GIORGIO VIGOLO

GUSTO E GRAZIA DI WOLF-FERRARI
NEI «QUATTRO RUSTEGHI»


6 maggio 1958

Nel paesaggio piuttosto annuvolato e temporalesco della musica di questo secolo, a Ermanno Wolf-Ferrari è stato riserbato un piccolo specchio d'acqua, sereno e calmo, nella laguna veneta, su cui un'ultima eco flebile di Mozart va a morire fra lo sciaquìo dei canali. Si può dire infatti che la sua musica è la vibrazione armonica e melodica della parlata veneziana; e non sapremmo davvero quale altro dialetto italiano sarebbe potuto passare con tanta grazia e naturalezza in una partitura, senza quasi sembrare un dialetto. Wolf-Ferrari ha ascoltato e registrato le cadenze, i gorgheggi, il recitativo naturale della «voce veneziana»: e se ne è fatto un ideale estetico e operistico, il quale non poteva essere che la commedia goldoniana, filtrata attraverso un gusto mozartiano e la lezione verdiana del Falstaff, con in più una nuova tenerezza melodica che sopravviene da Puccini.
Perciò, in un periodo di gusto come l'attuale, in cui tutti più o meno sono andati verso la forzatura del ritmo e del suono, e la musica ha quasi voluto gareggiare con le macchine, Wolf-Ferrari resta ancora un raro esempio di anticonformismo di fronte alle asprezze del secolo, un modello di non violenza, e di fedeltà alla sua arte. Egli è uno dei pochi che al Giudizio Finale si presenteranno con la coscienza difesa dal più sincero candore, e che potranno dire: «Io non ho mai voluto strafare, né barare al giuoco dei suoni. Questo volevo e questo ho fatto. Non sono mai andato una nota più in su o più in là di quello che la mia parca ispirazione sentiva e richiedeva. E se qualche volta ho fatto chiacchierare un poco più del necessario i miei personaggi, si chiuda un occhio come su naturale pecca di noi veneziani». E il Padre eterno gli darà per questo nel paradiso dei musicisti un posticino alla sua destra, un seggiolino modesto, ma dal quale in premio delle sue buone opere e del suo lavoro egli potrà vedere per tutta l'eternità la faccia di Mozart.
Il fenomeno Wolf Ferrari, a veder bene, è stato tra i primi a segnare il ritorno di un gusto per Mozart, quasi contemporaneamente a Richard Strauss. La prima rappresentazione dei Quattro Rusteghi risale infatti al 1906 e fu fatta, salvo errore, a Monaco. Poiché Wolf-Ferrari aveva il padre di Monaco e la madre veneziana si è verificato in lui uno di quegli incontri che sono spesso molto felici, fra Nord e Sud, ai quali la musica deve frutti singolari, a cominciare da Heinrich Schütz che fu scolaro, di Andrea Gabrieli e apprese a Venezia il «recitar cantando», per terminare sia pure in termini capovolti con Busoni.
Ma a Wolf-Ferrari spetta un particolare posto di riguardo nella priorità del suo ritorno a Mozart, con un'orchestra alleggerita e parsimoniosissima nell'impiego degli ottoni, e ciò in un'epoca in cui il carico e i clangori dell'orchestra wagneriana erano ancora imperanti. Mi ricordo cosa fu il successo dei Quattro Rusteghi al Costanzi di Roma, nel 1923, con interpreti eccezionali come Maria Labia, la Sassène, la Casazza e con venti repliche successive. Il pubblico più colto e già sinfonicamente educato dell'Augusteo (che in quegli anni toccò forse il suo apogèo) vi accorreva con lo stesso gusto e con le stesse esigenze ad ascoltare ed ammirare questa lezione di garbo e di stile. La grazia settecentesca di una simile musica serba forse la sua freschezza autentica, perché ha trovato in Venezia l'unica mediazione oggi possibile fra il mondo settecentesco del Matrimonio di Figaro o di Così fan tutte e una rappresentazione di costumi che è qui ancora poeticamente viva nell'atmosfera nei luoghi, nei caratteri veneziani.
E di Venezia - si pensi alla così ridente scena sulla terrazza nel primo atto - Wolf-Ferrari ha veramente captato una particella di luce, un granellino di felicità e di grazia che si comunica a chi ascolta in maniera immediata e rasserenante. Si comunica, bene inteso, sempre che la prestazione dei cantanti, il loro personale gusto, la delicatezza e freschezza di voci adeguate, la leggerezza di un'orchestra nitida e luminosa, tutta brio e mordente, sappiano ripetere il miracolo lieve e fragile cui sono affidate le sorti di un'opera come questa. Anche per Wolf-Ferrari vorremmo sentire edizioni lungamente studiate e rifinite, con un «insieme» perfettamente affiatato, come ci è capitato appunto di sentirne in alcune mirabili esecuzioni di opere di Mozart; altrimenti la cipria maliosa di questa partitura va in gran parte perduta e si vede qualche sua ruga.
Quanto all'allestimento dei Quattro Rusteghi presentato attualmente all'Opera di Roma, diremo, dopo queste pregiudiziali, che esso non manca di buoni pregi. Il maestro Angelo Questa ha diretto con prestigio, assicurando la fusione degli strumenti e l'accordo fra palcoscenico e orchestra, senza per altro sollevare la sua concertazione alla temperatura dell'interpretazione vera e propria. La compagnia dei cantanti, a sua volta, annoverava ottimi e già provati elementi nel quartetto delle donne, in cui figuravano Elena Rizzieri e Alda Noni, argute e briose, Lucia Danieli e Silvana Zanolli di stoffa vocale più sostanziosa. La diversa qualità di timbro e di volume di queste voci non sempre assicurava omogeneità e assenza di qualche stridore. La Zanolli ha avuto un assai bel momento nella scena dell'ultimo atto.
Migliore forse l'efficienza e l'equilibrio vocale dei bassi Italo Tajo e Carlo Cava che sono stati eccellenti nella pagina del rimpianto dei tempi passati; e con loro hanno bene collaborato Melchiorre Luise e il tenore Agostino Lazzari. Nella regia impegnatissima di Giulia Tess abbiamo meno apprezzato qualche tratto troppo lezioso nel personaggio di Lucieta o alquanto farsesco nel comportarnento dei «rusteghi» o nella baruffa finale del secondo atto.