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LA MUSICA DI ROSSINI NEL PENSIERO DI GIUSEPPE MAZZINI

 

 

È ben nota l’affermazione millenaristica con cui Mazzini caratterizza l’irruzione di Rossini nel contesto della musica operistica italiana:

 

“E venne Rossini.

Rossini è un titano. Titano di potenza e d’audacia. Rossini è il Napoleone d’un’epoca musicale. Rossini, a chi ben guarda, ha compito nella musica ciò che il romanticismo ha compito in letteratura. Ha san­cito l’indipendenza musicale: negato il principio d’autorità che i mille inetti a creare volevano imporre a chi crea, e dichiarata l’onnipotenza del genio”[1].

 

L’autentico colpo di teatro con cui l’Apostolo dell’Unità fa balzare fuori la figura del Pesarese dalle pagine della Filosofia della musica non lascia dubbi sull’esito dell’effetto: il lettore rimane ancor oggi sbalordito dalla lapidarietà con cui le frasi vengono scolpite, con un montaggio dal ritmo incalzante[2].

La drammaturgia adottata da Mazzini introduce il personaggio del musicista al termine di una fase dibattimentale che seziona implacabil­mente il primo ventennio del secolo, evidenziandone, con catastrofica amarezza, guasti e misfatti[3].

La schermaglia intellettuale con cui Mazzini tratteggia il personaggio Rossini, fornendone altresì una delle più convincenti collocazioni esteti­che realizzate durante la vita del musicista, non è la prima apparsa in un panorama agiografico ed encomiastico che toccò subito toni trionfali­stici[4].

Il parallelismo Rossini-Napoleone era già stato formulato da Stendhal, biografo appassionato, per quanto inattendibile, capace di sfiorare la genialità nel cogliere, con le ragioni del cuore, le più profonde pulsioni dei ritmi evolutivi impressi dal Pesarese alla musica italiana[5].

Nelle prime pagine della sua Vie de Rossini  l’autore della Chartrêuse dichiara:

 

“Dopo la morte di Napoleone c’è stato un altro uomo del quale si parla ogni giorno a Mosca come a Napoli, a Londra come a Vienna, a Parigi come a Calcutta.

La gloria di quest’uomo non conosce limiti, se non quelli del mondo civile, ed egli non ha ancora trentadue anni”[6].

 

Singolare risulta, inoltre, la concordanza tra i toni delle valenze affet­tive mazziniane e quelle scaturite dalla penna di un altro “infatuato” di Rossini, l’austriacante Giuseppe Carpani:

 

“In un angolo della Romagna era nato un fanciullo, e già pervenuto al suo terzo lustro, il quale dovea fra breve romper le tenebre che l’Orbe musicale involgevano, e tutto di sua luce inondandolo, richiamar l’arte a nuova vita”[7].

 

Ancora da una firma ultramontana era stato tributato un omaggio dall’impalbabile spessore poetico, parole profumate velate di ellenistica nostalgia:

 

“O Rossini, divino maestro, Elios d’Italia che spandi su tutta la terra i tuoi raggi sonori, perdona ai miei paesani che ti vilipendono a colpi di carta e d’inchiostro. Ma io mi beo dei tuoi fasci di luce melodici, dei tuoi smaglianti sogni che, come farfalle, mi danzano intorno e mi baciano il cuore con labbra di Grazie”[8].

 

Quando Mazzini nel 1836 collocherà Rossini nel piano progettuale di una riflessione sulla musica che, più che filosofica, appare irrelata a una visione politica dell’arte, l’operista marchigiano era già un mito[9].

Naturale quindi che anche nella considerevole produzione di critica letteraria consegnata alle stampe prima della Filosofia della musica ap­paia, seppur fugacemente, il profilo di un artista che era già patrimonio della cultura europea.

Nei fogli dello Zibaldone, redatto dal Genovese tra il 1817 e il 1831, compare l’estratto del necrologio di Monti vergato da Tommaseo e pubbli­cato sull‘ “Antologia” di Firenze[10].

L’ossequio tributato a una presenza intellettuale, che allora Mazzini sentiva ancora grande ed autorevole, costringeva ad un’accettazione quasi acritica del parallelo sotteso tra la poesia di Monti e la musica di Rossini:

 

“Le forme della meditazione, gl’impulsi dell’affetto, per lui si tra­sformano in idoli della fantasia; nella fantasia paion piovere al Monti e sentimenti e pensieri, senza quasi sua cooperazione, come le melodie del Rossini”[11].

 

La puntuale trascrizione dei successivi passaggi di Tommaseo operata da Mazzini ci dà ragione del clima di obiettiva diffidenza con cui certo ambiente letterario nazionale aveva accolto il “fenomeno” Rossini: l’eclettismo estetico, privo di apporti scientifici e morali, aveva impedito alla poesia di Monti di aspirare alla dimensione “eterna” dell’arte, rag­giungendovi solo il primato dello stile[12]. Analogo destino per la musica di Rossini, minata al suo interno da un enzima della crescita ipertrofica. Si adombrava l’ipotesi che Rossini avesse perseguito, nella sua eccezio­nale parabola professionale, niente più che “l’estrinseco e il sensibile”[13].

Ad appena un anno di distanza dalla metabolizzazione dell’articolo di Tommaseo, le stesse “melodie” di Rossini vengono citate da Mazzini nel suo scritto Tragédie de Goethe; comincia a vibrare un accenno di nota enfa­tica nel contesto di pagine ove si parla di “eco del sublime” e di “Bello” che emana dal “profondo dell’anima”.

Siamo nel calderone romantico e Mazzini invoca per l’uomo, immerso nell’armonia della “natura solitaria”, la beatificante visione dell’Infinito[14].

Nell’anelito verso l’agente misterioso di un sentimento che l’uomo sa avvertire, anche in presenza di istituzioni sociali deformate da pregiu­dizi e da colpevole ignoranza, risuona sovrana, ma arcana al tempo stesso, la musica di Rossini:

 

“È certo, ad ogni modo - per quanto insegna l’osservazione - che questo sentimento è pur sempre radice di quanto di sublime, e di grande ci presenta la razza umana, - che la sua potenza si esercita in mille forme, e il suo soffio spira così nei versi di Dante, e nelle melodie di Rossini, come nel martirio dei difensori di Psara, e di Missolunghi”[15].

 

Nel successivo scritto programmatico, Del dramma storico (1830), l’ultimo steso prima dell’esilio, il moto progressivo sotteso alla messa in opera della forma letteraria riceve il suggello del riconoscimento sacrale dello status di “Genio”: il nome di Rossini viene accostato a quello, sommo, di Dante ed innalzato al rango eccezionale di una grande opera della na­tura:

 

“Il genio è l’ombra di Dio: opera com’esso, giunge all’intento senza manifestarlo direttamente. L’edificio ch’egli innalza non ha nome, ma la corda, che risponde al pensiero, ti vibra dentro al solo vederlo; e tu uscirai dalla rappresentazione del suo dramma altamente compreso dal principio ch’egli avrà voluto istillarti, come tu sorgi più virtuoso e po­tente dalla lettura di Dante, dalla musica di Rossini, dalla contempla­zione dell’Alpi”[16].

 

Appena l’anno precedente, compilando il saggio D’una letteratura eu­ropea, Mazzini, accedendo alle pagine dell’ “Antologia” fiorentina pun­tualizzava la necessità di un superamento dei particolarismi culturali[17]. Sotto il segno utopistico di una letteratura che rappresentasse lo stato mo­rale della presagita Europa unita, il Genovese aveva evocato il nome di Rossini per qualificare il turgore di una lotta:

 

“- La Patria! Oh, se a tutti coloro che movono la insulsa accusa ar­desse in petto, inestinguibile, immensa la fiamma Italica, che ci con­suma, forse noi non saremmo fatti, com’ora siamo, lodatori oziosi di an­tiche glorie, che non sappiamo emulare; forse il nostro nome non suo­nerebbe oggetto di scherno, o di sterile compassione, sulla cetra dello straniero. - No; non vogliamo gettare in fondo l’Italia; non vogliamo in­servilire il Genio, che ispirò le Grazie a Canova, e i concenti immortali a Rossini”[18].

 

Nelle prime pagine della Filosofia della musica Mazzini prende di petto le cause che, a suo parere, hanno condotto la musica italiana sull’orlo della più totale inadempienza alla missione storica assegnatale: l’arte che è nata in Italia con Palestrina, e che è stata resa più bella da Porpora, Pergolesi e padre Martini, è attualmente priva di “concetto rige­neratore”[19].

Portata avanti stancamente da “trafficatori di note” e da “imitatori” - e tra questi Mazzini pone, con sconcertante incoscienza critica anche Piccinni - la musica italiana si è ridotta a un puro processo di distrazione spettacolare[20].

L’artista si è posto al servizio di una “generazione corrotta, sensuale e spossata”, e ha obbedito alla sua domanda: “sottrammi alla noja”[21].

Perdendo l’appuntamento con quel concetto byroniano di arte profonda, arte che “solca e scava”, la musica d’opera si alimenta oggidì di facili ef­fetti e di steroetipati moventi espressivi:

 

“Chi cerca al dramma musicale una idea? Chi varca oltre il cerchio particolare della varie scene che compongono un’opera, per afferrare un nesso, un centro comune? Non il pubblico infastidito, svogliato, fri­volo, che fugge, anziché richiederle, le profonde impressioni, che di­manda alla musica il passatempo d’un’ora e non altro; che s’informa prima dei cantanti, poi del lavoro”[22].

 

Ridotta a puro trastullo per “l’ore d’ozio”, di una parte avvilita del popolo (“un piccolo numero di scioperati”) la musica degli Italiani è or­mai sterile gioco di combinazioni esperimentate sino all’usura[23].

È a questo punto della sua stringente allocuzione che Mazzini intro­duce il tema, enfatico, dell’apparizione di Rossini, vessillifero dei nuovi va­lori artistici:

 

“Ed egli si pose vendicatore di quanti gemevano, ma non osavano d’emanciparsene, di quella tirannide; gridò rivolta, ed osò [...]. Per lui la musica è salva. Per lui, parliamo oggi d’iniziativa musicale europea. Per lui, possiamo, senza presumere, aver fede che questa iniziativa escirà d’Italia e non d’altrove”[24].

 

Quando scrive queste pagine sulla musica il Genovese, esule in Svizzera, ha già superato la fase di “innamoramento” per l’opera rossi­niana, e individuato in Donizetti il capomanipolo della riforma musi­cale europea.

Spogliatosi immediatamente dei panni dell’ammiratore indiscrimi­nato, Mazzini riassesta l’obiettivo esegetico:

 

“Non però giova esagerare o frantendere la parte che spetta a Rossini ne’ progressi dell’arte; la missione ch’egli s’assunse, è missione che non esce da’ confini dell’epoca ch’oggi gridiamo spenta o vicina a spegnersi. È missione di genio compendiatore, non iniziatore. Non mutò, non distrusse la caratteristica antica della scuola italiana: la ricon­sacrò[... ] Rossini non creò, restaurò”[25].

 

La nozione di ciò che Mazzini intendesse per caratteristica della mu­sica italiana era già stata delineata in pagine precedenti: l’idioma so­noro italiano è la melodia, ed essa è prodotto dell’individualità:

 

“L’individualità, tema, elemento de’ tempi di mezzo, che in Italia più che altrove ebbe in tutte cose espressione profondamente sentita ed energica, ha ispirata, generalmente parlando, la nostra musica, e la domina tuttavia. L’io v’è re [...] segue l’arbitrio d’una volontà che non ha contrasto: va come può e dove spronano i desiderii. Norma razionale e perpetua, vita progressiva unitaria, ordinata pensatamente a un intento non v’è”[26].

 

Alla scuola musicale mediterranea è contrapposta, secondo un vecchio modello critico, la musica dei tedeschi: portatrice questa di armonia e su­scitatrice, di conseguenza, di “pensieri sociali”[27].

Incapace, secondo Mazzini, di intaccare a fondo il “concetto primitivo fondamentale” di una mentalità radicata nei costumi spettacolari e cultu­rali nazionali, Rossini non seppe volger i destini della sua musica verso le funzioni proprie a un progetto di estensione europea: il “restauro” delle convenzioni teatrali avvenne senza coscienza politica e sociale:

 

“Trovò nuove manifestazioni al pensiero dell’epoca; lo tradusse in mille guise diverse; lo incoronò di così minuto intaglio, di tanta fecondità d’accessorj, di tanto fiore d’ornato, che taluno potrà forse sederglisi a fianco, non superarlo: lo espose, lo svolse, lo tormentò fin che l’ebbe esaurito. Non lo varcò. Più potente di fantasia che di profondo pensiero, o di profondo sentimento, genio di libertà e non di sintesi, intravvide forse, non abbracciò l’avvenire”[28].

 

A questo punto l’ombra del dubbio sembra corrodere la sicurezza di Mazzini e ritarda, almeno per un attimo, la condanna che avvertiamo im­placabile: condanna al Limbo, poiché l’Inferno è già stato comunque evi­tato. In una significativa nota a pié di pagina il pensatore genovese av­verte:

 

“Lo varcò talora: lo varcò forse nel Mosè, lo varcò senza forse nel terz’atto dell’Otello, divino lavoro, appartenente tutto intero, per l’alta espressione drammatica, per l’aura di fatalità che vi spira, per la unità mirabile dell’ispirazione, all’epoca nuova”[29].

 

Il riferimento a Otello e Mosè ci rende edotti non solo del sofisticato livello dell’informazione musicale mazziniana ma anche del fine acume di un osservatore che, eludendo le facili parvenze del genere comico, indi­viduava nel Rossini del periodo napoletano quella che è oggi una delle più importanti acquisizioni della Rossini-Renaissance[30].

Altre due sono le opere di Rossini destinate a raccogliere il profumo della “musica futura”: Semiramide e Guglielmo Tell. Ambedue risultano collocabili nel contesto di quell’elemento “storico” che per Mazzini dov­rebbe essere la sorgente di una nuova drammaturgia: attingere alla storia, perché, attraverso le sue rievocazioni, possa prodursi l’armonizzazione del soggetto musicale con il moto della civiltà:

 

“O m’inganno, o tra’ presentimenti della musica futura che sono a trovarsi in Rossini, s’hanno a porre alcune ispirazioni storiche dissemi­nate nelle sue opere, e specialmente nella Semiramide e nel Guglielmo Tell. Nella prima, l’introduzione, il primo tempo del duetto Bella imago, ed alcuni altri brani, hanno nello stile grave, grandioso, talora legger­mente ampolloso, un riflesso orientale. Nel Tell, lasciando le varie re­miniscenze locali e alcuni cori, e il celebre Walzer, basti citare la sinfo­nia, ispirazione sublime di verità”[31].

 

Semiramide e Tell sono dunque i melodrammi in cui la luce della storia illumina i fatti teatrali secondo quell’ottica educativa tanto invocata dal filosofo[32].

Spiace che tra le partiture del Rossini napoletano, quelle che oggi maggiormente attirano l’attenzione dello studioso, Mazzini non abbia in­dividuato La donna del lago e Zelmira; lo meriterebbe la prima per l’aura di romanticismo nordeuropeo che vi spira; la Scozia degli Stuart, il lago, i cacciatori, i Bardi[33].

Per quanto concerne Zelmira, la cura con cui Rossini pose mano a limare gli elementi drammaturgici la dice assai lunga sulla consapevolezza di ciò che lo stesso autore intendeva per opera destinata a un pubblico non italiano[34].

Gli elementi a disposizione di Mazzini sono comunque probanti: impos­sibile assegnare al Pesarese quella palma di “musicista della sintesi eu­ropea” che sarà attribuita prima a Donizetti e poi a Meyerbeer[35].

L’ostacolo è di natura etica: per l’artefice dell’unità europea l’individualismo dell’artista creatore è un limite che ostacola l’espansione verso le componenti sociali dei rapporti umani, e nella mu­sica di Rossini tutto è geniale individualità:

 

“L’individualità siede sulla cima: libera, sfrenata, bizzarra, rappre­sentata da una melodia brillante, determinata, evidente, come la sen­sa­zione che l’ha suggerita. Tutto in Rossini è appariscente, definito, sa­liente; l’indifinito, lo sfumato, l’aereo, che parrebbero appartenere più specialmente all’indole della musica, han dato luogo, quasi fuggenti di­nanzi all’invasione d’uno stile avventato, tagliente, d’una espressione musicale positiva, risentita, materialista. Diresti le melodie rossiniane scolpite a basso-rilievo. Diresti fossero sgorgate tutte dalla fantasia dell’artista sotto un cielo d’estate di Napoli, in sul meriggio, quando il sole inonda su tutte cose, quando batte verticalmente e sopprime l’ombra de’ corpi. È musica senz’ombra, senza misteri, senza crepu­scolo”[36].

 

L’eclissi della parabola rossiniana e il definitivo spegnimento degli interessi destati da Otello, da Semiramide e dal Tell avviene in virtù de­gli stessi motivi per cui il Genovese aveva superato le fasi della sua fer­vida adesione al Romanticismo.

Era stato il movimento romantico a portare aria nuova, elettrizzante, nella coscienza addormentata degli Europei:

 

“Il romanticismo come gl’invasori settentrionali sul finir dell’impero venne a por mano in quelle morte reliquie e le scompigliò; dissotter­rando l’individualità conculcata, e mormorando all’intelletto, applicata all’arte, una parola obliata quasi da cinque secoli, lo riconsecrò libero e gli disse: va oltre: l’universo è tuo: non altro”[37].

 

Secondo le riflessioni mazziniane gli effetti del nuovo verbo artistico erano straripati dall’alveo della strada inizialmente tracciata e si erano dispersi in mille rivoli, molti dei quali sfioranti il bizzarro:

 

“E allora gl’ingegni divagarono per quante vie s’affacciavano: sali­rono al cielo, e si ravvolsero nelle nuvole del misticismo; scesero, rovi­nando all’inferno, e ne trassero il ghigno satanico e quello sconforto senza fine che domina in Francia tanta parte di letteratura; si prostra­rono alle reliquie dell’evo medio, chiesero l’ispirazione a’ rottami de’ chiostri e de’ monasteri”[38].

 

La situazione era prodotta dalla mancanza di un patto di affratella­mento tra la musica e il pensiero della civiltà:

 

“Chi ha mai pensato che il concetto fondamentale della musica po­tess’essere tutt’uno col concetto progressivo dell’universo terrestre, e il segreto del suo sviluppo avesse a cercarsi nello sviluppo della sintesi generale dell’epoca [...]?”[39]

 

Seguendo la linea di riflessione adottata da Mazzini il Romanticismo, scaturito dalla liberazione dell’arte operata dalla rivoluzione francese, aveva da questa assunto il culto dell’individualismo. Ma, agli occhi del Pensatore, intriso di socialismo utopistico, la letteratura e quel che di mu­sica egli conosceva non erano espressioni di nuove idealità, ma semplice­mente sussulti epigonici di un’epoca ormai in estinzione, appena puntel­lata dalle novità estetiche di cui si era fatto portatore il Romanticismo[40].

Rossini, considerato dal Genovese un esponente a tutto tondo del Romanticismo, è, al pari di Victor Hugo, analizzato quale ultimo rappre­sentante dell’operare artistico fondato “sull’anarchia”[41].

Tutta la serie di articoli pubblicati sulle colonne de “L’Italiano” è de­dicata alla riduzione, quando non all’azzeramento, degli atteggiamenti individualistici emessi dal Romanticismo[42]. Mazzini postula l’avvento dell’epoca sociale nella quale anche l’artista-individualista accetti di versare il contributo del proprio intelletto, potente nell’abbraccio della solidarietà e della fratellanza, proiezione aurorale, questa, ma implaca­bile nell’abbattere tutti gli ostacoli frapposti, si chiamino Rossini o Victor Hugo[43].

Già nell’articolo programmatico apparso sul primo numero della te­stata degli esuli, l’Autore mostra di aver maturato uno schema storico nel quale l’epoca individualistica, pienamente affermatasi con il Romanticismo, è destinata all’inevitabile eclissi:

 

“Il Romanticismo gridò: fate, non monta il come: protestò contra quanti contendevano al Genio, il diritto di slanciarsi per altre vie; non le additò; non le schiuse: trovò ceppi e li ruppe; dittature usurpate e le ro­vesciò; ma non guardò se agli imprigionati da lungo bastasse chiudere le porte del loro carcere perché trovassero la via: non avvertì che tra la libertà e l’anarchia correva una legge, la legge de’ tempi, sola eterna, sola essenziale a tutte le lettarature perché non si stiano isolate ed inu­tili, argomento d’ammirazione, non di miglioramento ai viventi. Fu grido di riazione: guerra d’indipendenza, non altro. Emancipò l’intelletto, non l’avviò. Rivendicò l’individualità cancellata dal classici­smo, non la riconsacrò ad una missione”[44].

 

Lo stato di clandestinità politica entro cui il Pensatore era costretto ad operare decreta la brevità delle opere parigine[45]. La forzosa unitarietà dello scopo da raggiungere tende alla dimostrazione di come, alla stasi del movimento romantico, debba succedere una “poetica dell’azione”: sa­rebbe necessario, allora, raccogliere le professioni di fede letteraria e mu­sicale entro l’alveo di un “moto di progresso” che inneschi processi di in­terrelazione tra l’artista-individuo e la società in cui egli si riflette[46]. Si irradiano i prodromi dell’epoca sociale nella quale la Provvidenza fun­gerà da “ente armonizzatore” tra il Fato e la Necessità: il primo, regola­tore dell’epoca classica, il secondo codificato dallo scientismo empirista ed esaltato dal Romanticismo[47].

La luce della Provvidenza, già accesa da Schiller, stimola il processo della civiltà: le lettere e le arti debbono allinearsi alla nuova Religione sociale fecondata dal “soffio di Dio”[48].

In questa aurorale Repubblica degli intelletti non vi è posto per indi­vidualità eccellenti (ed eccedenti). Anzi, gli articoli maggiormente do­tati di “intelletti potenti” e che pertanto si stagliano con fisionomia da protagonisti sull’orizzonte del Progresso, saranno i primi ad essere sacrifi­cati, superati dall’energia del soffio dell’Imperativo Morale[49].

Tocca a Rossini e a Victor Hugo fare le spese della revisione critica del 1835-36; ambedue, protagonisti della più felice stagione artistica e lette­raria giovanile, si troveranno uniti, nel fascio degli scritti parigini, nel medesimo destino. Analizzando le pagine della Filosofia della musica dedicate a Rossini e i due brevi componimenti di critica victorughiana, ci troveremo di fronte a un tessuto sintattico ove l’analogia della tratta­zione disegna percorsi pressoché omogenei. Sono più che frequenti le ripe­tizioni di frasi, quando non addirittura di interi periodi: indizi questi della fretta con cui Mazzini lavorava, ma anche dell’urgenza dottrinaria di ribattere lapidariamente convinzioni avvertite come improrogabili. A titolo di campionatura si può fornire una serie di passi in cui la parabola professionale rossiniana è intagliata nella medesima sostanza di quella victorughiana:

Rossini

“Più potente di fantasia che di profondo pensiero, o di profondo senti­mento, genio di libertà e non di sintesi, intravvide forse, non abbracciò l’avvenire”[50].

Hugo

“il problema intorno a cui s’aggirano le speranze e i terrori dell’epoca e s’agitano le sorti delle generazioni venture, ei l’ha presentito forse ta­lora, ma né meditato né avviato d’un passo alla soluzione”[51].

Rossini

“Quand’egli venne le vecchie regole pesavano sul cranio dell’artista, come le teoriche d’imitazione, e le viete unità aristoteliche”[52].

Hugo

“Quando ei si levò, l’unità materiale e tirannica dell’Impero, soppri­mendo le individualità, o meglio, concentrando, incarnando l’espressione di tutte individualità in una sola, riassunto e conclusione d’un’epoca in­tera, avea lungamente represso quell’anelito all’infinito ch’è base d’ogni credenza religiosa e quell’attività di sviluppo morale progressivo che ne è conseguenza”[53].

Rossini

“l’individualità siede sulla cima: libera, sfrenata, bizzarra, rappre­sentata da una melodia brillante, determinata, evidente come la sensa­zione che l’ha suggerita”[54].

Hugo

“Vittore Hugo è un poeta dell’individualità. L’individualità lo tra­scina, lo seduce, lo vince”[55].

Rossini

“L’Arte per l’Arte è formola suprema per la musica italiana. Quindi il difetto d’unità, quindi il procedere frazionario, sconnesso, interrotto”[56].

Hugo

“E culto della sensazione, religione della materia, Paganesimo lette­rario, tutto fu stretto in formola, eretto a sistema dall’Hugo e dalla sua scuola, da quando le loro intenzioni poetiche vennero a riassumersi, a con­centrarsi nella teoria dell’Arte per l’Arte, teorica rovinosa, mortale all’Arte, all’intento sublime ch’ella deve proporsi, al progresso continuo, alla fede”[57].

Il fatidico nome di Napoleone, che, per quanto concerne Rossini, è stato citato con valenza encomiastica, nel caso di Hugo viene associato a Byron, ambedue “affossatori” del “pensiero collettivo, sociale e d’Umanità”;

Rossini

“Rossini è il Napoleone d’un’epoca musicale”[58].

Hugo

 “anima e vita d’un’Arte che il secolo ha sotterrato con Byron, come ha sotterrato con Napoleone lo stesso termine”[59].

Nella poesia e nella drammaturgia di Hugo, secondo quanto sostiene Mazzini, il concetto dominante di “redenzione” avrebbe saputo “presentire” quelli che sono gli “uffici dell’Arte”: far vibrare nell’animo di ogni uomo, anche nel più isterilito, la corda che reca impressa “l’impronta di Dio”[60]. Ma alla fase progettuale - queste le conclusioni del Genovese - non ha corrisposto un “pensiero vitale” capace di realiz­zare una unità morale, sociale e religiosa:

 

“bisognava guardar dall’alto al basso il problema, non dall’ingiù - collocarsi al disopra dell’individuo per discoprirne i destini, al disopra di tutti gl’individui per abbracciarne le relazioni, i vincoli e l’intento co­mune - levarsi dalla sfera individuale all’idea sociale - risalire dal fatto speciale alla formola generale, dal soggetto alla legge, dalle vite alla Vita - afferrare l’unità; afferrar l’armonia che assegna e definisce ad ogni individuo il suo rango e la sua vocazione; farne l’anima tempio, la mente foco: identificarsi insomma coll’Universo, vivere della sua vita, trovarne il segreto e il compendio in ogni frammento della creazione - poi, da quell’altezza contemplar l’individuo trascelto, infondergli una scintilla di quella vita, indicarne il nesso coll’armonia universale e trovar modo di serbarne a un tempo inviolata l’indole particolare, la singolare natura e d’innalzarlo al valore d’un’espressione generale”[61].

 

La debordante contaminazione con gli aspetti di pura esteriorità sin qui stigmatizzati in Hugo - l’individualità accentratrice, incapace di farsi assorbire da una “sfera obiettiva” del vivere socialmente l’arte - co­stringe Mazzini a condannare il suo idolo giovanile:

 

“La musa di Vittore Hugo è una stella al tramonto. Il raggio di ch’ella splende è melanconico come un ricordo [...]. L’ingegno dello scrittore è attivo anch’oggi e fecondo; ma la vita del Poeta è compita: il cerchio delle sue manifestazioni esaurito”[62].

 

Nel congedarsi dal drammaturgo di Hernani, il pensatore genovese, pur inflessibile nella sua decisione, non può nascondere un moto di intene­rimento:

 

“E fu un lungo e irrevocabile addio: un addio al poeta de’ nostri anni giovenili: un addio al fanciullo divino, al profeta d’un mondo poetico, che l’anime nostre anelavano, al fratello de’ nostri dolori, de’ nostri de­siderii, e de’ nostri presentimenti. E allora, il divorzio fu consumato. Che altro avremmo potuto trarre da lui se non illusioni o sconforto?”[63]

 

A differenza del poeta francese, relegato nella “gran notte d’indifferenza”, Rossini, creatore di un “plastico musicale”, non è desti­nato al totale oblio: della sua musica si salverà quel tanto che è recupera­bile al moto sociale dell’arte:

 

“E scuola musicale europea, non può essere se non quella che terrà conto di tutti gli elementi musicali che le scuole parziali anteriori hanno svolto, e senza sopprimerne alcuno, saprà tutti armonizzarli e dirizzarli a un unico fine. Però, dicendo ch’urge in oggi l’emanciparsi da Rossini e dalla scuola ch’egli ha riassunta, guardo unicamente allo spirito esclu­sivo di quella scuola, al predominio esclusivo della melodia, all’esclusiva rappresentanza della individualità che la informa, che la rende frazionaria, ineguale, sconnessa, e la condanna al materialismo, peste di tutte arti, di tutte dottrine, di tutte imprese”[64] .

 

La separazione da Rossini, fatta salva la funzionalità delle sue acqui­sizioni linguistiche emancipate dalla “convenzione teatrale”, avviene in nome della santità dell’Arte: modulando il “cantico dell’Avvenire” Mazzini esige il distacco da un musicista immerso nell’Eden della sua sfolgorante, sterile libertà:

 

“Oggi urge l’emancipazione da Rossini e dall’epoca musicale ch’ei rappresenta. Urge convincersi ch’egli ha conchiusa, non incominciata una scuola - che una scuola è conchiusa, quando, spinta all’ultime con­seguenze, ha corso tutto lo stadio di vitalità che ad esse spettava - ch’ei l’ha spinta fin là, e che l’insistere sulla via di Rossini è un condannarsi ad esser satellite, più o meno splendido, ma pur sempre satellite. Urge convincersi che, a rifiorire, la musica ha bisogno di spiritualizzarsi  - che a levarla potente, è necessario riconsecrarla con una missione - che a non rovinarla nell’inutile o nello strano è mestieri connettere, unificare questa missione colla missione generale dell’arti nell’epoca, e cercarne nell’epoca stessa i caratteri: in altri termini, farla sociale, immedesi­marla col moto progressivo dell’universo”[65].

 

Si è detto di Otello , di Semiramide, di Mosè e di Guglielmo Tell, le qu­attro opere rossiniane citate nella Filosofia, seppur marginalmente, in note a piè di pagina.

Sfogliando il ricco epistolario mazziniano, troveremo ancora il nome di Rossini, anche se nettamente in svantaggio, per frequenza di citazioni, rispetto a quelli di Donizetti e Meyerbeer, oggetto di maggiori attenzioni e di affettuose segnalazioni. In ordine cronologico la prima delle opere rossiniane ad essere evocata è Semiramide.

In una lettera del 1834, ove si dibatte della fallita impresa di Ramorino, l’Esule rivendica alla Centrale della Giovine Italia la sola capacità di condurre le indagini sul presunto tradimento del militare. Anche in questa occasione Mazzini non esita a far sfumare la sua personale individualità di capo carismatico nel concetto più “generale” del movi­mento politico:

 

“- Per me va divinamente - ch’io comparisca fasciato di bianco, come lo spettro nella Semiramide, o di nero, come gli spettri volgari, cosa importa? - l’individuo deve sfumare - la Centrale sola è immor­tale”[66].

 

Emendata dal sarcasmo, la citazione di Semiramide riappare nel con­testo delle missive londinesi, quella in cui Mazzini descrive alla madre le lancinanti fasi della nostalgia:

 

“Questa sera vado - gran cosa - a sentire la Semiramide; è una delle prime opere che ho sentito a Genova; e in virtù delle reminiscenze che mi desta, ho deciso di fare un miracolo e andare: unica volta che andrò al Teatro pagando; giacché se andrò altre volte, andrò con biglietti dati da’ miei amici cantanti. Una pazzia in un anno può farsi”[67].

 

Già a partire dalla prima fascia della permanenza a Londra la socia­lizzazione con la borghesia liberale e colta era avvenuta anche attra­verso la frequentazione del teatro: una rappresentazione di Gazza Ladra è l’occasione buona per gettare un colpo d’occhio sulle abitudini musicali dei londinesi, oltre che di far conoscenza con cantanti che tanta parte avranno nella fervida attività politica:

 

“Sono stato - per la prima volta - al teatro dell’Opera italiana, gratis s’intende, mercé un biglietto fornitomi da un amico che ha mezzo d’averne: v’andai, sperando udire un’opera nuova annunziata: poi trovai mutato il programma e la Gazza Ladra sostituita all’opera promessa [...]. La platea era piena, ed è così, dicono, tutte le sere: le donne non pos­sono entrare in platea con cappello: gli uomini non entrano se non sono in abito corto: il frac, surtout, non è ammesso [...]. Bisogna aspettare una mezz’ora alla porta: quando s’entra, par si corra a un assalto: si corre un vero rischio: entrati e seduti, è finita: gentilezza verso le donne non usa: ho veduto signore in piedi tutta la sera e nessuno s’è mosso per offrire un posto [...]. Dopo l’opera, dove cantavano Lablache, Rubini, la Grisi e Tamburini, viene il ballo”[68].

 

Appare anche Otello, inserito in una missiva che è tra le più disar­manti e commoventi della solitudine mazziniana:

 

“Ricordo spesso la signora Annetta e la signora Colomba e Andrea e Nicolino, e il signor Giuseppe; e ricordo il piano e la caccia, e la Giuseppina, e la nostra camera, e quella del piano e il canapè dietro al piano dov’io sedeva mentre il signor Giuseppe cantava: Assisa a piè d’un salice, unico pezzo di Rossini che avesse nel suo repertorio”[69].

 

Ancora Otello nel 1839: stavolta l’evento mondano è connesso a una no­vità dell’Opera Italiana:

 

“Forse - ma è un forse  - avrò un biglietto per oggi; danno l’Otello ed è la prima recita d’una giovine cantante sorella della celebre Malibran: del resto, la folla sarà immensa, e s’anche avrò un biglietto, probabil­mente non potrò entrare”[70].

 

Ecco un cantante all’orizzonte, un tenore in “odore” di repubblica:

 

“Avete udito parlare del tenore Mario Candia? figlio di nobile, anzi, credo, del governatore di Nizza, e che s’è messo sulle scene per sottrarsi al genere di vita ch’egli era costretto a fare in Italia? Egli è ora qui; canta nell’Opera italiana e piace assai a quanti lo hanno udito. Forse l’udrò io pure nel Guglielmo Tell di Rossini”[71].

 

Negli anfratti freddi e piovosi di Londra la musica del Tell di Rossini può servire a far rivivere altri momenti dell’antica, breve serenità:

 

“Nous n’avons eu que trois jours d’été; il pleut, il fait froid, il fait du vent. La seule émotion que j’ai éprouvée depuis ma dernière lettre, a été una émotion de souvenir. J’ai rêvé un instant la Suisse, vous tous, les lacs, mes Alpes, les vergiss-mein nicht, tout ce que j’aime en écoutant la symphonie du Guillaume Tell de Rossini, morceau qui n’a rien de commun avec sa manière habituelle et auquel je ne connais rien de comparable si ce n’est le début du Wilhelm Tell par Schiller”[72].

 

Rossini e Meyerbeer a contatto diretto in una missiva del 1842; le sim­patie sembrano a favore del musicista tedesco:

 

“Non ho potuto ancora, per mancanza di tempo, sentire un po’ di musica tutta questa stagione; avevo una gran voglia di sentire gli Huguenots di Meyerbeer ch’è il mio grande compositore, e v’era qui una Compagnia Tedesca che ha dato tre o quattro sere quest’opera, ma non ho potuto: v’è ora lo Stabat Mater di Rossini che sentirei volentieri; ma finora non v’è stato modo: poi a certe ore mi nasce un certo rimorso di spendere in sensazione musicale cinque scellini, mentre farebbero forse in un momento dato la consolazione d’una famiglia”[73].

 

Il grande affresco religioso, il capolavoro del “Rossini silenzioso” si raccorda alla piccola cantata La carità:

 

“Sono in giro per Concerto... Le mando un amico interessato nella  Scuola per dimandarLe a nome di Mr. de Glimes e mio s’Ella aderi­rebbe ai seguenti pezzi:

Aria ‘Ah, rammento’ di Mercadante nella Leonora, oppure l’Aria di Maria Padilla; poi, se mai si potrà concertare, se Ella avrebbe obbie­zione a cantare il Duo di Maria Padilla con Mad. Manara; e finalmente una parte nella Carità di Rossini. Per quest’ultima, oso aggiungere le mie preghiere speciali, perché la Carità è desiderio di gran parte del no­stro pubblico, che sarà numeroso”[74].

 

Qualcosa si è nuovamente mosso nell’animo di Mazzini, a favore di Rossini: non tanto da perdonarlo per le sue palesi connivenze con i gover­nanti austriaci, ma sufficiente a riscattarlo comunque di fronte a musicisti che vorrebbero essere definiti suoi successori:

 

“Non dovreste mai fidarvi delle parole; fidatevi del silenzio, dello sguardo, dell’eco della musica nascosta; le parole, oggidì, sono come Pacini, Mercadante, ecc. in confronto a Rossini: imitatori, talvolta anche copiatori”[75].

 

Un guizzo tardivo d’interesse per una delle opere più “defilate” del periodo francese rossiniano appare in una corrispondenza del 1855:

 

“V’ammazzo di commissioni; e m’hanno l’aria del mio testamento. Potreste operare un prodigio? non pensate più alla Beatrice di Tenda: comprate invece, se esiste per piano e canto, il Conte Ory ; e - se possi­bile - abbiatelo rilegato in nero al modo solito per martedì mattina”[76].

 

Insistente, come sempre, quando fa richiesta di un contributo musicale, Mazzini ritorna, alcuni giorni dopo, sopra lo stesso argomento:

 

“Abbiate Ory quanto prima potete; e se no, quando potete”[77].

 

Rigorosissimo nell’aspetto pubblico delle sue riflessioni artistiche, nell’intimità, Mazzini era solito fare molte concessioni alla sua serrata ideologia. Al punto da concedersi, sulla chitarra, che suonava in maniera magistrale, quel “passatempo d’un’ora” negato agli utenti del teatro d’opera[78]. A tale scopo si rileggano, trattenendo a stento un sorriso, le fre­quenti richieste di musica che il Patriota rivolgeva alla madre. Tra que­ste figurano anche dilettevoli riduzioni per chitarra di arie di Rossini:

 

“Anzi, vorrei che, se fosse possibile, cercaste nella musica che aveva in casa, qualche cosa di concertato, qualche duetto, se ne avete, per flauto e chitarra d’autori buoni, eccettuato Carulli, che scrive troppo fa­cile; credo ve ne fosse qualcuno di Giuliani, di Kuffner, etc., poi qualche cosa per violino, flauto, e chitarra, per esempio certe sinfonie della Gazza Ladra, del Barbiere, della Pietra di Paragone, ridotte da Carulli”[79].

 

                                                                                                       stefano ragni

 

 

 



[1]) giuseppe mazzini, Filosofia della musica, a cura di marcello de angelis, Firenze, 1977, p. 53.

Analogamente, Mazzini, adottando il medesimo calore tribunizio, introduce la figura di Victor Hugo: “Quando ei si levò, l’unità materiale e tirannica dell’Impero, sopprimendo le individualità, o meglio, concentrando, incarnando l’espressione di tutte individualità in una sola, riassunto e conclusione d’un’epoca intera, avea lungamente represso quell’anelito all’infinito ch’è base d’ogni credenza religiosa e quell’attività di sviluppo morale progres­sivo che ne è conseguenza”. mazzini, Potenze intellettuali contemporanee, I, Vittore Hugo, s.e.n., viii, p. 246. Per la ricezione in chiave risorgimentale del pensiero espresso da Mazzini su Rossini cfr. enrico montazio, Giovacchino Rossini, Torino, 1862, p. 8; “Accenti marziali patriottici” in Assedio di Corinto e Guglielmo Tell; “Canto della redenzione” in Mosè.

[2]) La Filosofia della musica redatta da Mazzini sul finire del 1835, fu pubblicata nel 1836 nella testata “L’Italiano”, edito a Parigi. Comparso nei fascicoli di Giugno, Luglio e Agosto. l’opuscolo fu in seguito ristampato negli Scritti letterari di un Italiano vivente, T. II, Lugano, 1847, pp. 268-318.

[3]) Sulla “sciagura inevitabile” in cui era precipitata la musica italiana dell’età napoleo­nica si era già espresso andrea majer nel suo Discorso intorno alle vicende della musica ita­liana, Venezia, 1818. Cfr. marcello de angelis, Estetica musicale dell’Ottocento, in mazzini, Filosofia cit., p. 8. Documentazione sulle opinioni intorno all’opera in musica espresse nei primi decenni dell’Ottocento viene elencata da renato di benedetto  nel pa­ragrafo “Preziose pietre dure con loto per cemento”, contenuto in Storia dell’opera italiana , a cura di l. bianconi e g. pestelli, vol. 6, Torino, 1988, pp. 54-60.

[4]) “Da quarant’anni i biografi di Rossini inondano l’Europa”; cfr. montazio, op. cit., p. 30. Un’analisi delle fonti bibliografiche rossiniane è stata effettuata da paolo isotta, “I diamanti della corona, Grammatica del Rossini napoletano”, in Mosè in Egitto, Azione tra­gico-sacra, Moïse et Pharaon, Opéra en quatre actes, Mosè, Melodramma sacro in quattro atti, Torino, 1974, pp. 144-147.

[5]) stendhal, Vita di Rossini, traduzione italiana di u. perruccio  e  l. bertini pinna pintor, Torino, 1983. Era lo stesso Autore a dichiarare: “Questo  libro, dunque, non è un li­bro”. Cfr. la Prefazione di bruno cagli, pp. xviii-xix. L’edizione originale stendhaliana, datata 1824, era in realtà già disponibile nelle librerie a partire dal Novembre 1823. Per un obiettivo riscontro critico della biografia rossiniana di Stendhal, cfr. ottavio matteini, Stendhal e la musica, eda, 1981, in particolare il capitolo “La Vie de Rossini”, pp. 193-232.

[6]) stendhal, op. cit., p. 3.

[7]) giuseppe carpani, Le Haydine, ovvero Lettera sulla vita e le opere del celebre maestro Giuseppe Haydn, Padova, 1823 (seconda edizione). Ristampa fotomeccanica in Bibliotheca Musica Bononiensis, Collana diretta da G. Vecchi, Bologna, 1969, p. 293. Per l’influenza dell’estetica neoclassica sul pensiero di Carpani “rossinista-winckelmannista” cfr. isotta, op. cit., pp. 181-190. Sulla produzione critico-letteraria di Carpani cfr. giorgio pestelli, Giuseppe Carpani e il neoclassicismo musicale della vecchia Italia, in “Quaderni della Rassegna Musicale”, 4, Torino, 1968, p. 116.

[8]) heinrich heine, Reisebilder, traduzione italiana di b. maffi  (Italia, impressioni di viaggio), Milano, 1951, p. 43. Un’anticipazione delle tematiche europeiste contenute sulla musica di Rossini e di Meyerbeer - tema che sarà approfondito da Mazzini sia nella Filosofia che nel ricco epistolario - veniva già dibattuta da Heine nel suo Politische Oper. Rossini und Meyerbeer in “Allgemeine Theater-Revue”, 1837. Cfr. heine, Cronache musicali 1821-1847, a cura di e. fubini, Fiesole, 1983, pp. 10-22.

[9]) “Non vi fu artista che al pari di Rossini fosse o tanto lodato o tanto biasimato”. Cfr. geltrude righetti giorgi, Cenni di una donna già cantante sopra il maestro Rossini, in risposta a ciò che ne scrisse sulla state dell’anno 1822 il giornalista inglese in Parigi e fu ri­portato in una gazzetta di Milano dello stesso anno, Bologna, 1823. L’impressionante testi­monianza (fremente di sdegno battagliero e polemico) scritta dalla cantante bolognese - già prima Rosina e dedicataria della parte di Cenerentola - aveva come oggetto del contrasto un articolo pubblicato da Stendhal sotto lo pseudonimo di “Alceste”. La lunga corrispondenza, articolata su quindici capitoli, dimostra come la musica di Rossini fosse capace di suscitare nugoli di risposte giornalistiche e di creare veri salienti di lotta, sui quali venivano, para­dossalmente, a misurarsi tra loro anche gli stessi ammiratori del Pesarese. Lo scritto della Righetti Giorgi è integralmente riportato in luigi rognoni, Gioacchino Rossini, Torino, 1968, pp. 341-372.

Sui temi della “venerazione” per Rossini si era già distinto tra i primi, Théophile Gautier, che già nel 1832 citava il musicista nel suo poema Albertus, quale “roi de la musique”. Cfr. giorgio corapi, Théophile Gautier e il marmo rossiniano, “Bollettino del Centro Rossiniano di studi”,  Pesaro, 1984, nn. 1-3, pp. 21-41.

[10]) Per gli scritti giovanili di Mazzini, e in particolare per la stesura dello Zibaldone cfr. mario scotti, La formazione letteraria, in Mazzini e il mazzinianesimo, Atti del xlvi Congresso di studi di storia del Risorgimento Italiano, Genova, Settembre 1972, Roma, 1974, pp. 45-46.

[11]) g. mazzini, Zibaldone giovanile, s.e.n., Nuova Serie, I, p. 138. Per il giudizio di Tommaseo su Monti cfr. antonio borgese, Storia della critica romantica in Italia, Milano, 1965, p. 277. Ivi è contenuta anche una disamina sulla posizione di Mazzini nei con­fronti del poeta ravennate: “Chi mai più lontano del Monti dall’idea morale mazziniana?”, p. 318.

[12]) Impossibile, per Mazzini, accostare Monti ai numi poetici di Byron e di Goethe: “E il nostro Monti avrebbe potuto sedersi terzo fra questi due, se la profondità delle idee, e la co­stanza dell’animo fossero in lui state pari alla potenza dell’espressione, e alla vivacità delle immagini”. mazzini, D’una letteratura europea, s.e.n., I, p. 216.

[13]) Per la vis polemica raggiunta dai detrattori di Rossini e la forza delle argomentazioni dei suoi sostenitori, cfr., a titolo esemplificativo, giuseppe carpani, Le Rossiniane, ossia lettere musico-teatrali, Padova, 1924. Ristampa anastatica nella cit. Bibliotheca Musica Bononiensis. In particolare consultare la “Lettera iv” indirizzata “All’anonimo autore dell’articolo sul Tancredi di Rossini, inserito nella Gazzetta di Berlino n. 7, 1818”, pp. 61 e segg.

[14]) Goethe è visto da Mazzini quale portatore del Genio isolato, e pertanto distaccato dalle vicende sociali del mondo contemporaneo. Nel saggio il Genovese enuncia la teoria della re­latività della critica d’arte “che non ha valore assoluto, ma è desunta dall’uso comune d’una nazione”. Cfr. scotti, op. cit., pp. 49-50. Viene puntualizzata inoltre l’equidistanza del ca­polavoro poetico goethiano sia dal classicismo che dal movimento romantico. Su questo saggio giovanile cfr. benedetto croce, Goethe, Bari, 1946, pp. 129-130.

[15]) mazzini, Faust, tragédie de Goethe, nouvelle traduction complète en prose et en vers par Gerard (De Nerval), Paris, 1828. Il lavoro apparve sul “L’Indicatore livornese”, nn. 11 e 12 Maggio 1829; cfr. s.e.n., I, pp. 127-151.

[16]) mazzini, Del dramma storico, s.e.n., i, p. 310. L’opera d’arte deve fornire un’interpretazione “filosofica dei fatti storici scelti come movente ispiratore”. Cfr. giovanni pirodda, Mazzini e gli scrittori democratici, Bari, 1981 (3), p. 21. Sulla tendenza storicistica di matrice foscoliana e sull’ideale rosminiano di un dramma che illustri il va­lore morale di una vicenda cfr. borgese, op. cit., pp. 320-321.

[17]) Il progetto di fondazione di una letteratura europea al pari del postulato di una musica per gli europei, costituisce il nucleo intorno a cui si salda tutta la produzione mazziniana del periodo precedente all’esilio. Cfr. pirodda, op. cit., p. 19. La libertà raggiunta dal Romanticismo sarebbe stato il presupposto mazziniano della fondazione di questo “nuovo or­dine” culturale. Cfr. carmelo cappuccio, Critici dell’età romantica, Torino, 1968 (2), pp. 143-144.

[18]) mazzini, D’una letteratura cit., p. 188. La matrice dell’accostamento Rossini-Canova si può già cogliere in carpani, Le Haydine cit., p. 293.

Il parallelo è ampiamento utilizzato anche da Stendhal: “Da Raffaello a Canova, da Pergolesi a Rossini e Viganò, tutti gli uomini di genio destinati a deliziare l’universo con le belle arti sono nati nel paese dell’amore”. Cfr. stendhal, Vie de Rossini cit., p. 27. Di una cantata scritta da Rossini per l’inaugurazione di un busto del Canova nell’Ateneo di Treviso fornisce accurata documentazione giuliano simionato, Rossini, Canova e Treviso, “Bollettino del Centro Rossianiano di studi”, 1975 (3), Pesaro, 1977, pp. 13-26.

[19]) mazzini, Filosofia della musica cit., p. 36. L’indicazione di padre Martini quale impro­babile rappresentante dell’antico stile compositivo italiano viene forse da carpani, Le Haydine cit., p. 158. Interessanti percorsi critici di stendhal in Lettera sullo stato attuale della musica in Italia, in Vie de Métastase, traduzione italiana di m. c. marinelli, Firenze, 1987, pp. 59-81. Palestrina, Alessandro Scarlatti, Durante, Leo, Marcello nella di­samina storicistica di Verdi; lettera a Filippi, marzo 1869, cit. in gustavo marchesi, Verdi, Torino, 1970, p. 396. “Sorse il Palestrina, questo genio immortale”, in carpani, op. cit., p. 143.

[20]) mazzini, op. cit., p. 58.

[21]) mazzini, ivi, p. 41.

[22]) mazzini, ivi, p. 42. Il piacere puramente edonistico di ridurre l’ascolto di un’opera li­rica a semplice esibizione di cantanti aveva un insospettabile sostenitore in Hegel: “in re­altà quando si può smettere di vedere questi dipinti e di sentire le voci di David, Lablache, Fodor, e Dardanelli (quest’ultima anche di vederla), Ambrogi, Bassi?”, cfr. g. w. f. hegel, Lettere, Bari, 1972. In particolare, lettera alla moglie, Vienna 2 ottobre 1824, sabato sera, p. 290.

[23]) mazzini, op. cit., p. 45.

[24]) Ivi, p. 53. Linguaggio di stampo mazziniano quello adottato da Montazio: “Ei prese la musica melodrammatica ancor bambina e vergine dalle mani di Cimarosa e di Paisiello; senza deflorarla la fece donna, senza corromperla l’abbellì: l’educò, la rinnovò, la difese dal tocco dei profani. Egli si eresse vendicatore di quanti gemeano sotto la tirannia delle servili pastoie della gretta imitazione, e i quali non osavano emanciparsene”. montazio, op. cit., p. 21.

[25]) mazzini, op. cit., pp. 53-54.

[26]) Ivi, p. 51.

[27])Ivi, p. 56. “Del rimanente è verissimo che i Tedeschi preferiscono la musica piena d’armonia alla semplice e melodiosa. La ragione che ne adduce un medico autore in una ope­retta sugli usi della musica in medicina è la seguente: che per iscuotere i Tedeschi vi vuole più forza meccanica, e un maggior numero di potenze; carpani, op. cit., p. 142. Gluck e Piccinni, Beethoven e Rossini, “cantilena” e armonia anche in Le Rossiniane, cit. In partico­lare nella “Lettera iv”, pp. 61 e segg.

Si accoda Stendhal nel capitolo “Guerra dell’armonia contro la melodia”, in Vie de Rossini cit., pp. 71-75. Echi dell’antico luogo comune ancora in Verdi: “Noi non possiamo, dirò anzi, non dovremmo scrivere come i Tedeschi, né i Tedeschi come noi. Che i Tedeschi si approprino le nostre qualità come fecero a’ loro tempi Haydn, Mozart, restando però sempre quartettisti; che Rossini si approprii perfino di alcune forme di Mozart restando sempre però melodista, sta bene; ma che si rinunci per moda, per smania di novità, per affettazione di scienza, si rinneghi l’arte nostra, il nostro istinto, quel nostro fare sicuro spontaneo naturale sensibile abbagliante di luce, è assurdo e stupido”. Lettera a Giulio Ricordi, 1878, in  marchesi, op. cit., pp. 449-450.

[28]) mazzini, op. cit., pp. 54-55. Cfr. il capitolo “Rossini innovatore”, in francis toye, Rossini, Milano, 1976, pp. 244-246.

[29]) mazzini, op. cit., pp. 54-55. Cfr. stendhal, “Otello” e “Seguito di Otello”, in Vie de Rossini, op. cit., pp. 130-147. “Ho detto pietà d’un’anima offesa. Questo sentimento, che nel terz’atto dell’Otello è struggente e trafiggente, non si scompaginerà più nell’animo di Rossini verso i suoi personaggi, specificamente femminili, afflitti e travagliati; e sarà uno dei moventi umani segreti e fecondanti della sua ispirazione”. Così riccardo bacchelli in Rossini, Milano, 1959, p. 139. Un recente studio sul libretto di Otello è di roberta montemorra marvin in “Bollettino del Centro Rossininiano di studi”,  Pesaro, 1 991, pp. 55-76.

[30]) Cfr. il fondamentale studio di philip gosset, Rossini a Napoli, “Bollettino del Centro Rossiniano di studi”, 1971, nn. 1-2-3, Pesaro, 1971, pp. 53-71.

[31]) mazzini, op. cit., p. 63. Per la sinfonia del Guglielmo Tell cfr. gosset, Le sinfonie di Rossini,  “Bollettino del Centro Rossiniano di studi”, Pesaro, 1979, nn. 1-3, pp. 83 e segg.

[32]) L’attaccamento di Mazzini alla musica del Tell è testimoniato da un autorevole bio­grafo: “Prediligeva, dopo il Guglielmo Tell di Rossini, gli Ugonotti di Meyerbeer”. Cfr. aurelio saffi, Cenni biografici e storici. A proemio del testo, in s.e.i., ix, (Pol. vol. vii), 1877, p.lxxi, n. 3. Per gli agganci storici e le strategie drammaturgiche adottate nel libretto del Tell cfr. anselm gerhard, Incantesimo o specchio dei costumi. Un’estetica dell’opera del librettista di Guillaume Tell, “Bollettino del Centro Rossiniano di studi”,  Pesaro, 1987, nn. 1-3, pp. 45-60.

Per quanto concerne le oscillazioni tra innovazioni e tradizioni in Semiramide cfr. andrea della corte, Appunti per la melodrammaturgia nella “Semiramide”, in Gioacchino Rossini, a cura di alfredo bonaccorsi, “Historiae Musicae Cultores” Biblioteca xxiv, Firenze, 1968, pp. 127-130.

[33]) La poeticissima, “indeterminata sensazione” destata dalla musica di Donna del lago non sfuggì a Leopardi: “Abbiamo in Argentina la Donna del lago, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere anch’io se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso”. Lettera di G. Leopardi al fratello, Roma, 5 Febbraio 1823, in marcello de angelis, Leopardi e la musica, Milano, 1987, p. 87.

[34]) Cfr. carpani, “Lettera viiAl direttore della Biblioteca Italiana sulla Zelmira e “Lettera viii”, Risposta all’articolo del gazzettiere di Milano contro la Zelmira, in Le Rossiniane cit., pp. 119-201. Cfr. inoltre ariella lanfranchi, Alcune note su Zelmira, “Bollettino del Centro Rossiano di studi”,  Pesaro, 1981, nn. 1-3, pp. 55-84.

[35]) “L’unirsi, il fondersi dei due elementi che costituiranno la musica del futuro - la melodia italiana e l’armonia tedesca - è andata un passo avanti [...]. Meyerbeer è il più grande artista di un periodo di transizione”, MAZZINI, Lettera a Emilie A. Venturi, Londra, 21 maggio 1867, s.e.n., lxxxv, p. 46.

[36]) mazzini, Filosofia cit., pp. 55-56.

[37]) Ivi, p. 39. Per i fondamenti del pensiero romantico in Mazzini cfr. borgese, op. cit., pp. 326-327. La definizione di “Romanticismo” è offerta da Mazzini nel suo saggio Sopra alcune tendenze della letteratura europea  nel XIX secolo, s.e.n., i, p. 234.

[38]) mazzini, Filosofia  cit., p. 39. “Rottami di monastero” in Robert le Diable di Meyerbeer (1831). Soprattutto nella famosa scena quinta dell’atto III, ove Bertram evoca dai sepolcri le anime delle monache licenziose. Delirio, solitudine, misticismo, metafisica sulle nuvole co­stituiscono, a detta di Mazzini, la degenerazione del Romanticismo. Cfr. mazzini, Sopra al­cune tendenze cit., p. 235.

[39]) mazzini, Filosofia cit., p. 40.

[40]) francesco de sanctis, Mazzini e la scuola democratica, Torino, 1951, p. 56.

[41]) “Astratti ragionamenti” di Mazzini, in relazione alla musica di Rossini, e conseguenti contraddizioni in raffaello monterosso, La musica del Risorgimento, Milano, 1948, pp. 19-22. Il pensiero di Mazzini sulla produzione drammaturgica victorughiana è svolto nello scritto Potenze intellettuali contemporanee, I, Vittore Hugo, s.e.n., viii pp. 239-259. L’opera risale al 1836 e compare sulle colonne de “L’Italiano”; cfr. pirodda, op. cit., p. 26. Per la recezione italiana del teatro di Hugo e sulle conseguenti reazioni dell’ambiente lette­rario, segnatamente di Mazzini, cfr. alfredo galletti, L’opera di Victor Hugo nella lette­ratura italiana, “Giornale storico della letteratura italiana”, supplemento n° 7, Torino, 1904, pp. 80 e segg.

[42]) Cfr. pirodda, op. cit., p. 27.

[43]) Cfr. de sanctis, op. cit., p. 57.

[44]) Cfr. mazzini, Prefazione d’un periodico letterario, s.e.n., viii, p. 95. Analogie col passo citato si riscontrano nella Filosofia della musica: “Il romanticismo, come altrove si è detto, ha potuto distruggere, non edificare; fu teorica essenzialmente di transizione: concetto, orga­nico non ebbe”, p. 38. Identica espressione nelle pagine victorughiane in mazzini, Sull’Angelo di V. Hugo,  s.e.n., viii, p. 270.

[45]) Nelle pagine de “L’Italiano” apparvero cinque articoli mazziniani: il programma della rivista (Prefazione di un periodico letterario), una recensione alla Histoire de la littérature allemande di Peschier, la Filosofia della musica, Della fatalità considerata come elemento drammatico, oltre alle riflessioni victorughiane Potenze intellettuali: V. Hugo. Cfr. pirodda, op. cit., p. 27.

[46]) Per le radici sansimoniste del pensiero artistico mazziniano cfr. stefano ragni, Liszt e Mazzini, “Gli Annali della Università Italiana per stranieri”, n. 16, Perugia,  Giugno 1991, pp. 119-136.

[47]) “Il problema sta nell’accordo di questi termini colla libertà. Epicuro e Hobbes hanno er­rato ambedue; ambi colpevoli d’aver falsato, mutilandola, l’umana natura. Un terzo sistema s’innalzerà su quei due, una terza formola abbraccerà le precedenti e le confonderà in armo­nia [...]. Oggi il mondo ha coscienza, benché oscura e inesatta, della nuova formola che il se­colo elabora, e basta perché tutti i tentativi letterari abbiano a informarsi in siffatta ten­denza; il mondo ha coscienza di una legge di progresso che domina le umane cose, e basta per­ché il Dramma debba cercar di rifletterla; una terza idea, quella della provvidenza, gran­deggia sulle idee del Fato e della Necessità, e basta, perché gli uomini che vorranno risusci­tare davvero l’Arte drammatica prefiggano ai loro sforzi quella idea e v’attemprino i loro concetti”. mazzini, Della fatalità considerata come elemento drammatico, s.e.n., viii, pp. 195-196.

[48]) Ivi, p. 196. Il tema mazziniano di una “poesia educatrice” desunto da Schiller sarà ri­preso da De Sanctis nel suo Delle opere drammatiche di Federico Schiller, (1850). All’interno della produzione mazziniana il saliente argomentativo ha il suo culmine in Fede e Avvenire del 1835. La religione dell’Umanità e del Socialismo espressa da Mazzini è debi­trice delle concezioni morali di P. Leroux, direttore della “Revue encyclopédique”. Mazzini condivideva il suo entusiasmo per Leroux con Liszt e con George Sand. Cfr. gaetano salvemini, Scritti sul Risorgimento, Milano, 1961, in Opere, vol. II, in particolare il capi­tolo “Mazzinianesimo e socialismo: le opposizioni”, pp. 228-236. Per i rapporti tra Mazzini e la Sand cfr. a. poli, tra gli altri, George Sand e Mazzini, in Studi in onore di V. Lugli e D. Valeri, Venezia, 1961, p. 783.

[49]) Nella concezione sansimonista fatta propria da Mazzini, artisti e musicisti saranno in­terpreti delle leggi del mondo, “amici di Dio”, sacerdoti e rappresentanti dell’Umanità: “E i giovani artisti si preparino divoti come a misteri di religione, all’iniziazione della nuova scuola musicale”;  mazzini, Filosofia cit., p. 76. Tracce di “ministero dell’arte” anche in D’una letteratura cit., p. 222. Funzioni sacerdotali degli artisti mazziniani in salvemini, op. cit., p. 226. “Grande missione religiosa” imposta agli artisti anche in franz liszt, La musica religiosa, apparso sulle colonne della “Gazette musicale de Paris”, 30 Agosto 1835. Il saggio si legge in traduzione italiana in ferenc liszt, Un continuo progresso. Scritti sulla musica, Milano, 1987, pp. 6 e segg.

[50]) mazzini, Filosofia della musica cit., pp. 54-55.

[51]) mazzini, Potenze intellettuali cit., p. 246.

[52]) mazzini, Filosofia  cit., p. 53.

[53]) mazzini, Potenze  cit., p. 246.

[54]) mazzini, Filosofia cit., p. 55.

[55]) mazzini, Potenze  cit., p. 254.

[56]) mazzini, Filosofia cit., p. 52.

[57]) mazzini, Potenze  cit., p. 258.

[58]) mazzini, Filosofia  cit., p. 53.

[59]) mazzini, Potenze  cit., p. 248.

[60]) Ivi, p. 249.

[61]) Ivi, p. 251.

[62]) Ivi, p. 239. Contrariamente alle previsioni del Genovese la stella di Hugo avrebbe con­tinuato a brillare nel firmamento della letteratura italiana allorquando gli “Scapigliati” si sarebbero manifestati in una nuova professione di fede; cfr. remo giazotto, Hugo, Boito e gli “scapigliati”, in L’opera italiana in musica, Milano 1965, pp. 149-164.

[63]) mazzini, Potenze  cit., p. 258.

[64]) mazzini, Filosofia cit, p. 61. Liquidato Bellini come “intelletto non progressivo” il pensatore non vorrà cogliere neppure le aperture europeistiche presenti nella musica di Spontini; cfr. monterosso, op. cit., p. 20.

[65]) mazzini, Filosofia cit., p. 60. Arte, patria e libertà in mazzini, Note autobiografiche, a cura di roberto pertici, Milano, 1986, p. 57. Il musicista è “homme rédivinisé” e come tale è l’unico tra gli artisti a poter dettare le condizioni del rinnovamento; cfr. george sand, Lettres d’un voyageur, nouvelle edition, Paris, 1863, p. 196. Per l’influenza esercitata dalle lettres  sandiane sul pensiero artistico mazziniano, cfr. il nostro Liszt e Mazzini  cit., pp. 120-122.

[66]) mazzini, Lettera a L. A. Melegari, (Bienne) 22 (Marzo) 1834,  s.e.n., ix, p. 259. Per il generale Ramorino cfr. mazzini, Note autobiografiche  cit., p. 211.

[67]) mazzini, Lettera alla madre, Londra, 10 Aprile 1847, s.e.n., xxxii, p. 106.

[68]) mazzini, Lettera alla madre, Londra, 8 Agosto 1838, s.e.n., xv,  pp. 120-121. Per le fasi della permanenza di Mazzini a Londra cfr. emilia morelli, L’Inghilterra di Mazzini, Roma, 1965. L’accostamento del patriota ai cantanti d’opera è descritto da gwiylim o. griffith, Mazzini, profeta di una nuova Europa, traduzione italiana di b. pareto magliano, Bari, 1935, p. 212. I rapporti tra Mazzini e i cantanti ospiti delle stagioni ope­ristiche londinesi sono narrati nel nostro Giuseppe Mazzini e Giulia Grisi, “Bollettino della Domus Mazziniana”,  Pisa, 1/1989, pp. 29-49.

[69]) Lettera ad Andrea Gambini, Londra, 9 Dicembre 1837, s.e.n., xiv,  p. 182. Mostruosità: la “Canzone del salice” in una ugola virile! L’idilliaco quadro familiare contiene, in nuce, uno dei futuri protagonisti della rinascita strumentale italiana, Andrea Carlo Gambini, fi­glio di Giuseppe e nepote di Andrea senior. Cfr. sergio martinotti, Ottocento strumentale italiano, Bologna, 1972, pp. 361-363. Per i rapporti tra il giovane Gambini e Mazzini cfr. il nostro Liszt e Mazzini cit., pp. 132-135.

[70]) Lettera alla madre, (Londra), 9 Maggio 1839, s.e.n., xviii, pp. 26-27. Il 9 Maggio Paolina Garcia, sposa di Viardot, esordiva al Majesty’s Theatre di Londra nella parte di Desdemona nell’Otello  rossiniano.

[71]) Lettera alla madre, Londra, 11 Luglio 1839, s.e.n., xviii, p. 114. Sul tenore Mario, alias Giovanni Matteo dei marchesi di Candia cfr. il nostro Il Risorgimento del tenore, “Suono Sud”, Rivista trimestrale di culture musicali, Aprile 1989, n. 2, pp. 27-35.

[72]) Lettera a Lisette Mandrot, Londra, 2 Settembre 1839, s.e.n., xviii pp. 189-190.

[73]) Lettera alla madre, Londra, 11 Luglio 1842, s.e.n., xxiii, p. 212. “Terribile potenza di dolore sublime” nello Stabat Mater rossianiano, in heinrich heine, Rossini und Mendelssohn (1842), in Werke, vol. x, p. 331. Traduzione italiana  in heine,Divagazioni musicali, a cura di e. roggeri, Torino, 1928, pp. 94-97.

[74]) Lettera a Sabilla Novello, Londra, Maggio 1845, s.e.n., App. vol. iii, p. 45. Per il coro La Charité cfr. giuseppe radiciotti, Gioacchino Rossini, Vita documentata, opere ed in­fluenza sull’arte, Tivoli, 1927, pp. 122-123. Sulla fondazione della Scuola Italiana a Londra cfr. aurelio saffi, Giuseppe Mazzini, Pisa, 1972, pp. 56 e segg. Al fine di raccogliere fondi per il sostentamento delle attività didattiche Mazzini era solito organizzare, in prima­vera, un concerto di beneficenza, avvalendosi, sopratutto, della disponibilità dei grandi cantanti italiani scritturati dai teatri londinesi; cfr. morelli, op. cit., p. 107.

[75]) Lettera a Elisa Ashurst, Londra, Aprile 1847, s.e.n.,App. vol. iii, p. 280. Mazzini era certamente al corrente del fatto che il pesarese aveva accompagnato al pianoforte il prin­cipe di Belgioioso (anche lui transfuga mazziniano) in un concerto tenuto in casa del principe von Metternich. Cfr. Lettera alla madre, Londra, 2 Aprile 1839, s.e.n., xv, p. 856. L’evento si era verificato nel 1838; cfr. hubner, Une année de ma vie, Parigi, 1891, p. 38.

[76]) Lettera a Giorgina Craufurd, Londra, 9 Ottobre 1855, s.e.n., liv,  p. 332.

[77]) Lettera a Giorgina Craufurd, Londra, 10 Ottobre 1855, ivi, p. 335.

[78]) Cfr. il nostro Mazzini e la chitarra, “Fronimo”,Rivista trimestrale di chitarra e liuto, anno xix, n. 74, Gennaio 1991, pp. 36-45, e “Bollettino della Domus Mazziniana”, Pisa,  2/1991, pp. 173-194.

[79]) Lettera alla madre, Londra, 4 Maggio 1841,  s.e.n., xx, p. 187.