alla vita che tu avevi meritato di perdere? Riconosci quest'albero dove minacciai di legarsi di nuovo se tu mi avessi un giorno dato motivo di pentirmi della mia bontà? Perché accettavi di aiutarmi come ti chiedevo contro mia madre, se avevi poi intenzione di tradirmi? E come potevi pensare di servire la virtù, mettendo in pericolo la libertà di colui al quale tu dovevi la vita? Posta per forza tra due crimini, perché hai scelto il più abominevole? Bastava che tu rifiutassi quel che ti chiedevo senza accettano per poi tradirmi».
Allora il marchese mi raccontò tutto quel che aveva fatto per entrare in possesso dei dispacci del corriere e sulla base di quali sospetti si era premunito.
«Cosa hai concluso con la tua falsità, indegna creatura?» continuò, «hai rischiato la vita senza salvare quella di mia madre, perché il delitto è compiuto e al mio ritorno spero di vedere ampiamente coronati i miei successi.
Ma devo punirti, tu devi capire che la strada della virtù non sempre è la migliore e che ci sono situazioni a questo mondo in cui la complicità in un crimine è preferibile alla sua delazione.

Ormai mi conoscevi, e come hai osato ingannarmi? pensavi che il sentimento della pietà, che il mio cuore concepisce solo per l'interesse dei miei piaceri, o qualche principio religioso, che io disprezzo costantemente, sarebbero stati capaci di trattenermi?... O forse contavi sul tuo fascino?...» aggiunse col tono della più crudele derisione. «Ebbene ti proverò che il tuo fascino, per quanto evidente possa apparire, non servirà che ad infiammare ancor più la mia vendetta.»
E senza darmi il tempo di rispondere, senza mostrare la minima emozione per il fiume di lacrime da cui mi vedeva inondata, avendomi presa fortemente per un braccio e trascinandomi verso i suoi sgherri:
«Ecco,» disse loro, «quella che voleva avvelenare mia madre e che forse ha già commesso questo orribile delitto, per quanto abbia cercato di prevenirlo; forse avrei fatto meglio a consegnarla nelle mani della giustizia, ma sarebbe stata condannata a morte e io voglio che viva perché possa soffrire più a lungo; spogliatela subito e legatela di faccia a quest'albero perché possa castigarla come merita!».
L'ordine fu eseguito quasi immediatamente; mi fu messo un fazzoletto in bocca, mi fecero abbracciare strettamente l'albero, tenendomici legata per le spalle e le gambe affinché, con il resto del corpo a nudo, nulla potesse proteggermi dai colpi che stavo per ricevere. Il marchese, particolarmente eccitato, s'impossessò di un nervo di bue; prima di picchiare, quel crudele volle osservare il mio contegno; sembrava che i suoi occhi godessero delle mie lacrime e delle espressioni di dolore e terrore che si delineavano sul mio volto... Allora si tirò indietro a tre piedi di distanza circa e subito mi sentii colpire con tutta la forza che riusd a metterci, dal centro della schiena fino ai polpacci. Il mio carnefice si fermò un istante, toccò brutalmente con le mani tutte le parti che aveva martoriate... non so cosa disse a bassa voce a un suo sgherro, ma subito mi fu coperta la testa con un fazzoletto che non mi permise di veder più alcuna loro mossa; tuttavia ce ne furono diverse alle mie spalle prima che ricominciassero le scene sanguinanti alle quali ero destinata... «Sì, bene, questo,» disse il marchese prima di colpire di nuovo, e appena fu pronunciata questa parola di cui non capivo il significato i colpi ricominciarono con maggior violenza; ci fu ancora una pausa, le mani di nuovo sulle parti martoriate, e poi ancora parole a bassa voce... Un giovane disse poi ad alta voce: «Non sarebbe meglio così?...» e quest'altre parole sempre incomprensibili per me, alle quali il marchese rispose soltanto: «Più vicino, più vicino,» furono seguite da un terzo attacco ancor più violento degli altri, durante il quale Bressac disse, a due o tre riprese consecutive, la seguente frase tra orribili bestemmie: «Sotto dunque, sotto tutti e due, non vedete che voglio farla morire qui con le mie mani?». Queste parole, pronunciate gradatamente sempre più in fretta, posero fine a quella cruenta scena; ancora per qualche minuto parole a bassa voce, poi sentii nuove mosse e mi accorsi che mi slegavano. Allora dal prato ricoperto del mio sangue mi resi conto dello stato in cui dovevo trovarmi; il marchese era solo, i suoi aiutanti erano spariti...
«Ebbene, sgualdrina,» mi disse guardandomi con quella sorta di disgusto che segue il delirio delle passioni, «non ti sembra che la viri costi un po' cara? duemila scudi di rendita non erano meglio di cento nerbate?»
Caddi ai piedi dell'albero, stavo per perdere i sensi... quello scellerato, non soddisfatto ancora degli orrori a cui si era abbandonato, eccitato crudelmente dalla vista dei miei mall, mi calpestò fino a schiacciarmi e soffocarmi.
«Sono più che buono a salvarti la vita,» ripeté due o tre volte, «sta' attenta almeno all'uso che farai di questo mio nuovo atto di bontà...».
Mi ordinò poi di alzarmi e riprendermi i vestiti, e poiché il sangue colava dappertutto raccolsi un po' di erba e mi asciugai per non macchiare quell'unico abito che mi rimaneva. Nel frattempo lui passeggiava avanti e indietro e mi lasciava fare, più preso dai suoi pensieri che da me. Mi si erano gonfiate le carni, il sangue seguitava a colare, sentivo dolori terribili, e mi era quasi impossibile rivestirmi, eppure quel mostro che mi aveva ridotto in quello stato, lui per il quale avrei sacrificato la mia vita qualche giorno prima, quel mostro non provava un minimo sentimento di pietà magari a darmi una mano per rivestirmi; quando fui pronta si avvicinò.
«Andate dove volete,» mi disse, «avrete ancora un po' di soldi in tasca, ma state attenta a non farvi rivedere a casa mia o a Parigi o in campagna. Vi avverto, sarete pubblicamente ritenuta come l'assassina di mia madre; se respira ancora, voglio farle portare questa idea nella tomba; tutta la casa lo saprà; vi denuncerò alla giustizia. Parigi diventa dunque d'ora in poi per voi ancor più inabitabile perché dovete sapere che il primo vostro caso giudiziario che credevate concluso è stato semplicemente sospeso. Vi avevano detto che era tutto finito, ma vi hanno ingannato; la sentenza non è stata annullata; vi avevano lasciato in questa situazione per vedere come vi sareste comportata. Dunque ora avete due processi invece di uno, e come avversario, anziché un vile usuraio, avete un uomo ricco e potente, deciso a non darvi tregua fino all'inferno se abusate con denunce calunniose della vita che ho voluto lasciarvi».
«Oh signore,» risposi, «indipendentemente dalla vostra durezza nei miei confronti, non temiate da parte mia alcuna iniziativa; ho ritenuto di dover agire contro di voi quando si trattava della vita di vostra madre, ma non farò nulla nel caso della sventurata Sophie. Addio, signore! possano i vostri crimini rendervi così felice quanto le vostre crudeltà fanno soffrire me, e qualunque sia il destino riservatovi dal cielo, finché esso si degnerà di mantenermi in vita io lo pregherò per voi».
Il marchese sollevò la testa, e di fronte alle mie parole non ce la fece quel crudele a non guardarmi, ma appena mi vide in lacrime, non riuscendo certamente a sopportar la cose, con il timore di commuoversi si allontanò guardando da un'altra parte. Appena scomparve io mi lasciai cadere in terra e mi abbandonai a tutto il mio dolore, facendo risuonare l'aria dei miei lamenti e bagnando l'erba di lacrime.
«Mio Dio!» esclamai, «voi l'avete voluto, era vostro volere che l'innocente divenisse ancora preda del colpevole; disponete di me, signore, sono ancora lontanissima dai mali che voi avete sofferto per noi; quelli che io sopporto adorandovi possano rendermi degna un giorno delle ricompense promesse al debole che vi considera il suo conforto nelle tribolazioni e vi rende gloria nelle pene!»
Sopraggiungeva la notte, non ce la facevo ad andar più lontano, mi tenevo a mala pena in piedi; mi ricordai del cespuglio dove mi ero addormentata quattro anni prima in una situazione certamente assai meno sventurata, arrancai fin là come potei e sistematami nel solito posto, tormentata dalle ferite ancora sanguinanti, oppressa dai mali spirituali e dalle pene del mio cuore, ci passai la notte più crudele che si possa immaginare. Il vigore dell'età e del temperamento mi avevano restituito un po' di forza per l'alba, e così, troppo angustiata dalla vicinanza di quel crudele castello, mi allontanai subito, uscii dalla foresta decisa a raggiungere in ogni modo le prime abitazioni che avessi scrutato all'orizzonte, e finii nel borgo di Claye a circa sei leghe da Parigi. Chiesi della casa del chirurgo, mi venne indicata; lo pregai di medicarmi; gli dissi che, fuggita per amore dalla casa di mia madre a Parigi, ero sfortunatamente finita nella foresta di Bondy tra le mani di alcuni scellerati che mi avevano ridotta in quel modo; mi curò, ma dovevo fare una deposizione dal cancelliere del villaggio; acconsentii; verosimilmente furono fatte delle ricerche di cui non ebbi più notizia; il chirurgo volle che restassi in casa sua finché non fossi guarita, mi curò con molta premura e prima di un mese fui completamente ristabilita.
Appena fui in grado di uscire, la mia prima preoccupazione fu di trovare nel villaggio una ragazza abbastanza capace e intelligente che andasse al castello de Bressac a informarsi di quanto fosse accaduto dalla mia partenza. Non era la curiosità il solo motivo che mi spingeva a un simile passo; questa curiosità, forse pericolosa, sarebbe stata certamente fuori posto. È che il poco denaro che avevo guadagnato presso la contessa era rimasto nella mia camera; avevo sei luigi appena con me, mentre al castello circa trenta. Non pensavo che il marchese sarebbe stato così crudele da rifiutarmi quanto era mio legalmente ed ero convinta che, svanito il furore del primo momento, non avrebbe compiuto nei miei confronti una seconda ingiustizia; scrissi unà lettera più commovente possibile... Ahimè, lo era anche troppo! Il mio triste cuore, forse contro il mio volere, vi si esprimeva ancora in favore di quel perfido; gli nascosi opportunamente il luogo in cui abitavo e lo supplicai di farmi avere i miei vestiti e il poco denaro che doveva trovarsi ancora nella mia camera. Una paesana tra i venti e i venticinque anni, molto sveglia e capace, mi promise d'incaricarsi della lettera e di prendere più informazioni possibili perché potesse chiarirmi al ritorno quelle cose che, come le dissi, mi interessavano di più; le raccomandai espressamente di non dire il luogo da dove veniva, di non parlare affatto di me, di dire che la lettera le era stata data da un uomo che a sua volta la portava da una località distante più di quindici leghe. Jeannette (era questo il nome della mia messaggera) parti e ventiquattro ore dopo mi portò la risposta. È importante, signora, che veniate a conoscenza di quanto era accaduto in casa del marchese de Bressac prima di farvi vedere il biglietto che ricevetti.
La contessa de Bressac, caduta gravemente ammalata il giorno della mia uscita dal castello, era morta subito la notte stessa. Da Parigi non era arrivato nessuno al castello, e quel furbo del marchese nella più grande desolazione assicurava che sua madre era stata avvelenata da una cameriera scappata quel giorno stesso e che si chiamava Sophie; erano state fatte ricerche su questa cameriera, e se fosse stata trovata sarebbe finita sulla forca. Per il resto il marchese, grazie a questa successione, era molto più ricco di quanto pensasse, perché le casseforti e i gioielli della signora de Bressac, tutti oggetti di cui non si era prima a conoscenza con chiarezza, davano al marchese, rendite a parte, una ricchezza di seicentomila franchi o in titoli o in denaro liquido. A quanto pare non riusciva troppo a mascherare la sua gioia con un affettato dolore, e i parenti convocati per l'autopsia voluta dal marchese, dopo aver compianto la sorte della povera marchesa e giurato di vendicarla se quella che aveva commesso un tale crimine fosse finita nelle loro mani, avevano lasciato il giovane nel pieno e tranquillo possesso del frutto della sua scelleratezza. Il signor de Bressac aveva lui stesso parlato a Jeannette, le aveva rivolto diverse domande alle quali la ragazza aveva risposto con tanta fermezza e franchezza da convincerlo a consegnarle una risposta senza interrogarla oltre.

«Eccola, quella lettera fatale,» disse Sophie tirandola fuori dalla tasca, «eccola, signora! A volte il mio cuore ne ha bisogno e la conserverò fino all'ultimo respiro; leggetela senza rabbrividire, se potete.»
La signora de Lorsange, preso il biglietto dalle mani della bella sventurata, lesse le seguenti parole:
«Una scellerata, che è stata capace di avvelenare mia madre, ha avuto addirittura il coraggio di scrivermi dopo questo esecrabile delitto. Ha fatto bene a non rivelare il suo nascondiglio; può star tranquilla che, una volta scopertolo, sarebbe tirata fuori di lì. E che cosa pretende?... Come può parlare di denaro e vestiti? Quel che ha lasciato non pareggia forse i furti che ha fatto durante il suo soggiorno in questa casa o in occasione del suo ultimo crimine? Non ci provi a rinnovare una simile richiesta, perché verrebbe arrestato il suo messaggero finché non fosse a conoscenza della giustizia il luogo in cui è nascosta la colpevole.»
«Continuate, mia cara giovane,» disse la signora de Lorsange restituendo il biglietto a Sophie, «sono cose orribili... Nuotare nell'oro e rifiutare a una sventurata, che non ha voluto partecipare a un delitto ciò che ha legalmente guadagnato, è un'infamia senza pari!» «Ahimè, signora!» continuò Sophie accingendosi a riprendere il suo racconto, «piansi per due giorni su questa sventurata lettera, ma più per le azioni orribili in essa descritte che per i rifiuti».

"Eccomi dunque colpevole," mi dissi, "eccomi dunque una seconda volta denunciata alla giustizia per aver rispettato le sue leggi... E sia, non me ne pento; qualunque cosa mi capiterà, non conoscerò né dolore morale né rimorsi finché la mia anima sarà pura e non avrò altro torto se non quello di aver dato retta ai sentimenti di equità e virtùche mai m'abbandoneranno".
Tuttavia non credevo troppo alle ricerche di cui parlava 'il marchese; erano poco verosimili, dal momento che sarebbe stato pericoloso per lui farmi comparire in giudizio e lui doveva sentirsi nel suo intimo più spaventato dalla mia presenza, se mai fosse riuscito a scoprirmi, di quanto io dovessi fremere per le sue minacce. Risolvetti così di restare dove mi trovavo e sistemarmici potendo, finché i miei fondi, un po' più consistenti, mi permettessero di andar via. Il signor Rodin, come si chiamava il chirurgo presso cui abitavo, mi propose lui stesso di restare a servizio. Aveva trentacinque anni, un carattere duro, brusco, brutale, ma godeva peraltro in tutto il paese di un'eccellente reputazione; assai abile nella sua professione, senza donne in casa, aveva piacere rincasando di trovarne una che avesse badato alle faccende; mi offriva duecento franchi l'anno e qualche utile dal proprio lavoro, per cui accettai. Il signor Rodin conosceva fin troppo bene il mio fisico per ignorare che ero vergine, ma peraltro sapeva perfettamente che desideravo conservarmi pura per sempre e quindi mi aveva promesso che non mi avrebbe infastidito in questo senso; insomma, raggiungemmo subito uno scambievole accordo... ma non confidai nulla al mio nuovo padrone ed egli non seppe mai chi fossi.
Erano due anni che stavo in quella casa e benché non cessassi di risentire delle mie pene, quella pace spirituale di cui godevo mi faceva quasi dimenticare le mie disgrazie, quando il cielo, che non voleva che una sola virtii potesse uscire dai mio cuore senza colpirmi subito con la sventura, sopraggiunse nuovamente per strapparmi da quella triste serenità in cui mi trovavo temporaneamente e precipitarmi in nuove disgrazie.
Un giorno ero sola in casa e andavo qua e là per le varie faccende, quando mi sembrò di sentire un lamento dal fondo di una cantina; m'avvicino... distinguo meglio, sento le grida di una fanciulla, ma una porta ermeticamente chiusa la separava da me; mi era impossibile aprire quel nascondiglio. Mille idee mi passarono per la mente... Che faceva là quella creatura? Il signor Rodin non aveva figli, non sapevo né di sorelle né di nipoti dei quali avesse potuto interessarsi; l'estrema regolarità nella quale io vedevo vivere non mi permetteva di pensare che quella fanciulla fosse destinata alle sue depravazioni. E perché mai la teneva allora rinchiusa? Fortemente ansiosa di avere una risposta, mi azzardai a interrogare quella fanciulla chiedendole chi fosse e cosa facesse là dentro.
«Ahimè, signorina!» mi risponde tra le lacrime quella sventurata. «Sono la figlia del taglialegna della foresta, e ho solo dodici anni; il signore che abita qui mi ha rapito ieri con un suo amico, approfittando dell'assenza di mio padre; mi hanno legata, m'hanno messa in un sacco pieno di crusca nel quale non potevo gridare, e in groppa ad un cavallo m'hanno portato sul far della notte fino a questa casa; mi hanno subito scaricato in questa cantina; non so cosa vogliano, ma appena arrivati mi hanno fatto spogliare, hanno esaminato il mio corpo, mi hanno chiesto quanti anni ho, e quello che aveva l'aspetto di essere il padrone infine ha detto all'altro che bisognava rinviare l'operazione a dopodomani sera a causa della mia paura; infatti, una volta tranquillizzata, sarebbe stato migliore l'esperimento, visto che peraltro rispondevo a tutte le condizioni richieste dal soggetto.»
Dopo quelle parole la fanciulla tacque e ricominciò a piangere con più amarezza; cercai di calmarla e le promisi il mio aiuto. Mi restava estremamente difficile capire cosa volessero fare con quella poverina il signor Rodin e quel suo amico, chirurgo come lui; ma la parola soggetto, che avevo sentita pronunciare spesso in altra occasione, mi fece improvvisamente sorgere il sospetto che era molto probabile che essi avessero l'assurdo progetto di effettuare qualche dissezione anatomica sulla povera bambina; prima di convincermi in questo crudele sospetto, decisi di vederci piú chiaramente. Rodin rientra con il suo amico, cenano insieme, mi fanno allontanare, faccio finta di obbedire, mi nascondo e la loro conversazione è fin troppo rivelatrice dell'orribile progetto che meditano.
«Questa parte dell'anatomia,» dice uno dei due, «non sarà mai conosciuta perfettamente se non sarà esaminata con gran de cura su un soggetto di dodici o tredici anni, aperto nel momento stesso del contatto del dolore sui nervi; è assurdo che banali considerazioni fermino in tal modo il progresso della scienza... Dico, si tratta di un soggetto sacrificato per salvarne milioni; vogliamo esitare? L'omicidio eseguito dalla legge è forse diverso da quello commesso con la nostra operazione? E l'oggetto di questa legge così saggia non è il sacrificio di uno per la salvezza di mille? Nulla deve fermarci dunque!».
«Oh, per me, sono deciso,» riprende l'altro, «e da parecchio l'avrei già fatto se avessi osato da solo».
Non vi riferirò il resto del colloquio; riguardava cose strettamente mediche, per cui non m'interessò granché e pensai soltanto da quel momento a salvare ad ogni costo quella povera vittima di una scienza certamente preziosa sotto ogni aspetto, ma il cui progresso mi sembrava pagato a prezzo troppo caro con il sacrificio di un'innocente. I due amici si separarono e Rodin andò a dormire senza rivolgermi la parola. Il giorno dopo, giorno destinato a quel crudele sacrificio, egli uscì come al solito dicendomi che sarebbe rientrato per la cena con il suo amico come la sera avanti; appena se ne fu andato, mi occupai soltanto del mio progetto... Il cielo lo assecondò, ma come si può dire se fu l'innocenza sacrificata che aiutò o l'atto di pieta della sventurata Sophie che esso volle punire?... Mi atterrò ai fatti e voi giudicherete, signora; fin troppo oppressa dalla mano di questa inesplicabile provvidenza, mi è impossibile capire le sue intenzioni nei miei confronti; ho cercato di assecondare le sue mire e sono stata punita barbaramente, questo è tutto.
Scendo in cantina, interrogo ancora quella fanciulla... sempre gli stessi discorsi, sempre gli stessi timori; le domando se sa dove hanno messo la chiave uscendo dalla sua prigione... «Non so,» mi risponde, «ma credo che se la portino appresso...» In ogni caso mi metto a cercare, finché sento qualcosa sotto i piedi nella sabbia, mi abbasso... è la chiave, apro la porta... La poverina si butta alle mie ginocchia, bagna le mie mani di lacrime riconoscenti e senza neppure immaginare quanto io rischi, senza badare a quanto può capitarmi, tutta votata a far scappare quella bambina, l'accompagno fuori del villaggio senza incontrare nessuno, la conduco fino al sentiero della foresta, l'abbraccio contenta come lei e per la sua gioia e per quella che proverà suo padre rivedendola, e torno subito a casa. All'ora stabilita i nostri due chirurghi rientrano, desiderosi di eseguire il loro odioso progetto; cenano con allegria e in fretta e, appena finito, scendono in cantina. Non avevo preso altra precauzione per mascherare quel che avevo fatto se non rompere la serratura e rimettere la chiave dove l'avevo trovata, proprio per far credere che la piccola si fosse salvata da sola, ma quelli che volevo ingannare non si facevano accecare così facilmente... Rodin risale furioso, si lancia su di me e picchiandomi mi chiede cosa ho fatto della bambina che lui aveva chiuso; io comincio a negare... e la mia sventurata franchezza finisce per farmi confessare. Dure e irose furono allora le espressioni senza pari usate dai due scellerati; uno propone di mettermi al posto della bambina che avevo salvato, l'altro supplizi ancor piú spaventosi, e discorsi e propositi erano intramezzati da percosse che, sballottata come ero tra l'uno e l'altro, mi stordirono ben presto al punto di farmi cadere a terra priva di sensi. Rodin mi fa rinvenire e appena riprendo i sensi mi ordinano di spogliarmi. Obbedisco tremante; come mi trovo nello stato da loro voluto, uno mi tiene stretta e l'altro opera; mi amputano un dito a ogni piede, mi fanno sedere e ognuno mi strappa un dente dalla bocca.
«Non è finito,» dice Rodin mettendo un ferro sul fuoco, «l'ho accolta frustata, la caccerò marchiata.»
Così dicendo quell'infame, mentre il suo amico mi tiene ferma, mi applica sulla spalla il ferro rovente con cui sono marchiati i ladri...
«Osi farsi viva adesso, la puttana! osi,» dice Rodin furioso, «e mostrando questa lettera ignominiosa renderò legittime a sufficienza le ragioni che mi hanno spinto a cacciarla con tanta segretezza e così in fretta!».
Detto questo, i due amici mi prendono, quando era ormai notte, e mi portano al limitare della foresta abbandonandomi crudelmente dopo avermi nuovamente fatto capire il pericolo di una denuncia contro di loro, se mai l'avessi voluta sporgere nello stato avvilente in cui mi trovavo.
Un'altra al posto mio non avrebbe dato troppo peso a quella minaccia; una volta provato che quel trattamento subito non era opera di alcun tribunale, cosa potevo temere? Ma la mia debolezza, il mio solito candore, l'angoscia per le disgrazie patite a Parigi e al castello de Bressac, tutto mi aveva distrutto, terrorizzato e pensai solo ad allontanarmi da quel luogo fatale finché i dolori che provavo si fossero un po' calmati; siccome quelli avevano con cura medicato le ferite che mi avevano procurato, il giorno dopo già stavo meglio e, dopo aver passato una delle notti piú terribili della mia vita, mi misi in cammino appena sorse il sole. Le piaghe ai piedi m'impedivano di camminare in fretta, ma desiderosa di allontanarmi da quella foresta così funesta per me, quel giorno riuscii a fare quattro leghe e altrettante il giorno dopo e il successivo, ma non sapendomi orientare e non chiedendo informazioni a nessuno, non feci che girare intorno a Parigi, e la sera del quarto giorno di cammino mi trovavo ancora a Lieusaint; sapendo che per quella strada sarei arrivata nel meridione della Francia, decisi di andare per di là e arrivare in qualche modo in quelle terre lontane, illudendomi che la pace e la tranquillità così crudelmente rifiutatemi nella mia patria mi attendessero forse in capo al mondo.
Come mi sbagliavo! E quante pene dovevo ancora soffrire! Da Rodin avevo guadagnato molto meno rispetto di quando stavo dal marchese de Bressac e quindi non avevo dovuto mettere i soldi in banca, li avevo fortunatamente tutti con me, circa dieci luigi tra quanto avevo salvato da casa Bressac e i miei guadagni presso il chirurgo. Nonostante le mie disgrazie, potevo considerarmi ancora fortunata che non mi avessero tolto quelle risorse e confidavo di poterci tirare avanti perlomeno finché non avessi trovato un nuovo posto. Le infamie subite non erano appariscenti, speravo di poterle sempre nascondere e che la marchiatura non m'impedisse di lavorare per vivere; avevo ventidue anni, una salute robusta, per quanto esile e di forme minute, un volto per mia disgrazia fin troppo elogiato, alcune virtù che, pur avendomi sempre nociuto, mi erano di consolazione tuttavia nel mio intimo e mi facevano sperare che infine la provvidenza avrebbe accordato loro, se non qualche ricompensa, almeno una tregua ai mali che mi avevano procurato. Piena di speranze e coraggio, seguitai il mio viaggio fino a Sens; giunta là, con quei piedi mal guariti che mi facevano soffrire dolori atroci, decisi di riposarmi qualche giorno, ma non osando confidare a nessuno la causa di quella sofferenza, e ricordandomi delle medicine usate da Rodin per simili ferite, le comperai e mi curai da sola. Una settimana di riposo mi rimise completamente; forse avrei trovato un posto a Sens, ma, decisa ad allontanarmi sempre più, non volli nemmeno farne richiesta, proseguii il mio viaggio con l'idea di cercar fortuna nel Delfinato; avevo sentito parlare tanto di quella terra quando ero bambina, che me la raffiguravo come il paese della felicità; ascoltate come ci arrivai.
I sentimenti religiosi non mi avevano abbandonata in nessuna circostanza della vita; disprezzando i vani sofismi degli spiriti forti, ritenendoli tutti originati dal libertinaggio piú che da una ferma convinzione, opponevo loro la mia coscienza e il mio cuore e riuscivo in questo modo a controbatterli. Costretta a volte dalle mie disgrazie a trascurare le mie devozioni, riparavo a questi torti appena mi era possibile. Il 7 giugno (non scorderò mai questa data) ero appena partita da Auxerre, avevo fatto circa due leghe e il caldo cominciava a soffocarmi, per cui decisi di salire su una collinetta ricoperta da una macchia di alberi, un po' lontana dalla strada, sulla sinistra, per rinfrescarmi e riposarmi un paio d'ore con minor spesa che in un albergo e con maggior sicurezza che sulla strada. Salgo e mi sdraio ai piedi di una quercia; là, dopo un pasto frugale a base di pane ed acqua, mi abbandono alla dolcezza del sonno, stando per quasi due ore tranquilla. Al risveglio mi piaceva guardare il paesaggio circostante, sempre sulla sinistra della strada; nel mezzo di una foresta che si estendeva a perdita d'occhio mi sembrò di scorgere a più di tre leghe da li un piccolo campanile che si stagliava timidamente nel cielo.
«Dolce solitudine!» mi dissi. «Come desidererei soggiornare in te! Deve essere il rifugio di qualche monaca o santo eremita, tutti dediti ai loro doveri, interamente consacrati alla religione, lontani da quella malefica società dove il crimine lottando in continuazione con l'innocenza alla fine trionfa; sono sicura che è il regno di tutte le virtù.»
Ero presa da queste riflessioni, quando vidi improvvisamente una giovane della mia età che pascolava dei montoni nella pianura; le chiesi notizie su quell'edificio e mi rispose che era un convento di Recolletti
[I Recolletti erano frati francescani che ammettevano nel loro Ordine solo coloro che avevano un vero spirito di raccoglimento] abitato da quattro eremiti di una religiosità, uno zelo e una sobrietà senza pari.
«Ci si va una volta l'anno in pellegrinaggio,» mi disse quella ragazza, «per una Madonna miracolosa che realizza tutti i desideri delle persone pie».
Subito mi prese il desiderio di andare a implorare soccorso ai piedi di quella santa madre di Dio e chiesi alla ragazza se potesse accompagnarmi; mi rispose che era impossibile, perché sua madre l'aspettava quanto prima a casa, ma comunque la strada era facile; me la indicò e mi disse che il padre guardiano, il più rispettabile e il più santo uomo di questo mondo, non solo mi avrebbe accolta, ma mi avrebbe aiutata se ne avessi avuto bisogno.
«Lo chiamano il reverendo padre Raphaël,» aggiunse la ragazza, «è italiano, ma ha passato la sua vita in Francia e questa solitudine gli piace tanto che ha rifiutato diversi incarichi di prestigio offertigli dal papa, che è suo parente; è uomo di nobile casato, dolce, servizievole, pieno di zelo e pietà; ha circa cinquant'anni e tutti nel paese lo ritengono un santo.»
Il racconto di quella pastorella mi aveva ancor più acceso il desiderio di andare in pellegrinaggio al convento e riparare con vari atti di devozione le negligenze di cui ero colpevole, e non riuscii a trattenermi. Feci della carità a quella ragazza, per quanto ne avessi bisogno anch'io, e imboccai la strada per Sainte-Marie-des-Bojs, come si chiamava appunto il convento. Una volta nella pianura, non vidi più il campanile e m'inoltrai nella foresta; non avevo chiesto alla mia informatrice quante leghe ci fossero tra il luogo in cui l'avevo incontrata e il convento, ma mi resi conto che la distanza era più lunga di quella che pensassi. Non mi scoraggio però; arrivo al limitare della foresta e vedendo che non era ancora buio, decido di entrarvi, piuttosto certa di arrivare al convento prima di notte... Comunque non vedevo alcun segno di vita, neanche una casa e la strada era costituita da un piccolo sentiero appena tracciato che seguivo proprio a caso; avevo percorso almeno cinque leghe dalla collina, mentre avevo pensato che in totale sarebbero state più o meno tre, non vedevo nulla ancora e il sole stava per tramontare, quando finalmente sentii il suono di una campana a meno di una lega da me. Procedo in direzione del suono, mi affretto, il sentiero si fa più marcato... e dopo un'ora di cammino da quando avevo sentito la campana, vedo finalmente alcune siepi e subito dopo il convento. Era una solitudine tipicamente agreste; non c'era nessuna abitazione all'interno, la più vicina era a circa sei leghe e la foresta circostante si estendeva per tre leghe; si trovava in un avvallamento e avevo dovuto scendere parecchio per arrivarci, per questo non avevo più visto il campanile quando avevo raggiunto la pianura. La capanna di un converso giardiniere era addossata alle mura dell'asilo interno, e là ci si doveva rivolgere prima di entrare. Chiedo a quel santo eremita se potevo parlare con il padre guardiano... mi domanda cosa voglio... gli faccio capire che un dovere religioso... un voto mi spinge a quel pio eremo e che sarebbe una consolazione a tutte le pene petite per arrivarci, potermi inginocchiare un istante ai piedi della Madonna e del santo direttore nella casa del quale si trova quell'immagine miracolosa. Il converso mi invita a riposarmi e si dirige subito al convento ma siccome era ormai notte e i padri, diceva, erano a mangiare, passò un po' di tempo prima che tornasse. Ricomparve finalmente con un religioso.
«Ecco padre Clément, signorina,» mi disse il converso, «è l'economo della casa, viene a rendersi conto se quel che desiderate vale la pena per scomodare il padre guardiano».
Il padre Clément era un uomo di quarantacinque anni, molto grosso, di statura gigantesca, dallo sguardo torvo e cupo, una voce dura e rauca; vedendolo rabbrividii, anziché sentirmi consolata... un tremito involontario mi colse in quel momento e senza che potessi impedirlo mi vennero in mente tutte le disgrazie patite.
«Cosa volete?» mi chiese quel frate con durezza. «È questa l'ora di venire in chiesa? avete proprio l'aria di un'avventuriera.»
«Sant'uomo,» risposi inchinandomi, «ho pensato che ogni ora fosse buona per presentarmi nella casa di Dio; vengo da molto lontano per entrarvi piena di fervore e devozione, voglio confessarmi se è possibile, e quando la mia coscienza vi sarà nota, vedrete se sono degna o meno di inchinarmi ai piedi della miracolosa immagine che conservate nella vostra santa casa».
«Ma non è questa l'ora per confessarsi,» disse il frate con tono più dolce, «dove passerete la notte? noi non abbiamo dove alloggiarvi; sarebbe meglio venire al mattino».
Al che io esposi tutti i motivi che mi avevano ostacolato, ed egli, senza rispondermi altro, andò a render conto al padre guardiano. Alcuni minuti dopo sentii aprire la chiesa e il padre guardiano, venendomi incontro egli stesso verso la capanna del giardiniere, m'invitò ad entrare con lui nel tempio. Il padre Raphaël, di cui è bene vi dia subito un'idea, era un uomo dell'età che mi era stata detta, ma al quale non si davano pni di quarant'anni; era snello, molto alto, un aspetto spirituale e dolce, parlava benissimo il francese, sia pure con una pronuncia leggermente italiana, manierato e premuroso esteriormente quanto tristo e truce nell'intimo, come avrò fin troppo occasione di farvi capire immediatamente.
«Bambina mia,» mi disse gentilmente quel religioso, «per quanto l'ora sia decisamente inopportuna e noi non siamo soliti ricevere così tardi, ascolterò tuttavia la vostra confess'ione e poi considereremo i mezzi adatti a farvi passare decentemente la notte fino all'ora in cui potrete, domani, salutare la santa immagine che custodiamo».
Dopo di che il frate fece accendere alcune lampade intorno al confessionale, mi disse di inginocchiarmi e, fatto uscire il converso e chiuse tutte le porte, m'invitò a confessarsi con la massima fiducia; con quell'uomo apparentemente così dolce mi sentivo perfettamente ripresa dai timori che mi aveva procurato padre Clément; umilmente ai suoi piedi, mi aprii interamente a lui e con il mio candore e la mia solita fiducia gli rivelai tutto di me. Gli confessai tutti i miei torti, gli confidai le mie sventure, senza omettere nulla, neanche il marchio di disonore impressomi dall'esecrabile Rodin.
Padre Raphaël mi ascoltò con la massima attenzione, mi fece ripetere anche alcuni particolari con aria di pietà e interesse... e mi rivolse precise domande sui seguenti argomenti a più riprese:

1. Se era proprio vero che fossi orfana e nata a Parigi.

2. Se era proprio sicuro che non avessi più né parenti, né amici, né protettori, né persona a cui scrivere.

3. Se non avevo confidato ad altri che alla pastorella l'idea che avevo di andare al convento, e se non le avevo dato un appuntamento al ritorno.

4. Se indiscutibilmente ero vergine e avevo ventidue anni.

5. Se era proprio certo che non fossi stata seguita da qualcuno e che nessuno mi avesse visto entrare nel convento.

Dopo che ebbi esaurientemente risposto, con l'aria più candida di questo mondo:
«Ebbene,» mi disse il frate alzandosi e prendendomi per mano, «venite, bambina mia; è troppo tardi per farvi salutare la Madonna questa sera; domani avrete la soddisfazione di comunicarvi ai suoi piedi, ma ora pensiamo a farvi mangiare e andare a letto».
Così dicendo mi condusse verso la sagrestia.
«E perché?» gli chiesi allora con una sorta d'inquietudine che non riuscivo a dominare, «e perché, padre mio, nell'interno della vostra casa?».
«E dove, altrimenti, incantevole pellegrina?» mi rispose il monaco aprendo una porta del chiostro che dava nella sagrestia e portava proprio dentro la casa. «...Forse avete paura di passare la notte con quattro religiosi? Vedrete, angelo mio, che non siamo poi così bigotti come sembriamo, ma sappiamo spassarcela con una bella figliola!»
Mi fecero trasalire queste parole. "Oh, giusto cielo!" mi dissi, "sarei ancora dunque vittima dei miei buoni sentimenti? E il desiderio che ho avuto di avvicinarmi a quanto la religione ha di più rispettabile sarà di nuovo punito con un crimine?". Nel frattempo procediamo sempre al buio; in fondo ad un lato del chiostro ad un certo punto arriviamo ad una scala, il monaco mi fa passare avanti e vedendomi opporre un po' di resistenza:
«Doppia puttana!» dice con collera, mutando subito la mellifluità del tono con un'aria più insolente. «E vorresti tirarti indietro proprio adesso? Ah, ventre di dio! Vedrai se per te non sarebbe stato forse meglio capitare in un covo di ladri anziché in mezzo a quattro Recolletti! ».
I motivi di paura si moltiplicano così rapidamente ai miei occhi che non ho tempo di essere allarmata da quelle parole; esse mi colpiscono appena, quando nuovi motivi di angoscia vengono a colpire i miei sensi; si apre la porta e vedo intorno a un tavolo tre frati e tre ragazze, tutti e sei nell'atteggiamento più 'indecente che si possa immaginare; due ragazze erano completamente nude, stavano spogliando la terza, e i frati erano più o meno nella stessa condizione...
«Amici miei,» dice Raphaël entrando, «ce ne mancava una, eccola! Permettete che vi presenti un autentico fenomeno: ecco una Lucrezia che porta anche sulle spalle il marchio delle prostitute, e là,» continuò facendo un gesto significativo quanto indecente, «...là, amici miei, la prova certa di una autentica verginità».
A quella singolare accoglienza si sentirono grandi risate da tutte le parti della sala e Clément, quello che avevo visto per primo, gridò subito, già mezzo ubriaco, che bisognava verificare la cosa immediatamente. La necessità in cui mi trovo di presentarvi le persone tra cui ero capitata, mi costringe ad una pausa nel racconto; ma vi lascerò in ansia il meno possibile sulla mia situazione.
Conoscete già sufficientemente Raphaël e Clément, per cui passerò agli altri due. Antonin, il terzo padre del convento, era un omino di quarant'anni, secco, gracile, ma un temperamento appassionato, una faccia da satiro, peloso come un orso, di un libertinaggio sfrenato, dispettoso e cattivo come nessun altro. Padre Jèrôme, decano della casa, era un vecchio libertino di sessant'anni, uomo duro e brutale come Clément, ancor più ubriacone di lui, e che, insensibile ai piaceri normali, era costretto, per ritrovare qualche barlume di voluttà, a far ricorso a metodi depravati e disgustosi.
Florette era la ragazza più giovane: di Digione, circa quattordici anni, figlia di un grosso borghese di quella città, era stata rapita dagli accoliti di Raphaël che, ricco e forte di un certo credito nel suo ordine, non trascurava nulla di quel che potesse servire alle sue passioni; era bruna, con occhi bellissimi e qualcosa di provocante nell'insieme. Cornélie aveva circa sedici anni, bionda, un'aria molto affascinante, bei capelli, una pelle splendida e un corpo magnifico; era di Auxerre, figlia di un commerciante di vino e sedotta da Raphaël stesso che l'aveva segretamente attirata nei suoi tranelli. Omphale era una ragazza di trent'anni, molto alta, un volto dolcissimo e piacevole, piuttosto formosa, capelli superbi, un seno bellissimo e gli occhi pitl teneri che avessi mai visto; figlia di un vignaiolo benestante di Joigny, era prossima a sposare un uomo che l'avrebbe fatta ricca, quando Jérôme la portò via dalla famiglia a sedici anni grazie alle seduzioni più straordinarie. Questa era la compagnia a cui dovevo unirmi, questa la cloaca d'impurità e di sozzura dove mi ero illusa di trovare le virtù come luogo rispettabile ad esse conveniente.
«Potete facilmente capire,» mi disse Raphaël, «che non servirebbe a nulla opporre resistenza in un luogo così inaccessibile dove la vostra cattiva stella vi ha guidato. Voi dite di aver sofferto e questo risulta dal vostro racconto, ma come vedete mancava ad una ragazza virtuosa la sventura peggiore di tutte. E forse naturale esser vergine alla vostra età? E non è una specie di miracolo che ci siate rimasta così a lungo?... Ecco delle compagne che, come voi, hanno fatto tante storie quando si sono viste costrette a servirci ma poi, come farete saggiamente voi, hanno finito per sottomettersi quando hanno capito che questo non poteva che portarle a maltrattamenti. Nella situazione in cui siete, Sophie, come sperereste di difendervi? Considerate che siete emarginata dal mondo; voi stessa avete ammesso che non avete né parenti né amici; vi trovate come in un deserto senza possibilità di aiuti, ignorata da tutti, tra le mani di quattro libertini che non hanno certamente alcuna voglia di risparmiarvi...
A chi potreste ricorrere dunque? Forse a quel dio che imploravate poco fa con tanto zelo e che approfitta di questo fervore per precipitarvi con più certezza nella trappola? Dunque vi rendete conto che non esiste alcuna potenza umana o divina capace di strapparvi dalle nostre mani, che nella categoria delle cose possibili o in quella dei miracoli non esiste alcun mezzo capace di farvi mantenere più a lungo questa viri di cui andate così fiera, capace infine d'impedirvi di diventare in tutti i sensi e in ogni modo immaginabile preda degli eccessi impuri ai quali ci abbandoneremo con voi tutti e quattro. Dunque spogliatevi, Sophie, e la pìú completa rassegnazione possa meritarvi qualche bontà da parte nostra, sostituita immediatamente peraltro dai trattamenti più duri e vergognosi se non vi sottometterete, trattamenti che non faranno che irritarci sempre più, e voi non vi difenderete dalla nostra intemperanza e dalle nostre brutalità.»
Capii fin troppo chiaramente che quel terribile discorso non mi lasciava alcuna via d'uscita, ma non sarei stata forse colpevole se non avessi usato quel che suggeriva il mio cuore e che la natura ancora mi permetteva? Mi prostro ai piedi di Raphaël, m'impegno con tutta l'anima a supplicano perché non abusi del mio stato, le lacrime più amare bagnano le sue ginocchia, oso mettere in mostra tra le lacrime tutto quel che il mio animo può dettarmi di più patetico, ma non sapevo ancora che le lacrime sono un'attrattiva maggiore agli occhi del crimine e della depravazione, ignoravo che tutto quel che facevo per commuovere quei mostri non serviva altro che ad eccitarli... Raphaël si alza infuriato.
«Prendete questa puttana, Antonin,» dice con sguardo cupo, «mettetela nuda davanti a noi e fatele capire che la compassione non può nulla tra uomini come noi!».
Antonin mi prende per un braccio deciso e nervoso, e mescolando raccapriccianti bestemmie a gesti e parole, in due minuti mi strappa via i vestiti e mi lascia nuda davanti a tutti.
«Questa si che è una bella creatura!» dice Jérôme. «Mi crolli addosso il convento se ne ho vista un più bella da trent'anni in qua!»
«Un momento!» dice il guardiano, «regoliamo il da farsi: voi conoscete, amici, le nostre formule di ricevimento; ebbene, le deve subire tutte, nessuna esclusa, e nel frattempo le altre tre donne ci staranno intorno per prevenire i bisogni ed eccitarli».
Si forma subito un circolo, mi mettono in mezzo e là per due ore vengo esaminata, studiata, tastata dai quattro libertini, di volta in volta criticata o elogiata da ciascuno di loro.
«Mi permetterete, signora,» disse la nostra bella prigioniera, arrossendo particolarmente a questo punto, «di risparmiarvi una parte degli osceni rituali che furono osservati in questa prima cerimonia; immaginate tutto quello che in tali frangenti la depravazione può suggerire a certi libertini; figurateli passare dalle mie compagne a me, paragonare, accostare, confrontare, discutere, e avrete sempre una pallida idea di quel che fu eseguito nelle prime orge, quasi trascurabili comunque rispetto a tutti gli orrori di cui sarei stata ben presto vittima».
«Su,» dice Raphaël, i cui desideri erano straordinariamente eccitati, a tal punto da non poter essere più trattenuti, «è arrivato il momento d'immolare la vittima; ognuno di noi si prepari a farle subire i suoi piaceri favoriti!»
E quel disgraziato mi fece piazzare su un divano nella posizione adatta ai suoi esecrabili piaceri, facendomi tener ferma da Antonin e Clément... Raphaël, italiano, frate e depravato godette oltraggiosamente senza che io smettessi di esser vergine. Che traviamento incredibile! Si sarebbe detto che ognuno di quei lussuriosi si vantasse di dimenticare la natura nella scelta dei propri indegni piaceri... Clément avanza, eccitato alla vista delle infamie del suo superiore, e ancor più da tutto quello a cui si era abbandonato guardando. Mi dichiara che non sarà nei miei confronti più pericoloso del suo guardiano e che l'ingresso ove egli mi renderà omaggio lascerà ugualmente intatta la mia virtù. Mi fa inginocchiare, esercitando le sue passioni in un luogo che m'impedisce durante il sacrificio di lamentarmi della sua irregolarità. È il turno di Jérôme, che adora lo stesso tempio di Raphaël, ma senza entrare dentro il santuario; contento di guardare il sagrato, in un comportamento selvaggio d'indescrivibile oscenità, riusciva a godere solo con quei mezzi barbari di cui stavo per esser vittima, come avete visto, da Dubourg ed in pratica lo fui nelle mani di Bressac.
«Magnifici preparativi!» dice Antonin prendendomi. «E ora venite, tesoro, venite! Vi vendicherò delle sregolatezze dei miei confratelli e coglierò infine le dolci primizie che la loro intemperanza mi lascia...»
Altri particolari... gran Dio!... non ce la faccio a riferirveli; si sarebbe detto che questo scellerato, il più libertino dei quattro per quanto apparisse il meno lontano dalle tendenze della natura, non acconsentisse ad avvicinarsi ad essa, a mostrarsi un po' meno innaturale nel suo culto, se non compensando questa apparenza con una depravazione minore mediante tutto quel che potesse oltraggiarmi maggiormente... Ahimè, se qualche volta la mia immaginazione si era abbandonata a quei piaceri, li ritenevo casti come il dio che li ispirava, dati dalla natura per consolare gli uomini, nati dall'amore e dalla delicatezza; ero ben lontana dal credere che l'uomo, sull'esempio delle bestie feroci, non potesse godere se non facendo soffrire le proprie compagne; lo provai e in un tale grado di violenza che i dolori della lacerazione naturale della verginità furono minori di quelli sopportati in quel pericoloso frangente, quando nel vivo della propria crisi Antonin se ne uscì con grida furiose, percosse strazianti su tutte le parti del mio corpo e morsi simili alle sanguinanti carezze delle tigri, tanto che per un istante credetti di essere vittima di qualche animale selvaggio che non si placasse se non divorandomi. Finiti questi orrori, caddi sull'altare dove ero stata immolata, quasi priva di conoscenza e immobile.
Raphaël ordinò alle donne di medicarmi e farmi mangiare, ma in quel crudele frangente la mia anima fu presa da un'angoscia furibonda; non ce la facevo a pensare di aver perduto quel tesoro che era la verginità, per il quale avrei sacrificato la vita cento volte, era orribile vedermi infamata da quelli che avrebbero dovuto al contrario aiutarmi e consolarmi. Piansi abbondantemente, rintronarono le mie grida nella sala, mi rotolei in terra, mi strappai i capelli, supplicai i carnefici di uccidermi e, per quanto quei depravati, troppo duri di cuore per certe scene, si occupassero piuttosto di godere nuovi piaceri con le mie compagne che calmare il mio dolore o consolarmi, seccati dalle mie grida si decisero a mandarmi in un posto da dove fosse impossibile udirla... Omphale stava per condurmici quando il perfido Raphaël, guardandomi ancora con lubricità nonostante il pietoso stato in cui mi trovavo, disse che non voleva che me ne andassi senza che fossi stata nuovamente sua vittima... Non appena ebbe concepito il progetto, lo eseguì... ma i suoi desideri dovevano essere eccitati, per cui soltanto usando i crudeli sistemi di Jérôme riusci a trovare le forze necessarie per compiere il suo nuovo crimine... Che eccesso di depravazione, mio Dio! Erano feroci a tal punto da scegliere l'istante di una crisi di dolore morale così violenta come quella, per farmene subire una fisica altrettanto barbara!
«Perdio!» disse Antonin prendendomi anche lui, «nulla di meglio che seguire l'esempio di un superiore e nulla è stimolante quanto una recidiva; dicono che il dolore disponga al piacere, sono convinto che questa bella ragazza mi farà l'uomo più felice».
E nonostante la mia ripugnanza, nonostante le mie grida e le suppliche, divento per la seconda volta il disgraziato bersaglio degli insolenti desideri di quel miserabile... Finalmente mi lasciano uscire.
«Se non mi fossi preso un anticipo prima dell'arrivo di questa bella principessa,» disse Clément, «non uscirebbe perdio senza servire una seconda volta alle mie passioni, ma non perderà nulla nell'attesa».
«Le prometto la stessa cosa,» disse Jéròme facendomi sentire la forza del suo braccio mentre passavo vicino a lui, «ma per stasera andiamo tutti a dormire».
Raphaël era della stessa opinione, e le orge furono interrotte; prese con sé Florette che passò certamente la notte con lui e ognuno se ne andò. Ero affidata a Omphale; questa sultana, più anziana delle altre, a quanto pare era incaricata di badare alle compagne; mi condusse nel nostro appartamento comune, una specie di torre quadrangolare con un letto per ciascuna di noi agli angoli. In genere un frate accompagnava le fanciulle quando si ritiravano e chiudeva la porta con due o tre mandate; se ne incaricò Clément; una volta dentro, era impossibile scappare, e non c'era altra uscita dalla camera se non un gabinetto attiguo per i nostri bisogni e la toletta con la finestra dall'inferriata fitta come quella della stanza in cui dormivamo. Il mobilio era quasi inesistente; una sedia e un tavolo vicino al letto circondato da una cortina di tela indiana, alcuni cassoni di legno nel gabinetto, delle sedie rotte e una toletta in comune; mi accorsi di tutto questo, solo il giorno dopo; troppo depressa per rendermi conto di qualcosa, in un primo momento non mi occupai che del mio dolore. "Giusto cielo!" mi dicevo, "è proprio scritto che nessun atto di virtù emani dal mio cuore senza esser seguito subito da una pena! E che ho fatto di male dunque, gran Dio, desiderando compiere in questa casa una devozione di pietà? Ho forse offeso il cielo volendomici dedicare? era questo il prezzo che dovevo attendermi? O decreti incomprensibili della provvidenza, degnatevi dunque di aprirvi un istante al mio sguardo se non volete che mi ribelli alle vostre leggi!" Amare lacrime seguirono questi pensieri e ne ero ancora inondata quando verso l'alba Omphale si avvicinò al mio letto.
«Cara compagna,» mi disse, «vengo ad esortarti perché tu abbia coraggio; ho pianto come te i primi giorni, ma ormai è diventata un'abitudine, ti ci abituerai anche tu; i primi momenti sono terribili, e non è solo l'obbligo di assolvere sempre ai desideri sfrenati di questi debosciati che rende un supplizio la nostra vita, ma è la perdita della libertà, il modo brutale con cui siamo trattate in questa casa...». Gli sventurati si sentono consolati vedendo altri soffrire con loro; per quanto fossero scottanti i miei dolori, per un istante li quietai pregando la mia compagna di mettermi al corrente dei mali 'che potevo aspettarmi. «Ascolta,» mi disse Omphale sedendosi vicino al mio letto, «ti parlerò in confidenza, ma ricordati di non illuderti mai... Il nostro male più crudele, mia cara amica, è l'incertezza della nostra sorte; è impossibile dire cosa accada di noi lasciando questo posto. Abbiamo tante prove, quante ce ne permette di raccogliere la nostra solitudine, che le donne ripudiate dai frati non ricompaiono più nel mondo; loro stessi ce lo avvertono, non ci nascondono che questo eremo è la nostra tomba; tuttavia ogni anno ne vanno via due o tre. Che fine fanno? Se le tolgono dai piedi? A volte ci dicono di sì, altre volte ci assicurano di no, ma nessuna di quelle uscite, per quanto ci abbiano tutte promesso di denunciare il convento e darsi da fare per liberarci, nessuna ha mai mantenuto la parola. Riescono a mettere a tacere le denunce o mettono quelle donne nell'impossibilità di sporgerle? Quando chiediamo alle nuove arrivate notizie delle vecchie, nessuna sa dirci qualcosa. Che fine fanno dunque queste disgraziate? Questo mi tormenta, Sophie, questa fatale incertezza è il vero tormento dei nostri giorni sventurati. Sono in questa casa da quattordici anni e ho visto andar via più di cinquanta donne... Dove stanno? Tutte hanno giurato di aiutarci, e perché nessuna ha mantenuto la parola? Il nostro numero è fissato a quattro, almeno in questa camera, ma siamo convinte che esista un'altra torre corrispondente a questa con un numero uguale di donne; l'abbiamo capito da un certo loro comportamento e da alcuni discorsi, ma se queste compagne esistono, noi comunque non le abbiamo mai viste. La prova più consistente è che non prestiamo servizio per due giorni di seguito; adoperate ieri, oggi ci riposeremo; d'altronde questi debosciati non fanno un giorno di astinenza. Inoltre nulla giustifica un nostro ripudio; l'età, il cambiamento dei lineamenti, la noia, il disgusto, nulla se non il loro capriccio li spinge a darci quel fatale congedo, di cui ci è impossibile sapere in che modo se ne tragga un profitto. Ho visto qui una donna di settant'anni, se n'è andata via l'estate scorsa; stava qui da sessant'anni, e mentre questa era stata trattenuta ne ho viste mandare via una dozzina che non avevano sedici anni. Ne ho viste partire alcune tre giorni dopo essere arrivate, altre dopo un mese, altre dopo diversi anni; su questo non esiste altra regola se non la loro volontà o piuttosto il loro capriccio. La buona condotta non c'entra assolutamente nulla; ne ho viste anche anticipare i loro desideri e andar via nel giro di sei settimane, altre riottose e lunatiche restarci molti anni. Dunque è inutile suggerire a una novizia un qualsiasi tipo di condotta; il loro capriccio rompe ogni regola, per cui nulla è certo. Per quel che riguarda i frati, loro cambiano raramente; Raphaël è qui da quindici anni, Clément da sedici, Jérôme da trenta e Antonin da dieci; è il solo che ho visto arrivare al posto di un altro di sessant'anni morto nel vivo di un'orgia... Quel Raphaël, fiorentino di nascita, è parente stretto del papa col quale è in buoni rapporti; solo dopo il suo arrivo la Madonna miracolosa ha dato una certa fama al convento, impedendo ai mendicanti di osservare troppo da vicino quel che succede qua dentro, ma quando lui è arrivato la casa era già organizzata come hai visto tu. Dicono che esista da quasi ottant'anni con gli stessi principi e che tutti i guardiani che sono arrivati hanno mantenuto quell'organizzazione così vantaggiosa per i loro piaceri; Raphaël, il frate più libertino del secolo, ci si fece nominare perché ne era al corrente ed è sua intenzione mantenerne i segreti privilegi più a lungo possibile. Siamo della diocesi di Auxerre, ma il vescovo, lo sappia o no, mai si è fatto vivo da queste parti, che generalmente sono poco battute; a parte il periodo della festa che cade verso la fine d'agosto, durante l'anno verranno una diecina di persone. Però quando arriva qualche forestiero, il guardiano provvede ad accoglierlo convenientemente, suscitando buona impressione con innumerevoli apparenze di austerità e religiosità; così il forestiero se ne va via soddisfatto, decanta il luogo, e l'impunità di questi scellerati si concretizza sulla buonafede del popolo e sulla credulità dei devoti. Peraltro non c'è nulla di così severo come le regole della nostra condotta e nulla di più pericoloso per noi quanto l'infrangerle in qualsiasi modo. È bene che ti precisi alcuni dettagli sull'argomento,» continuò la mia istitutrice, «perché qua dentro non vale giustificarsi dicendo: "Non punitemi dell'infrazione di questa legge, perché non ne ero a conoscenza"; bisogna o farsi istruire dalle compagne o capire da sole; non si è preavvisate di nulla, si è punite di tutto. La sola correzione ammessa è la frusta; era più che normale che un aspetto dei piaceri di questi scellerati divenisse la loro punizione preferita; l'hai provato tu stessa ieri senza aver commesso alcuna colpa, e presto lo proverai avendone commesse; hanno tutti e quattro questa barbara mania e l'esercitano a turno come punitori. Ogni giorno uno di loro viene eletto reggente di giornata, è lui che riceve i rapporti della decana di camera, è incaricato dell'ordine interno del serraglio, del controllo di tutto quel che succede ai pasti a cui siamo ammesse, valuta le colpe e le punisce personalmente; passiamo in rassegna i vari punti. Dobbiamo essere sempre alzate e vestite alle nove; alle dieci ci portano pane e acqua per colazione; alle due servono il pranzo consistente in una minestra abbastanza buona, un pezzo di bollito, un piatto di verdura, a volte un po' di frutta e una bottiglia di vino in quattro. Regolarmente tutti i giorni, estate e inverno, alle cinque di sera il reggente viene a farci visita; è allora che riceve le delazioni della decana; le lamentele che lei può avanzare riguardano il comportamento delle ragazzè della sua stanza, eventuali sentimenti di malumore o ribellione, il rispetto dell'ora prescritta per alzarsi, l'accurata esecuzione della pulizia personale, l'aver mangiato come si deve e un ipotetico progetto di evasione. Bisogna render conto esatto di tutto, altrimenti rischiamo noi stesse di esser punite. Poi il reggente di giornata passa nel nostro gabinetto e controlla un po' tutto; fatto il suo dovere, è raro che vada via senza essersela spassata con una di noi e spesso con tutte e quattro. Appena è uscito, se non è il nostro turno per la cena, siamo padrone di leggere o chiacchierare, distrarci fra di noi e andare a dormire quando vogliamo; se siamo di turno quella sera con i frati, suona una campana che ci avverte di prepararci; il reggente di giornata viene personalmente a prenderci, scendiamo in quella sala dove ci hai viste e per prima cosa leggiamo l'elenco delle colpe commesse dall'ultima volta che siamo comparse lì; prima le colpe relative all'ultima cena, consistenti in negligenze, freddezza di fronte ai frati al momento di servirli, mancanza di premure, di sottomissione o pulizia; in aggiunta c'è la lista delle colpe commesse in camera nei due giorni secondo il rapporto della decana. Le colpevoli si mettono a turno nel mezzo della sala, il reggente di giornata annuncia la colpa e la pena; poi, spogliate dalla decana o dalla vicedecana se è lei la colpevole, vengono sottoposte dal reggente alla punizione prescritta in maniera così energica che è difficile dimenticarla. Questi scellerati sono così perversi che è quasi impossibile ci sia giorno senza esecuzioni. Terminate queste, hanno inizio le orge, e sarebbe impossibile descrivertele dettagliatamente; possono mai avere una regola capricci così bizzarri? l'importante è non rifiutarsi mai... prevenire tutto, e anche con questo sistema non è che si stia troppo al sicuro. Nel vivo delle orge, si mangia; siamo ammesse al pasto, sempre più delicato e sostanzioso dei nostri; i baccanali ricominciano quando i nostri frati sono mezzo ubriachi; a mezzanotte ci si separa e ognuno è libero di prendersi una di noi per la notte, per cui questa favorita va a letto nella cella di quello che l'ha scelta e torna da noi il giorno dopo; le altre rientrano, trovano la camera in ordine, i letti e il guardaroba a posto. Al mattino a volte, appena sveglie, prima dell'ora di colazione, può essere che un frate ci richieda nella sua cella; è incaricato di questo un converso, che viene in camera nostra e ci conduce dal frate che ci desidera, e quando questi non ha più bisogno di noi o ci riaccompagna in camera lui stesso o incarica il converso. Quel cerbero che pulisce le nostre camere e che a volte ci accompagna è un vecchio converso che conoscerai presto; ha settant'anni, è orbo, zoppo e muto; è aiutato nel servizio della casa da altri tre; uno prepara da mangiare, un altro riassetta le celle dei padri, pulisce dappertutto e aiuta anche in cucina, e il terzo è il portiere che hai visto entrando. Di questi conversi noi vediamo solo quello che ci serve; la minima parola con lui è uno dei peggiori crimini. A volte viene a farci visita il guardiano; allora si usano alcune cerimonie che la pratica t'insegnerà e la cui inosservanza è un crimine, perché il desiderio che essi hanno di scoprirne per aver poi il piacere di punirti è tale che glieli fa moltiplicare ogni giorno.
È raro che Raphaël ci faccia visita senza avere qualche progetto in testa, progetto sempre crudele o innaturale come puoi ben capire. Per il resto siamo sempre chiuse qua dentro, non c'è occasione durante l'anno per cui si possa respirare un po' d'aria, per quanto ci sia un giardino piuttosto grande, ma siccome non è protetto da inferriate hanno paura di un'evasione tanto più pericolosa in quanto, informando la giustizia temporale o spirituale i tutti i crini i che vengono commessi qui, qualcuno vi metterebbe presto riparo. Non osserviamo mai alcuna devozione religiosa; ci è proibito parlarne come pensarci; discorsi di questo tipo costituiscono un torto che più certamente determina la punizione. Questo è quello che posso dirti, mia cara compagna,» aggiunse la nostra decana, «l'esperienza ti farà conoscere il resto; fatti coraggio se puoi, ma rinuncia per sempre al mondo, perché non è mai accaduto che una ragazza uscita da questa casa l'abbia potuto rivedere.»
Quest'ultima frase mi turbò terribilmente, per cui chiesi a Omphale quale fosse la sua vera opinione sulle donne ripudiate.
«Cosa vuoi che ti risponda?» mi disse. «La speranza continuamente infrange questo pensiero maligno, ma tutto mi prova che esse finiscono in una tomba, e mille idee figlie della speranza cercano ogni momento di distruggere questa troppo fatale convinzione. Siamo avvisate al mattino,» proseguì Omphale, «se intendono ripudiarci; il reggente di giornata prima di colazione dice, per esempio: "Omphale, preparate i bagagli, il convento vi ripudia, verrò a prendervi al calar della notte" e poi esce. La ripudiata abbraccia le compagne, promette loro mille e mille volte di aiutarle, di sporgere denuncia e dire a tutti quel che succede qua dentro; suona l'ora, il frate arriva, la donna va via e non si sente più parlar di lei. Tuttavia se capita in un giorno che si è di turno, tutto si svolge normalmente, e l'unica differenza che ho notato è che i frati si stancano di meno, bevono di più e ci lasciano libere prima e nessuna passa la notte con loro».
«Cara amica,» dissi alla decana ringraziandola delle sue istruzioni, «forse avete avuto a che fare con fanciulle incapaci di mantenere la parola... Vogliamo farci questa reciproca promessa? Da parte mia ti giuro su quanto ho di più sacro che o morirò o distruggerò queste infamie. Me lo prometti anche tu?»
«Certamente,» mi rispose Omphale, «ma simili promesse sono inutili; ragazze più grandi di te, forse anche più decise, appartenenti alle famiglie più benestanti della provincia e con titoli maggiori di te, ragazze insomma che avrebbero dato la vita per me, son venute meno ai giuramenti; permetti dunque alla mia crudele esperienza di considerare vano il nostro e di non contarci troppo».
Poi parlammo del carattere dei frati e di quello delle compagne.
«In Europa,» mi disse Omphale, «non esiste un uomo più pericoloso di Raphaël e Antonin; falsità, cattiveria, dispetto, crudeltà, irreligiosità sono le loro qualità naturali e nei loro occhi si legge la gioia solo quando si dedicano completamente a questi vizi. Clément, che sembra il più brusco, è invece il migliore di tutti, e bisogna temerlo solo quando è ubriaco; in questo caso, attenzione a non contrariarlo! Si corrono grossi rischi. Quanto a Jérôme, è naturalmente brutale; con lui sono sicuri schiaffi, calci e pugni, ma una volta spente le sue passioni diventa dolce come un agnello, differenza fondamentale tra lui e i primi due che con tradimenti e atrocità riscaldano le proprie passioni. Per quel che riguarda le ragazze,» aggiunse la decana, «c'è poco da dire; Florette è una bambina quasi deficiente con cui si può fare quel che si vuole; Cornélie è molto viva e sensibile, niente sa consolarla della sua sorte».
Ricevute tutte queste istruzioni, chiesi alla mia compagna se fosse proprio impossibile assicurarsi dell'esistenza o meno di una seconda torre che rinchiudesse altre disgraziate come noi.
«Se esistono, come ne sono quasi certa,» disse Omphale, «non se ne potrebbe venire a conoscenza altro che tramite qualche indiscrezione dei frati, o per mezzo del converso muto che certamente serve loro come noi; ma potrebbe essere pericoloso avere chiarimenti in tal senso. A che servirebbe d'altronde sapere se siamo sole o no, dal momento che non possiamo aiutarci? Se tu poi mi chiedi quale prova ho io al riguardo, ti dirò che parecchi loro discorsi, quando non si controllano, sono sufficienti ad avermi convinto in proposito; una mattina poi, uscendo dalla cella di Raphaël con il quale avevo passato la notte, vidi senza che egli se ne accorgesse il converso muto entrare nella cella di Antonin con una bellissima ragazza di diciassette o diciotto anni che non veniva assolutamente dalla nostra camera. Il confratello appena mi vide la sospinse dentro in fretta, ma feci ugualmente in tempo a vederla; non venne fuori nessuna lamentela e tutto fini lì; forse l'avrei pagata cara, se la cosa si fosse saputa. E dunque certo che altre donne stanno qui come noi e, poiché noi ceniamo con i frati a giorni alterni, tocca a loro quando non è turno nostro, e saranno probabilmente quattro come noi».
Omphale aveva appena finito di parlare che Florette rientrò dalla cella di Raphaël dove aveva passato la notte e, siccome era espressamente vietato alle ragazze di riferire quel che capitava in certe situazioni, trovandoci sveglie ci augurò semplicemente il buongiorno e si sdraiò sfinita sul letto dove restò fino alle nove, ora della sveglia generale. La tenera Cornélie si avvicinò a me, pianse mentre mi guardava... e mi disse:
«Oh mia cara, come siamo disgraziate!»
Ci portarono la colazione, le mie compagne mi spinsero a mangiare un po', e io ubbidii per far loro piacere; la giornata passò molto tranquillamente. Alle cinque, come aveva detto Omphale, il reggente di giornata entrò: era Antonin; mi chiese sorridendo cosa pensassi di quell'avventura, e poiché, restando con gli occhi bassi pieni di lacrime, non rispondevo:
«Si farà, si farà!» disse con un sogghigno, «non esiste una casa in Francia pari alla nostra per l'educazione delle fanciulle».
Fece la sua visita, prese la lista delle mancanze dalle mani della decana che, troppo buona figliola per caricarla, spesso dichiarava che non aveva nulla da dire, e prima di andarsene si avvicinò a me... Rabbrividii, credendo di essere ancora una volta vittima di quel mostro, ma visto che ciò poteva accadere in qualsiasi momento, cosa importava che fosse allora o il giorno dopo? Tuttavia me ne liberai con qualche carezza brutale e lui si lanciò su Cornélie, ordinando che, mentre egli agiva, noi tutte dovevamo star ii ad assecondare le sue passioni. Quello scellerato, colmo di voluttà, non riflutandone di alcun tipo, terminò la sua operazione con quella disgraziata, come aveva fatto con me la sera prima, cioè con le azioni più calcolate di brutalità e depravazione. Queste scene in gruppo si eseguivano molto spesso; si verificava quasi sempre che, mentre un frate godeva con una compagna, le altre tre dovessero stare intorno per infiammare i suoi sensi da ogni lato in modo che la voluttà penetrasse in lui da ogni organo. Mi soffermo su questi osceni particolari perché non debba più tornarci sopra, non essendo mia intenzione dilungarmi sull'indecenza di queste scene. Illustrarne una significa averle presentate tutte, e per quel che riguarda il mio lungo soggiorno in quella casa è mia intenzione parlarvi soltanto degli avvenimenti principali, senza nausearvi in ulteriori particolari. Poiché non era il nostro turno per la cena, restammo piuttosto in pace e le compagne fecero del loro meglio per consolarmi, ma nulla poteva mitigare il mio dolore; invano tentarono, più parlavano dei miei mali e più essi mi apparivano insopportabili.
Il mattino dopo alle nove venne a farmi visita il guardiano, sebbene non fosse reggente di giornata; chiese ad Omphale se cominciassi ad abituarmi e, senza troppo ascoltare la risposta, aprì un cassone del nostro gabinetto e tirò fuori degli abiti femminili.
«Non avete nulla con voi,» mi disse, «quindi pensiamo noi a vestirvi, forse più per noi che per voi stessa; per cui, nessun ringraziamento; oltretutto per me i vestiti sono inutili e sarebbe un inconveniente da poco se lasciassimo le ragazze andar nude come bestie, ma i nostri padri sono persone di mondo che amano il lusso e la bella presenza, dunque bisogna soddisarli».
Buttò sul letto parecchie vestaglie, una mezza dozzina di camicie, alcuni cappelli, calze, scarpe e mi disse di provare ogni cosa; assistette alla mia toletta e non si perse nessuna occasione per toccarmi in maniera indecente. Mi andavano bene tre vestaglie di taffetà e una di tela indiana; mi permise di tenerle e servirmi anche del resto, ricordandomi che tutto questo era della casa e che, andando via dill, dovevo lasciar tutto; la faccenda gli aveva procurato particolari che l'avevano eccitato, per cui mi ordinò di mettermi nella posizione che sapevo esser di suo gusto... Volli chiedergli di risparmiarmi, ma vedendo già la rabbia e la collera nel suo sguardo, ritenni opportuno obbedire e mi misi in posizione... Quel libertino, circondato dalle altre tre ragazze, godette come al solito a disprezzo della norma, della religione e della natura. L'avevo appassionato, mi fece grandi feste a cena, e dovetti passare la notte con lui; le mie compagne si ritirarono e io lo seguii. Non insisto sulle mie repugnanze, signora, e sui miei dolori; potete immaginarveli all'estremo; parlarvene nuocerebbe a quelli che devo ancora raccontarvi. Raphaël aveva una cella deliziosa, ammobiliata con sfarzo e gusto; non mancava nulla che potesse rendere la solitudine sopportabile e consona al piacere. Chiusa la porta, Raphaël si spogliò e mi ordinò di fare lo stesso; si fece a lungo eccitare al piacere con gli stessi mezzi che in genere usava come individuo agente. Posso dire che quella sera svolsi un corso di libertinaggio completo, pari a quello della prostituta più avvezza a certi esercizi impuri. Dopo esser stata padrona, fui di nuovo schiava e dovetti subire quel che avevo fatto subire e se a me non era stata chiesta alcuna indulgenza, io ben presto dovetti implorarla tra amare lacrime; ma si schernì delle mie preghiere, contro i miei movimenti prese le più barbare precauzioni e quando vide che mi dominava, fui trattata per due ore di seguito con una crudeltà senza pari. Non si limitava alle parti destinate a quella funzione, si spingeva dappertutto senza distinzione; i luoghi più lontani tra loro, le rotondità più delicate, nulla sfuggiva al furore del mio carnefice i cui titillamenti di voluttà si modellavano sui sintomi dolorosi colti avidamente dal suo sguardo.
«Mettiamoci sul letto,» mi disse infine, «forse è troppo per te, ma certo per me non abbastanza; non ci si stanca mai di questo santo esercizio, e tutto questo è solo una vaga immagine di quanto vorrei realmente fare».
Ci mettemmo a letto; Raphaël, sempre libertino fu anche altrettanto depravato, e mi rese tutta la notte schiava dei suoi criminali piaceri. Approfittai di quel che mi parve un momento di calma in tutte quelle dissolutezze per supplicano di dirmi se avevo una speranza di poter uscire un giorno di lì.
«Certamente,» mi rispose Raphaël, «tu ci sei entrata per caso; quando saremo tutti e quattro d'accordo sulla tua partenza, te ne andrai, non c'è dubbio».
«Ma,» gli dissi, con l'intenzione di saper qualcosa, «non temete che ragazze più giovani e meno discrete di quel che io non vi giuri di essere per tutta la vita, possano rivelare quel che succede qui?».
«È impossibile,» disse il guardiano.
«Impossibile?»
«Al cento per cento!»
«E perché mai?»
«Oh, questo è un nostro segreto, ma tutto quel che posso dirti è che, discreta o no, ti sarà assolutamente impossibile rivelare nulla di quel che succede qui dentro quando un giorno sarai fuori.»
Detto questo, mi ordinò brutalmente di cambiare discorso e non osai più replicare. Alle sette mi fece ricondurre in camera mia dal converso e, tra quello che mi aveva detto lui e quanto avevo saputo da Omphale, fui purtroppo convinta che era certissimo come nei confronti delle ragazze che abbandonavano la casa venissero prese tremende decisioni, e che esse non parlavano mai perché non potevano, finivano in una tomba. Rabbrividii a lungo a questa terribile idea e riuscii a togliermela dalla testa combattendola con la speranza, e mi illusi come le mie compagne.
In una settimana compii il giro delle visite e in questo modo riuscii facilmente a rendermi conto, con terrore, dei singoli vizi e delle differenti infamie esercitate a turno da ogni frate, ma in tutti come in Raphaël la fiamma del libertinaggio non si accendeva se non con l'eccesso della ferocia e, come se questo vizio dei cuori corrotti dovesse costituire in loro l'organo di tutti gli altri, solo esercitandolo essi venivano coronati dal piacere.
Antonin fu quello che mi fece soffrire di più; è impossibile immaginare fino a che punto quello scellerato fosse crudele nel delirio dei suoi traviamenti. Sempre spinto da quei terribili vizi, essi soli io disponevano al piacere e mantenevano la passione mentre ne godeva, ed essi soli erano capaci di appagano quando giungeva all'ultimo spasimo. Meravigliata che, ciononostante, i mezzi da lui impiegati non giungessero per quanto rigidi a lasciare incinta qualcuna delle sue vittime, chiesi alla nostra decana come riuscisse a preservarsene.
«È lui stesso che distrugge immediatamente il frutto della sua passione,» mi disse Omphale, «appena si accorge di qualcosa ci fa bere per tre giorni di seguito sei grandi bicchieri di una certa tisana che, al quarto giorno, non lascia alcuna traccia delle sue intemperanze; è appena accaduto a Cornélie, a me è successo tre volte, e non provoca alcun inconveniente alla nostra salute, anzi dopo ci si sente anche meglio. Del resto egli è il solo come vedi,» continuò la mia compagna, «con cui si deve temere questo pericolo; l'irregolarità dei desideri degli altri non ci dà motivo di preoccupazione».
Allora Omphale mi chiese se non era forse vero che, fra tutti, Clément era quello che dava meno fastidio.
«Ahimè!» risposi, «in mezzo. a tanti orrori e impurità che ora disgustano, ora suscitano ribellione, è proprio difficile dire cosa sia meno fastidioso; sono nauseata da tutto e vorrei essere già fuori di qui, qualunque sia la sorte che mi attende».
«È possibile che tu venga presto esaudita,» continuò Omphale, «sei venuta qui per caso, non contavano su di te; otto giorni prima del tuo arrivo, ne avevano ripudiata una, e mai si è arrivati a questo se non si era sicuri di un rimpiazzo. Non sono sempre loro stessi a reclutare; hanno degli agenti ben pagati che li servono con fervore; sono quasi certa che da un momento all'altro ne verrà una nuova per cui i tuoi desideri potrebbero anche essere esauditi. D'altronde siamo vicini alla festa; raramente arriva senza apportare qualche novità; essi o seducono alcune fanciulle per mezzo della confessione, o le catturano, ma raramente quest'avvenimento passa senza procurar loro una nuova preda».
Finalmente quella famosa festa arrivò; forse non crederete, signora, all'empia mostruosità messa in opera da questi frati in tale circostanza. Essi pensarono che un miracolo visibile avrebbe raddoppiato lo splendore della loro reputazione e per questo rivestirono Florette, la più piccola e la più giovane di noi, di tutti gli ornamenti della Madonna, la cinsero alla vita con corde invisibili e le ordinarono di tenere le braccia al cielo con aria compunta al momento dell'elevazione. Siccome quella piccola disgraziata creatura era minacciata dei peggiori trattamenti se avesse aperto bocca o non avesse eseguito la sua parte, si comportò meglio che poté e l'inganno ottenne tutto il successo facilmente immaginabile; la folla gridò al miracolo, lasciò ricche offerte alla Madonna, e se andò via più convinta che mai dell'efficacia delle grazie di quella celeste immagine.
I nostri libertini per perfezionare la loro empietà vollero che Florette apparisse a cena nelle stesse vesti che le avevano procurato tanta venerazione, e ciascuno di essi infiammò i suoi odiosi desideri sottomettendola, come ai solito, all'irregolarità dei propri vizi. Eccitati da questo primo crimine quei mostri non si fermarono là; la stesero nuda sopra un gran tavolo a pancia sotto, accesero delle candele, le posero sulla testa l'immagine di Gesù e osarono consumare sulle reni di quella sventurata il più terribile dei nostri misteri. Svenni a quello spettacolo orribile, non ce la feci a tenermi in piedi. Raphaël, visto ciò, disse che per abituarmici dovevo servire da altare a mia volta. Fui presa, stesa nello stesso posto di Florette, e l'infame italiano, con particolari ben più atroci e altrettanto sacrileghi, consumò su di me io stesso orrore che aveva compiuto stilla mia compagna. Ero inebetita, mi portarono a braccia in camera e là piansi tre giorni di seguito amare lacrime per il crimine orribile al quale ero stata sottoposta contro la mia volontà... Quel ricordo mi spezza ancora il cuore, signora, e piango quando ci ripenso; la religione è per me un sentimento prezioso, e tutto quel che l'offende o l'oltraggia apre una ferita nel mio cuore.
Nel frattempo non ci sembrò proprio che la nuova compagna che attendevamo fosse stata scelta tra la folla attirata alla festa; forse l'eventuale recluta era stata destinata all'altro serraglio, ma nulla di nuovo si verificò da noi. Tutto restò immutato alcune settimane; ne erano passate sei dal mio arrivo in quella odiosa casa, quando Raphaël si presentò una mattina alle nove nella sua torre. Sembrava molto eccitato, addirittura aveva uno sguardo sconvolto; ci esaminò tutte, ci piazzò una dietro l'altra nella posizione a lui cara e si fermò particolarmente su Omphale. Restò diversi minuti a contemplarla in quella posizione, si agitò cupamente, si abbandonò a certe sue eccentricità, ma non consumò... Poi la fa rialzare, la fissa a lungo con quello sguardo severo e quei feroci lineamenti, e:
«Ci avete serviti abbastanza,» le dice infine, «vi ripudiamo, vi porto il nostro congedo; preparatevi, verrò a cercarvi al calar della notte».
Ciò detto l'esamina ancora con la stessa aria ed esce bruscamente dalla stanza.
Appena fu uscito, Omphale si gettò tra le mie braccia:
« Ecco il momento che ho più temuto che desiderato,» mi disse fra le lacrime. «Cosa sarà di me, gran Dio?»
Feci il possibile per calmarla, ma non ci riuscii; s'impegnò con i giuramenti più intensi di darsi da fare per liberarci e mettere sotto accusa quei vili, se gliene avessero dato la possibilità, e il modo in cui lei me lo promise non mi fece dubitare che lo avrebbe fatto a meno che non le fosse stato impedito. La giornata passò come al solito e verso le sei Raphaël risali.
«Su,» disse bruscamente a Omphale, «siete pronta?».
«Sì, padre.»
«Allora partiamo.»
«Fatemi abbracciare le compagne.»
«Via, via, è inutile,» disse al frate tirandola per un braccio, «vi aspettano, seguitemi».
Allora chiese se dovesse portare i vestiti con sé.
«Niente, niente,» disse Raphaël, «non sono proprietà della casa? non vi serviranno più».
Poi, riprendendosi come se avesse detto troppo:
«Sono inutili tutti questi vestiti, ve ne farete altri della vostra misura, che vi staranno molto meglio.»
Chiesi al frate se mi permetteva di accompagnare Omphale, solo fino alla porta del convento, ma mi rispose con uno sguardo cosl feroce e duro che mi tirai indietro senza rinnovare la richiesta. La nostra sventurata compagna uscì guardandomi con due occhi pieni d'inquietudine e di lacrime, e subito avvertimmo tutta la pena che quella separazione ci costava. Mezz'ora dopo arrivò Antonin per la cena; Raphaël si presentò un'ora dopo che eravamo scese, aveva un'aria molto agitata, parlò spesso sottovoce con gli altri, ma comunque tutto si svolse come al solito. Eppure notai, come mi aveva avvertito Omphale, che ci fecero risalire molto prima in camera e i frati bevvero più del solito ma si limitarono ad eccitare i loro desideri senza consumarli. Cosa c'era da dedurre? Ci pensai, perché in certe occasioni uno fa attenzione a tutto, ma non riuscii a trarre una conclusione e forse non accennerei a certe sfumature se non mi avessero fatto un'enorme impressione.
Aspettammo quattro giorni notizie di Omphale; convinte ora che non avrebbe mancato ai giuramenti fatti, ora che i crudeli le avessero tolto ogni possibilità di esserci utile, alla fine ci sentimmo disperate e la nostra inquietudine si fece più viva. Il quarto giorno dalla partenza di Omphale, scendemmo a cena come di regola e quale fu la nostra sorpresa nel vedere una nuova compagna apparire da una porta laterale nello stesso istante in cui entravamo noi!
«Ecco colei che la confraternita ha destinato a sostituire l'ultima partita, signorine,» ci disse Raphaël
[Il manoscritto riporta per errore Antonin, corretto poi in Severino, nuovo nome del padre guardiano]. «Abbiate la bontà di star con lei come fosse vostra sorella e di addolcirle il suo destino per quel che dipenderà da voi. Sophie,» mi disse poi il superiore, «siete la più grande e quindi siete nominata decana; ne conoscete i poteri, sappiate svolgerli con scrupolosità».
Avrei voluto rifiutarmi, ma non potendolo, eternamente costretta a sacrificare i miei desideri e le mie volontà a quelli di certi uomini abietti, m'inchinai e gli promisi di fare del mio meglio perché restasse contento.
Alla nuova arrivata furono tolti la mantella e i veli che le coprivano il volto e la testa, e ci apparve una fanciulla di quindici anni, un volto molto interessante e delicato; gli occhi, per quanto umidi di lacrime, ci parvero superbi ed ella li levò su ognuna di noi e devo dire che in vita mia non ho visto mai uno sguardo più languido; aveva lunghi capelli di un biondo cenere che le scendevano sulle spalle con dei boccoli naturali, una bocca fresca e vermiglia, la testa nobilmente eretta e qualcosa di così seducente nell'insieme che era impossibile guardarla senza sentirsi involontariamente attratti verso di lei. Di lì a poco sapemmo da lei stessa (e lo aggiungo qui per parlarne una volta per tutte) che si chiamava Octavie; era figlia di un grosso negoziante di Lyon, educata a Parigi da dove tornava con la governante a casa dei genitori, quando, assalita di notte tra Auxerre e Vermenton, era stata rapita e portata in quella casa, non sapendo che fine avessero fatto e la vettura su cui viaggiava e la donna che l'accompagnava; da un'ora si trovava sola chiusa in uno stanzino in preda alla disperazione, quando fu presa e unita a noi senza che nessun frate le avesse rivolto la parola.
I nostri quattro libertini, in estasi per un istante davanti a quella meraviglia, non ebbero la forza che di ammirarla; il dominio della bellezza impone il rispetto, lo scellerato più
corrotto le rende una specie di culto che trasgredisce poi con rimorso. Ma dei mostri come quelli con cui avevamo a che fare non possono languire sotto certi impedimenti.
«Su, signorina,» disse il guardiano, «fateci vedere, vi prego, se il resto delle vostre bellezze corrisponde a quelle che la natura ha posto cosi abbondantemente sul vostro volto».
E siccome quella bella fanciulla era turbata, arrossiva senza capire cosa volesse dire, il brutale Antonin la prese per un braccio e, tra insulti e bestemmie di una tale indecenza che mi è impossibile ripeterli, le disse:
«Lo capite o no, piccola smorfiosa, che vi vogliamo vedere all'istante completamente nuda?»
Nuove lacrime... nuovi rifiuti, ma Clément prendendola fa sparire in un attimo tutto quel che vela il pudore di questa interessante creatura. Sarebbe stato difficile che le attrattive occultate dalla decenza di Octavie corrispondessero in miglior misura a quelle che il buon costume le permetteva di mostrare. Mai vista certamente una pelle più bianca, mai forma piu bella, e tanta freschezza, innocenza e delicatezza stavano per diventar preda di quei barbari! La natura sembrava averle offerto tanti favori solo perché fossero contaminati da loro; si formò il cerchio intorno a lei e, come avevo fatto io, anche lei lo percorse in tutti i sensi. Antonin brucia, non ce la fa a resistere, un crudele attentato alle sue attrattive rivelate determina l'omaggio e l'incenso fuma ai piedi del dio... Raphaël capisce che è tempo di passare a cose pui serie; anche lui non resiste pii, afferra la vittima, la dispone secondo i suoi desideri; non venendo meno alle sue abitudini, prega Clement di tenerla ferma. Octavie piange, nessuno l'ascolta; quello scellerato italiano ha io sguardo infuocato; padrone del posto che assalirà, si direbbe che esamini il tragitto solo per meglio prevenire le sue resistenze; il tutto senza alcun artificio o preparativo. Anche se l'assalitore è sproporzionato all'assalito, quello non viene meno alla sua conquista; un grido lancinante della vittima ci annuncia infine la sua disfatta. Ma nulla intenerisce il feroce vincitore, e la sventurata viene come me ignominiosamente disonorata senza perdere la sua verginità.
«Mai conquista fu più difficile!» disse Raphaël riposandosi. «Per la prima volta in vita mia temevo di non farcela.»
«La voglio prendere così,» disse Antonin senza farla rialzare, «c'è più di una breccia nella sua difesa e voi ne avete conquistata una sola».
Detto ciò, avanza fieramente al combattimento e in un minuto è padrone del posto; si sentono nuovi lamenti...
«Dio sia lodato!» dice quel mostro orribile, «non sarei stato certo della disfatta se non avessi sentito le lacrime di lei vinta, perché credo al mio trionfo solo quando provoca il pianto».
«In verità,» dice Jérôme, avanzando con la frusta in mano, «non metterò da parte questa dolce abitudine, favorisce meglio i miei intenti»..
Esamina, tocca, tasta, l'aria risuona subito di un sibilo acuto. Quelle belle carni cambiano colore, il colorito roseo più vivo si mischia alla luminosa carnagione lattea, ma quanto allieterebbe forse un istante l'amore, se la moderazione dirigesse le sue manie, diventa inevitabilmente un crimine contro le sue leggi. Nulla frena il perfido frate, più l'allieva si lamenta e più viene fuori la durezza del maestro... tutto è trattato allo stesso modo, a nulla valgono i suoi sguardi; non c'è una sola parte di quel bel corpo che non porti l'impronta della sua barbarie, e il perfido spegne infine la sua passione sulle tracce sanguinanti dei suoi odiosi piaceri.
«Io sarò più dolce,» dice Clément abbracciando la bella e baciandole in modo impuro quella bocca di corallo. «Ecco il tempio dove compirò il mio sacrificio!...»
Altri baci su quella bocca adorabile, modellata da Venere stessa, lo eccitano di più. Costringe quella sventurata fanciulla alle infamie che lo fanno godere e l'organo diletto dei piaceri, il più dolce asilo dell'amore, è macchiato infine con orrore.
Il resto della serata fu simile a quello che già conoscete, ma la, bellezza e l'età acerba di quella fanciulla infiammarono ancor più quegli scellerati, tutte le loro atrocità raddoppiarono e la sazietà, e non certo la pietà, permise a quella sventurata di tornare in camera e riacquistare almeno per qualche ora la calma necessaria. Avrei tanto voluto consolarla almeno quella prima notte, ma costretta come fui a passarla con Antonin mi trovai io piuttosto ad aver bisogno di aiuto; avevo avuto la disgrazia, non certo il piacere, parola direi sconveniente, di eccitare più ardentemente delle altre gli infami desideri di quel depravato e da parecchie settimane ormai passavo quattro o cinque notti nella sua cella. Il mattino dopo rientrando trovai la fanciulla in lacrime, le dissi tutto quel che era stato detto a me per calmarmi, ma non riuscii con lei più di quanto non erano riusciti con me. Non è facile consolarsi per un così improvviso cambiamento del destino; quella fanciulla era ricca di pietà, virtù, onore e sentimento, e il suo stato non le apparve che più crudele. Raphaël, al quale piaceva molto, passò diverse notti con lei e a poco a poco lei fece come le altre e finì per consolarsi con la speranza che tutto finisse un giorno. Omphale aveva avuto ragione nel dirmi che la maggiore età non c'entrava nulla con l'esser ripudiate, la cosa dipendeva solo dal capriccio dei frati o da qualche nuovo arrivo, per cui poteva verificarsi nel giro di otto giorni come dopo vent'anni; Octavie era con noi da solo sei settimane, quando Raphaël venne ad annunciarle la sua partenza... ci fece le stesse promesse di Omphale e sparì come lei senza che noi sapessimo che fine avesse fatta.
Passò un mese senza che arrivasse una sostituta. E nei frattempo, come Omphale, mi potei convincere che non eravamo le sole ragazze che abitavano in quella casa e che un altro edificio ne nascondeva certamente un identico numero; Omphale lo sospettava, ma io ebbi modo di convircerrnene; ecco come accadde. Avevo passato la notte da Raphaël e stavo uscendo come al solito alle sette del mattino, quando un converso vecchio e disgustoso come il nostro, che non avevo mai visto prima, comparve tutt'a un tratto nel corridoio con una ragazza tra i diciotto e i vent'anni, molto bella e ben fatta. Raphaël che doveva riaccompagnarmi, si faceva aspettare; arrivò proprio quando mi trovavo di fronte a quella ragazza che il converso non sapeva dove nascondere, per non farmela vedere.
«Dove portate questa ragazza?» disse furioso il guardiano.
«Da voi, reverendo padre,» disse l'abominevole messaggero. «Vostra Grandezza dimentica che me l'ha ordinato ieri sera?»
«Ma vi ho detto alle nove.»
«Alle sette, monsignore; mi avete detto che la volevate prima della messa.»
E nel frattempo io guardavo questa compagna che mi scrutava con ugual meraviglia.
«Ebbene, non importa,» disse Raphaël riportandomi nella cella e facendo entrare anche quella ragazza. «Ascoltate, Sophie,» aggiunse dopo aver chiuso la porta e fatto aspettare il converso, «questa ragazza in un'altra torre ha io stesso incarico che voi avete nella vostra, è una decana; non c'è niente di male che due decane si conoscano e affinché la conoscenza sia completa, Sophie, ti presenterò la nostra Marianne tutta nuda».
Questa Marianne, che mi parve una ragazza molto sfacciata, si spogliò subito e Raphaël mi ordinò di eccitare i suoi desideri mentre sottoponeva l'altra ai suoi particolari piaceri davanti a me.
«Questo volevo da lei,» disse l'infame appena fu soddisfatto, «basta che passi una notte con una donna per desiderarne al mattino una diversa; niente è insaziabile quanto i nostri gusti, più si sacrifica e più essi si riscaldano; benché sia sempre la stessa cosa, ci s'immagina sempre nuovi piaceri, e quando la sazietà spegne i nostri desideri con una, contemporaneamente lo stesso libertinaggio li infiamma con l'altra. Siete due ragazze degne di fiducia, tacerete entrambe; via Sophie, andate, il converso vi accompagnerà; ho qualche a'ltro mistero da celebrare ancora con la vostra compagna».
Promisi il segreto che si esigeva da me e me ne andai, ormai certa che non eravamo le sole a servire ai piaceri mostruosi di quegli sfrenati libertini.
Nel frattempo fu sostituita Octavie; una contadinella di dodici anni, fresca e graziosa ma inferiore a lei, fu l'oggetto messo al suo posto; nel giro di due anni divenni la più anziana. Florette e Cornélie andarono via a loro volta, giurandomi come Omphale di farmi avere notizie e non riuscendovi come quella sventurata; l'una e l'altra furono rimpiazzate, Florette da una digionese di quindici anni, una ragazza paffuta che aveva come uniche doti la freschezza e l'età; Cornélie da una ragazza di Autun di famiglia nobilissima e di singolare bellezza. Quest'ultima, di sedici anni, aveva fortunatamente distolto Antonin da me, ma mi accorsi che, se ero stata cancellata dalla lista delle predilette di qual libertino, stavo perdendo interesse anche presso gli altri. L'incostanza di quegli sciagurati mi fece rabbrividire sulla mia sorte, era come un preavviso del mio ripudio, ed ero ormai certa che quel ripudio significava la morte; ne fui per un momento allarmata. Un momento! Infatti, me sventurata, come potevo tenere alla vita in quelle condizioni! Non era meglio morire? Certi pensieri mi consolarono, e mi fecero aspettare la mia sorte con tanta rassegnazione che non usai alcun mezzo per far risalire ii mio credito. Ero trattata malissimo, tutti si lamentavano di me, e non passava giorno che non fossi punita; pregavo e attendevo la sentenza; stavo forse per riceverla quando la mano della provvidenza, stanca di tormentarmi sempre alo stesso modo, mi strappò da quel nuovo abisso, per farmi precipitare subito in un altro. Non anticipiamo gli avvenimenti e cominciamo a raccontarvi quello che ci liberò tutti infine dalle mani di quei particolari depravati.
Gli spaventosi esempi dei vizio ricompensato dovevano realizzarsi anche ín quella circostanza, come mi era sempre capitato in ogni avvenimento della mia vita; era scritto che quelli che mi avevano tormentato, umiliato, resa schiava, ricevessero sempre sotto il mio sguardo il premio per i loro misfatti, come se la provvidenza si fosse assunta il compito di mostrarmi l'inutilità della virtù; funesta lezione che non mi fece cambiare idea e che, anche se dovessi scampare alla spada che incombe su di me, non m'impedirebbe di seguitare ad esser schiava di questa divinità del mio cuore.
Un mattino, senza che ce l'aspettassimo, arrivò nella nostra camera Antonin e ci annunciò che il reverendo padre Raphaël, parente e protetto del Santo Padre, era stato nominato da Sua Santità generale dell'ordine di San Francesco.
«Ed io, bambine mie,» ci disse, «passo al guardianato di Lyon; due nuovi padri ci sostituiranno subito, forse arriveranno in giornata; non li conosciamo, probabile che vi rispediscano ognuna a casa vostra come pure che restiate, ma qualunque sarà la vostra sorte, vi consiglio, per il vostro bene e per l'onore dei due frati che lasciamo qui, di nasconderei particolari della nostra condotta e di confessare solo quello che è impossibile nascondere».
Una notizia così favorevole non ci permetteva di rifiutare a quel frate quanto sembrava desiderare; promettemmo e il libertino volle ancora dare i suoi addii a tutte e quattro. La fine ormai prossima delle disgrazie ce ne fece sopportare gli ultimi colpi senza lamentarci; non ci rifiutammo in nulla ed egli uscì separandosi per sempre da noi. Ci fu servito il pranzo come al solito; verso le due, il padre Clement entrò in camera con due religiosi venerabili per l'età e l'aspetto.
«Capirete bene, padre mio,» disse uno dei due a Clément, «che questa dissolutezza è orribile e che è proprio strano che il cielo l'abbia sopportata così a lungo».
Clément convenne umilmente su tutto, sì scusò che né lui né i suoi confratelli avessero rinnovato qualcosa, ma del resto avevano trovato gli uni e gli altri ogni cosa allo stato in cui ne facevano le consegne; in verità i soggetti variavano, ma essi avevano trovato ugualmente già stabilita questa variazione, per cui non avevano fatto altro che seguire l'uso indicato dai loro predecessori.
«D'accordo,» riprese lo stesso padre che mi sembrò essere il nuovo guardiano e che lo era in effetti, «d'accordo, ma eliminiamo in gran fretta questa esecrabile depravazione, padre mio; essa farebbe risentire le persone di mondo, figuratevi cosa deve essere per dei religiosi».
Allora questo padre ci chiese cosa volevamo fare. Tutte risposero che desideravano tornare o al proprio paese o presso i propri familiari.
«Sarà fatto, bambine mie,» disse il frate, «e sarà consegnata a ciascuna di voi la somma necessaria per tornarci, ma dovrete partire una alla volta, a due giorni di distanza, sole, a piedi e non dovrete rivelare mai quel che è accaduto in questo luogo».
Lo giurammo... ma il guardiano non si contentò di quel giuramento, ci esortò ad accostarci ai sacramenti; nessuna si rifiutò e là, ai piedi dell'altare, ci fece giurare che non avremmo mai rivelato quanto era accaduto nel convento. Io lo feci come le altre e se ora infrango la promessa con voi, signora, è perché colsi subito lo spirito e non la lettera del giuramento voluto da quel buon prete; il suo scopo era che non sporgessimo mai alcuna denuncia e io sono certa, raccontandovi queste disavventure, che non accadrà mai nulla di fastidioso per l'ordine di quei padri. Le mie compagne partirono per prime, e siccome ci era proibito darci un appuntamento e fummo separate fin dall'arrivo del nuovo guardiano, non ci rivedemmo più. Avevo chiesto di andare a Grenoble, e mi dettero due luigi per arrivarci; presi i vestiti che avevo quando ero arrivata in quel luogo, vi ritrovai gli otto luigi che mi restavano ancora, e contenta di fuggire finalmente e per sempre quel covo nauseante del vizio, e di andarmene in modo cosi sereno e inatteso, m'inoltrai nella foresta e mi ritrovai sulla strada di Auxerre nello stesso punto in cui l'avevo abbandonata per gettarmi da sola nei guai, esattamente tre anni dopo quella sconsideratezza; tra qualche settimana avrei compiuto venticinque anni. Prima di tutto volli inginocchiarmi e domandare nuovamente perdono a Dio per le mancanze involontarie che avevo commesso; lo feci anche con maggior compunzione di quella mostrata presso gli altari contaminati di quell'infame luogo da me abbandonato con tanta gioia. Lacrime di pentimento colarono poi dai miei occhi: "Ahimè!" mi dissi, "ero pura quando abbandonai que sta strada, sospinta da uno spirito di devozione così funestamente ingannato... e in che triste stato posso ora contemplare me stessa!" Acquietati un po' quei lugubri pensieri dal piacere di vedermi libera, ripresi il cammino. Per non annoiarvi oltre, signora, con particolari che temo possano spazientirvi, mi fermerò solo, se siete d'accordo, sugli avvenimenti o che fecero conoscere elementi essenziali o che cambiarono nuovamente il corso della mia vita. Mi stavo riposando alcuni giorni a Lyon e il mi capitò sotto gli occhi un giornale straniero della donna presso cui abitavo e quale non fu la mia meraviglia nel vedervi premiato uno dei principali autori dei miei mali. Rodin, quell'infame che mi aveva così crudelmente punita per avergli impedito un assassinio, costretto evidentemente ad abbandonare la Francia per averne commessi altri, stava per esser nominato, secondo quel giornale, primo chirurgo del re di Svezia con una notevole retribuzione. "Beato quello scellerato!" mi dissi, "goda, visto che la provvidenza lo vuole, e tu sventurata creatura, soffri soltanto, soffri senza lamentarti, perché è scrtto che tribolazioni e pene siano il doloroso destino della virtù."
Tre giorni dopo andai via da Lyon e presi la strada del Delfinato, piena della folle speranza che un po' di prosperità mi attendesse in quella provincia. Mi ero allontanata solo due leghe da Lyon, viaggiando sempre a piedi come era mia abitudine, con un paio di camicie e qualche fazzoletto in tasca, quando incontrai una vecchia che mi si avvicinò con aria addolorata e mi scongiurò di farle la carità. Compassionevole per natura, non conoscendo azione più piacevole del fare del bene a qualcuno, tiro fuori subito la mia borsa per prendervi qualche moneta e darla a quella donna, ma l'indegna creatura, più lesta di me, benché l'avessi giudicata vecchia e malandata, mi strappa la borsa, mi butta in terra con un tremendo, colpo allo stomaco, e quando mi riprendo me la ritrovo a cento passi più avanti, attorniata da quattro briganti che mi fanno gesti ,minacciosi al minimo tentativo di avvicinarmi... "Oh santo cielo!" esclamo tra di me amaramente, "è dunque impossibile che un qualunque sentimento di virtù possa esser concepito da me senza che immediatamente non venga punito dalle più crudeli sventure temibili a questo mondo?". In quel triste momento tutto il mio coraggio era sul punto di abbandonarmi. Oggi ne chiedo perdono al cielo, ma la ribellione stava quasi per impadronirsi dei mio cuore. Due scelte detestabili mi si offrivano; potevo unirmi ai briganti che mi avevano poco prima così gravemente danneggiata o tornare a Lyon e darmi al libertinaggio... Dio mi fece la grazia di non soccombere e sebbene la speranza che egli accese nuovamente nel mio animo non fosse che l'aurora di avversità ancor più terribili, ancora lo ringrazio per avermi sostenuta. La catena delle sventure che oggi mi trascina, pur innocente, al patibolo, mi varrà solo la morte; altre risoluzioni mi avrebbero procurato onta, rimorsi, infamia; era meno crudele quella prescelta.
Proseguii la mia strada decisa a vendere a Vienne quella poca biancheria che ancora avevo per poter raggiungere Grenoble. Camminavo tutta triste, quando a un quarto di lega da quella città vidi nella pianura, sulla destra della strada, due uomini a cavallo calpestarne un terzo con gli zoccoli dei cavalli e, abbandonatolo moribondo, scappare a briglia sciolta. Uno spettacolo raccapricciante che mi commosse fino alle lacrime... "Ahimè!" mi dissi, "ecco uno sventurato da compiangere più di me; a me resta almeno la salute e la forza con cui guadagnarmi da vivere, ma quello, se non è ricco e vive come me, che farà ora storpiato com'è?". Avrei dovuto star lontana da certi sentimenti di commiserazione, per come ne ero stata da poco terribilmente punita, ma non ce la feci a trattenermi. Mi avvicino a quel moribondo; gli faccio annusare un po' di elisir che avevo con me; riprende, i suoi primi gesti esprimono riconoscenza e mi convincono a proseguire le mie cure; strappo una mia camicia per fasciano, uno dei pochi capi di vestiario rimastimi per vivere, la faccio a pezzi per quell'uomo, tampono il sangue che sgorga da alcune ferite, gli dò da bere un po' di vino che mi era rimasto in una fiaschetta per rianimarmi durante il viaggio nei momenti di stanchezza, e uso il resto per ripulire le contusioni. Quello sventurato infine riprende improvvisamente le forze e il coraggio; anche se a piedi e modestamente equipaggiato, non mi sembrava di mediocre condizione, aveva indumenti di pregio, anelli, un orologio e altri gioielli, alquanto ammaccati per la disavventura capitatagli. Appena può parlare mi domanda qual è l'angelo benefico che lo ha soccorso e cosa può fare per testimoniare la sua gratitudine. Sempre fiduciosa che un'anima legata a me dalla riconoscenza lo dovesse essere senza un secondo scopo, credetti di poter godere tranquillamente del dolce piacere di far condividere le mie lacrime a chi ne aveva versate tra le mie braccia, gli raccontai le mie sventure, lui le ascoltò con interesse e quando ebbi finito con l'ultima catastrofe capitatami poco prima, il cui resoconto gli rivelò il crudele stato di miseria nel quale mi trovavo:
«Come sono felice,» esclamò, «di poter almeno essere riconoscente di quanto avete fatto per me! Mi chiamo Dalville,» continuò lo sventurato, «ho un bel castello sulle montagne a quindici leghe da qui; se volete seguirmi, vi propongo di rifugiarvi li, e perché questa offerta non urti la vostra suscettibilità, vi spiegherò subito in cosa potrete essermi utile. Sono sposato, mia moglie ha bisogno di una donna fidata; ultimamente abbiamo mandato via un cattivo soggetto, vi offro il suo posto».
Ringraziai umilmente il mio protettore e gli chiesi perché mai un uomo come lui si azzardasse a viaggiare senza scorta e si esponesse in quel modo a quanto gli era capitato, ad essere aggredito da briganti.
«Ancor giovane e forte, sono però un po' grasso e da un po' di tempo,» mi dice Dalville, «ho preso l'abitudine di andare da casa mia a Vienne in questo modo; ne guadagnano la salute, e la borsa. Non che ni trovi in una situazione tale da dover risparmiare, grazie a Dio sono ricco e ne avrete ben presto la prova se mi userete la gentilezza di venire a casa mia. Quei due uomini, con cui mi avete visto scontrare, sono due nobilucci della contrada, padroni solo della cappa e della spada, uno guardia del corpo, l'altro gendarme, insomma due scrocconi; gli avevo vinto la settimana scorsa cento luigi in una casa di Vienne; non pretesi neanche una minima parte della somma, mi fidai della loro parola, ma oggi incontrandoli ho richiesto quanto mi dovevano... e avete visto come mi hanno pagato».
Deplorai con quell'onesto gentiluomo la doppia disgrazia di cui era vittima, e lui propose di rimetterci in cammino.
«Mi sento un po' meglio grazie a voi,» disse Dalville, «si avvicina la notte, raggiungiamo una locanda a due leghe da qui; domani mattina noleggeremo due cavalli e in serata arriveremo a casa mia».
Decisa ad approfittare dell'aiuto che il cielo sembrava inviarmi, aiuto Dalville a rialzarsi e, alla larga da qualsiasi sentiero battuto, procediamo lungo sentieri appena tracciati verso le Alpi. Raggiungiamo effettivamente dopo circa due leghe la locanda indicata da Dalville, ceniamo allegramente e tranquillamente insieme; dopo mangiato raccomanda alla padrona della locanda di farmi dormire con lei e ii giorno dopo su due muli presi a nolo scortati a piedi da un cameriere della locanda, raggiungiamo le frontiere del Delfinato dirigendoci sempre verso le montagne. Dalville, piuttosto malconcio, non poté sopportare l'intero tragitto e la cosa non mi dette fastidio, perché anch'io, poco abituata a procedere in quel modo, non me la sentivo. Ci fermammo a Virieu, dove provai le stesse cure e gli stessi sentimenti di onestà della mia guida, e il giorno dopo seguitammo il cammino sempre nella stessa direzione. Verso le quattro del pomeriggio arrivammo ai piedi delle montagne; la strada diventava quasi impraticabile, Dalville raccomandò al mulattiere di non lasciarmi, aveva paura di un incidente, e ci inoltrammo nelle gole; per quattro leghe non facemmo che svoltare e salire e, lasciate ormai alle nostre spalle ogni abitazione o strada battuta da essere umano, mi sembrava di stare in capo al mondo. Involontariamente allora cominciai a sentirmi un po' inquieta. Perduta tra quelle rocce ineapugnabili, mi ricordai della foresta del convento di Sainte-Marie-des-Bois e l'avversione nata in me per i luoghi solitari mi fece allora rabbrividire. Infine scorgemmo un castello arroccato sul bordo di un pericoloso precipizio e che, come in bilico in cima alla scarpata dalle rocce, dava più l'idea di una dimora di fantasmi che di una casa di persone civili. Vedevamo il castello, ma neanche un sentiero che ci arrivasse; quello che seguivamo, battuto soltanto dalle capre, ingombro di sassi, vi arrivava, ma dopo diverse giravolte. «Ecco casa mia!» mi disse Dalville, appena capì che era ormai sotto il nilo sguardo; e quando gli esposi la mia meraviglia nel vederlo abitare in tanta solitudine, mi rispose che uno abita dove può. Quel tono mi colpi e spaventò; nella sventura nulla sfugge, un'inflessione più o meno dura da parte di quelle persone da cui dipendiamo soffoca o rianima la speranza; ma feci finta di nulla, visto che non potevo più tirarmi indietro... Infine a forza di girare intorno a quella vecchia stamberga, ce la trovammo di fronte tutt'a un tratto; Dalville scese dalla mula e avendomi detto di fare altrettanto, le riconsegnò ambedue al cameriere, pagò e gli ordinò di andarsene, altro particolare che mi colpi sommamente. Dalville si accorse del mio turbamento.
«Che avete, Sophie?» mi disse incamminandosi a piedi verso l'abitazione. «Non siete mica fuori di Francia, il castello è proprio sulle frontiere del Delfinato, ma è sempre Francia».
«Non lo metto in dubbio, signore,» risposi, «ma come potete aver deciso di abitare in un simile covo da briganti?».
«Covo da briganti, no,» mi disse Dalville guardandomi in modo sempre più strano man mano che ci avvicinavamo, «non è affatto un covo da briganti, bambina mia, ma non è neanche una casa di persone oneste».
«Oh, signore,» risposi, «mi fate paura! dove mi portate?»
«Ti porto al servizio dei falsari, puttana,» mi disse Dalville afferrandomi per un braccio e facendomi attraversare di peso un ponte levatoio che si abbasò al nostro arrivo e si richiuse subito alle nostre spalle. «Eccotici!» aggiunse quando fummo nel cortile. «Vedi quel pozzo?» continuò indicandomi una grande e profonda cisterna vicina alla porta, di cui due donne nude e incatenate facevano girare la ruota che versava acqua in un serbatoio. «Ecco le tue compagne ed ecco il tuo lavoro; lavorerai dodici ore al giorno a quella ruota e come le tue compagne sarai bene e debitamente battuta ogni volta che ti fermerai, ti saranno date sei once di pane nero e un piatto di fave al giorno. Quanto alla tua libertà, rinunciaci! non rivedrai più il cielo. Quando sarai morta dalla fatica, sarai gettata in quella fossa che vedi vicino al pozzo, sopra trenta o quaranta altre che già stanno lì e sarai sostituita.»
«Santo cielo, signore!» esclamai gettandomi ai piedi di Dalville, «degnatevi di ricordare che vi ho salvato la vita, che per un istante, spinto dalla riconoscenza, sembraste offrirmi il benessere, e certo non mi aspettavo questo!»
«Scusa, sai, ma che intendi per sentimento di riconoscenza, al quale tu immaginavi di avermi costretto?» disse Dalville. «Ragiona un po', meschina, che stavi facendo tu quando mi hai soccorso? Tra la possibilità di andare per la tua strada e quella di venire con me, hai scelto quest'ultima perché così il tuo cuore ti diceva... Ti davi dunque a un godimento? E come diavolo pretendi che io sia obbligato a ricompensarti dei piaceri che ti sei concessa? E come ti è saltato in mente che un uomo come me che naviga nell'oro e nell'opulenza, un uomo ricco di più di un milione di rendita, prossimo ad andare a Venezia per vivere beatamente, si degni di abbassarsi a dover qualcosa a una miserabile come te? M'avessi anche ridata la vita, non ti dovrei nulla perché tu ti saresti data da fare solo per te.
Al lavoro, schiava, al lavoro! Impara che la civiltà, pur sovvertendo le leggi di natura, non le ha tolto i suoi diritti; all'origine essa creò esseri forti ed esseri deboli, e sua intenzione fu che questi fossero sempre sottomessi agli altri come l'agnello al leone, l'insetto all'elefante; la scaltrezza e l'intelligenza dell'uomo sconvolse la posizione degli uomini; non più la forza fisica determinò il rango, ma quella basata sulla ricchezza. L'uomo più ricco divenne il più forte, il più povero il più debole, ma per quanto riguardava la determinazione del potere, la prevalenza del forte sul debole fu sempre nelle leggi di natura, per la quale era indifferente che la catena del debole fosse tenuta dal più ricco o dal più forte e che essa incatenasse il più debole o il più povero. Certi sentimenti di riconoscenza che tu pretendi, Sophie, essa li ignora; non è mai rientrato nelle sue leggi che il piacere a cui uno si abbandoni costituisca per costui un motivo per campare diritti sugli altri. Vedi forse negli animali che ci servono d'esempio quei sentimenti di cui ti vanti? Se io ti domino con la mia ricchezza o la mia forza, ti sembra naturale che ti ceda i miei diritti o perché tu hai assecondato te stessa o perché la tua politica ti ha spinto a redimerti servendomi? Ma anche se ii servizio fosse stato reso da uguale a uguale, mai l'orgoglio di un'anima si abbasserà alla riconoscenza. Non è sempre umiliato chi riceve da un altro, e questa umiliazione che prova non ripaga già sufficientemente l'altro del servizio reso? e non è un piacere per l'orgoglio elevarsi al di sopra del proprio simile? Cos'altro pretende chi compie un servizio? E se l'obbligo, umiliando l'orgoglio di chi riceve, diventa un peso per lui, con quale diritto costringerlo a conservarlo? Perché devo acconsentire a lasciarmi umiliare ogni volta che incontro lo sguardo di chi mi ha reso un servizio? L'ingratitudine, anziché essere un vizio, è dunque la virtù delle anime orgogliose come la riconoscenza lo è delle anime deboli; lo schiavo la dimostra al suo padrone perché ne ha bisogno, ma costui, meglio guidato dalle passioni e dalla natura, deve solo considerare chilo serve o lo lusinga. Uno sia generoso finché vuole se gli fa piacere, ma non pretenda poi nulla per il suo godimento.»
Dalville non mi dette neanche modo di rispondere a quelle parole; due servi mi presero a un suo ordine, mi spogliarono e m'incatenarono con le mie due compagne, costretta ad aiutarle da quella sera, senza che mi fosse permesso di riposarmi del faticoso viaggio compiuto. Era solo un quarto d'ora che mi trovavo a quella fatale ruota, quando tutta la banda dei falsari, che aveva finito di lavorare per quel giorno, si fermò intorno a me per esaminarmi con il capo in prima fila. Tutti mi coprirono di sarcasmi e impertinenze per il marchio infamante che portavo senza colpa sul mio corpo disgraziato; si avvicinarono, mi toccarono brutalmente dappertutto, criticando con battute mordaci quanto involontariamente offrivo alloro sguardo. Finita questa scena dolorosa, si allontanarono un poco; Dalville allora, impugnata una lunga frusta che stava sempre vicino a noi, me ne affibbio con tutta la forza delle braccia cinque o sei colpi su ogni parte del mio corpo.
«Ecco come sarai trattata, sgualdrina,» mi disse frustandomi, «se disgraziatamente mancherai al tuo dovere; non ti faccio questo per una tua mancanza, ma solo per mostrarti come tratto quelle che non obbediscono».
Ogni colpo mi toglieva la pelle, non avevo provato mai dolori così acuti né tra le mani di Bressac né nelle celle dei barbari frati; lanciai alte grida contorcendomi sotto le catene; urla e contorsioni provocarono il riso di quei mostri che stavano lì a guardare, ed io là ebbi la crudele soddisfazione di capire che se esistono uomini che, spinti dalla vendetta o da indegne voluttà, possono divertirsi per il dolore altrui, ve ne sono di quelli così barbari da godere gli stessi incanti senz'altro motivo che l'appagamento dell'orgoglio o la curiosità pii sfrenata. L'uomo dunque è per sua natura malvagio, e lo manifesta nel delirio delle sue passioni così come nella loro quiete, e in ogni caso i mali di un suo simile possono diventare per lui esecrabili godimenti.
Intorno al pozzo c'erano tre bugigattoli oscuri e separati l'uno dall'altro, chiusi come prigioni; uno dei servi che mi avevano incatenata indicò il mio e là mi ritirai dopo aver preso la mia porzione d'acqua, di fave e pane. Finalmente potei abbandonarmi a riflettere sull'orrore della mia situazione. "È mai possibile," dicevo a me stessa, "che esistano uomini così barbari da soffocare il sentimento della riconoscenza, virtù alla quale mi concederei con gioia, se un'anima onesta mi desse la possibilità di provarla? come può essere ignorata dagli uomini? È un mostro chi la soffoca così inumanamente!". Immersa in questi pensieri piangevo, quando all'improvviso si apri la porta della mia prigione; era Dalville. Senza parlare, senza dire neanche una parola, mette a terra la candela che ha in mano, si getta su di me come una bestia feroce, mi sottomette ai suoi desideri, mi picchia perché io cerco di resistergli, disprezza ogni opposizione del mio animo, si soddisfa brutalmente, riprende la candela, scompare chiudendo la porta alle sue spa!le. "Ebbene," mi dico, "si può forse spingere l'oltraggio più in là? e che differenza può esserci tra un simile uomo e l'animale meno domestico della foresta?"
Il sole sorge senza che io abbia potuto riposarmi un istante, vengono aperte le prigioni, c'incatenano di nuovo e riprendiamo la nostra penosa fatica. Le mie compagne erano due ragazze tra i venticinque e i trent'anni che, pur abbrutite dalla miseria e distrutte dalle eccessive sofferenze fisiche, mostravano ancora qualche traccia della loro bellezza; avevano un bel corpo aggraziato e capelli ancora splendidi. Dal triste colloquio che ebbi con loro, venni a sapere che in epoche diverse erano state amanti di Dalville, una a Lyon e l'altra a Grenoble; condotte in quel luogo orribile, erano vissute ancora per alcuni anni come sue pari, ma poi per ricompensa dei piaceri che gli avevano procurato, erano state condannate a quell'umiliante lavoro. Seppi da loro che attualmente aveva un'amante meravigliosa che, più fortunata di loro, l'avrebbe seguito certamente a Venezia dove lui stava per trasferirsi se le considerevoli somme che aveva trasferito ultimamente in Spagna gli avessero fruttato le cambiali che aspettava per l'Italia, dal momento che non voleva portare il suo oro a Venezia; egli non ne spediva mai, ma tramite alcuni corrispondenti trasferiva le monete false in un paese diverso da quello in cui voleva andare a vivere, in modo che, una volta là, usando cartavaluta proveniente da un altro regno, il losco traffico non veniva mai scoperto e la sua ricchezza restava ben solida. Ma tutto poteva andare a rotoli da un momento all'altro, e il suo meditato ritiro dagli affari dipendeva da quell'ultimo che aveva in piedi e nel quale aveva impegnato quasi tutti i suoi tesori; se Cadice accettava le sue piastre e i suoi luigi falsi e gli spediva in cambio dell'ottima cartavalori su Venezia, avrebbe vissuto beatamente per ii resto dei suoi giorni. "Ahimè!" mi dissi allora venendo a conoscenza di certi particolari, "la provvidenza sarà giusta almeno una volta! non permetterà che un simile mostro ce la faccia! Saremo vendicate tutte e tre!" Verso mezzogiorno ci venivano concesse due ore di riposo e noi ne approfittavamo per andare, sempre separatamente, a riprender fiato e mangiare nelle nostre celle; alle due ci rincatenavano e ci facevano girare fino a notte senza permetterci di entrare mai nel castello. Il motivo per cui dovevamo stare nude per cinque mesi l'anno era il caldo incompatibile con il lavoro stressante che facevamo e anche, a quanto mi assicurarono le compagne, per essere più facilmente raggiunte dai colpi che ogni tanto ci affibbiava il nostro truce padrone. D'inverno ci davano i calzoni e una maglia, una specie di divisa molto aderente al corpo in modo da esporre altrettanto facilmente il disgraziato corpo ai colpi del nostro carnefice. Dalville non si fece più vedere quel primo giorno, ma verso mezzanotte fece la stessa cosa della sera precedente. Cercai di approfittare di quel momento per supplicano di mitigare la mia sorte.
«E con che diritto?» mi rispose quel barbaro, «perché voglio togliermi una voglia con te? Ti ho forse implorato in ginocchio di accordarmi quei favori per i quali tu possa pretendere una ricompensa? Non ti chiedo proprio nulla... io prendo e non vedo come, esercitando un mio diritto su di te, debba astenermi dal prenderne un altro; Nel mio atto non c'è amore, sentimento mai provato dal mio cuore. Mi servo di una donna perché ne ho bisogno, come ci si può servire di un vaso per un diverso bisogno, ma senza accordare stima o tenerezza a questo essere sottomesso ai miei desideri col denaro o l'autorità; dovendo solo a me stesso quel che prendo e non esigendo da lei altro che sottomissione, non mi pare proprio che debba accordarle una qualsiasi gratitudine. Forse un ladro quando strappa la borsa ad un uomo in un bosco, perché è più forte di lui, deve essergli riconoscente per il torto che gli usa? La stessa cosa vale per l'oltraggio fatto ad una donna: può costituire un titolo sufficiente per fargliene un secondo, ma mai una ragione sufficiente per accordarle un risarcimento».
Dalville, una volta soddisfatto, uscì bruscamente dicendo queste parole e mi fece sprofondare in nuovi pensieri che, come potete ben capire, erano contro di lui. La sera venne a vederci lavorare e ritenendo che non avevamo fornito per quel giorno la quantità d'acqua sufficiente, impugnò la sua crudele frusta e ci fece sanguinare tutte e tre, senza che questo gli impedisse (benché non fossi stata risparmiata più delle altre) di venire anche quella notte da me e comportarsi come aveva fatto le altre volte. Gli mostrai le ferite di cui mi aveva ricoperta, osai ricordargli di nuovo come avessi strappato la mia biancheria per curare le sue, ma Dalville mentre godeva rispondeva ai lamenti con una dozzina di schiaffi e mi copriva d'insulti, lasciandomi come al solito appena si era soddisfatto. Questo andazzo durò quasi un mese, dopodiché ricevetti dal mio carnefice la grazia almeno di non essere più esposta al tremendo tormento di vederlo prendere quanto egli era così poco adatto a ottenere. La mia vita non cambiò peraltro, non ebbi né minori né maggiori dolcezze, né migliori né peggiori trattamenti.
Passò un anno in questa crudele situazione, quando nella casa si diffuse la voce che non solo si era realizzata la fortuna di Dalville, ricevendo da Venezia l'immensa quantità di cartavaluta desiderata, ma inoltre gli era stato richiesto qualche altro milione di moneta falsa da cambiare in cartavaluta buona, secondo il suo volere, a Venezia. Quello scellerato non avrebbe potuto fare una fortuna più brillante e insperata; partiva con un milione abbondante di rendita, senza calcolare quanto poteva ancora sperare di ottenere;
era un nuovo esempio che la provvidenza mi preparava, un nuovo modo con cui voleva ancora convincermi che il benessere si accompagna al crimine e la sventura alla virtù.
Dalville si preparava a partire, venne a vedermi la sera prima verso mezzanotte, cosa che non succedeva da tempo; lui stesso mi annunciò la sua fortuna e la partenza. Mi gettai ai suoi piedi, lo scongiurai con le preghiere più vive di liberarmi e darmi qualche soldo per andare, a Grenoble.
«A Grenoble mi denunceresti.»
«Ebbene, signore», gli dissi bagnando di lacrime le sue ginocchia, «vi giuro che non ci andrò; per essere più sicuro, portatemi con voi a Venezia; là forse troverò cuori meno duri che in patria, e una volta che mi ci avrete portata, vi giuro su quanto ho di più sacro che non v'iniportunerò mai.»
«Non ti darò il minimo aiuto, neanche uno scudo», replicò duramente quel gran farabutto, «qualsiasi elemosina o carità mi ripugna in modo tale che, anche se mi vedessi ricoperto d'oro tre volte più di quanto io sono, non acconsentirei a regalare mezzo soldo a un poveraccio; su questo ho dei principi da cui non mi allontanerò mai. Il povero rientra nell'ordine della natura; creando uomini di forze diverse, essa ci ha fatto capire che desiderava che tale disuguaglianza restasse anche nel mutamento portato dalla civiltà alle sue leggi. Il povero sostituisce il debole, te l'ho già detto, aiutarlo significa annullare l'ordine stabilito, opporsi a quello della natura, ribaltare l'equilibrio che è alla base dei suoi più sublimi ordinamenti. Significa operare per una disuguaglianza pericolosa alla società, significa incoraggiare l'indolenza e l'ozio, significa insegnare al povero a derubare l'uomo ricco qualora costui rifiuti di aiufarlo, e questo perché il povero sarebbe abituato a ricevere un aiuto senza lavorare.»
«Oh signore, che rigidi principi! parlereste a questo modo se non foste ricco?»
«E chi ti dice che lo sia sempre stato, ma
ho saputo guidare il mio destino, ho saputo calpestare il fantoccio della virtù che non porta altro che alla forca o all'ospizio, ho saputo capire a tempo che la religione, la beneficenza e l'umanità erano pietre che sicuramente ostacolavano chi desiderava il benessere e ho saputo costruire il mio sui frantumi dei pregiudizi umani. Disprezzando le leggi divine ed umane, sacrificando sempre il debole quando l'incontravo sui mio cammino, abusando della buona fede e della credulità degli altri, rovinando il povero e rubando al ricco, in questo modo sono arrivato al tempio eccelso della divinità che adoravo! Perché non mi hai imitato? Avevi tra le mani il benessere, e tu gli hai preferito quella chimerica virtù che, dimmi, ti ha forse consolato dei sacrifici che hai fatto? È finita per te, disgraziata, è finita; piangi sui tuoi sbagli, soffri e, se ci riesci, cerca tra i fantasmi da te venerati quel che la tua credulità ti ha fatto perdere!»
Dopo queste crudeli parole, Dalvile si precipitò su di me... ma mi faceva un tale orrore, le sue raccapriccianti massime mi ispiravano un tale odio che lo respinsi duramente; usò la forza, ma non ci riuscì; mi percosse con crudeltà, ma non la spuntò; ii fuoco si spense senza esito e le lacrime perdute di quell'insensato mi vendicarono infine dei suoi oltraggi.
Il giorno dopo, prima di partire, quel disgraziato ci offrì una scena di crudeltà e di barbarie di cui gli annali dei vari Andronico, Nerone, Venceslao o Tiberio non forniscono pari esempio. Tutti credevano che la sua amante partisse con lui, l'aveva fatta vestire per l'occasione; ma al momento di montare a cavallo la portò verso di noi.
«Questo è il tuo posto, vile creatura», le disse ordinandole di spogliarsi. «Voglio che i miei compagni si ricordino di me, e lascerò loro la donna a cui mi credevano più legato; ma siccome qui ne occorrono soltanto tre... e sto per fare un viaggio pericoloso durante il quale mi sono utili le armi, voglio provare le mie pistole su una di voi.»
Detto ciò ne carica una, la punta sul petto di ognuna di noi che giravamo la ruota e rivoltata infine all'amante più anziana:
«Va'», le dice bruciandole le cervella, «va' a portare mie notizie all'altro mondo, va' a dire al diavolo che Dalville, il più ricco scellerato della terra, è colui che sfida con maggior insolenza la mano del cielo e la sua!»
Quella sventurata non spirò subito, si dibatté a lungo sotto le catene, era un orribile spettacolo che l'infame considerò delizioso; la fece poi togliere di lì per metterci la sua amante, volle vederle fare tre o quattro giri, ricevere dalla sua mano dieci o dodici colpi di frusta e, finite queste atrocità, quell'uomo abominevole montò a cavallo, seguito da due servi, e si allontanò per sempre dal nostro sguardo.
Tutto cambiò dal giorno dopo la partenza di Dalville; il suo successore, un uomo dolce e ragionevole, ci fece subito togliere le catene.
«Non è un lavoro adatto al sesso debole e dolce,» ci disse con bontà, «è compito degli animali far girare questa macchina; il mestiere che facciamo è già abbastanza criminale senza che si debba offendere ancora l'essere supremo con gratuite atrocità».
Ci sistemò nel castello, senza alcun contraccambio rimise l'amante di Dalville al posto che le competeva nella casa e impiegò me e la mia compagna nel laboratorio all'incisione delle monete, un lavoro molto meno faticoso certamente e per cui eravamo inoltre ricompensate con tre buone stanze e cibo eccellente. Dopo due mesi circa il successore di Dalville, che si chiamava Roland, ci comunicò che il collega era felicemente arrivato a Venezia; vi si era stabilito, realizzando la sua fortuna e godendo di una prosperità unica.
Il successore avrebbe dovuto avere una sorte identica, ma lo sventurato Roland era onesto quanto bastava che fosse subito schiacciato. Un giorno, mentre tutto al castello filava tranquillo e, secondo l'impostazione del buon padrone, il lavoro per quanto criminoso si svolgeva con facilità e piacere, improvvisamente ci fu un assalto dall'esterno; non potendo varcare il ponte, furono valicati i fossi, e la casa, prima che potessimo pensare a difenderci, fu piena di più di cento cavalieri di polizia. Ci dovemmo arrendere e, incatenati come bestie e legati ai cavalli, fummo portati a Grenoble. "Oh cielo!" mi dissi entrandovi, "questa è la città dove io illudendomi credevo di raggiungere la felicità!" Il processo dei falsari fu sbrigativo, furono tutti condannati all'impiccagione. Quando videro il mio marchio non si preoccuparono quasi nemmeno di interrogarmi e stavo per esser condannata come gli altri, quando provai ad ottenere un po' di pietà dai famoso magistrato
[Mr. Servant. Nota in margine di Sade. Secondo Maurice Heine dovrebbe essere il sostituto procuratore generale Joseph-Michel-Antoine Servan che Sade potrebbe aver conosciuto a Grenoble: «Servan avait d'ailleurs publié en 1784, sous la rubrique A Philadelphie, une ironique Apologie de la Bastille qui dut faire lea délices du prisonnier d'Etat l'année mème oú, quittant le donjon désaffecté, il fut admis dans l'Enfer de vivants»] che onorava quel tribunale, un giudice integro, un cittadino illustre, famoso filosofo, la cui umanità e bontà d'animo hanno iscritto il suo nome celebre e rispettabile nel tempio della Memoria; mi ascoltò... fece di più, convinto della mia buonafede e dell'autenticità delle mie disgrazie, si degnò di consolarmi con le sue lacrime. Oh grande uomo, ti devo il mio omaggio, permetti al mio cuore di offrirtelo, la riconoscenza di una sventurata non sarà per te un peso, e il tributo che lei ti offre in onore del tuo cuore sarà sempre il godimento più dolce del suo. S. stesso diventò il mio avvocato, i miei lamenti furono ascoltati, i miei gemiti compatiti e le mie lacrime colarono su cuori che non furono di pietra e si aprirono a me grazie alla sua generosità. Le favorevoli deposizioni di tutti i criminali che stavano per essere giustiziati appoggiarono lo zelo di colui che volle tanto interessarsi al mio caso. Fui dichiarata succuba e innocente, pienamente riabilitata e sciolta da ogni accusa con piena e intera libertà di fare quel che volevo. Il mio protettore, in aggiunta a questi favori, organizzò per me una celletta che mi fruttò quasi cento pistole [moneta]; finalmente arrivava per me un po' di serenità, i miei presentimenti sembravano realizzarsi, mi credevo alla fine dei miei mali, quando piacque alla provvidenza di convincermi che ne ero ancora ben lontana.
Uscendo di prigione, avevo trovato alloggio in una locanda di fronte al ponte sull'Isère, dove mi avevano assicurato che sarei stata tranquilla; seguendo i consigli di S. volevo restarci un po' di tempo per trovare un posto in città o altrimenti sarei tornata a Lyon con alcune lettere di raccomandazione che lui avrebbe avuto la bontà di scrivermi. In quella locanda mangiavo a pensione, quando già dal secondo giorno mi accorsi cli essere intensamente fissata da una grossa signora molto elegante, che si faceva chiamare baronessa; a forza di guardarla anch'io, mi sembrò di riconoscerla, avanzammo ambedue l'una verso l'altra, ci abbracciammo come due persone che si riconoscevano ma senza ricordare dove. Infine la grossa baronessa, tirandomi in disparte:
«Sophie,» mi disse, «mi sbaglio o siete quella che ho salvato dieci anni fa dalla prigione? non vi ricordate della Dubois?».
Poco lusingata da quella scoperta, in ogni caso risposi con gentilezza; avevo a che fare con la donna più astuta e maliarda di Francia, e non riuscii a liberarmene. La Dubois fu gentilissima, mi, disse che si era interessata, come tutta la città, alle mie disgrazie, ignorando però che si trattasse proprio di me; debole come al solito, mi feci trascinare in camera sua e le raccontai le mie disgrazie.
«Mia cara amica,» mi disse abbracciandomi di nuovo, «se ho desiderato stare con te più intimamente è per farti vedere che ho fatto fortuna e che tutto quel che ho è a tua disposizione. «Guarda,» aggiunse aprendomi cofanetti pieni di oro e diamanti, «ecco i frutti dei miei traffici; se avessi adorato la virtù come te, oggi sarei impiccata o ammalata.»
«Oh, signora,» le dissi, «se dovete tutto questo ai crimini, la provvidenza che finisce sempre per essere giusta, non vi permetterà di goderne a lungo».
«Sbagli!» riprese la Dubois. «Non penserai mica che la provvidenza favorisca sempre la virtù! Non cadere in certi errori per un banale momento di benessere! Per il mantenimento delle leggi della provvidenza fa lo stesso che uno sia dedito al vizio e un altro alla virtù; le serve una somma uguale di vizio e virtù e le è completamente indifferente chi eserciti l'uno o l'altra.
Ascoltami, Sophie, ascoltami con un po' di attenzione, sei intelligente e vorrei convincerti. Il fatto che l'uomo trovi il benessere, mia cara, non dipende dalla scelta che egli fa tra la virtù e ii vizio, perché la virtù è, al pari del vizio, un modo come un altro di comportarsi a questo mondo; non si tratta in fondo di seguire l'uno o l'altra, ma piuttosto di seguire la strada maestra; chi se ne allontana ha sempre torto. In un mondo tutto viri, ti consiglierei la virtù perché te ne verrebbero ricompense e quindi chiaramente il benessere; in un mondo interamente corrotto non ti consiglierei altro che il vizio. Chi non segue la strada battuta dagli altri inevitabilmente finisce male, tutto quel che incontra urta con lui e, siccome egli è il píú debole, inevitabilmente ha la peggio. Invano le leggi tendono a ristabilire l'ordine e portare gli uomini alla virtù; troppo viziosi per intraprenderla, troppo deboli per riuscirvi, si allontaneranno un istante dalla strada maestra ma non l'abbandoneranno mai. Quando l'interesse generale degli uomini li porterà alla corruzione, chi non vorrà corrompersi con loro dovrà lottare contro l'interesse generale; ora che vantaggi può attendersi chi contrasta eternamente l'interesse altrui? Tu mi dirai che è il vizio che contrasta l'interesse degli uomini; sarei d'accordo se ci trovassimo in un mondo composto in parti uguali di viziosi e virtuosi, perché allora l'interesse degli uni contrasterebbe visibilmente con quello degli altri, ma questo non si verifica in una società interamente corrotta; i miei vizi in tal caso non oltraggiando altro che il vizioso, determinano in lui altri vizi che lo risarciscono e cosí siamo ambedue felici. La vibrazione si fa generale, è una massa di urti e lesioni reciproche in cui ognuno, riguadagnando subito quanto ha perduto poco prima, si ritrova in continuazione in una posizione felice. Il vizio non è pericoloso che per la virtù, perché debole e timida questa non osa mai nulla; ma sia pure bandita dal mondo! Il vizio, oltraggiando solo il vizioso, non turberà nella, farà fiorire altri vizi ma non colpirà alcuna virtù. Tu mi verrai fuori con i buoni effetti della virtù; altro sofisma! Servono solo al debole e sono inutili per chi è sufficiente a se stesso con la sua energia e non ha bisogno della sua guida per raddrizzare i capricci del destino. Figlia mia, come vorresti non aver fatto fiasco per tutta la tua vita, imboccando sempre alla rovesciala strada seguita da tutti? Se ti fossi abbandonata alla corrente, avresti trovato il porto come me. Chi vuoi risalire il corso di un fiume potrà arrivare in fretta come colui che lo discende? L'uno va contro natura, l'altro ci si abbandona. Tu mi parli sempre di provvidenza, e chi ti dice che a lei piaccia l'ordine e di conseguenza la virtù? Lei non ti dà in continuazione esempi delle sue ingiustizie e delle sue irregolarità? Forse lei manifesta ii suo estremo amore per la virtù inviando agli uomini la guerra, la peste e la carestia, avendo formato un universo vizioso in ogni sua parte? E perché mai dovrebbero dispiacerle gli individui viziosi, dal momento che lei stessa agisce solo con i vizi, tutto è vizio e corruzione, tutto è crimine e disordine nella sua volontà e nelle sue opere? E da chi ci derivano quei moti dell'animo che ci spingono al male? Non è la sua mano che ce li manda? Esiste forse sia pure una volontà o una sensazione che non ci derivi da lei? Ti sembra logico allora affermare che lei ci abbandonerebbe o ci indirizzerebbe verso una cosa che le fosse inutile? Se dunque le occorrono i vizi, perché opporsi ad essi? Con che diritto darsi da fare per distruggerli? Per quale motivo resistere al loro richiamo? Maggior filosofia a questo mondo rimetterà presto tutto a posto e farà capire ai governanti e ai magistrati che quei vizi che essi biasimano e puniscono con tanto rigore a volte raggiungono un grado di utilità ben più grande di quelle virtù che essi apprezzano senza mai ricompensare.»
«Ma quand'anche fossi tanto debole, signora,» risposi a quella corruttrice, «da abbandonarmi ai vostri spaventosi sistemi, come riuscireste a soffocare il rimorso che essi farebbero nascere ogni istante nel mio cuore?»
«Il rimorso è una chimera, Sophie,» riprese la Dubois, «non è che il mormorio stupido dell'anima tanto debole da non osare annullano».
«Ed è possibile annullarlo?»
«Nulla di più facile! Non ci si pente se non di quanto non si è abituati a fare. Eseguite più volte quel che accende in voi il rimorso, così lo preverrete e lo spegnerete; opponete ad esso la fiamma delle passioni, le potenti leggi dell'interesse, lo placherete subito. Il rimorso non prova il crimine, denota soltanto un'anima facilmente suggestionabile. Mettiamo che arrivi all'improvviso un ordine assurdo che t'impedisca di uscire da questa camera, tu non ne uscirai senza rimorso, benché certamente non compiresti alcun male uscendo. Quindi non è vero che solo il crimine provoca il rimorso; convincendosi della inesistenza dei crimini o della necessità della loro esistenza per il piano generale della natura, sarebbe dunque possibile vincere facilmente il rimorso che potrebbe sorgere nel commetterli, come pure soffocare facilmente quel che potrebbe nascere dalla tua uscita da questa stanza dopo aver ricevuto l'illegale ordine di restarci. Bisogna innanzitutto fare un'analisi esatta di quanto gli uomini chiamano crimine, iniziando col convincersi che essi fanno riferimento solo all'infrazione delle loro leggi e dei loro costumi nazionali, che quanto è un crimine in Francia non lo è a qualche centinaia di leghe da essa, che non esiste alcuna azione considerata in tutta la terra universalmente un crimine, che tutto è una questione di opinione e di geografia. Posto questo, è dunque assurdo volersi sottomettere a pratiche di virtù che altrove sono considerate vizi, ed evitare crimini che in altri paesi sono ritenuti buone azioni. Ora ti chiedo se questo esame fatto con riflessione può originare rimorsi in chi per suo piacere o interesse avrà commesso in Francia una virtù tipica della Cina o del Giappone, che invece io coprirà d'infamia nella sua patria. Si fermerà a questa vile distinzione? E se lui avrà in sé un po' di filosofia, sarà essa capace di suscitargli un rimorso? Ora se il rimorso nasce dalla proibizione, e non deriva dall'azione in sé per sé ma dall'infrazione di leggi, ti pare saggio lasciarlo persistere in noi? Ma non è assurdo invece non annullano subito? Abituiamoci a considerare con indifferenza l'azione che fa nascere un rimorso, giudichiamola sulla base dello studio approfondito della morale e delle consuetudini di tutte le nazioni della terra e, ragionando in questo modo, ripetiamo quell'azione, qualunque essa sia, più spesso possibile e vedremo la fiamma della ragione abbattere il rimorso, annullare quel moto tenebroso dell'animo, frutto unicamente dell'ignoranza, della pusillanimità e dell'educazione! Sono trent'anni, Sophie, che una catena ininterrotta di vizi e crimini mi conduce passo passo verso la fortuna; ora sto per raggiungerla; ancora due o tre colpi fortunati e passerò dallo stato di miseria e mendicità in cui sono nata a più di cinquantamila libbre di rendita. E tu credi che in questa strada brillantemente percorsa io abbia sia pure un solo istante sentito le spine del rimorso? Ma non lo credere! Non l'ho mai conosciuto! Se una disgrazia tremenda mi facesse precipitare all'improvviso dalla cima nell'abisso, non lo proverei ugualmente; mi lagnerei degli uomini e della mia incapacità ma sarei sempre in pace con la mia coscienza.»
«E sia! ma ragioniamo un momento sui vostri stessi principi della filosofia. Con che diritto pretendete che la mia coscienza sia così ferma come la vostra, dal momento che non è abituata dall'infanzia a vincere gli stessi pregiudizi? A che titolo pretendete che il mio animo, educato diversamente dal vostro, possa adottare gli stessi sistemi? Per vostra ammissione, esiste nella natura una parità di bene e di male e, di conseguenza, devono esistere alcuni individui che praticano il bene e altri che si abbandonano al male. Il partito da me scelto, anche secondo i vostri principi, esiste dunque in natura, per cui non vorrete che elimini delle regole che lei mi prescrive; e come voi trovate, secondo quanto dite, la felicità sulla strada che seguite, ugualmente sarebbe impossibile per me incontrarla in una strada diversa da quella che percorro. Peraltro non pensiate che la vigilanza delle leggi lasci a lungo in riposo chi le trasgredisce! Non ne avete avuto poco tempo fa un esempio lampante? Di quindici scellerati con i quali avevo la disgrazia di vivere, uno si salva e gli altri quattordici muoiono ignominiosamente.»
«E la chiami una disgrazia? Innanzitutto cosa importa di questa ignominia a chi non ha più principi? Quando uno ha superato tutto, quando l'onore non è più che un pregiudizio, la reputazione una chimera, l'avvenire un'illusione, non è lo stesso morire là o nel proprio letto? A questo mondo esistono due tipi di scellerati, quello che una fortuna enorme e un credito prodigioso mettono al riparo da una simile fine tragica, e quello che non l'eviterà se verrà preso; quest'ultimo, nato povero, non deve avere che due obiettivi, se è intelligente: la fortuna o la ruota. Se raggiunge il primo ottiene quanto desiderava; se raggiunge il secondo, che rimpianto può avere chi non ha nulla da perdere? Le leggi dunque sono nulle di fronte a qualsiasi scellerato, perché esse non riguardano chi è potente, colui che è fortunato vi si sottrae e il disgraziato non ha altra risorsa che la loro spada e quindi non le teme.»
«E credete che non ci sia una giustizia celeste in un mondo migliore per chi non ha avuto paura del crimine in questo?»
«Credo che se esistesse un dio, sulla terra ci sarebbe minor male; credo che riguardo al male esistente sulla terra o certi disordini sono voluti da quel dio o impedirli è superiore alle sue forze; ora io non posso temere un dio debole o malvagio, io sfido senza paura e me la rido del suo fulmine!»
«Mi fate rabbrividire, signora!» dissi alzandomi. «Perdonatemi, ma non posso ascoltare oltre i vostri esecrabili sofismi e le vostre odiose bestemmie!»
«Fermati, Sophie! Se non posso vincere la tua ragione sedurrò perlomeno il tuo cuore. Ho bisogno di te, non rifiutarmi il tuo aiuto; vedi questi cento luigi? Li metto da parte. Saranno tuoi quando il colpo sarà riuscito.»
Io ascoltavo solo la mia naturale tendenza a far del bene, e chiesi subito alla Dubois di cosa si trattasse, per prevenire in ogni modo quel crimine che lei stava per compiere.
«Ecco,» mi disse, «hai fatto caso a quel giovane negoziante di Lyon che mangia con noi da tre giorni?».
«Chi, Dubreuil? »
«Esattamente.»
«E allora?»
«È innamorato dite, me l'ha confidato. Ha seicentomila franchi in oro o in cartamoneta in una cassetta vicino al letto. Permettimi di far credere a quest'uomo che tu acconsenti ad ascoltarlo; che sia vero o no, che t'importa? io spingerò a proporti una passeggiata fuori città, lo persuaderò a farti delle proposte durante la passeggiata; tu lo divagherai, lo tratterrai fuori il più a lungo possibile; e nel frattempo io lo deruberò, ma non scapperò, perché i suoi effetti saranno già a Torino mentre io sarò ancora a Grenoble. Ci daremo da fare perché non sospetti di noi, fingeremo di aiutarlo nelle ricerche; quando saprà della mia partenza, lui non si meraviglierà affatto e tu verrai con me e avrai cento luigi quando saremo arrivate in Piemonte.»
«D'accordo, signora,» dissi alla Dubois, ben decisa invece ad avvertire lo sfortunato Dubreuil del brutto tiro che stavamo per giocargli. E per ingannar meglio quella scellerata aggiunsi: «Ma avete pensato, signora, che se Dubreuil è innamorato di me, io potrei ricavare molto di pui avvisandolo o vendendomi a lui, invece di quel poco che voi mi offrire per tradirlo?».
«Giusto!» mi disse la Dubois. «Comincio proprio a credere che il cielo ti abbia dato più predisposizione di me per il crimine. E allora,» continuò mettendosi a scrivere, «eccoti una cambiale di mille luigi. Osa rifiutarti ora!».
«Me ne guarderò bene, signora,» dissi prendendo la cambiale, «ma attribuite però solo alla mia disgraziata condizione sia la mia arrendevolezza sia il torto che ho di soddisfarvi».
«Volevo solo farne un merito al tuo spirito,» disse la Dubois, «tu preferisci accusarne la tua disgrazia, e sia come tu vuoi, servimi e ne sarai contenta».
Fu tutto predisposto; quella sera stessa cominciai ad assecondare un po' Dubreuil e mi accorsi che effettivamente aveva un certo interesse per me.
La mia situazione era estremamente imbarazzante; ero ben lontana dal volermi prestare al crimine propostomi, anche se avessi guadagnato due o tre volte di più, ma mi ripugnava anche l'idea di far impiccare una donna a cui dovevo la libertà di dieci anni prima; volevo impedire il crimine senza però denunciarlo e con chiunque altro, diverso da una delinquente esperta come la Dubois, ci sarei sicuramente riuscita. Ecco cosa decisi di fare, ignorando peraltro che la manovra nascosta di quella ignobile creatura non solo avrebbe fatto cadere tutta l'impalcatura dei miei onesti progetti, ma addirittura mi avrebbe punito per averli concepiti.
Il giorno stabilito per la prevista, passeggiata, la Dubois ci invitò ambedue a pranzo in camera sua; noi accettammo e alla flne del pranzo Dubreuil ed io scendemmo per sollecitare la carrozza che doveva esser pronta per noi. La Dubois non ci aveva accompagnati, per cui rimasi un istante sola con Dubreuil prima di salire in vettura.
«Signore,» gli dissi in fretta, «ascoltatemi attentamente, non fate scandali e seguite scrupolosamente quanto vi dirò. Avete un amico fidato in questa locanda?»
«Sì, un giovane socio su cui posso contare come su me stesso.»
«Bene, signore! ordinategli in fretta di non lasciare neanche un istante la vostra camera per tutto il tempo della nostra passeggiata.»
«Ma ho con me la chiave! Perché questo eccesso di precauzione?»
«È più importante di quanto pensiate, signore, fate cosi o non uscirò con voi. La donna che abbiamo lasciato poco fa è una scellerata, ha organizzato la passeggiata che stiamo per fare in modo di derubarvi nel frattempo più comodamente. Sbrigatevi, signore, lei ci guarda ed è pericoloso; non deve sembrare che vi stia avvertendo; date in fretta la chiave al vostro amico, ditegli di andare in camera vostra, insieme ad altre persone se gli è possibile, e nessuno esca di lì fino al nostro ritorno. Vi spiegherò il resto quando saremo in carrozza.»
Dubreuil capisce la situazione, mi stringe la mano per ringraziarmi e corre per dare ordini secondo la mia raccomandazione; ritorna, partiamo e lungo la strada gli racconto ogni cosa. Quel giovane mi è estremamente riconoscente per il servizio che gli ho reso e, dopo avermi scongiurato di rivelargli tutta la verità sulla mia condizione, mi assicura che nessuna delle mie disgrazie lo ripugna a tal punto da impedirgli di offrirmi la sua mano e le sue ricchezze.
«Siamo uguali,» mi dice Dubreuil, «sono figlio di un negoziante, come voi; a me sono andati bene gli affari, mentre voi siete stata sfortunata; sono fin troppo felice di poter riparare i torti che la fortuna vi ha fatto subire. Pensateci, Sophie, io sono libero, non dipendo da nessuno, sto andando a Ginevra per depositarvi le mie notevoli somme che il vostro avvertimento mi permette di mettere in salvo; verrete con me, vi sposerò e tornerete a Lyon solo come mia moglie».
Ero troppo lusingata per rifiutare, ma non mi sembrava corretto accettare senza far capire a Dubreuil che avrebbe potuto pentirsene. Mi ringraziò per la mia delicatezza, e mi sollecitò con più insistenza... Che sventurata creatura! La felicità doveva offrirmisi per farmi provare più intensamente il dolore di non poterla cogliere! Era prestabilito con fermezza dalla provvidenza che la mia anima non si aprisse alla virtù se non per farmi precipitare nella disgrazia! Parlando eravamo arrivati già a due leghe dalla città e stavamo per scendere lungo l'Isère per godere il fresco lungo un viale alberato, dove avevamo intenzione di trattenerci, quando improvvisamente Dubreuil mi dice di sentirsi molto male... Scende, l'assalgono spaventosi conati di stomaco, lo faccio subito risalire in carrozza e torniamo veloci verso Grenoble; Dubreuil sta così male che devono portarlo in camera. Ii suo stato meraviglia i suoi amici che, stando ai suoi ordini, non avevano abbandonato il suo appartamento. Io non mi separo da lui... arriva un medico; e santo cielo! Infine si viene a conoscenza di cosa sia accaduto a quel giovane disgraziato: è stato avvelenato... Appena sento quella spaventosa notizia, corro in camera della Dubois... la scellerata... è partita... vado nella mia stanza, l'armadio è sfondato, rubati il poco denaro e i vecchi abiti che possedevo, e la Dubois, a quanto mi dicono, è già a tre ore di posta in direzione di Torino... Era senz'altro lei l'autrice di quei molteplici crimini; lei si era recata in camera di Dubreuil e, inquieta per avervi trovato delle persone, si era vendicata con me; lei aveva avvelenato Dubreuil a pranzo, affinché al ritorno, se fosse riuscita a derubarloo, quel disgraziato giovane più occupato della propria vita che d'inseguir lei, l'avrebbe fatta fuggire tranquillamente; infine di quella morte, avvenuta quasi tra le mie braccia, io sarei stata ritenuta più logicamente colpevole. Torno di corsa da Dubreuil, non mi permettono di avvicinano: egli muore tra i suoi amici, ma discolpandomi, assicurandoli che io sono innocente e proibendogli di nuocermi. Appena ebbe chiusi gli occhi, il suo socio mi portò quelle notizie, assicurandomi di stare tranquilla... Ahimè, e come potevo esserlo? Come non piangere la perdita dell'unico uomo che, da quando vivevo tra le disgrazie, si era cosí generosamente offerto di tirarmene fuori?... Come non deplorare un furto che mi relegava nuovamente sul lastrico, cosí che difficilmente mi sarei potuta risollevare? Mi confidai apertamente con il socio di Dubreuil, dicendogli quanto era stato macchinato contro il suo amico e cosa era capitato a me; lui mi compatì, rimpianse amaramente il suo socio e biasimò l'eccesso di delicatezza che mi aveva trattenuto dal rivelare ogni cosa appena ero stata informata dalla Dubois dai suoi progetti. Ci rendemmo conto che quella orribile creatura, a cui bastavano soltanto quattro ore per esser salva, sarebbe giunta alla meta prima che noi potessimo organizzare un suo inseguimento, e la cosa ci sarebbe costata cara perché il padrone della locanda, piuttosto compromesso dalla denuncia che avrei sporto e difendendosi con foga, avrebbe forse infine compromesso qualcuno che apparentemente viveva a Grenoble come scampata da un processo criminale e mantenuta grazie a pubbliche elemosine... Certi ragionamenti mi convinsero e anzi mi spaventarono in maniera tale che decisi di partire senza neppure salutare S., il mio protettore. L'amico di Dubreuil approvò questa decisione e aggiunse che in caso d'inchiesta anche lui avrebbe finito per compromettermi con le sue dichiarazioni, nonostante tutte le sue precauzioni, sia per i miei rapporti con la Dubois sia per la mia ultima passeggiata con il suo amico; perciò mi rinnovò caldamente il consiglio di andar via senza ulteriori indugi, senza salutare nessuno, tranquilla che, da parte sua, non c'era assolutamente nulla da temere. Riflettendo da sola sulla situazione, mi resi conto che il consiglio di quel giovane era effettivamente ancor più giusto perché potevo essere facilmente sospettabile, pur non essendo assolutamente colpevole, e l'unica cosa che mi fosse decisamente favorevole era l'avvertimento che avevo dato a Dubreuil, ma che forse lui aveva mal spiegato in punto di morte; non era insomma una prova tanto convincente da poterci fare affidamento, per cui mi decisi una volta per tutte. Ne parlai al socio di Dubreuil.
«Se il mio amico mi avesse dato qualche disposizione favorevole nei vostri confronti,» mi disse, «l'eseguirei con sommo piacere; se solo mi avesse detto che eravate stava voi a consigliargli di sorvegliare la sua camera mentre lui usciva con voi... ma non lo ha fatto, ci ha soltanto ripetuto più volte che voi non avevate colpa e di non danneggiarvi in nessun modo. Dunque sono costretto a limitarmi ad eseguire esclusivamente i suoi ordini. Il sentimento che, a quanto mi dite, avete provato per lui, mi spingerebbe a far qualcosa di più, signorina, se lo potessi; ma sono da poco negli affari, sono giovane e con poco denaro; non mi appartiene neanche un soldo di Dubreuil, infatti devo restituire tutto e subito alla sua famiglia. Dunque, Sophie, permettetemi di aiutarvi per quanto è nelle mie possibilità; ecco cinque luigi, ed ecco,» mi disse facendo salire in camera sua una donna che avevo intravista nella locanda, «ecco un'onesta commerciante di Chalon-sur-Saône, mia patria, dove lei tornerà dopo essersi trattenuta a Lyon ventiquattro ore per i suoi affari. Signora Bertrand,» disse presentandomi a quella donna, «vi raccomando questa ragazza; vuol vivere in provincia; vi prego in ogni modo come se si trattasse di me, di trovarle una sistemazione nella nostra città adatta alla sua nascita e alla sua educazione. Nell'attesa non dovrà pagare neanche un soldo, per nessun motivo... penserò io a pagare ogni cosa al nostro prossimo incontro... Addio, Sophie... La signora Bertrand parte questa notte, andate con lei e vi auguro un po' di felicità in una città dove forse ben presto potrò rivedervi e manifestarvi tutta la mia riconoscenza per il vostro buon comportamento con Dubreuil.»
Di fronte all'onestà di quel giovane, che non mi doveva nulla, non riuscii a trattenere le lacrime; accettai i suoi doni, giurando a me stessa che avrei lavorato proprio per poterglieli un giorno restituire. "Ahimè," mi dissi ritirandomi, "se la pratica di una nuova virtù mi ha fatto precipitare in un abisso di disgrazie, almeno per la prima volta in vita mia ho modo di consolarmi in qualche modo in questa tenebrosa voragine".. Non rividi più il mio giovane benefattore e, secondo quanto egli aveva stabilito, partii con la Bertrand la notte dopo la disgrazia che aveva colpito Dubreuil.
La Bertrand aveva una piccola vettura coperta, tirata da un cavallo che guidavamo a turno dall'interno; là dentro teneva la sua biancheria e una certa somma di denaro, oltre ad una bambina di diciotto mesi che ancora allattava e a cui io, per mia sventura, ben presto mi affezionai come fosse stata mia figlia.
La signora Bertrand era una specie di pescivendola senza educazione e spirito, sospettosa, chiacchierona, pettegola, noiosa e meschina, più o meno come tutte le donne del popolo. Ogni sera regolarmente toglievamo la sua roba dalla vettura e la portavamo nella locanda e là dormivamo nella stessa camera. Arrivammo a Lyon senza incidenti, ma in quei due giorni che servivano a quella donna per i suoi affari feci un incontro piuttosto sgradevole; mentre passeggiavo lungo il Rodano con una cameriera della locanda che avevo pregato di accompagnarmi, vidi all'improvviso venirmi incontro il reverendo padre Antonin, divenuto guardiano dei Recolletti di quella città, il carnefice della mia verginità che avevo conosciuto come ricorderete, signora, al piccolo convento di Sainte-Marie-des-Bois dove mi aveva condotto la mia cattiva stella. Antonin mi abbordò con fare arrogante e mi chiese, alla presenza di quella cameriera, se andavo a fargli visita nella sua nuova casa per rinnovare i nostri antichi piaceri.
«E che bella ragazzona!» disse accennando a quella che mi accompagnava. Sarà anche lei ben accolta; in casa abbiamo gente in gamba che sa tener testa contemporaneamente a due graziose ragazze.»
A quelle parole arrossii fortemente, e per un istante pensai di far credere a quell'uomo che s'ingannava; non ce la feci, tentai a gesti di farlo star zitto davanti alla mia accompagnatrice, ma non riuscii a moderare la sua insolenza, che si fece più insistente. Infine, essendoci ripetutamente rifiutate di seguirlo, pretese il nostro indirizzo; per togliermelo di mezzo, gliene detti uno falso; egli lo annotò scrupolosamente e se ne andò assicurandoci che presto lo avremmo rivisto. Rientrammo; lungo la strada avevo spiegato meglio possibile la storia di quella disgraziata conoscenza alla cameriera che era con me, ma o perché la mia spiegazione non l'aveva soddisfatta o per il pettegdlezzo naturale in certe donne, dai discorsi della Bettrand nel corso della disavventura capitatami poi con lei mi resi conto che era stata informata dei miei rapporti con quel frate abietto; tuttavia in un primo momento tutto filò tranquillo e partimmo. Uscite da Lyon sul tardi, quel primo giorno arrivammo solo a Villefranche e là, signora, mi accadde la terribile disgrazia che oggi mi fa comparire dinanzi a voi come una criminale senza che in quella circostanza della mia vita lo sia stata di più che in alcuna delle altre in cui mi avete vista così ingiustamente colpita dalla malasorte, trascinata nell'abisso della sventura soltanto da quell'impulso di carità che mi era impossibile soffocare nel mio cuore.
Era febbraio, quando verso le sei di sera arrivammo a Villefranche; avevamo cenato in fretta, io e la mia compagna, andando subito a dormire per svegliarci di buon'ora il giorno dopo. Stavamo a letto da due ore, quando ci destò entrambe di soprassalto una terribile zaffata di fumo penetrata nella stanza. Nei paraggi doveva esserci un incendio... Santo cielo! L'incendio avanzava spaventosamente! Mezzo nude spalanchiamo la porta e sentiamo intorno a noi soltanto il fracasso di mura che crollano, lo scricchiolio sinistro delle travi che si spezzano e urla raccapriccianti di disgraziati che si buttano tra le fiamme. Una cortina di fiamme divoranti viene verso di noi e ci dà solo il tempo di correre fuori, ci riusciamo e finiamo in mezzo ad una folla di disgraziati che, nudi come noi, alcuni mezzo ustionati, cercano riparo nella fuga... A questo punto mi rendo conto che la Bertrand, più preoccupata di se stessa che di sua figlia, non ha pensato a salvarla; senza dirle nulla, tornò di corsa in camera tra le fiamme che mi accecano e mi bruciano in più punti, afferro la piccola e mi slancio per riportarla alla madre; mentre poggio un piede su una trave mezzo bruciata, mi cede il terreno, istintivamente metto avanti una mano e per quell'impulso naturale mi scivola il prezioso fardello e la povera piccola cade tra le fiamme sotto gli occhi della madre. Quella donna terribile non pensa né al fine dell'azione intrapresa per salvare sua figlia, né allo stato in cui la caduta riduce anche me proprio davanti ai suoi occhi, e fuori di sé dal dolore mi accusa della morte di sua figlia, si scaglia impetuosamente su di me e mi tempesta di pugni. Intanto l'incendio si spegne, metà della locanda è salva grazie all'arrivo dei soccorsi. La Bertrand si preoccupa di andar subito in camera sua, una delle meno danneggiate, il che le dà motivo di disapprovarmi ancora perché bisognava lasciar lì la piccola, visto che non vi avrebbe corso alcun pericolo. Ma immaginate cosa prova poi quando, controllando la sua roba, scopre di esser stata derubata di tutto! Allora, in preda alla disperazione e alla rabbia, mi accusa apertamente di aver provocato l'incendio con il fine di derubarla più facilmente; dice che vuoi denunciarmi e, passando dalle parole ai fatti, chiede di parlare con il giudice del luogo. Per quanto io protesti la mia innocenza, lei non mi ascolta; il giudice peraltro era nei paraggi, aveva egli stesso diretto i soccorritori, e si fa subito vivo appena viene chiamato da quella perfida donna... Lei formula l'accusa contro di me, aggravandola con tutto quel che le viene in mente per darle più tono e maggiore credibilità, mi presenta come una donna di malaffare, sfuggita al patibolo a Grenoble, di cui un giovane, certamente il mio amante, l'ha costretta ad incaricarsi contro la sua volontà; parla del Recolletto di Lyon; insomma nulla è dimenticato di quanto la calunnia, invelenita dalla disperazione e dalla vendetta, può ispirare di più energico. La denuncia viene accolta dal giudice, si procede all'ispezione della casa; si scopre che il fuoco si è originato in un granaio colmo di fieno, dove molte persone testimoniano di avermi vista entrare la sera, come in effetti era; entrata infatti in quel granaio alla ricerca di un gabinetto, seguendo le indicazioni imprecise di alcune inservienti, vi ero rimasta abbastanza a lungo perché potessi far sorgere sospetti sii quanto mi si accusava. La procedura ha inizio, tutto è eseguito secondo le regole; ascoltati i testimoni, non viene accettato nulla di quanto avanzo in mia difesa; viene dimostrato che l'incendiaria ero io e provato che ho dei complici i quali, mentre agivo da una parte, hanno commesso il furto dall'altra; senza ulteriori approfondimenti il giornò dopo, all'alba, vengo ricondotta nelle carceri di Lyon dove vengo registrata come incendiaria, infanticida e ladra.
Abituata da tanto tempo alla calunnia, all'ingiustizia e alla sventura, votata fin dall'infanzia a non abbandonarmi a un qualunque sentimento virtuoso che non fosse sofferto, il mio dolore fu più attonito che lacerante ed io piansi più di quanto mi lamentassi. Eppure, essendo naturale per ogni creatura che soffre cercare qualsiasi mezzo per risalire dall'abisso in cui l'ha sprofondata la sua sfortuna, mi venne in mente padre Antonin; l'aiuto che potevo sperar da lui era mediocre, tuttavia non soffocai questo desiderio di vederlo e chiesi di lui. Ignorava cosa volessi, per cui fece finta di non conoscermi; insistetti presso il secondino che probabilmente il frate non si ricordava di me, ma era stato mio direttore spirituale quando ero giovanissima e a quel titolo volevo avere tin colloquio segreto con lui; mi fu consentito. Appena fui sola con il frate, mi gettai ai suoi piedi e io scongiurai di salvarmi dalla crudele situazione in cui mi trovavo; gli dimostrai la mia innocenza e gli confessai che proprio quei discorsi licenziosi da lui tenuti con me due giorni prima avevano mal disposta nei miei confronti la persona a cui ero stata raccomandata e che adesso era divenuta la mia parte avversa. Il frate mi ascoltò molto attentamente e appena ebbi finito mi disse:
«Ascolta Sophie, e non fare come al solito quando uno cerca di abbattere i tuoi maledetti pregiudizi. Vedi dove ti hanno portato i tuoi principi? Sarai convinta che essi non sono serviti ad altro che a farti sprofondare sempre più nell'abisso, quindi smetti di seguirli una volta per sempre, se vuoi salvare la vita. C'è un solo mezzo per riuscirvi; un padre che sta qui è parente stretto del governatore e dell'intendente; io l'avvertirò; tu di' che sei sua nipote, ed egli ti convocherà in tale veste e, con la promessa di tenerti per sempre in convento, son convinto che bloccherà lo svolgimento della procedura. Insomma scomparirai, lui ti affiderà a me e io provvederò a nasconderti, finché tu possa tornare libera al momento opportuno; naturalmente durante questa detenzione sarai in mio potere; non te lo nascondo, sarai mia schiava, asservita ai miei piaceri, obbligata a soddisfarli senza esitazione. Mi capisci, Sophie? tu mi conosci bene, scegli tra questa possibilità e il patibolo, e non farmi attendere troppo la risposta.»
«Via, padre!» risposi inorridita, «via! Siete un mostro ad abusare della mia situazione, mettendomi così tra la morte e l'infamia! Fuori di qua! Morirò innocente, ma almeno morirò senza rimorsi!»
La mia resistenza infiamma quello scellerato, che giunge a mostrarmi a che punto siano eccitate le sue passioni; quell'infame osa concepire le carezze dell'amore in seno all'orrore e alle catene, sotto la spada stessa che sta per colpirmi. Tento di sfuggirgli, ma lui mi blocca, mi rovescia sulla squallida paglia che mi serve da letto, e se non consuma il suo crimine per intero, mi copre comunque con segni evidenti così funesti che mi è impossibile ignorare le sue abominevoli intenzioni.
«Ascoltate,» mi dice rimettendosi in ordine, «non volete che vi sia utile, e allora vi abbandono al vostro destino; non vi sarò di aiuto e neanche vi nuocerò, ma se direte una sola parola contro di me, vi accuserò dei crimini più enormi togliendovi subito ogni possibilità di difesa; pensateci prima di aprir bocca e cercate di capire il significato di quanto dirò al carceriere o immediatamente vi danneggerò».
Bussa e il secondino entra.
«Signore,» gli dice quello scellerato, «questa povera figliola s'inganna, si riferiva a un padre Antonin che sta a Bordeaux; io non la conosco e non l'ho mai conosciuta; mi ha pregato di ascoltare la sua confessione; l'ho fatto, voi conoscete le nostre regole, quindi non ho nulla da dire; saluto ambedue e sarò sempre pronto, qualora si rendesse necessario il mio ministero».
Dicendo queste parole Antonin esce e mi lascia meravigliata della sua furberia; come pure confusa della sua insolenza e del suo libertinaggio.
Nulla procede cosl in fretta come il giudizio dei tribunali inferiori; composti perlopiù da idioti, da rigoristi imbecilli o brutali fanatici, più o meno certi che occhi migliori correggeranno le loro sciocchezze, nulla li ferma quando si tratta di commetterne una. Dunque fui condannata a morte all'unanimità da otto o dieci bottegastri che componevano il rispettabile tribunale di quella città di bancarottieri e condotta a Parigi per la conferma della sentenza.
Le più amare e dolorose riflessioni lacerarono allora il mio cuore.
"Sotto quale fatale stella devo esser nata," mi dissi, "perché non possa mai concepire un sentimento virtuoso che non sia immediatamente seguito da una schiera di disgrazie, e com'è possibile che quell'illuminata provvidenza da me ammirata per la sua equità punisca le mie virtù e insieme mi mostri premiati coloro che mi hanno oppressa con i loro vizi? Ancora fanciulla, un usuraio vuole spingermi a compiere un furto, mi rifiuto, lui si arricchisce e io rischio di essere impiccata. Dei briganti vogliono violentarmi in un bosco perché mi rifiuto di seguirli, tutto va bene per loro e invece io cado fra le mani di un marchese depravato che mi dà cento colpi di frusta per non aver voluto avvelenare sua madre. Vado poi da un chirurgo, svento un delitto infame in casa sua, e quel boia per ricompensa mi mutua, mi sfregia e mi scaccia;, continua chiaramente a compiere delitti, diventa ricco e
io sono costretta a chieder l'elemosina per mangiare. Voglio accostarmi ai sacramenti per implorare con fervore l'essere supremo da cui ricevo tante disgrazie, e l'augusto tribunale in cui spero di purificarmi con uno dei nostri più santi misteri diventa teatro spaventoso del mio disonore e della mia infamia; quel mostro che abusa di me e mi copre d'ignominia raggiunge i più alti onori, mentre io ricado nell'abisso della miseria. Aiuto un povero e vengo da lui derubata. Soccorro un moribondo, e quello scellerato mi fa spingere la ruota come una bestia da soma, mi frusta quando non ce la faccio, ma la fortuna è tutta dalla sua e io invece rischio di morire per essere stata costretta a lavorare con lui. Una donna indegna vuole convincermi a compiere un crimine, perdo una seconda volta quei pochi beni che ho per salvare quelli della sua vittima e proteggerla dalla sventura; questo poveraccio vorrebbe ricompensarmi personalmente, ma muore tra le mia braccia prima di poterlo fare. Rischio la vita in un incendio per salvare un bambino che non è mio, ed eccomi per la terza volta sotto la spada di Temi. Invoco la protezione di uno sciagurato che mi ha coperto d'infamia, m'illudo di commuoverlo alle mie sventure, ma nuovamente quel barbaro mi offre aiuto a prezzo del mio disonore... Oh provvidenza, a questo punto ho hen motivo per dubitare della tua equità! Da quali terribili disgrazie sarei mai stata colpita se, come i miei persecutori, avessi seguito il vizio?" Queste, signora erano le imprecazioni sfuggitemi quasi involontariamente... strappatemi dall'orrore della mia sorte, quando voi vi siete degnata di far cadere su di me il vostro sguardo pietoso e compassionevole... Mille scuse, signora, per aver abusato della vostra pazienza; ho inasprito le mie ferite, ho turbato il vostro riposo, e questo è quanto raccoglieremo ambedue come frutto del racconto di quelle crudeli disavventure. Sta per sorgere il sole, le guardie verranno a prendermi, lasciatemi andare incontro alla morte; non la temo più, abbrevierà i miei tormenti vi porrò termine; essa deve esser temuta solo dall'individuo fortunato la cui vita scorre pura e serena, ma la disgraziata creatura che ha calpestato soltanto serpi, i cui piedi sanguinanti si sono posati solo sulle spine, quella che ha conosciuto gli uomini solo per odiarli, che ha visto la luce del giorno solo per detestarla, quella a cui crudeli sventure hanno tolto parenti, ricchezza, aiuti, protezione, amici, quella che al mondo non ha altro che le lacrime per dissetarsi e le tribolazioni per sfamarsi... quella, dico, vede avanzare la morte senza un brivido, anzi la desidera come un porto sicuro in cui rinascerà la serenità in seno ad un dio troppo giusto per permettere che l'innocenza avvilita e perseguitata sulla terra non trovi un giorno in cielo la ricompensa alle sue lacrime.

L'onesto signor de Corvilie non aveva potuto seguire quel racconto senza esserne intensamente commosso; la signora de Lorsange, la cui sensibilità non era stata cancellata (come si è detto) dai suoi mostruosi errori giovanili, stava per svenire.
«Signorina,» disse a Sophie, «è difficile ascoltarvi senza provare il più vivo interesse... ma devo confessarvi che un sentimento inspiegabile, ancor più vivo di quello a cui accennavo, mi sospinge irresistibilmente verso di voi, e mi fa partecipe dei vostri mali. Mi avete nascosto il vostro nome, Sophie, mi avete taciuto la vostra nascita, vi scongiuro di rivelarmi il vostro segreto; non crediate che sia la vana curiosità a spingermi a parlarvi cosi; se ciò che sospetto fosse vero!... Oh Justine, se foste mia sorella!».
«Justine... signora, quale nome!»
«Avrebbe la vostra età oggi.»
«Oh Juliette, sei tu...» disse la sventurata prigioniera buttandosi tra le braccia della signora de Lorsange, «tu, mia sorella, gran Dio... come sono stata blasfema a dubitare della provvidenza!... Morirò molto meno sventurata, se posso abbracciarti ancora una volta!».
E le due sorelle, avvinte strettamente l'una all'altra, si esprimevano solo a singulti, non sentivano altro che le loro lacrime... De Corville non riuscì a trattenere le sue, e vedendo che non riusciva a non interessarsi con tutto il cuore a quella faccenda, uscì subito di lì e andò in uno studiolo, scrisse al guardasigilli, dipingendo più col sangue quasi che con l'inchiostro la sorte orribile della sventurata Justine; rendendosi garante della sua innocenza chiese che la pretesa colpevole non avesse per prigione che il suo castello fino ai riesame del processo, e s'impegnò a riconsegnarla al primo ordine del capo supremo della giustizia. Scritta la lettera, chiama i due cavalieri, si fa riconoscere da loro, ordina di portare subito la lettera e di tornare a prendere la prigioniera a casa sua se avessero ricevuto l'ordine in tal senso dal capo della magistratura; quei due sapendo con chi hanno a che fare non temono di compromettersi obbedendo, e nel frattempo una vettura arriva...
«Venite, bella sfortunata,» dice allora de Corville a Justine, che trova ancora tra le braccia della sorella, «venite, tutto è cambiato per voi in un quarto d'ora; non sia mai detto che le vostre virtù non trovino quaggiù una ricompensa, e che voi incontriate sempre cuori di pietra... Seguitemi, siete mia prigioniera, solo io rispondo di voi».
E de Corville spiega allora in poche parole cos'ha fatto...
«Uomo rispettabile e gentile,» dice la signora de Lorsange buttandosi alle ginocchia del suo amante, «ecco la più bella azione da voi compiuta da quando siete al mondo! Chi conosce veramente il cuore dell'uomo e lo spirito della legge deve vendicare l'innocenza oppressa e soccorrere la sventura schiacciata dal destino... sì, eccola... eccola, la vostra prigioniera... via, Justine, via... corri a baciare i piedi di questo giusto protettore che non ti abbandonerà come gli altri... Oh signore, se i legami dell'amore con voi mi erano preziosi, come io saranno di più ora abbelliti dai nodi naturali, stretti dalla più tenera stima!».
E quelle due donne abbracciavano con passione le ginocchia di un così generoso amico e le bagnavano di lacrime. Si parte. De Corville e la signora de Lorsange facevano a gara per far passare Justine dall'eccesso della sventura al culmine del benessere e della prosperità; con gioia la nutrivano dei piatti più gustosi, la facevano dormire nei letti migliori, volevano che si sentisse padrona in casa loro, con tutta la delicatezza che si poteva desiderare da due anime sensibili come loro... La sottoposero per vari giorni ad ogni attenzione, con bagni, cure, abbellimenti; era l'idolo dei due amanti, facendo a gara a chi per primo riuscisse a farle dimenticare le disgrazie. Con particolare cura uno specialista riuscì a farle sparire quel marchio ignominioso, frutto crudele della scelleratezza di Rodin. Tutto andava secondo i desideri della signora de Lorsange e del su dolce amante; i segni della sventura stavano ormai sparendo dalla meravigliosa fronte dell'amabile Justine... le grazie vi ristabilivano il loro dominio; alle tinte 'liide delle sue guance d'alabastro subentravano quelle rosa della primavera; il sorriso, assente da tempo su quelle labbra, vi ricomparve infine sull'ala dei piaceri. Le migliori notizie arrivavano da Parigi, de Corville aveva messo in moto tutta la Francia, aveva rianimato lo zelo di S. che si era unito a lui nell'illustrare le disgrazie di Justine e per restituirle una tranquillità che le spettava di diritto... Finalmente arrivarono lettere del re che scioglievano Justine da ogni processo ingiustamente intentatole fin dalla fanciullezza, le restituivano il titolo di onesta cittadina, imponevano per sempre il silenzio a tutti tribunali del regno che avevano complottato contro questa sventurata e le accordavano milleduecento libbre di pensione dai fondi sequestrati nel laboratorio dei falsari del Delfinato. Poco ci mancò che non morisse dalla gioia venendo a conoscenza di così brillanti notizie; pianse per diversi giorni di seguito per la commozione in mezzo ai suoi protettori, quando tutt'a un tratto il suo umore cambiò senza che fosse possibile capirne il motivo. Divenne cupa, inquieta, pensierosa, piangeva a volte tra i suoi amici senza saper lei stessa spiegarne il motivo.
«Non sono nata per tanta gioia...» diceva a tratti alla signora de Lorsange, «oh mia cara sorella, è impossibile che possa durare!».
Cercavano in mille modi di convincerla che le sue pene erano finite, che non doveva sentirsi più inquieta; l'attenzione posta nel non nominare nelle memorie fatte per la sua difesa nessuna persona con cui aveva avuto a che fare, temibile per la sua importanza, non riusciva a renderla tranquilla; e poi, essendo tutto impossibile, si sarebbe detto che quella poverina, predestinata alla sventura, sentendo la mano dell'avversa sorte incombere sempre su di lei, prevedesse l'ultimo colpo che doveva uccideda.
La signora de Lorsange abitava ancora in campagna; era verso la fine dell'estate, e stavano pensando ad una passeggiata quando un temporale che si era formato sembrò sul punto di scatenarsi; il caldo eccessivo aveva costretto a tenere tutto aperto nel salone. Brilla il lampo, cade la grandine, soffia il vento impetuoso, rimbombano tuoni spaventosi. La signora de Lorsange è terrorizzata... La signora de Lorsange ha una paura terribile dei temporali, e supplica la sorella di chiudere ovunque al più presto; de Corville rientrava in quel momento; Justine, tutta presa dal calmare sua sorella, corre verso una finestra, lotta un istante col vento che la respinge, e in quello stesso momento un fulmine la butta in mezzo al salone lasciandola priva di vita sul pavimento.
La signora de Lorsange lancia un grido lamentoso, ... sviene; de Corville chiama aiuto, si prestano cure ad ambedue, la signora de Lorsange torna in sé, ma la sventurata Justine era colpita in tal modo che non c'era più speranza per lei. Il fulmine, entratole nel seno destro, le aveva bruciato il petto ed era uscito dalla bocca sfigurandole in tal modo il volto che incuteva orrore a guardarla. De Corville voleva farla portar via subito. La signora de Lorsange si alza con molta calma e lo ferma.
«No,» dice al suo amante, «no, lasciatela un istante ancora sotto il mio sguardo, che io la guardi per rafforzarmi in quanto ho proprio adesso deciso; ascoltatemi, signore, e non opponetevi soprattutto alla decisione che ho presa e che nulla al mondo potrà farmi cambiare. Le disgrazie inaudite sopportate da questa sventurata, per quanto abbia sempre rispettato la virtù, sono troppo straordinarie, signore, per non aprirmi gli occhi su me stessa; non pensiate che certi falsi splendori di felicità di cui abbiamo visto godere nel corso delle sue disavventure gli scellerati che la tormentarono, mi accechino. Certi capricci del destino sono enigmi della provvidenza che non dobbiamo spiegarci, ma che non devono sedurci; la prosperità del malvagio è soltanto una prova cui ci sottopone la provvidenza, è come il fulmine i cui ingannevoli bagliori abbeuiliscono un solo istante l'atmosfera per far precipitare nell'abisso della morte lo sventurato che colpisce... Eccone un esempio sotto i nostri occhi; le calamità verificatesi, le disgrazie spaventose e continue di quella povera giovane sono un avvertimento che l'Eterno ci manda perché io mi penta delle mie colpe, ascoltando la voce del rimorso e gettandomi infine tra le sue braccia. Che trattamento devo temere da lui... io con dei crimini sulla coscienza che vi farebbero rabbrividire se li conosceste... io che il libertinaggio e l'irreligiosità... l'abbandono di ogni principio hanno segnato in ogni istante della vita?... Cosa posso aspettarmi, visto com'è trattata una che non ebbe un solo errore volontario da rimproverarsi in vita sua?... Separiamoci, signore, è tempo... nessun legame ci unisce, dimenticatemi, e acconsentite che con eterno pentimento abiuri ai piedi dell'essere supremo le infamie di cui mi sono macchiata. Questo colpo terribile era tuttavia necessario per me perché mi convertissi in questa vita per il bene che oso attendermi nell'altra; addio, signore, non mi vedrete più. L'ultimo segno di amicizia che mi aspetto da voi è di non compiere nessuna indagine per sapere che fine abbia fatto; vi aspetto in un mondo migliore, le vostre virtù vi ci condurranno; le mortificazioni che sopporterò per espiare i miei crimini negli infelici anni the mi restano da vivere, possano permettermi di rivedervi un giorno».
La signora de Lorsange lascia subito la casa, fa attaccare una vettura, prende un po' di denaro con sé, lascia tutto il resto al signor de Corville, indicandogli dei pii lasciti, e vola a Parigi dove entra tra le Carmelitane e dove nel giro di pochi anni diventa un modello e un esempio, sia per la devozione sia per la saggezza del suo spirito e l'estrema regolarità dei suoi costumi.
Il signor de Corville, degno di ottenere le più alte cariche della patria, ne accetta gli onori esclusivamente per il bene del popolo, la gloria del sovrano e la fortuna dei suoi amici.
Voi, lettori di questa storia, possiate trarne lo stesso profitto di quella donna mondana che si emendò, possiate convincervi con lei che la vera felicità risiede solo in seno alla virtù e che se Dio permette che sia perseguitata in terra, è per prepararle una più lusinghiera ricompensa in cielo.

Finito in quindici giorni, l'8 luglio 1787.