RAFFAELLO DE RENSIS

L'AVVENTURA DI SULAMITA...
...E DI CENERENTOLA


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Fu eseguita, invece, al Rossini di Venezia il 26 febbraio 1899, auspice Alessandro Pascolato, presidente della «Società di Mutuo Soccorso tra musicisti», intitolata a Giuseppe Verdi. La preparò e diresse l'autore - che, finalmente, ascoltava una sua musica in pubblico - ed il successo fu oltremodo lusinghiero. I manifesti murali luccicavano del civettuolo avvertimento: «musica del maestro concittadino» come a propiziare benevolenza; ma in realtà Sulamita piacque per se stessa e si replicò tre volte.
Al Pascolato, allora, balenò la felice idea di trasportarla al Politeama di Trieste: «Veda maestro» disse all'applaudito autore «la nostra Società, intestata al nome patriottico di Verdi, riceverà un'accoglienza entusiastica; gran folla accorrerà in teatro per una dimostrazione, ma... ma... le spese di viaggio della massa corale bisognerebbe che le anticipasse lei. Le condizioni son queste: se c'è guadagno, si dividerà tra lei e le masse, se c'è un deficit... tutto per lei.
Il maestro non era un creso, ma, per quello spirito di sacrificio e di ottimismo che anima la speranza dei giovani autori, si sottopose al rischio, facendo, debiti.
La mattina della partenza il cielo nero si dichiarò avverso, il mare burrascoso non incoraggiava. Il maestro prese il treno, mentre la massa dei coristi, portando seco l'organo, si sarebbe imbarcata in un vapore. Poiché egli giunse la sera prima, stabilì l'indomani di recarsi al molo per ricevere i suoi valenti collaboratori. Tra vento, pioggia, cavalloni, freddo glaciale vide avanzarsi il vapore sbuffante. Ma dal «vascello fantasma» non discese neppure un corista: soltanto quattro facchini scaricarono l'organo.
Che cosa era mai accaduto? Era accaduto che, data la tremenda e perigliosa tempesta, né i cantori né l'orchestra si azzardarono a salpare e preferirono servirsi della ferrovia. Infatti, col treno successivo a quello con cui era arrivato il maestro, arrivarono essi, contenti e spensierati.
Spesa doppia! Ma il patriottismo dei triestini l'avrebbe certamente coperta. Il guaio fu che la sera perdurando il tempo orribile, solo pochi coraggiosi osarono avventurarsi fino al Politeama. Il disastro finanziario si prospettava quasi totale; in compenso vivissimo fu il successo artistico di Sulamita, ed addirittura entusiastico il successo dell'Inno di San Giusto con la prevista clamorosa dimostrazione d'italianità.
Un momento prima che l'autore-impresario attaccasse quell'inno, una bella donna gli trasvolò da presso, come un'apparizione, sussurrando: «Ermanno, ti rivedo nella gloria!...»
Ermanno, sicuro in cuor suo come vera gloria fosse intanto la perdita dei quattrini, individuò nella misteriosa signora la sua prima fiamma, a quattordici anni. Il cuore gli sobbalzò all'inattesa, romantica visione, la bacchetta affrettò e precipitò i tempi; e, terminato l'inno tra gli applausi, indugiò negl'inchini al pubblico nella speranza di scoprir la donna in platea.
Invano! Sparì per sempre il sogno suo d'amore!
Se ne tornò a Milano con la esperienza torbida della prima avventura di autore. Riprese le fatiche ordinarie: l'istruzione del coro tedesco, le lezioni alle allieve aristocratiche, le letture dantesche, la continuazione di Cenerentola a dispetto dell'editore. Per di più, e chissà per quale moto dell'animo, concepì e scrisse un altro lavoro strumentale-vocale, un mistero sacro clie trae origine e titolo dal detto di Gesù Cristo. Thalita Kumi, nel riferimento di San Marco.
Ricordate? Giairo, capo della Sinagoga, ebbe la sciagura di perdere una dolce figliola. Fu talmente acerbo il suo dolore, che capì che soltanto la pietà di Gesù avrebbe potuto porvi rimedio. Gesù, difatti, pronunziò le miracolose parole, Fanciulla alzati! e la giovinetta si ridestò alla vita ed all'amor paterno.
Il lavoro, in due parti, non è vasto come Sulamita: un tenore (lo storico), due baritoni (Giairo e Gesù), coro e orchestra ne formano la compagine, mentre il testo in latino e in tedesco è fedelmente ricavato dalla Bibbia, con l'aggiunta di due rituati cori conclusivi. La partitura è condotta nei recitativi, nei canti, nella polifonia, nello strumentale, con rispettosa osservanza dello spirito religioso, poetico ed umano che pervade il dramma. La impronta estetica oscilla tra la cultura sei-settecentesca, così profonda e sentita da Wolf-Ferrari, e il romanticismo italiano post-verdiano, quello, in fondo della giovine scuola. Poco danno alla unità stilistica, ma indizio di ricerche, dubbi, esperimenti allo scopo di penetrare e scoprire una verità interiore. Lo stesso fatto che, mentre attende ad un'opera fantastica e brillante, la interrompe per altre di argomenti mistici e religiosi, prova, nella flessibilità e versatilità, il bisogno di rintracciare il proprio essere.
Thalita Kumi eseguita, più tardi, in Germanla e in Isvizzera, fu pubblicata dall'editore Rahter di Lipsia.

...E QUELLA DI CENERENTOLA

Progrediva Cenerentola e fu terminata con un ultimo atto per cui l'autore aveva chiesto soccorso a dodici trombe e a sedici campane, destinate a dar fulgori di suono al suo entusiasmo.
Ma, come rappresentarla senza un editorie? e dove? Buttare ancora quattrini non posseduti? Riesporsi di nuovo innanzi al «pubblico concittadino»?
Ebbene, sia. L'impresario Cesàri si dichiarò pronto a rendere un segnalato servigio all'arte, cioè all'autore... pagante, e inserì Cenerentola nel Cartellone della Fenice. Wolf-Ferrari, memore delle belle lezioni di Holosy, disegnò con finezza e ardita invenzione le scene e i costumi; si centuplicò per preparare artisti e orchestra. Ma non si sentiva tranquillo: fino a tre giorni avanti all'andata in iscena non si sapeva quale sarebbe stata la prima donna: egli stesso non sapeva se avrebbe diretta la sua opera o l'avrebbe diretta il titolare della stagione, che era Edoardo Vitale; quei tre giorni erano gli ultimi...
Come Dio volle si rimediò una prima donna, si decise che il direttore dovesse essere Vitale, si tagliarono trecento pagine delle 1007 della mastodontica partitura, e giunse la sera del 22 febbraio 1900. Era di giovedì grasso: frittole in quantità ed aromi nelle calli e nel teatro.
Lo spettacolo cominciò bene. Il gran coro degli angeli in cielo - una specie di fastoso peana mentre Cenerentola sogna la mamma in paradiso - destò buona impressione; ma una campana tubolare che l'autore picchiava dietro le quinte, gli era caduta su un piede, gli aveva fatto gran dolore e gli aveva messo addosso un triste presentimento.
Invece, bisogna dire la verità: i concittadini, in fondo, si comportarono con gentilezza; sentirono una certa solidarietà con colui che tendeva a distinguersi e sollevarsi.
Quando, però sulla ribalta si passò dal mistico al grottesco, poiché irruppero la matrigna e la sorellastra e con un baccano del diavolo, (il grottesco, alla Fenice, non si accettava), i concittadini risero e si divertirono in tal curiosa maniera, che sembrava lo facessero alle spalle dell'autore.
Il quale dovette accorgersene, perché nell'interno ordinò d'improvviso modificazioni e nuovi tagli. Inutilmente! L'atto, che era cominciato sotto lieti auspici, terminò fra inequivocabili dissensi.
Al secondo, finalmente apparve il tenore - attesissimo dopo tante donne del precedente - e sembrò che l'atmostera volesse rasserenarsi, ma il tenore non piacque. Non piacque, neppure la musica! In un certo momento il violoncello emise un curioso miagolio, ed ecco l'intera platea a miagolare, tra risate, fischi, urli, che si rinnovarono implacabilmente durante gli atti sticcessivi. Un pandemonio.
La scena finale, invece sonora e pomposa, si svolse in un silenzio di tomba. Dio solo può spiegare il fenomeno.
Nessuno ebbe, quella sera, una parola per il malcapitato autore. Soltanto il maestro Romei, convinto, gli disse: «Stia tranquillo, avremo la rivincita. Ma non a Venezia.»
Wolf-Ferrari ritirò lo spartito e la seconda rappresentazione annunziata non ebbe luogo.
Durante il burrascoso spettaciolo - per placare i nervi eccitatissimi - fumò un'infinità di sigarette. Giunto malinconicamente a casa, notò che che n'erano rimaste tre. Meditò un istante, quindi le rinchiuse nell'astuccio, giurando a se stesso: le fumerò il giorno della rivincita.
Arrigo Boito, informato e spiacente dell'infortunio incorso al giovine, rivedendolo credette rincuorarlo a suo modo: «Le prime opere bisogna annegarle come i gatti (e il Mefistofele prima morto e poi risuscitato?).
Poi s'accorse d'aver troppo mortificato ed avvilito l'amico, e soggiunse: «Facciamo la pace. Io la sento in tono di sol maggiore.»
«Ed io iii tono di fa maggiore.»
C'era un pianoforte; l'uno e l'altro buttarono le mani sulla tasliera e ne uscì fuori un accordo di seconda, quarta e sesta sul fa.
I toni di sol e di fa invocavano una risoluzione, ed i due se la ripromisero per l'avvenire...
Per ora Wolf-Ferrari ha fretta di scapparsene da Venezia, da Milano, dall'Italia.