ROBERTO ZANETTI

ERMANNO WOLF-FERRARI

LA MUSICA ITALIANA
NEL NOVECENTO

VOL. I pp. 94-98

Veneziano di nascita, ma tedesco per parte di padre e pure per formazione musicale e culturale, Ermanno Wolf-Ferrari diede il meglio di sé nella produzione del primo Novecento, in seguito protraendo tematiche e stile così da farsi valutare come autore di interessi uniformi e fedele alle proprie originali sorgenti ispirative. Ciò non deve intendersi come grigiore di una parabola artistica durata quattro decenni, ma piuttosto valutarsi come iniziale individuazione di un mondo espressivo personale, distinto da ogni altro dell'epoca, e ritenuto bastante, così da prolungarlo nel tempo a conservazione della propria identità artistica (e anche quando certe intuizioni avevano trovato voci ben più radicali nella temperie culturale propriamente neoclassica). Teniamo a insistere su questa continuità della produzione di Wolf-Ferrari, anche al di là dei risultati - considerevoli agli inizi e molto meno nel dopoguerra -, perché testimonianza della lotta dell'artista, forse donchisciottesca, contro le pressioni della moda e del demagogismo culturale, contro l'industria culturale dominata da interessi predeterminati e di comodo. In quella sua battaglia gli fu di sostegno l'ambiente tedesco, al quale riservò tutte le opere del primo quindicennio del secolo, trovandovi quei consensi che certo gli erano preclusi nell'area italiana (la rappresentazione nel 1900, a Venezia, di una sua Cenerentola, risoltasi in un solenne fiasco, gli svelò l'indisponibilità del pubblico locale per i soggetti tralignanti dal gusto verista).
Congiuntamente all'obiettiva valutazione delle sue caratteristiche di musicista di notevole preparazione, di uomo di cultura vasta e profonda, di uomo di teatro esperto e coraggioso, ci preme qui sottolineare la caparbia difesa del proprio mondo artistico. Operò, certo, con minor scalpore di altri, facendo leva sull'ascendenza tedesca, con mezzi d'arte e d'invenzione meno rilevanti, senza dubbio non rivoluzionari. Ma sempre con intelligenza, cultura e dirittura artistico-morale, con una fermezza considerevole, proprio perché agì da isolato (e in questo potrebbe essere avvicinato al Busoni) e perché costantemente applicato a un preciso e ben circoscritto credo d'arte.
Le prime opere di Wolf-Ferrari - a non contare Irene e Cenerentola - sono ritenute dagli studiosi come prodromi di quella che sarà la reazione classicista, sia per scelta dei soggetti che per rifiuto dell'immediato passato musicale, italiano o tedesco o francese che fosse. Le donne curiose (Die neugierigen Frauen) e I quatro rusteghi (Die vier Grobiane), entrambi derivati da Goldoni e rappresentati a Monaco (nella traduzione tedesca di H. Teibler), rispettivamente nel 1903 e nel 1906,[1] sono commedie musicali che risentono della lezione verdiana del Falstaff, per ridiscendere, a ritroso, fino al teatro e al sinfonismo mozartiano. In questi lavori, come in altri immediatamente successivi (Il segreto di Susanna e-L'amore medico), stile e linguaggio combinano il gusto per le forme musicali del classicismo tedesco con una vocalità ora morbida, ora pungente, di tipo italiano e preverista. Ci sono nella musica di Wolf-Ferrari, da una parte, tracce del liederismo e dei classici viennesi, dall'altro la cantabilità e il «parlando» melodico italiani pre-corruzione verista; da un lato, Mozart e Schubert, addirittura il Mahler dei Lieder giovanili, e dall'altro la purezza lirica e la nitidezza del declamato verdiano, come pure modi comici e sentimentali di Rossini e Donizetti (e semmai qualcosa della gaiezza e vaporosità di certe pagine della Bohème pucciniana).
Da tutto ciò il musicista muove per una sintesi personale, a prima vista quasi impossibile, ma che gli riesce invece compiutamente nei migliori lavori, appunto Le donne curiose e I quatro rusteghi. Così il significato di questi lavori è quello di alternativa vera e propria al teatro del tempo: un'alternativa, intanto, di commedia musicale dirimpetto alle fosche vicende care allora; e poi, di tempo trattato, il Settecento, fino a quel momento così poco rivisitato, e, infine, d'ambiente, appunto quello veneziano e, ancor meglio, goldoniano. In tale composita alternativa drammatico-musicale cogliamo il rifiuto dell'intellettuale per il suo tempo, per i suoi molteplici aspetti deteriori, per la cultura dell'età industriale che aspira a perpetuare formule codificate e ormai aride. Wolf-Ferrari anela a un mondo diverso e, nostalgicamente ripensando al Settecento goldoniano, tenta di ricomporne i frammenti, forse con l'intima convinzione che, a quel contatto, sia possibile la rigenerazione del linguaggio, la palingenegi dell'espressività.
Forse non è del tutto corretto vedere in ciò una vera e propria anticipazione dell'imminente neoclassicismo. Più legittimo può risultare l'individuarvi, sempre tenendo conto del duplice aspetto drammatico e musicale (quest'ultimo più che classico da tempo della Restaurazione), un tardo riflesso decadentista: la ricerca, non angosciosa ma inquieta e malinconica, di una salvazione individuale ancora possibile attraverso quello che si potrebbe dire un esotismo temporale.
I quatro rusteghi [3] riferiscono perfettamente i modi di lavorazione drammatico-musicale del compositore, che ha appunto qui dato il suo capolavoro indiscutibile. Avvalendosi di un'accurata riduzione librettistica, iniziata dal Sugana e portata a termine - dopo l'improvvisa morte di questi, che aveva già firmato il libretto de Le donne curiose - da Giuseppe Pizzolato, Wolf-Ferrari ha condotto i tre atti della commedia con genuina leggerezza e eleganza, ma anche con solidità architettonica e varietà espressiva. La fine scrittura vocale fissa in modo preciso i diversi caratteri e le svariate situazioni, non solo nei singoli interventi dei personaggi, ma anche nei numerosi e vivacissimi concertati. Così i «veci», da «brontoloni» divengono nostalgici depositari del tempo della loro gioventù, del passato abbellito dalla memoria: il loro esprimersi riferisce con precisione quella loro disposizione assumendo modi come sospesi nel tempo, persino sfuggenti, ma fortemente rievocativi. Qualcosa di ciò trapassa anche nell'azione vocale delle mogli, ma con tratti pungenti e maliziosamente ironici, quando non s'irrora di suggestivi spunti veneziani (come, ad esempio, la canzonetta che siora Marina canta sulle parole «El specio me ga dito che sono bela», gondoliera che poi risuona con sfumata malinconia in orchestra nell'intermezzo a scena aperta). Nei due amorosi brilla invece la verde età, la tenerezza e l'ardore dei sentimenti, come pure la decisione: in essi troviamo qualcosa di quell'incantevole genuinità che costituisce il fascino perenne della coppia Annetta e Fenton del Falstaff.
Alla vocalità così sottilmente delineata e differenziata, sempre protagonista, ben appoggiata dall'elegante rifinitura armonica, si aggiunge la finezza di lavorazione della parte strumentale, di stampo mozartiano. Il tutto trascrive con nitidezza i leggiadri fili della storia, gli ironici contrasti, gli slanci emotivi, senza alcuna pesantezza, ma risuscitando il dinamismo, l'incisività, la verve propri del teatro goldoniano. Nulla di quello spaccato d'ambiente e di caratteri d'epoca lontana risulta sforzato o guastato, anche qui in analogia col drammaturgo veneziano che si preoccupava di non corrompere con l'arte la natura. S'impone così a tutto tondo la prodigiosa evocazione di una Venezia della memoria, immutabile ma vivissima, come sentita dall'uomo moderno che l'ha conosciuta, amata e sognata attraverso l'mmortale testimonianza del Goldoni: e nel ricontemplarla, come in una magica sospensione temporale, vi stende sopra un velo di maliosa nostalgia.
La continuità stilistica e d'ispirazione di Wolf-Ferrari, sempre nel periodo anteguerra, è dimostrata, oltre che dal molieriano Amor medico - dove semmai notiamo una flessione nei risultati drammatico-musicali -, dal Segreto di Susanna (Susannens Gebeimnis), intermezzo di Enrico Golisciani, rappresentato (nella versione tedesca di Max Kalbeck) ancora a Monaco il 4 dicembre 1909. [4] Due i personaggi, naturalmente, come nel più classico intermezzo, e una vicenda ricca di sottintesi e di tenui screzi, anch'essa alla maniera dell'antico genere, [5] che al musicista offre l'occasione per attuare una meticolosa fusione di parola, gestualità e musica, quasi a voler mostrare la possibile estensione delle teoriche wagneriane a un genere «futile», leggero e brillante, di tutt'altra impostazione musicale.
Al contrario una brusca, impensata sterzata si compie con I gioielli della Madonna (Der Smuck der Madonna), «Volksopera» in tre atti di Golisciani e Zangarini, rappresentata (nella versione tedesca di H. Liebstück) a Berfino il 23 dicembre 1911.[6] Precisamente. un'opera popolare, ovvero un'opera tragica, neo-romantica, dove il musicista sembra aver voluto farsi violenza, come può far già intuire la sostituzione all'ambiente veneziano prediletto, di quello, da lui poco conosciuto e non congeniale, di Napoli. Ma Wolf-Ferrari fa sul serio, fin dal primo atto, interamente dedicato a evocare il clima di una solennità religiosa partenopea, con tanto di processione, di campane, tamburi, putipù, bande, di vocii e esplosioni di festa. Assume, dunque qui, l'abito del verista, per poi cimentarvisi fino in fondo, come riferiscono la vocalità e la condotta orchestrale, i cui modelli possono individuarsi nella Cavalleria di Mascagni. C'è una coerenza, nell'opera, in questo senso, addirittura eccessiva - tale, cioè, come non l'ebbero neppure i veristi -: e, di conseguenza, ciò allontana l'ipotesi che Wolf-Ferrari abbia voluto procurarsi quel successo che il pubblico, specie italiano, non attribuiva alle sue commedie. Il suo radicalismo verista può intendersi semmai come volontà di cimentarsi in un genere fino ad allora ritenuto impraticabile (noto è il suo considerarsi idoneo solo alla commedia) e, congiuntamente, come espressione del desiderio di allacciare un vero dialogo col pubblico. Nonostante il successo ottenuto, Wolf-Ferrari dovette accorgersi di aver forzato al limite la propria natura, come pure dell'impossibilità per lui di dialogare davvero col pubblico.
Difatti, dopo il lungo silenzio degli anni di guerra e successivi - e ricordiamo che su di lui dovette avere effetti dilaceranti il conflitto italo-tedesco -, quando ritornerà al teatro lo farà riprendendo le vie precedentemente battute. Ma in lui molto risulterà mutato, la stessa esperienza verista avrà lasciato segni profondi:«le tre commedie goldoniane posteriori [7] hanno integrato, rispetto alle Donne curiose e ai Rusteghi, procedimenti mascagnani nella concezione generale mozartiana, così che i momenti di malinconia del Campiello hanno più rughe di quelli dei Rusteghi.[8]
Si può parlare, ormai, a proposito dei nuovi lavori goldoniani e degli altri che scriverà,[9] soltanto di fedeltà culturale, di coraggiosa protrazione di una linea autonoma, non certo di risultati di livello analogo a quello dei primissimi parti teatrali.

NOTE

[1] Le donne curiose furono poi riprese a Riga, Strasburgo e Anversa, nel 1904, a Berlino, Vienna e Varsavia, nel 1905, poi ancora a Budapest (1906), Stoccolma (1907), New York (1912). In Italia giunsero soltanto nel gennaio 1913, alla Scala di Milano, mentre I quatro rusteghi, inizialmente poco diffusi (si ricorda però l'edizione berlinese del 1906), giunsero in Italia nel giugno 1914, al Lirico milanese. Quest'ultimo lavoro ebbe particolarmente fortuna tra il 1923 e il 1938.

[2] E, va, aggiunto, Wolf-Ferrari non attuò anticipatamente i principi compositivi che poi saranno dei neoclassici. Va però ricordato che egli fu tra i primi,,come già detto più sopra, ad impegnarsi nella riesumazione di opere di antichi maestri e che senz'altro autori come Pergolesi e Galuppi costituirono uno studio di cui non poterono non risentire i lavori posteriori ai Quatro rustegbi (e cioè l'intermezzo Il segreto di Susanna e L'amor medico).
[3] Personaggi e ruoli vocali dell'opera sono: i quattro rusteghi, cioè Ciancian, Maurizio e Lunardo, bassi, Simon, baritono; Lucieta, soprano; Filipeto, tenore; siora Marina, soprano; siora Margarita, mezzosoprano; siora Felice, soprano; il conte Riccardo, tenore; una serva di Marina, mezzosoprano. La vicenda, tipica del teatro goldoniano e troppo nota per doversi riassumere, si svolge con baruffe e intrighi che coinvolgono i quattro « veci » e le mogli astute e pettegole. Nocciolo della questione è l'amore di Lucieta e Filipeto, destinati dai rispettivi genitori a sposarsi con regolare contratto, ma che reclamano il loro diritto ad innamorarsi, a scegliersi reciprocamente e a godere della felicità senza intrusioni di sorta. Riconciliazione generale e nozze suggellano la storia.
[4] L'intermezzo ebbe notevole fortuna e fu ripreso diverse volte in teatri europei e amerìcani tra il 1910 e il 1914. In Italia comparve nel novembre 1911 all'Opera di Roma e nel 1915 a Milano.

[5] I due personaggi sono Gil, baritono, e Susanna, soprano. L'elemento nuovo è il segreto di Susanna, tenuto accuratamente celato al marito, che finisce per sospettare che la donna abbia un amante. Il segreto di Susanna, quello per cui si ritira frequentemente nelle sue stanze, sfuggendo il marito, è invece soltanto la passione per il fumo.

[6] Anche quest'opera ebbe fortuna e tra il 1912 e il 1913 si ebbero almeno una decina di riprese in diversi teatri europei e nordamericani. Tra queste si ricorda quella del Metropolitan di New York, nel 1912, sotto la direzione di Toscanini e in lingua italiana, fatto questo abbastanza raro per le opere di Wolf-Ferrari. In Italia l'opera rimase a lungo ignorata.
[7] E cioè: Gli amanti sposi (nota anche col titolo La gabbia dorata ovvero Il legame d'amore della marcbesa), libretto del Forzano da Il ventaglio, Fenice di Venezia, 19 febbraio 1925; La vedova scaltra, libretto di Ghisalberti, Teatro dell'Opera di Roma, 5 marzo 1931; Il campiello, ancora su testo del Ghisalberti, Scala, 11 febbraio 1936.

[8] G. PARMENTOLA, «La giovane scuola», in L'opera, pag. 583.

[9] Altre opere di Wolf-Ferrari sono: Veste di cielo, fiaba in tre atti da Perrault, su libretto proprio, Monaco, 1927; Sly ovvero La leggenda del dormîente risvegliato, tre atti del Forzano, Scala, 1927; La dama boba, tre atti di Ghisalberti da Lope de Vega, Magonza, 1937. L'ultimo lavoro, Gli Dei a Tebe, fu rappresentato a Hannover nel 1943.