SINOPOLI INTERPRETE

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ARIANNA A NASSO DI RICHARD STRAUSS - Il maestro Sinopoli concerta e dirige l'«Arianna» giusta una propria originale concezione la quale è perfetta, ossia realizzata fino in fondo. È certo che essa avrebbe fatto inorridire l'Autore, il quale per tutta la vita preferì l' allusione, il sottotono, il non detto, all'esplicito. Ma il tempo muta le prospettive, e la fedeltà non va a volte esercitata verso una pur espressa volontà dell'Autore siccome persona, ma verso l'opera nella sua obbiettività . Allora di tale concezione vanno attestate ratio e coerenza. Sinopoli dirige l'«Arianna» come l' avrebbe diretta Celibidache se mai al teatro si fosse dedicato. Ciò vuol dire ch'egli costringe l'ascoltatore - spettatore a uno sforzo di concentrazione, a una tensione intellettuale, che producono il seguente risultato: mai come qui hai la gioia di cogliere con sensi e intelletto che Strauss è il sommo genio musicale del Novecento, ma è anche uno degli uomini più intelligenti che nel Novecento siano vissuti. La partitura dell'«Arianna» è sgargiante. Sinopoli riesce senza tradirla a distendervi quasi dappertutto un funebre velo timbrico. Ma ciò non nuoce alla trasparenza con cui scaturisce l'intrico orchestrale, rectius di trentasette strumenti solisti, alla Scala degni della partitura. L' analisi è d'inaudita profondità, si spinge non solo a mettere in rilievo singole linee (pensiamo al primo corno, che vorrebbe starsene acquattato e viene di continuo, ricavandone onore, stanato), singoli contrappunti tematici, addirittura a ripensare il peso di singole note componenti accordi. La lentezza dello stacco dei tempi favorisce di certo la minuzia dell' analisi, ma è componente dello stesso velo funebre. Chiameresti scientifica l'analisi se non fosse piena di poesia, e lo cogli dalla delicatezza dei trapassi, del rapporto fra musica e poesia, superbamente salvato ed esaltato. È palese essere per Sinopoli l'«Arianna» l'ultima volta che la civiltè europea, fingendo d'ironizzare su se stessa e di dedicarsi a un fatuo giuoco intellettualistico, tributa l'omaggio al grande Mito tragico in quello che la retorica definisce lo Stile Sublime. Nel far ciò, ripercorre se stessa in una vertiginosa sintesi storica e stilistica per straforo. Con l'«Arianna», le ultime parole sono dette: altre pur ne vennero ancora pronunciate, sin da Strauss medesimo. La coerenza concettiva si estende alla figura, sia ciò per il convergere di volontà autonome o per volontà geneticamente comune. Beninteso, si parla dell'atto tragico, non del Prologo. L'isola di Nasso non altro è che la celeberrima dei morti di Böcklin, però tridimensionale e rotante su se stessa; fino ad aprirsi a metà durante l'incielamento degli dei, mostrando di tra i lembi la riproduzione di se stessa con le divine figurette che s'allacciano, in Eterno Ritorno nicciano. L'isola dei morti, celestialmente serena, perché Arianna, convinta d'appartenere al ceto degl'Inferi, attende Hermes che ve la conduca, e per tale piglia Dioniso.

[Paolo Isotta, Corriere della Sera, 10.4.2000]

PRIMA SINFONIA DI GUSTAV MAHLER - A Sinopoli va riconosciuto il grande merito di rendere esplicita la dimensione problematica di quest'opera dove il giovane Mahler riversa tutto se stesso, come a voler tutto dire della sua nostalgia per la bellezza, e dell'intimo strazio che ne viene. Quasi tutti gli interpreti intendono l'opera in una prospettiva che va dall'estetistico all'edonistico. Di primo acchito, può sconcertare la monocromia che investe il primo movimento nella lettura di Sinopoli: pian piano ci accorgiamo che esso si edifica accogliendo come objets trouvés gli echi di canto, il «suono di natura», la stessa luminosa tonalità di Re maggiore. Non sono più «se stessi», nella loro immediatezza emotiva: sono alibi per una costruzione sinfonica che non ha sostrato. Di qui, la forma quasi pietrificata con la quale Sinopoli li pone in successione: non si potrebbe immaginare nulla di meno edonistico della scansione dura e nervosa del secondo movimento; persino il Trio, che nove interpreti su dieci fanno volteggiare come un Valzer, acquista un aspetto nevrotico e fantasmatico. La morbida melodia mahleriana, che potrebbe venire da un'operetta di Johann Strauss, sembra già il ricordo raggelato di se stessa. Dietro Mahler non c'è una storia: c'è una sola ghiacciata moltitudine di morti, come nel verso di Montale. Non sorprende, allora, che il terzo movimento sia il centro dell'interpretazione di Sinopoli: terribilmente statico, come la fotografia in bianco e nero di personaggi che abbiano smarrito il proprio destino, e se ne vadano ciascuno per diversa via, dopo che la luminescenza del fosforo del fotografo li abbia ingannevolmente riuniti. Nel canto volgare e lacerato di questo movimento si ascolta con Sinopoli la risonanza della musica klezmer, mai così vicina a Mahler, con la sua struggente, disperata bellezza. Il Finale, che in una fase della progettazione Mahler intitolò, purtroppo, «Dall'Inferno al Paradiso», è così l'affermazione volontaristica di un ottimismo palesemente contraddetto; e il tripudio nel quale la Sinfonia si chiude risuona come antifrasi di se stesso.

[Francesco M. Colombo, Corriere della Sera, 30.12.1996]

PARSIFAL DI RICHARD WAGNER - La definizione di Parsifal quale «azione scenica sacra» e la presenza in esso di alcuni elementi mutuati dai riti cristiani (insieme con altri elementi affatto eterogenei) hanno creato l'equivoco, accreditato in primo luogo e con probabile malafede da Friedrich Nietzsche, che l'ultima partitura di Wagner sia una sorta di cerimonia prossima ai contenuti della fede religiosa, se non proprio coincidente con essi: ciò che non è, non solo perchè un'analisi del testo poetico conduce a riconoscere il complesso sincretismo delle tradizioni esoteriche che vi si stipano; non solo perchè gli scritti teorici di Wagner, e in specie dell'ultimo Wagner di «Religione e arte», dissipano gli equivoci; ma soprattutto perchè la musica di «Parsifal», con la sua precisa configurazione semantica, è portatrice di significati che al sistema (sia concesso chiamarlo così, sulla scorta di Karl Lowith) della dottrina nietzscheana, e quindi ai nichilismi del nostro secolo, si apparentano: perdita dei valori, morte di Dio, mito sovrumanistico, concezione del tempo non lineare e progressiva ma sferica. Di tali significati è parsa addirittura un'esplicitazione la lettura che dell'opera wagneriana ha compiuto l'altra sera a Roma Giuseppe Sinopoli, che ha diretto «Parsifal» in forma di concerto all'Accademia di Santa Cecilia: sì che diremmo la sua un'operazione dimostrativa, non fosse la risoluzione estetica ancor più stupefacente dell'acribia intellettuale palesata dal direttore d'orchestra. L'apparato celebrativo del capolavoro, ripulito di quell'aura estetistica le cui conseguenze storiche si dànno soprattutto nell'ambito del decadentismo francese, conserva con Sinopoli la sua imponenza; ma proprio il grandeggiare dei gesti e la disciplina marziale finalmente riacquisita (dopo tante interpretazioni edulcorate) sembrano alludere al senso del vuoto, a un lutto irrimediabile, all'angoscia metafisica che percorre la partitura e si addensa in improvvise risacche di inerzia ritmica e sonora, soprattutto nelle zone dove Kundry è protagonista: lì Sinopoli ricava colori ammorbati e illividiti; lì sospende l'impulso agogico e lascia lievitare una sorta di stato catatonico: davvero gli dèi sono fuggiti dal mondo, ogni valore è disperso; e tanto più impressionante pare l'affermazione sovrumanistica che nei finali del primo e del terzo atto, a partire dagli Interludi eppoi con i cori maschili, si illustra. Diversi parametri concorrono al risultato. Un colore orchestrale che rarissimamente concede sofficità e soavità, e piuttosto si impietrisce in una cupa risonanza di duro metallo; un fraseggio percorso da tensione aggressiva anche nei momenti di consueto abbandono, come l'«Incantesimo del venerdì santo», e fatte salve le cavità deserte, le stagnazioni di cui si diceva; un sensibilissimo, lancinante rilievo dell'inquietudine armonica allignante non solo nel second'atto (si pensi al Preludio del terzo!), e della poliritmìa che spesso vi si abbina; l'assenza quasi generalizzata di dolcezza nelle modalità dell'emissione del suono: laddove si dia, si tratta di una dolcezza malata e mortifera. È un Parsifal spietato: del 'moderno' vi si svelano avvisaglie lessicali che puntano alle ultime Sinfonie di Bruckner, il cui 'fiammeggiante oro antico' riconosciuto da Spengler è con Sinopoli anticipato in Wagner, e ancora più in là, alle forze psichiche orrifiche ed estreme che esploderanno in «Elektra», alla sismografia dell'inconscio che verrà tracciata in «Erwartung» di Schönberg. La 'regìa sonora' imposta dal direttore nel secondo atto è particolarmente originale, quasi sconcertante. Le scene delle fanciulle fiori smarriscono ogni vaporosità: le figurazioni in terzine degli archi, cui pure Wagner prescrive l'indicazione «zart» (tenero, delicato), anziché scivolare verso lo Jugendstil paiono concrescere e stratificarsi accumulando un'eccitazione febbrile, senza scampo, dissolta infine con l'apparire di Kundry. Allora le linfe del giardino fatato si scoprono iniettate di tabe, e la stupenda Berceuse 'empoisonnèe' della tentatrice può distendere le spire del suo ondeggiante 'sei ottavi'. Ne fornisce il contrappeso la fortissima concitazione drammatica, al limite dell'espressionismo, cui l'atto si destina, con Sinopoli, nella sua metà seconda. [...]

[Francesco M. Colombo, Corriere della Sera, 8.4.1994]

SCHÖNBERG E BRUCKNER - In 'Verklärte Nacht' si impongono il colore bellissimo, straordinariamente caldo in ogni registro e sfumatura, e l'organicità di respiro degli archi dell'orchestra di Dresda. Sinopoli scava nella partitura con una chiarezza analitica esemplare, innerva di bruciante tensione i percorsi cromatici. Le elisioni sintattiche, le avvolgenti spirali del discorso. Così il delicato equilibrio dell'opera fra tradizione e innovazione resta in apparenza in tatto, poichè Sinopoli ne forza con acuta consapevolezza le proiezioni più avveniristiche e gravide di conseguenze. L'opera di Schönberg appare impavidamente protesa sul baratro rappresentato dalla fine di un linguaggio e al contempo dalla necessità di ricavarne nuove soluzioni espressive.
Anche in Bruckner [7ª sinfonia] Sinopoli evita la tentazione della malinconia e del ripiegamento intimista. Prende così corpo un'interpretazione di assoluto rigore strutturale, quanto mai emozionante per anticonvenzionalità e fascino. Si tratta di una lettura in chiave modernista, che lascia intravedere sotto le ampie e tortuose volute del sinfonismo bruckneriano la lucida chiaroveggenza nel dominare, quasi in senso drammatico, il materiale e le derivazioni tematiche. Ma si coglie anche il significato sperimentale della ritmica e, naturalmente, l'originalità livida e visionaria di alcuni impatti timbrici (specie nell'Adagio e nello Scherzo); qua e là, si giunge persino ad apprezzare un insospettabile tocco di eleganza. Grazie a questo radicale ripensamento interpretativo, l'esito è così intenso da mozzare il fiato.

[Cesare Fertonani, Corriere della Sera, 28 aprile 1993]

SCHUBERT E RICHARD STRAUSS - Sinopoli affianca due Sinfonie, anzi due mondi sinfonici molto lontani: la gioiosa freschezza profusa da uno Schubert diciannovenne nelle forme pure della sua Sinfonia n. 5 (1816), con l'idillio mattutino del suo Andante in mi bemolle maggiore, l'estrema economia delle forze in gioco (fiati ridotti a flauti, oboi, fagotti e corni); e, all'opposto, la «Alpensinfonie» (1914) del maturo Richard Strauss, narrazione (per orchestra gigantesca, con tanto di «macchina del vento» e «macchina del tuono») di un'ascesa montana: dai prati all'alpeggio, dal ghiacciaio alla conquista della vetta, fino all' arrivo delle nebbie, alla tempesta e al finale ritorno a valle, nella pace della sera. Racconto pittorico e insieme allegorico: la parabola dell' umana esistenza. Qui il cerchio si chiude. La mimesi del Viaggio non può rimandarci che a Schubert: ai suoi Lieder, ai suoi Viandanti innamorati, perduti tra i fiori o nella neve, eternamente in cammino alla ricerca di sé.

[Gian Mario Benzing, Corriere della Sera, 11 marzo 2000])

ALEXANDER ZEMLINSKY: Merita tutta la nostra gratitudine il maestro Giuseppe Sinopoli per aver prescelto, quale cardine del concerto di chiusura alla stagione della Filarmonica, la «Sinfonia lirica» per soprano, baritono e orchestra, di Alexander Zemlinski. La merita per l'alta qualità dell'esecuzione da lui diretta; la merita per l'impegno esecutivo affatto fuori del comune da profondersi nella grande partitura tardo romantica, e da lui effettualmente profuso; la merita per aver offerto alla meditazione del pubblico una delle più importanti opere del filone sinfonico liederistico, non sappiamo quante altre volte, e forse mai, apparsa alla Scala. E la merita, sia consentito, per un motivo ulteriore: per il rischio da lui consapevolmente corso. Non da oggi denunciamo il progressivo impoverimento nella capacità di asco lto del pubblico: un'opera dal linguaggio complesso e delicato insieme come la «Sinfonia lirica», in cui la rottura del linguaggio tonale si configura passim in via del tutto illusionistica a causa del germinare di linee contrappuntistiche, piace meno di composizioni assertive e demagogiche; di più, essa ha l'imperdonabile torto di chiudersi in un meraviglioso sfumare, piano e lentamente, laddove il pubblico ha per lo più necessità, per entusiasmarsi, di ritmi netti e rapidi, accordi reit erati, percussioni, fanfare... Risultato, qualche fiacco applauso di cortesia, ed ecco Zemlinski già sepolto. [...] Ho parlato, a proposito della «Sinfonia lirica», di repertorio sinfonico liederistico. Non di Lieder con orchestra, infatti, si tratta, ma di un'opera, modellata sul «Canto della terra» di Mahler, al quale vanno riferimenti diretti, e sull'«Anima tedesca» di Pfitzner, la quale in più si giova del coro e di ampi interludi sinfonici. Nella Sinfonia di Zemlinski una collana di liriche viene incastonata in un'autentica struttura sinfonica, e l'organicità compositiva viene assicurata anche grazie a un complesso sistema tematico. Le poesie adoperate da Zemlisnki all'inizio degli anni Venti sono di Rabindranath Tagore, e hanno per tema (se abusivamente possiamo sintetizzare) l'eros inteso quale esperienza metafisica. Il grande poeta indiano si inserisce con totale naturalezza nella corrente simbolista europea, sicchè Zemlinski, il quale pure non risparmia alla sua partitura i colori lussureggianti, non s'integra nell'altra tradizione dell'estremo Romanticismo, quella dell'esotismo. Ricerca, invece, nelle sue alchimie armoniche, quel confine, che tenta di rendere sempre più evanescente, fra eros e sacrificio, fra io e cosmo, fra io e notte, fra tempo e fine dell'illusione del tempo. Il clima è dunque assai simile a quello della Terza Sinfonia di Karol Szimanowski, non abbastanza ricordata al riguardo: su testi del grande persiano Rumi, ecco trasposti gli stessi temi, a conferma di quella misteriosa unità della poesia erotico mistica di che parla René Guenon. Pertanto, ecco riapparire, in modo del tutto naturale, Schopenhauer e Wagner nell'incontro fra un grande poeta e un grande musicistia dei nostri tempi. [...]
WOZZECK DI ALBAN BERG - Il nuovo allestimento del Wozzeck di Berg, che la Scala realizza, dopo vent'anni, sotto la direzione di Giuseppe Sinopoli, resterà, per merito dell'esecuzione musicale, tra i memorabili. La forma è quella, per noi insolita, dell'atto unico, che rispetto agli originali tre atti presenta vantaggi e svantaggi. [...] Il direttore d'orchestra delude su di un punto specifico, sprecando uno dei più misteriosamente poetici effetti del Wozzeck, gli accordi del coro interno (II, 5). Sono portati troppo «avanti», con suono troppo «presente»: li si vorrebbe lontani, nebbiosi, più timbro che armonia. Ah, i magici colori trovati dal maestro Gandolfi nell'edizione del '77! Per il resto, la prestazione fornita dal maestro Sinopoli pare a chi scrive, e limitatamente alla propria esperienza, la di lui migliore in assoluto, di gran lunga. È palese scaturire essa da uno studio e un amore per la partitura di Berg ambedue estremi, antichi e accompagnati da profonda meditazione. Sebbene l'analisi del tessuto strumentale, tematico e formale praticata dal direttore sia rigorosissima, in quanto possibile in un'esecuzione non discografica, essa non si staglia in primo piano. Sinopoli circonda la parola drammatica di cure degne della più alta ammirazione, sì da realizzare davvero l'esser teatro della partitura. Pone in rilievo con sapienza gl'innumerevoli figuralismi orchestrali rispetto alla parola che producono la quadratura del cerchio tipica di questa partit ura: l'orchestra del «Wozzeck» è insieme astratta e concreta nei rapporti con la vicenda. Concepisce come pochi il senso di unità narrativa e rappresentativa che il linguaggio musicale di Berg, in sé coerente, possiede. Ottiene dall'orchestra della Scala una lettura impeccabile ma si spinge ben oltre ciò, con una ricerca timbrica tanto personale quanto raffinata, raffinata in sommo grado. Ogni interludio è un gioiello interpretativo [...]. Il finale II, con quello spettrale Valzer ch'è davvero una pietra tombale del mondo pre-1914 (s'è pensato all'affinità con il Ravel della «Valse»?), è reso con potenza drammatica senza confronti. [...]

[Paolo Isotta, Corriere della Sera, 2.3.1997]

DAS RHEINGOLD DI WAGNER - Come tutto l'immenso edificio della Tetralogia wagneriana nasce dal primo suono, il profondissimo «Mi bemolle» dal quale sorgono, a poco a poco, il colore e la vita; così nel timbro che quel «mi bemolle» acquista con Giuseppe Sinopoli sembra esserci il senso di un'interpretazione che rimarrà nella storia. Quel suono primordiale è, con Sinopoli, un fondaco di ombre dolorose e grandeggianti: ciò che ne viene è una vicenda gloriosa e luttuosa. I timbri del «Ring» prendono una sfumatura livida, una consistenza impietrita; il passo è ampio e inesorabile: il «mistero della grandezza», come lo chiamava Burckhardt, abita questa musica. Iersera, Sinopoli ha condotto al festival wagneriano di Bayreuth il Prologo dell'«Anello del Nibelungo», l'atto unico dell'«Oro del Reno», cogliendo un trionfo personale formidabile, ma soprattutto dando evidenza straordinaria al senso drammatico e tragico che egli possiede. È qualcosa che i direttori wagneriani non osano più, e che i wagneriani conoscono dalle antiche, leggendarie incisioni di Elmendorff, di Muck. Nella lettura di Sinopoli c'è uno scrupolo finissimo e modernissimo per il dettaglio, per l'infinita fantasia delle mutazioni ritmiche di Wagner; ma soprattutto c'è questo avvertimento di sintesi imponente e quasi intimidatoria, che in scene come la discesa degli dèi nelle profondità ctonie del Nibelheim raggiunge una tensione quasi insostenibile. La Tetralogia non è un seguito di episodi, e sarà possibile solo alla fine coglierne il senso, ma il prestigio che qui si annuncia è al di là di quanto potessimo attenderci pur dal grande wagneriano che Sinopoli è. [...]

[Francesco M. Colombo, 27.7.2000]

A partire dagli anni '50, infatti, con Clemens Krauss e poi con Karajan, l'interpretazione wagneriana si è spost ata dal versante tragico-eroico al versante lirico; operazione correttissima in sé, e spesso attuata in modo convincente (oggi, per esempio, da parte di due direttori molto diversi come Levine e Haitink). Il Wagner di Sinopoli invece è cupo, profondo , come un suono divelto con fatica: è interamente dominato da un senso della perdita e del lutto che si traduce in una timbrica omogenea, scura, nella totale assenza di edonismo (e di sensualità), in una specie di vortice drammatico che trascina t utto, senza respiro, verso gli abissi. In sé, è questa una concezione di grande fascino, persino inquietante (il precedente storico può essere il leggendario Karl Elmendorff).

[F. Maria Colombo]

SCHUMANN E BRAHMS - Giuseppe Sinopoli è l'ultimo dei direttori d'orchestra da cui possiamo aspettarci confortevoli riletture dei capolavori: l'altra sera a Torino, per l'applaudita serata inaugurale dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, egli ha addirittura tratto da due partiture notissime, la Quarta Sinfonia di Schumann e la Quarta Sinfonia di Brahms, due opere sconosciute e nuove. In quanto tali, le due Sinfonie rivelateci andrebbero riascoltate più volte, perchè si appalesi l'impostazione che le regge. Il primo effetto è che ci si squaderni un mondo interessantissimo e sconcertante: detto con una formula, e, ripetiamo, a partire dalle insufficienti impressioni di una serata, ci pare che Sinopoli presenti la Romantik, il Romanticismo germanico, facendo coincidere l'acme del suo splendore con l'inizio della sua dissoluzione. La forma edificata da Schumann e da Brahms è sottoposta da un lato a una spietata analisi, che coglie delle cellule linguistiche il significato, diciamo così, centrifugo (pensiamo alla punteggiatura dei legni all'inizio della Quarta di Brahms, dove il 'rubato' e la sincope virtuale producono un effetto di vertigine intrinseca al linguaggio); dall'altro a una tensione così radicale nel suo manifestarsi (piani dinamici compressi e poco indugio sui 'pianissimo'", timbrica scura e livida, stacchi di tempo molto veloci, rifiuto dell'abbandono lirico grazie a un'accentazione molto insistita) da annullare il senso plastico delle Sinfonie, e da spingerle, come in preda a una forza irresistibile, verso l'abisso; esse non si sviluppano nello spazio conquistando la loro compiutezza, ma corrono, per una folle e disperata vocazione nichilistica, verso la fine: il momento più esplicito di questo processo, ci pare, si ha durante la transizione al quarto movimento della Quarta di Schumann, quando Sinopoli non amplia a effetto l'intervento degli ottoni, ma ne comprime il tema all'interno della nevrotica e morbosa spinta cinetica impressa a tutta l'opera. A ogni modo, la geniale singolarità di questa lettura è tale da farci sperare di poterla riascoltare e rimeditare: anche perchè gli strumenti della sua attuazione (l'Orchestra Rai, che sta compiendo uno strenuo lavoro di rodaggio, e l'acustica difficilissima dell'Auditorium di Torino) restano perfettibili.

[Francesco M. Colombo, Corriere dela Sera, 1.10.1994]

IL CANTO DELLA TERRA DI MAHLER - Con l'esecuzione di ieri del «Canto della terra» mahleriano, Giuseppe Sinopoli ha regalato a nostro avviso la propria interpretazione più memorabile. Ha staccato il primo dei sei brani facendo intendere quale fosse il carattere generale: timbri lucidi e freddi, segmenti irrelati di melodia, grumi sonori stridenti come sonagliere di duro metallo. Un Mahler, dunque, anti-edonistico, quasi raggelato nella contemplazione della bellezza e del nulla. Di momento in momento, tale impostazione si è inverata accogliendo pure le mille dimensioni implicate dal capolavoro: lo struggimento, la nostalgia, e soprattutto quel «divenire» continuo della musica che non può approdare a una meta. Di là di ogni frase del «Canto della terra» occhieggiano le lontananze azzurrine, le prode eterne evocate nell'«Abschied» conclusivo. Intensissima la concentrazione della Filarmonica scaligera, che in alcune uscite dei legni solisti ha raggiunto delicatezze prodigiose: non si è davvero avuto alcun momento in cui la tensione cadesse; ed era una tensione impalpabile, rarefatta, da mozzare il fiato. [...]

[Francesco M. Colombo, Corriere della Sera, 17.2.1998]

TERZA SINFONIA DI MAHLER - La «Terza Sinfonia in Re minore» di Mahler, di velleitarie dimensioni megateriche, ha dilagato, l'altra sera nella gremita sala del Piermarini, arginata dalla bacchetta di Giuseppe Sinopoli, impegnato a dominare l'Orchestra Filarmonica «au grand complet», il Coro Femminile dell'Associazione Coro Filarmonico della Scala, le Voci bianche della Scala e del Conservatorio nonché la calda voce del contralto Violeta Urmana. Concepita secondo un piano che si vorrebbe cosmogonico, tale Sinfonia si propone quale inno alla natura, progressione costante attraverso gli stadi del creato prospettati secondo una gerarchia che sposa influenze darwiniane e fede religiosa, «dalla natura inanimata sino all'amore di Dio», come scrisse lo stesso compositore. In questa marcia implacabile dalla cruda terra al cielo, Mahler riempie, o meglio satura, un polittico in cui ogni tavola sviscera i diversi aspetti materiali e spiriturali di un mondo intriso di volgarità divenuta parte integrante del paesaggio. Sinopoli ha affrontato il primo movimento cercando di non contrastare la frammentarietà organica che lo informa, ma anzi assecondandone i diversi registri stilistici, sin dall'irrompere degli otto corni in Fa: prodromo di quella marcia che a Richard Strauss ricordava «un corteo di socialisti il Primo maggio al Prater». [...]

[Paolo Tarallo, Corriere della Sera, 15.5.1997]

DIE FRAU OHNE SCHATTEN DI R. STRAUSS - Per decenni rappresentare «La donna senz'ombra» di Richard Strauss sul poema drammatico stesogli da Hugo von Hofmannsthal è stato un atto di coraggio: per via del terrorismo ideologico esercitato dalla critica musicale sul più grande compositore del nostro secolo. Poi, la critica si è ammorbidita, più che per la capacità di porre in dubbio se stessa, per il crescente favore incontrato da questo capolavoro ogni qualvolta un grande teatro l'allestisse e sebbene l'allestirlo ponga difficoltà pratiche, tanto musicali che sceniche, superiori a qualsiasi altra creazione dell'Autore. [...] Parlare della «Donna senz'ombra» in Italia non si può senza ricordare Gino Marinuzzi, primo suo direttore da noi e pr obabilmente il più grande che nella storia l'abbia mai affrontata. In una sua lettera, parlando della fittezza coloristica della partitura e delle commistioni strumentali che a volte paiono opera di magia, egli adopera la geniale formula di «barocco berniniano». Anche in questo la «Frau ohne Schatten» è un unicum. Comprende l'intera tavolozza timbrica, a volte è di una insostenibile rapidità nelle transizioni di colore, e poi elabora una serie di sonorità iridescenti e liquescenti basate sopra suoni armonici, strumentini in ardue posizioni, glissando dell'arpa e persino un'armonica a bicchieri. Questo per tradurre il senso di leggerezza e trasparenza emanante da una creatura, la Principessa, che per essere d'origine semidivina non getta ombra né possiede tanta fisicità da poter essere feconda. È appena il caso di ricordare che il tema del divino che supera se stesso trapassando nell'umano, partito da uno spunto del Faust II, diviene uno dei centrali dell'intera opera di Wagner. L'Orchestra della Scala, in questo spettacolo che si desidererebbe visto dal più gran numero di persone, è chiamata tutta a un cimento virtuosistico. Tra i virtuosi non possiamo nemmeno elencare i principali, giacché la partitura non sottrae un professore a responsabilità solistiche. Va ammirato invece il senso dell'analisi e della differenziazione, battuta per battuta, qui proprio del maestro Sinopoli ch'egli contrappone al pathos quasi insostenibile degli interludi orchestrali. Ma il maestro, ed è mirabile conquista, imposta una concertazione tale da non coprire mai le voci. Quando diresse magistralmente il Wozzeck a noi parve aver egli fornito la migliore sua prestazione a nostra conoscenza. Con la «Donna senz'ombra» supera se stesso di gran lunga, e non solo per l'essere questa infinitamente più difficile per un direttore. Soprattutto perché egli mostra di essere un artista che non si accontenta dello stadio raggiunto ma tenta di continuo di progredire. Il complessissimo I atto lo vede ancora, per dir così, preoccupato, sicché hai la sensazione, salvo il meraviglioso finale, che la ratio stessa della punteggiatura nasca dalla partitura orchestrale e non dal rapporto di questa col testo. Ma nel II e nel III il passo drammatico è perfetto, egli accompagna i cantanti con tecnica rilevante e la prestazione di costoro immediatamente si eleva di qualità. L'opera, come tutti sanno, si termina con una sorta di Cantata sinfonico-corale raffinatissimamente aggiunta al dramma: il gusto col quale Sinopoli ne cassa retorica e trionfalismo, nei quali cadono anche suoi insigni colleghi, è ulteriore prova della sua intelligenza. [...]

[Paolo Isotta, Corriere della Sera, 16.4.1999]

QUARTA DI SCHUMANN E HELDENLEBEN DI R. STRAUSS - L'Orchestra di Stato della Sassonia o, siccome in genere la si denomina, l'Orchestra di Dresda è, storicamente, una delle compagini più illustri mai esistite. La gloria passata si accompagna non solo a gloria presente ma a caratteristiche tali da renderla, se non un unicum, qualcosa alla quale, oggi, solo due o tre altre orchestre possono essere accostate. La cappa di piombo imposta alla Germania Orientale dal terribile regime da poco dissoltosi produsse, per una sorta di rivoluzione vicissitudinale, un'atmosfera in qualche modo favorevole alla musica. Rimasta fra i pochi orgogli del Paese; sottratta agli aspetti deleteri dell'internazionalismo nella vita musicale per l'impossibilità di comunicare col mondo esterno: essa ricevette e preservò ben più dell'Occidente legati dell'antica tradizione. Sicché dell'Orchestra di Dresda, insieme con quella del Gewandhaus bandiera musicale della Germania Orientale, non si ammira solo la perfezione tecnica, il gusto purgatissimo e il virtuosismo dei singoli solisti, quel suono luminoso ma non eccessivamente brillante che, con immagine forse abusata, definiremmo dell'oro vecchio. Stupiremo anche per l'omogeneità tecnica e stil istica, per un fraseggio da tutti concepito comune: s'intende che questo passa di mano in mano nelle generazioni di strumentisti, sicché, mutando i singoli, la personalità inconfondibile dell'orchestra si salva. Non per caso Herbert von Karajan, che pure la diresse poche volte, la prediligeva. Una delle prove dell'intelligenza di Giuseppe Sinopoli sta proprio nel suo essersi sottratto, anni fa, a inutili dispute su primazie berlinesi: direttore stabile a Dresda, egli dispone oggi di uno strumento incomparabile, almeno pari a quello di Berlino ma ancor più idoneo di esso a tradurre in esecuzione il grande repertorio classico-romantico e quella sua appendice decadente (si dice così per intenderci del tutto generaliter, ben consci noi dell'improprietà del termine) che oggi sembrano al centro degli interessi del maestro Sinopoli. Con la sua orchestra egli peraltro mostra aver trovato intima intesa, onde la particolare e, diciamo pure, rudimentale natura del suo gesto non risulta di ostacolo a che il suo pensiero musicale venga recepito e attuato. Tale pensiero può non essere a volte condiviso, non certo accusato di incoerenza; la sua combinazione con l'inestirpabile, speriamo per sempre, pronuncia musicale dei dresdensi può produrre di gran risultati. La Quarta Sinfonia di Schumann è stata interpretata in modo affatto originale. Rigorosissimamente profilata nella forma (e sì che questa è inconsueta, talora sfuggente), essa è stata calata in una così ferrea armatura, specie sotto il rispetto ritmico, da mettere in evidenza la sua essenza più vera. Ossia una tematica e una concezione del suo trattamento febbrili, ai limiti della disgregazione, cui inanemente si contrappongono meravigliose oasi liederistiche e che la forma comprime. Facile sarebbe palesare il contrasto quasi fosse scissione dell'io col considerare siccome isole connesse da fragili strisce di terra i singoli momenti; Sinopoli l'ha fatto ex adverso con l'unità della forma e l'implacabilità del rit mo e la drammatica potenza del suono. L'omaggio a Strauss, con l'esecuzione di «Vita d'eroe», non è stato casuale: il Maestro, ancorché bavarese, poneva la capitale sassone col suo teatro e la sua orchestra al di sopra di ogni altra. Le qualità tecniche e virtuosistiche ma anche, ripeto, l'inimitabilmente naturale sentire la musica dei dresdensi, si sono qui espressi a un grado mirabile. Ciascun solista, a cominciare dal primo violino è, palesemente, un concertista; lo scatto e la luminosità degli ottoni nei passaggi che li vedono per ampio tratto protagonisti sono da non dirsi; il modo con cui gli archi pronunciano le ampie gittate melodiche rinnovantesi per progressioni, così caratteristicamente straussiane, è unico per fusione e colore. Sinopoli ha dedicato un'attenzione analitica quasi ossessiva agli episodi ove vengono raffigurati i critici musicali e la battaglia che l'eroe sostiene contro di loro (forse per sottolineare, oggi che se n'è distaccato, le perfide e letterali anticip azioni della Nuova Musica); e per il resto, salvo il suo astenersi dalle sfumature nella dinamica e negli stacchi di tempo ai quali siamo abituati, ha fatto sortire dall'esecuzione il capolavoro a mo' di gittata singola con tale imponenza di accenti, laddove ne prospettava con attenzione rara il serrato tessuto contrappuntistico, da meritare in pieno il trionfo a lui e alla Staatskapelle tributato. [Paolo Isotta, Corriere della Sera, 24.10.1985]
ORFEO DI LISZT E INCOMPIUTA DI SCHUBERT - Procediamo a ritroso: il concerto si apre con la vera perla, che forse meglio starebbe al secondo posto, il Poema Sinfonico Orfeo di Liszt. Precisione vorrebbe si dicesse Idillio Sinfonico, attesa la pluralità di significati dell'espressione «Sym-pho-ni-sche Dichtung» da Wagner proprio per Liszt coniata: e autentico «Idillio» l'Orfeo è. Non è modellato adattando la forma musicale alla narrazione di avvenimenti; nella sua estrema sintesi è una visione tutta interiore, l'effusione di un ethos onirico e trasfigurato, il potere pacificante ed elevante della musica. Idee melodiche generantesi l'una dall'altra delicatissimamente si dipanano attraverso la voce di strumenti solisti su di un tappeto timbrico-armonico dell'orchestra che dà i brividi per la sua sovrumana serenità: è il più breve e il più bello dei Poemi Sinfonici di Liszt, a non dire forse il suo capolavoro. Ma non lo si esegue mai: e ringraziamo di cuore il maestro Sinopoli. [...] Il gioiello esecutivo è stato l'Incompiuta. Il maestro Sinopoli la legge in un modo personale e antitradizionale, specie nello stacco dei tempi: con superficiale concisione potremmo definirlo nichilista-decadentista. Quanto legittimo questo modo sia, dice il fatto, forse non abbastanza ricordato, che Schubert è per eccellenza il nichilista della musica; quanto coerente, lo dice da sé l'indimenticabile esecuzione. Rivelatasi d'una delicatezza quale dal Sinopoli forse non si sarebbe attesa, essa ha goduto d'una rifinitura dei particolari addirittura mirabile: in quanto fossero, com'erano, rivolti ad assoluto fine espressivo.

[Paolo Isotta, Corriere della Sera, 12 settembre 1996]


RICHARD STRAUSS - ELEKTRA

Sinopoli a un tour très particulier, très dramatique dans Strauss dont il fait sonner l'orchestre comme pas un. Attentif au drame psychologique qui se noue, il souligne chaque inflexion de la partition grâce à son fabuleux orchestre viennois. Côté voix, on peut admirer la très belle voix de Marc et de Voigt, trop belle, peut-être, puisqu'on ne retrouve pas là le déchirement intime que savaient transmettre les Nilsson et Borkh, avec des instruments moins veloutés mais plus âpres, plus convaincants. Du côté des hommes, rien à redire sur les courtes interventions d'Égisthe; le Oreste de Ramey est un peu perdu. Néanmoins, ce coffret offre de fort belles choses, et, pour la direction d'orchestre, il vaut nettemet le détour.
Exzeß des Jahres? Sollte es einmal eine solche Kritikersparte geben, Sinopolis Elektra, nach Salome die zweite Strauss-Opern-Einspielung des Archäologen, Mediziners und dirigierenden Philosophen, sollte dazugezählt werden. Das liegt zum einen am Sujet dieser hundertminütigen Rache-Orgie, die Hofmannsthal nach Sophokles’ Atriden-Tragödie entwarf: Elektra, die Tochter des Agamemnon, ruht nicht eher (und tanzt in den wahnhaft-orgiastisch-tödlichen Racherausch hinein), bis Orest, ihr Bruder, den Meuchelmord am Vater blutig rächt - an ihrer Mutter Klytaemnestra und deren Liebhaber Aegisth. Zum anderen ist Strauss’ zweiter Einakter aus dem Jahre 1909 mit seinen hundertundelf Orchestermusikern (davon vierzig Bläsern) und einer überaus herb-dissonanten, nicht selten polytonal-expressiven Tonsprache sein aggressivstes und wohl auch zukunftsweisendstes Klanggebilde (Karikaturisten weideten sich denn auch an dem “Hexengekreisch” und der “elektrischen Hinrichtung” des Hörers).
Vor allem aber läßt Sinopoli keine Kompromisse zu. Er kostet die Strauss-Extreme aus - mit schneidend scharfem Blech, brachialem Schlagwerk sowie intensivsten Geigenvibrati. Daß gleichwohl keine amorphe Klangmasse aus den Boxen dröhnt, ist neben den Wiener Philharmonikern Sinopolis bekanntem Gespür für einen frappierend durchhörbaren, luziden Klang zu verdanken, der auch das heftigste Dreinschlagen und den ozeanisch weiten Teppich noch strukturiert.
Derart “gebettet” gelingt es den Sängern, über weite Strecken sich gegen die Orchesteropulenz zu behaupten. Zwar hat die Titelheldin Alessandra Marc hier mitunter in tieferen Registern ihres Mezzosoprans zu kämpfen (aber wer, selbst Birgit Nilsson, mußte das nicht in dieser Rolle?). Ihre strahlenden Höhen aber, ihr bewunderungswürdiges Crescendo-Volumen, vor allem aber die physische Unbedingtheit, mit der sie sich auf ihre Rolle einläßt, verleihen ihrem Rachetaumel eine existentielle Glaubwürdigkeit, die einem manche Szene (wie die Wiedererkennungszene) durch Mark und Bein gehen läßt.
In nichts stehen ihr darin Hanna Schwarz und Deborah Voigt nach - Schwarz als Klytaemnestra mit phänomenal sonoren, tenoralen Tiefenregistern, Voigt als überschwenglich um Frieden ringende Schwester Elektras. Die kleineren Männerrollen liegen beim kernig auftrumpfenden Siegfried Jerusalem (Aegisth) und beim vibratoreichen und baßgewaltigen Samuel Ramey (Orest) ebenfalls in besten Händen. Sinopoli aber gibt sich erneut als großartiger Erwecker spätromantischer Orchesterkunst zu erkennen, wie sie nur jener Hexenmeister hervorzaubern konnte.

Christoph Braun, RONDO 4/97

Sinopoli's Elektra bears all of the hallmarks of his great recording of Salome (possibly the finest ever recorded) - great transparency, an unnerving sense of a drama unfolding and a great rapport with his singers. Alessandra Marc is very fine in the title role, and absolutely compelling in her closing scene. What makes this recording so recommendable is the playing of the Vienna Philharmonic and the engineering.
From a purely sound point this recording is thrilling - totally clear and allowing one to hear Strauss' opulence and dissonance as it might in the opera house. A wonderful experience.
Once again, Sinopoli's recent recording sweeps the board. His formindable cast includes Alessandra Marc in the title role, singing with lyric glory in a reading which sounds more musical than its predecessors on other labels. Debbie Voigt sings like an angel as Chrysthomemnis, even making the usually searing phrase 'Orest! Orest ist Tot!' at the start of the second disc sound like singing, not screaming or screeching. Sam Ramey is a natural as Orest, (very much alive) and Siegfried Jerusalem, a surprise casting choice for the character-tenor role of Aegisth sings heroically, making the listener realize that this character is a fallen hero gone very wrong, not just an excuse for Elektra and Orest to have something else to kill. The only faint dissapointment is Hanna Schwarz, a fairly colorless Klytemnestra, bettered by Regina Resnik on the Solti set.
As for Sir Georg's recording, Decca engineering, whiplash tempos and Resnik combine to make this the scariest 100 minutes of Strauss ever put on CD. Simply bloodcurdling, if not as beautifully played as the Sinopoli.

Paul J. Pelkonen, Associate Editor, CitySearchNYC


GIACOMO PUCCINI - MADAMA BUTTERFLY

Avec des tempi encore plus lents que ceux de Karajan, Sinopoli arrive à diriger une sensationnelle Butterfly. Peu après son traitement pour le cancer, Carréras offre une voix un peu dure dont le velouté légendaire est largement parti; mais le rôle de Pinkerton n'est pas le plus difficile qui soit, et il peut s'accomoder d'un chanteur à la voix puissante. Freni est encore plus subtile qu'avec Karajan; son "Un Bel Di" arrachera des larmes aux plus blasés. Mais à 52 ans, son timbre n'a plus la fraîcheur d'entan quoiqu'il soit encore parfaitement capable d'en remontrer à la compétition. Berganza qui n'est pas non plus de première jeunesse réussit une composition admirable de la servante Suzuki, et le Sharpless de Juan Pons est tout à son affaire. Ce pilier du MET de New York qu'est Anthony Laciura réussit à nous amuser dans son rôle du pathétique marieur Goro. Mais la palme de la journée revient à Sinopoli qui, dans une lenteur sentie mais non sentimentale, fait vivre les moindres subtilités de l'orchestre de Puccini et maintient la tension de bout en bout; la dissonance tragique de l'accord final laissera l'auditeur pantois. La prise de son de la DG est une des plus réussie, transparente, avec un impact fracassant dans les passages dramatiques et une subtilité qui permet de saisir les nuances pppp comme dans le choeur "sans paroles" entre les 2ème et 3ème actes.  Certes le meilleur des enregistrements récents de Butterfly.
Sinopoli's Madama Butterfly is very moving, often extremely beautiful (not even Karajan makes Puccini's orchestra sound so ravishing) and, in a single, crucial sense, deeply disconcerting. In a word, it is quite sensationally slow, the slowest Butterfly in my experience, and by a substantial margin. Nine minutes slower than Karajan's second (1974) version (for Decca, 6/87) may not sound a lot, but Karajan had already added nearly eight minutes to his by no means headlong 1954 recording (with Callas on EMI, 10/87). The comparison that makes you sit up is with Leinsdorf on RCA. Leinsdorf sounds hurried, true, but his overall timing (if not his detailed interpretation of tempo) has at least some claim to 'authenticity'. Basing his conclusions on precise observation of metronome marks and on memories of the composer at rehearsal, Luigi Ricci (Puccini interprete di se stesso; Milan: 1954) estimated the duration of the opera at 125 minutes. Leinsdorf takes 121 Sinopoli an extraordinary and unprecedented 154.
His speeds are by no means all slow: the introduction, the opening scene, "Un bel di," much of the flower duet, the humming chorus - all these passages and others are at a relatively 'normal' tempo. The half-hour that Sinopoli adds to Leinsdorf's timing is achieved partly by an extreme (and masterfully controlled) use of rubato, partly by taking some sections of the score really very slowly indeed. His first unorthodox choice of tempo is, I am quite sure, a mistake: Pinkerton's lazily carefree "Dovunque al mondo" is marked allegro, con spirito (to be sure, sostenuto as well) and crotchet = 112, and Sinopoli comes nowhere near it; the result is heavy, lethargic and devoid of charm. This is unfortunate, but also uncharacteristic, you get a better idea of what this performance is really about from the entrance music for Butterfly and her friends (undeniably slow but exquisitely phrased and with the choral/orchestral texture immaculately balanced: fragile music) and from the love duet, where Sinopoli gets closer than any other conductor to realizing Puccini's apparently impossible demand that the passage ("Dicon ch'oltre mare") in which Butterfly fearfully asks whether it is true that in Pinkerton's country they pierce butterflies with pins, should be at very nearly twice the speed of the music ("Vogliatemi bene") that precedes it. The interplay in this duet between impulsive ardour and reticence, between (in Butterfly's own half-comprehending mind) chastity and passion, apprehension and self-abandonment is graphically portrayed.
Sinopoli's objective becomes more and more evident as the opera proceeds: to redefine as tragedy what is still often seen as a pathetic but sentimental anecdote. The letter-reading in Act 2 scene 1 (the tempo more or less forcing Sharpless to react with pity instead of impatience to Butterfly's eager interruptions) is very quiet as well as slow, filled with gradually mounting sadness, her introduction of the child as proof that Pinkerton must return draws a gesture of huge but doomed tragic pride from the orchestra; there is a poignant shadow over much of the flower duet and the scene ends in oppressive darkness. The humming chorus is a beautiful but ineffably sad commentary on Butterfly's faith in Pinkerton (its theme was first heard when his treachery was first hinted at), the introduction to the final scene an outburst of passionate protest and despair.
What Ricci called Puccini's "slow tempo phobia" was based in fear that the audience would be bored. There is no risk of that in a performance in which every expression mark, every harmonic ambiguity and every subtlety of instrumental colour is used to maximum expressive effect. Puccini's preference for this over all his other operas and for Butterfly over all his other heroines seems quite understandable, and there are moments in Sinopoli's reading when I prefer his to all other recordings. There remains a risk that some listeners will be irritated by it, not feeling the need for tragedy to be underscored in this way, finding perhaps that Pinkerton's odiousness is understated by it (his amusement at her trinkets and idols is very gentle, not callous at all - but where in the score does it say that he should be?). And you may very well think that Sinopoli is overstating the opera's stature anyway. [...]

GIACOMO PUCCINI - MANON LESCAUT

Sinopoli's early reputation in this country as a champion of the avant-garde was soon tempered by his forays into the Romantic repertoire when he cemented his association with the Philharmonia Orchestra. This Manon Lescaut demonstrates why, on occasion, Sinopoli's deconstructionist approach can be so telling. Orchestral textures that are often undifferentiated in an attempt at a Puccinian saturation point are here cleanly and clearly presented. The Philharmonia Orchestra seems completely behind Sinopoli's philosophy and gives its all for him - as do the cast.