IL MAESTRO

GISELLA SELDEN-GOTH

FERRUCCIO BUSONI

UN PROFILO

Firenze, Olschki, 1964

pp. 3-8 e 121-130

 

 

[…] conosco un solo lavoro in lingua straniera che analizza la vita e l'opera busoniana, quello di Edward Dent, uscito in inglese e tedesco nel 1933, non definitivo neanche esso. […] Nondimeno il libro del Dent - opera di un devoto amico, per parecchi anni seguace di Busoni nelle sue vicende in casa sua e durante i suoi pellegrinaggi di virtuoso, intimo della famiglia, l'unico a cui fu permesso io studio dl molte lettere e documenti di carattere privato - rimane per ora la più autentica ed autorizzata fonte dalla quale raccogliere dati sulla vita e l'opera del Maestro.

La grande tragedia del fenomeno Busoni è che egli è scomparso troppo giovane. […] Busoni è morto da uomo non finito. La durata del suo cammino terrestre non gli ha accordato il tempo necessario per perfezionarsi nella maniera più alta e compiuta come egli lo intendeva per un artista. Badate che parlo solo del compositore, e non del pianista unico, mai eguaguato mai superato, del pianista rimasto quasi una leggenda, che ha tolto a coloro che lo hanno sentito suonare spesso e da vicino ogni desiderio di assistere ad altri concerti di pianoforte. Era il pianista che aveva esaurito le possibilità del come rendere sulla tastiera la grande musica degli antenati. Come pianista non è morto troppo presto; aveva estratto dal suo strumento tutto quello che si può e si potrà dargli ed estrarne nei secoli. Ma come musicista creatore aveva avuto poco tempo. Dopo aver passato un periodo di puro epigonismo - il primo - ed un altro, secondo, assai brillante, impregnato di tendenze di schietto virtuosismo, Busoni compositore giunse al suo terzo ed ultimo periodo di lavoro. Era quello nel quale egli riuscì a chiarire definitivamente il suo concetto per il quale coniò il termine «Nuovo classicismo».

Rimase fermamente convinto che questo concetto dovesse avere una profonda ripercussione ed un significato rivoluzionario per le future generazioni di musicisti. Infatti le influenze di questo terzo periodo su di noi, sopravissuti, non sono ancora abbastanza apprezzate e valorizzate. Non ci rendiamo conto della importanza del Busoni maturo, per la storia della musica nel ventesimo secolo. Solo dieci anni prima di sparire egli trovò l'indirizzo che gli parve giusto di seguire, e non più di dieci dei cinquantotto anni saturati di musica in ogni respiro, gli fuoron dati dalla sorte per tentare di proporsi la vera mèta verso la quale cercò di navigare il suo genio anelante. Quando rivalutiamo questo inquieto cammino terrestre, spezzato nelle sue ultime e più fervide speranze di poter porre la battuta finale all'opera sua, non possiamo altro che affliggerci; più che per la scomparsa di un nostro amato, venerato, grande Maestro ed Amico, per la incolmabile perdita che ha sofferto la musica dei nostri tempi. Oggi, quasi quattro decenni dopo quell'infausto 27 luglio 1924 che vide l'ultimo crollo di un fisico consumato, non più in grado di soste­nere i continui strazi di una anima senza pace, di un cervello mai a riposo, cominciamo a comprendere cosa vuol dire questa mancanza. Ed a ribellarci al pensiero che in condizioni più pacate e con maggiori cure si sarebbe forse potuto prevenirla. […]

Siamo pochissimi ormai, superstiti, ad aver avuto il privilegio di essere stati sottoposti alla diretta influenza educativa di Busoni. […] Chi scrive non può vantarsi di avere goduto l'insegnamento vero e proprio del Maestro. Invece è fortunata di poter conservare il vivissimo ricordo della sua amicizia, di tante ore passate nella sua compagnia; di averlo avvicinato con il suo stesso consenso e di essere entrata nel cerchio magico che il suo temperamento seppe formarsi intorno. Cerchio nel quale i giovani che lo ricercavano col cuore e con l'intelletto aperto, vennero esortati a partecipare ai suoi ideali, al suo modo di pensare. Siamo rimasti in pochi, ed il subbuglio di questi ultimi decenni ci ha sparpagliati attraverso tutto il mondo. Ma quando ci incontriamo, cambiati ed invecchiati, ci sentiamo subito legati gli uni agli altri da una specie di segreta massoneria. Ci riconosciamo fin dalle nostre calligrafie, affini alla sua, che ancora portano le tracce indelebili di un ascendente umano, come forse non se ne verrà a subire uno simile mai più. […]

[…] Sappiamo dallo stesso Goethe quanto gli fosse imminente la facoltà di rendere felici coloro che lo circondavano. Il caso dell'Eckermann e delle sue imperiture «Conversazioni», caso al quale abbiamo già accennato, rimane come la prova più conclusiva per questa capacità. Anche Busoni era dotato di un simile potere, e in questo potere umano - non in quello artistico - credo di riconoscere qualcosa della sostanza «goethiana», sostanza verso la quale egli stesso si sentiva irresistibilmente attirato. Tanto più vorrei distinguere qui fra l'uomo e l'artista, quanto vorrei evitare che il confronto venga risentito come irriverenza verso il poeta olimpico. La grande differenza fra il raggio di azione e di influenza di un genio letterario, universale, ed un musicista, implica da sé l'impossibilità di un tale confronto. Sia quindi escluso a priori ogni paragone fra i due ingegni creatori. Non nel virtuoso, nel compositore, nell'artefice del suo mestiere di suòni, a qualsiasi grado vorremmo valutarlo, ma nell'uomo Busoni si può cercare e trovare l'elemento goethiano. Dalla sua umanità si palesa chiaramente il legame del musicista, di origine e di temperamento tanto diversi quanto ­erano diversi i lineamenti della sua vita, col Saggio di Weimer. A Goethe egli si sentiva sempre attirato e vincolato da un sentimento vago e misterioso; finché lo studio ininterrotto di tutte le manifestazioni intellettuali e morali del suo modello lo aveva invaso con una intensità che dava negli ultimi anni persino l'impronta di somiglianza alla sua fisionomia ed al suo comportamento, ricordanti tutto quel che sappiamo di Goethe. Ricordava il poeta nel parlare, nello scrivere, nell'intero contegno; lo ricordava anzitutto nella sua insaziabile avidità di sempre voler imparare ed istruirsi, nella universalità dei suoi interessi che non erano limitati al suo campo speciale. Come Goethe, era instancabile nel solcare le terre del suo lavoro ed a seminare nuova semenza nelle zolle. Instancabile anche nell'osservare i fenomeni effimerie giornalieri che gli passavano innanzi; nella smania di voler scoprire ad ogni costo valori nascosti in tutti quelli che lo avvicinavano e di tentare di strappar loro cognizioni ed informazioni speciali. Come Goethe, egli stava continuamente raccogliendo nell'enorme serbatoio dei suo sapere le onde di energia spirituale che da tutte le parti gli arrivano; per poi restituire il raccolto, assimilato e depurato, mille volte più prezioso, ai suoi discepoli in ispirito. Se Busoni non avesse mai toccato un tasto o scritto una sola nota, oppure se per qualche occorrenza fatale la sua opera omnia fosse sparita dalla percezione della sua generazione, chi lo conosceva ricorderà sempre la sua figura rivestita di tutti gli attributi del «Genio».

Non è da escludere che un uomo, per nulla idoneo a comprendere i valori poetici della «Ifigenia», del «Tasso», perfino queffi del «Faust», possa trarre dalla familiarità intima coi diari autobiografici, con le lettere, conversazioni e resoconti dei contemporanei, con le forme della vita quotidiana di Goethe, il massimo bene per il proprio sviluppo. Così in un mondo ove il culto di Goethe risulta sempre in aumento, e la sua più preziosa eredità non sembra la sua opera, bensì il misterioso fluido personale che ancora emana da lui più di un secolo dopo la sua morte, noi sentiamo ancora la sua sicurezza di possedere un Ego nel più alto senso della parola, la sua coscienza di una responsabilità universale, la sua visione personale di tempo ed eternità. E mentre leggiamo e rileggiamo i suoi scritti e il documentario della sua vita, ci sembra che dovremmo innalzarci noi stessi fino a livelli più alti di qualità etiche che non avessimo mai sognato di poter raggiungere. Così a chi la fortuna ha permesso di vivere per qualche tempo accanto a Busoni, questa medesima sensazione non è rimasta estranea.

L'influenza di Busoni su individui umani aveva qualcosa di inquietante e di magnetico. Conoscevo di quelli che per caso, per curiosità, per capriccio, o anche spinti dal semplice desiderio di sentire un buon pianista, capitavano ad uno dei suoi concerti, riportando da quella unica serata uno sconvolgimento psichico che ormai faceva loro vedere il mondo e l'arte diversamente, e senza esserne coscienti sentivano che qualcosa di eccezionale si era svolto davanti a loro, qualcosa di straordinario, la cui spiegazione eccedeva i limiti della loro immaginazione. C'erano altri che per un breve periodo venivano portati dal destino nella sfera di Busoni; vi sostavano per mesi, per settimane, o anche solo per pochi giorni, e dopo esserne usciti si accorgevano di aver subito un cambiamento violento che trasformava il loro modo di pensare e di affrontare i problemi della vita. Le serrature arrugginite della loro coscienza artistica ed etica si erano aperte e non si richiudevano più; rimaneva il senso della responsabilità verso se stessi, più o meno manifesto, ma incancellabile. E poi c'erano gli uomini e le donne il cui cammino aveva toccato quello di Busoni per non abbandonano mai più. Le loro strade rimanevano più o meno attigue, ogni tanto si distaccavano, poi di nuovo si avvicinavano, senza phi poter cambiare direzione la Sua direzione. Veniva il giorno quando tutto il loro fare e pensare cominciava a ròtare intorno a questo loro sole; egli era diventato la loro idea fissa, la sua parola il loro Vangelo, la sua opera il loro dogma, il suo ethos la loro Bibbia. Non sapevano scrivere un rigo che nel subcosciente non fosse indirizzato a lui, e non sperimentavano nessun avvenimento spirituale che non gli facesse sorgere il desiderio di sottoporlo al suo giudizio. Vedevano coi suoi occhi, udivano coi suoi orecchi, e le vibrazioni nervose del loro sensorio si acutizzavano ipnotizzate fin a quel grado di affinità misteriosa che faceva assumere alle loro calligrafie la sembianza manifesta con la sua. L'artista succhiava il loro spirito come un vampiro; li dominava con una autocrazia fino al punto che molti - e non erano i peggiori! - venivano a soffrire acutamente di questa quasi patologica servitll. Ma proprio le nature sensitive che risentivano il più dolorosamente tale sottomissione, ne uscivano, una volta superatala più indipendenti e più ricche. Perciò il suo ascendente sulla gioventù del suo tempo è stato enorme e chi lo ha subito non ha mai saputo dimenticare quanto sia rimasto debitore ai consigli e all'interessamento personale del Maestro affettuoso.

Come le lettere di Busoni venivano indirizzate più ad una falange fittizia di lettori che non al singolo destinatario, così anche le famose conversazioni intorno al suo tavolo risultavano spesso dei discorsi rivolti a un uditorio in platea invece che all'ascoltatore a cui credeva esporre pensieri e giudizi. Seguire questi discorsi e reagire ad essi non era sempre cosa facile. Ciascun partecipante doveva tenersi su un costante «chi-vive»; la minima inattenzione veniva subito notata e rimproverata dall'oratore che chiedeva da ognuno la stessa concentrazione sull'argomento che sapeva metterci egli stesso. Le riunioni richiedevano anche una considerevole abnegazione da parte dei discepoli, per star attenti che in momenti di contraddizione e di irritazione non venisse rotto il sottile filo della discussione; richiedevano una grande mobilità dell'intelletto per poter tener dietro ad un corso di idee astratte, fluttuanti e speculative di uno che era solito irritarsi al minimo segno di disattenzione. L'orecchio di Busoni era oltremodo vigile; sorvegliava attentamente gli ascoltatori per non lasciarsi sfuggire un solo segno di pigrizia nel pensare, e per non lasciar passare alcuna frase vuota e convenzionale senza rimprovero. La sua argomentazione era acuta ed oggettiva; senza pietà scopriva i lati deboli dell'avversario, commentava sarcasticamente ogni traviamento, sapeva ricordare dopo anni una parola poco felice, risultato di una dialettica inabile e non addestrata. Richiedeva l'esattezza assoluta ove si trattava di mantenere una tesi, e mai volle rinunziare alla soluzione di un problema, disattentamente offerto per discussione, anche se quello che l'aveva proposto avrebbe poi preferito di passarci sopra. Inoltre riteneva naturale che quelli che partecipavano alle sue riunioni e colloqui potessero dimostrare un livello di educazione e di cultura non troppo al di sotto del suo proprio, e guai a chi si faceva sfuggire delle accertazioni vaghe, insicure o anche solo indocumentabili. Dava grande importanza alla intima conoscenza delle letterature di tutti i tempi e campi; quando scopriva una lacuna, alzava le spalle con aria di delusione e di rammarico; e non si mostrava ingannato da nessun pseudo-sapere tratto da dizionari che nascondesse una mancanza di giudizio indipendente. Richiedeva non solo una convinzione, ma anche la volontà di professarla, non solo che si avesse un giudizio individuale, ma anche la facoltà di saperlo appoggiare con buon senso. Per tutto ciò era necessaria non poca energia da parte dei partecipanti per mantenere il loro equilibrio in quel purgatorio spirituale. Si doveva sostenere talvolta la propria opinione di fronte a certi atteggiamenti ostinati di uno che nelle giornate nervose tollerava difficilmente ragionamenti non corrispondenti ai suoi. C'erano nel cerchio che si riuniva regolarmente sia a Zurigo, sia a Berlino prima e dopo l'intervallo in Svizzera, elementi che professavano una eccessiva idolatria del Maestro fin a creargli intorno un'atmosfera di esagerazione poco simpatica. C'era chi riteneva opportuna di accettare come sacrosanta ogni parola, anche se ingiusta, violenta, parola che sapeva ferire con pungente ironia. Busoni faceva accoglienza affabile - e non di rado - a tutti coloro che si struggevano di essere ammessi nella sua orbita familiare e spirituale; ma dopo qualche tempo sapeva bene distinguere fra i valori dei suoi veri e sinceri seguaci e colori che lo ricercavano spinti da motivi di vanità o di sciocco fanatismo. Di questi si disinteressava senz'altro, li ignorava nelle sue discussioni ed era capace di mostrare il suo disprezzo in attacchi di malumore che gettavano un acuto senso di disagio su tutta la riunione. L'artista, autentico gran signore, che usava la phi squisita cortesia nei rapporti coi suoi prossimi, era incapace di simulare quando si trattava dell'arte. Non conosceva la menzogna, neppure per risparmiare la sensibilità di una persona amica che non rispondesse alle sue proprie pretensioni, né, quando si trattava per qualche ragione personale o di opportunità, di giudicare favorevolmente un lavoro che disapprovava. Nessuna convenzione, nessun riguardo verso chicchessia lo avrebbero indotto a profferire una parola di approvazione che non fosse nata dalla sua sincera convinzione. Chi non rispondeva alle sue aspettative veniva respinto ed abbandonato senza misericordia. Fermamente convinto di essere dotato di ingegno superiore e di dover compiere una missione, si assunse il diritto di rimanere fedele solo a se stesso, ma non a coloro legati a ligi in una comunità non più che transitoria. E cosi molti, che non si sentivano atti a seguirlo come lo intendeva lui, sono rimasti discosti sulla strada, delusi e amareggiati.

Sapersi il centro del circolo di discepoli da cui fosse stato eliminato chi non poteva andare avanti a pari passo, significava per Busoni la più grande felicità. di estrema importanza per la vita spirituale di una generazione che un uomo dotato di tale potere di ispirazione possa anche esserle insegnante e guida. Busoni possedeva in massimo grado il dono della comunicazione da maestro ad allievi; era appassionato nell'istruire, nel far partecipare la gioventi a quello che egli stesso sapeva, tentava, quel che aveva compiuto e che voleva ancora compiere. Amava la gioventù perché il contatto con essa aumentava le proprie energie e serviva a documentare di giorno in giorno che la sua elasticità ed impressionabilità di fronte ai fenomeni phi diversi non stava per diminuire. Cinquantenne si sentiva ancora giovane fra i giovani ed era a loro grato che non lo considerassero come uno già chiuso ai loro problemi ed incognite, non più partecipante ai loro dubbi e alle loro pene. Era cosciente che l'ininterrotto contatto con la gioventù facilmente entusiasmata, lo proteggeva dall'invecchiare. Istintivamente cercava mercé quella adesione di arrestare il tempo che fuggiva; preoccupato di non poter portare a fine la sua missione, riceveva l'affetto della gioventù come un frutto delle Esperidi, che gli offriva la vitalità quotidianamente rinnovata. Uno dei suoi più belli scritti è rivolto «Alla Gioventii» alla quale dice: «A voi va il mio amore e così sarà anche in futuro. I vostri piani irrealizzabili, le vostre domande ardite, le vostre obbiezioni disarmanti, le vostre fiere contraddizioni, i vostri cuori che pulsano veloci, essi scavano la terra e vi spargono nuovi semi».

Ma, aggiunge, anche era troppo ottimistico, perché la gioventù è per lo più conservatrice, e le sue promesse sono fallaci. Le delusioni non mancarono neanche a Busoni insegnante, e molti anni dopo la sua morte si viene ogni tanto a riflettere cosa avrebbe detto se avesse potuto seguire la carriera di qualcuno dei giovani usciti dalla famosa classe di composizione alla quale teneva tanto negli ultimi anni della sua vita. Si è parlato già di quei pochi che hanno conquistato i loro posti e il loro successo nella vita musicale dei nostri tempi, ed anche di quanta resistenza fu opposta all'incarico conferitogli ufficialmente da parte dell'Accademia delle Arti a Berlino che lo riconosceva titolare di composizione. Molte voci si alzarono per mettere in guardia gli studenti col motivo che, sotto la sua guida, soggetti alla sua persuasione, sbalorditi dal fascino della sua retorica, correvano il pericolo di soccombere a una totale eliminazione della propria individualità. Si diceva che quella influenza fosse atta a rovinare ogni indipendenza di giudizio, che non volesse lasciar maturare nessun germe bisognoso di cure, né permettere che un talento sottile potesse invigorirsi mentre era soggetto a tanta pressione. I suoi corsi per composizione venivano giudicati poco idonei a formare musicisti che ascoltavano le voci e seguivano gli impulsi della propria fantasia; invece si aspettava di vederne uscire solo imitazioni goffe del loro unico ed inimitabile Maestro. Chi avesse osservato da vicino l'andamento e i risultati del suo metodo d'insegnamento sapeva quanto poco fossero fondate quelle obbiezioni. Busoni anzitutto insegnava il massimo rispetto di fronte ai maestri del passato e alle loro opere; non si stancava di raccomandare all'allievo di studiare a fondo i loro lavori, di prendere esempio dalle loro tecniche. Faceva di tutto per inoculare in loro l'amore e l'ammirazione dei Grandi, e li ammoniva a non dimenticare mai che, misurato alla padronanza di mezzi come l'avevano Bach, Mozart, Beethoven, quel che loro sapevano era ben poco, e che non spettava a loro di rinnegare il passato della storia. Benché continuamente diffamato come innovatore, sovvertitore, «futurista», egli sempre dichiarava d'esser contrario agli estremi di uno sviluppo poco sicuro delle sue mete; disapprovava le aberrazioni di talenti mediocri che cercavano di proclamare le leggi di progressi puramente tecnici. Gli era antipatica tanto l'avidità della «modernità»' quanto la paura di lasciarsi fuggire un adesione alla più recente congiuntura musicale. «Dovete studiare, sempre studiare» - diceva ai giovani - «sempre lavorare, sempre esercitarvi, sempre riflettere; cosI che le vostre idee, appena venute alla luce dalle profondità del vostro subcosciente, trovino la loro immanente forma. L'intenzione non basta, l'apprendere è indispensabile». E un giorno mi scrisse: «Fantasia e sentimento sono innati, ma solo col plasmarli li si trasforma in Arte... Non si lasci trascinare da gusti correnti, ma tenga sempre presente che propri concetti richiedono proprie forme, propri sentimenti propri mezzi per essere espressi... E questo che io chiamo morale artistica». [Lettera all'autrice del 7 febbraio 1921.]

Per illustrare ancora l'illimitato affetto di Busoni per il suo idolo Mozart e nel medesimo tempo il suo metodo di animare i giovani alla stessa devozione, voglio aggiungere qualche frase estratta dalla medesima lettera: «Per meglio spiegare la mia precedente argomentazione Le raccomando il seguente esercizio: Prenda 64 battute da un

buono sparito di Mozart e si metta ad orchestrarle senza guardare prima la partitura originale. Poi confronti la sua strumentazione con quella di Mozart. Se Lei ripete sistematicamente questo lavoro, compirà un corso di addestramento straordinario e verrà a sapere in modo convincente quanta perfezione ingegnosa, "definitiva" si nasconde sotto la pretesa primitività di Mozart. Lei e gli altri, chicchessiano, non arriverete mai a "toccare il punto"; sentirete sempre la sua superiorità e dovrete riconoscere - Lei e gli altri - che sarete sempre più "primitivi" di Mozart.» [Lettera all'autrice del 7 febbraio 1921.]

Nessun discepolo, nessun musicista, nessun animo umano ha potuto lasciare l'atmosfera di Busoni senza conservarne la coscienza di avervi passato un'esperienza travolgente della sua vita. Il suo esempio della più elevata umanità e di un lavoro instancabilmente rivolto verso la perfezione, doveva svegliare il massimo bene che riposa latente in noi tutti. La forza che emanava da lui continua ad agire e ad operare in noi che siamo stati inclusi per qualche tempo nel cerchio della sua esistenza; e per tutto quel che ci ha dato, la nostra gratitudine non può mai venir espressa abbastanza. […]

Forse non stona qui citare ancora una frase di Goethe: «L'Uomo viene sepolto in terra consacrata; e così si dovrebbero anche seppellire i grandi e rari avvertimenti in un bel sarcofago del ricordo, davanti al quale ognuno può fermarsi per fare la sua devozione.».

 

 



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