Se io vado indietro con la memoria nella mia vita, al momento indimenticabile in cui per la prima volta il mio amore appassionato e nascosto per la musica, incontrò una partitura d'orchestra, rivivo uno dei giorni più cari e più ricchi della mia adolescenza.
Ero in collegio, dove lo studio delle scuole letterarie era l'unico studio ammesso; tollerato quello della musica per prender parte, suonando un qualsiasi strumento a fiato, alla piccola banda della quale io, con mia delizia indescrivibile, arrivai a far parte in qualità di clarinettista; m'era compagno di leggio il caro amico Giulio Paribeni, il quale, come me, doveva poi deviare dagli studi letterari, egli dall'Università di filosofia, io da quella di lettere, per gettarsi totalmente nella carriera musicale. Anche egli clarinetto in si b., e occorrendo i mi b. (allora detto quartino), divideva con me gli ozi delle ricreazioni decifrando, a due clarinetti, gli spartiti che più ci interessava conoscere, da Verdi a Wagner; nostro nutrimento musicale settimanale erano le esecuzioni della Banda comunale diretta dal compianto Mº Vessella, al Pincio, nei luminosi pomeriggi romani... Oh l'impressione indimenticabile del primo incontro con il preludio del Parsifal, senza sapere che cosa fosse!, se si potesse ancor oggi rinnovare quella sensazione pura, disinteressata, non turbata da preconcetti, per ogni musica che si viene a conoscere, quanto meglio e quanto più presto si arriverebbe alla vera comprensione!
Ma torniamo alla prima partitura; essa fu dunque niente meno che la IX Sinfonia di Beethoven; acquisto prezioso fatto con somma di lire italiane sei, messe insieme faticosamente e lentamente, accumulando eroiche economie personali sopra i due soldi settimanali portati dalla mamma o dallo zio nella visita della domenica. O milionari di tutto il mondo!, nessun oggetto prezioso, che il vostro danaro incalcolabile possa portare nella vostra ricca casa, avrà mai il sapore divino di quel fascio di pagine stampate che il futuro maestro riuscì a regalarsi in quell'epoca felice della sua vita! Molte cose sono passate sopra di me da allora, ma la vibrazione di quella felicità è ancora dentro il mio animo, viva e fresca. Io non sapevo di musica che il solfeggio, nulla o quasi nulla dell'armonia; di Beethoven conoscevo la grandezza del nome a traverso le storie della musica lette avidamente, negli intervalli tra il greco e il latino della scuola; l'immagine che m'ero fatto di lui, del suo genio, della sua umanità, era in fondo quella che lo studio della sua opera mi ha confermato; lo sentivo grande e buono, cioè attirante e non già respingente per la sua mostruosa grandezza, come per un periodo sentii Bach (erroneamente, certo, ma non per mia colpa!). Conoscevo le pagine scritte da Wagner sulla Nona; mi era stato raccontato, come episodio abbastanza impressionante, che Wagner giovinetto adorava talmente la partitura di questo capolavoro, da tenerla fin sotto il guanciale la notte... Anch'io volevo tenere sotto il guanciale una partitura; il mio sogno era quello che poi la mia volontà e la vita hanno portato alla realtà; dirigere un'orchestra, scrivere della musica per un orchestra, capire un'orchestra... Quale miglior sistema di scelta che quello di seguire il gusto di Riccardo Wagner, altro nostro nume indiscutibile, allora? Eravamo agli anni in cui si svolgevano in Piazza Colonna o al Pincio le incruente ma violente battaglie tra wagneriani e antiwagneriani, mentre la Banda comunale eseguiva brani delle sue opere. Dunque, dopo raggiunta la somma necessaria, arrivò il giorno grave dell'ordinazione presso l'editore; ci pensò mia madre; e infine (pensate quale trepidazione ansiosa) il giorno felice dell'arrivo! Partitura edizione Peters, copertina verde chiaro.. e ci scriviamo sopra, con gravità e serietà grande, il nostro riverito nome e cognome, in alto a destra della prima pagina interna, bianca; a significare che prendiamo possesso di questo prezioso oggetto; sì, prezioso, perchè gran prezzo ha per, noi uomini, piccoli o grandi, fanciulli o vecchi, quello che molto ci costa di sforzo, pur che lo sforzo nasca dall'amore e dall'amore sia accompagnato al fine. Sforzo aspro di raccogliere moneta privandosi di altre dolcezze, amore indefinibile che non peccava davvero d'impurità, ma anzi tanto puro era che puro s'è mantenuto per anni tanti e tanti, che è meglio non contarli, se no si finisce con la malinconia.
E adesso si trattava di leggere. Cosa non facile; nè alcuno v'era che facesse quel che tento oggi di fare con altri ignoti fanciulli, di spiegare come si fa a leggere tutt'insieme delle note che vanno guardate per l'in sù per l'in giù e da sinistra a destra... Che affare!, pure deve esser possibile! Mi raccontava un mio zio melomane (ottimo professore del resto di storia e geografia e uomo di varia cultura) che un suo collega, dilettante (pensa!, diceva lui con ammirazione sincera) era capace di leggere non solo il canto e piano, ma perfino la partitura d'orchestra!
Ebbene, mi dissi, se è riuscito il professore duettante, riescirò anch'io. E mi ci misi. Non c'è logica più sicura di quella di un ragazzo intelligente, e non c'è forza di volontà più ferrea di chi sa di non poter contare sull'aiuto di nessuno. Riuscii; non subito, nè completamente, ma a poco a poco riuscii, e posso dire con sicurezza, che capii; non tutto e non a fondo, ma capii abbastanza per passare dall'ammirazione teorica e di seconda mano del capolavoro beethoveniano, a un'ammirazione nata da una conoscenza diretta anche se non completa.
Non potrei nè ricordare il modo, tanto meno il metodo che non poteva certo esserci, dato che non avevo a mia disposizione che una piccola parte dei mezzi che servono a tale studio; mi mancava infatti il più; il più lo imparai dopo: quando, uscito dal collegio, mi misi allo studio regolare dell'armonia, della composizione, ecc, ecc.; non posso quindi indicare oggi come strada regolare quella che fu una strana e occasionale scorciatoia, neppur troppo consigliabile a tutti; c'è alle volte da rompersi il collo in certe scorciatoie troppo in salita e troppo... abbrevianti il vero e buon cammino; che è sempre meglio seguire, e con ordine. Un mio amico si vantava di aver traversato un ghiacciaio in sandali; benone; ma è sempre meglio mettersi delle buone scarpe alpine.

Tutti i metodi possono esser buoni per attaccare una partitura, e probabilmente altri ne esistono che io non conosco; e io stesso forse non ne seguo sempre e in tutti i casi uno solo. Dirò subito che non è possibile prescindere dal fatto che esistono partiture d'una semplicità primitiva, la cui spina dorsale è formata dal quartetto d'archi; altre meno complesse ma sempre derivanti dalla concezione quartettistica che va da Haydn (tanto per porre dei termini) a Strauss, dove la struttura del coro dei fiati si appoggia per strati sopra l'ossatura fondamentale degli archi; e tutte queste partiture per l'analogia sostanziale della loro struttura possono essere aggruppate sotto uno stesso metodo, di cui dirò subito; mentre è incontestabile che nell'epoca che chiamerò post-straussiana, in molti casi la tradizione classica è stata infranta decisamente. Per queste partiture novecentistiche lo stesso metodo di decifrazione non potrebbe essere altrettanto buono e sicuro che per quelle altre.
Non solamente la differenza essenziale che separa con un vero abisso il gruppo classico e classicheggiante dalle diverse concezioni novecentistiche, può consistere nel senso armonico completamente, in certi casi, sconvolto, come il salto dal tonalismo diatonico o cromatico o anche esafonico alla atonalità o politonalità, ma perfino nell'impostazione della partitura propriamente detta; basti citare come esempio la rivoluzione che può segnare un fatto decisivo quale l'esclusione del re dell'orchestra, il violino; cosa già compiuta da alcuni compositori contemporanei, primo (credo) lo Strawinsky, che ha bandito a volte i violini come strumenti troppo romantici e poco adatti al tipo della sua inspirazione anti-romantica. Si può accennare anche allo spostamento voluto dei valori individuali di alcuni strumenti; valori che erano oramai consacrati dalla tradizione secolare; per esempio la funzione data ai corni, o in certi casi, ai fagotti; a strumenti per tanti anni lasciati nella discreta ombra dell'orchestra, e assurti di colpo alla parte di protagonisti, come il basso-tuba, e via dicendo. Questi spostamenti (non ho accennato che a due o tre, sto per suggerire l'idea generale) esigono nel lettore della partitura un atteggiamento e un conseguente spostamento dell'attenzione abituale, che non può essere preventivamente fissato da nessun metodo teorico.
Ma andiamo per ordine e fermiamoci per ora al caso di una partitura dell'Ottocento, cioè «tradizionale» intendendo con questo una partitura basata sopra il concetto haydniano del quartetto che è base, arricchito dal coro dei fiati, suddivisibili in fiati piccoli o strumentini, fiati pesanti o di ottone, strumenti vari a percussione o batteria; eventualmente arpe e strumenti a tastiera.
Dato che in una partitura tradizionale tali famiglie esistono e funzionano in rapporto ira di loro tali che più o meno si riproducono con una certa regolarità e secondo un certo ordine, bisogna nella lettura tener conto innanzi tutto di esse, considerandole come membra distinte dell'organismo, e a suo diretto servizio. Poichè il sistema dell'analisi mi sembra il migliore, rivolgeremo tale analisi non già a sceverare le funzioni individuali degli strumenti singoli, il che sarebbe troppo sminuzzare e tagliuzzare il corpo, ma ai singoli gruppi, e per cominciare ci rifaremo dal quartetto che è sempre, o quasi sempre, la spina dorsale della composizione. Naturalmente può accadere che il gruppo (in tal caso quartetto o quintetto) dei fiati si alterni con quello degli archi, e prenda a momenti funzione indipendente, nel qual caso sarà facile per il lettore spostare l'occhio e la mente verso tale gruppo; ma i casi sono: o il quartetto degli archi cammina da per sè solo, o in modo assoluto, o arricchendosi di voci di altri strumenti a fiato, per completamento e arricchimento di timbri, o arricchimento di parti, cioè o con raddoppi, o con parti reali che si aggiungono al quartetto; oppure il complesso dei fiati si sostituisce per qualche tempo a quello degli archi; oppure tale movimento avviene tra il gruppo dei fiati piccoli (legni) e il quartetto, o tra questo e il gruppo degli ottoni, ecc, ecc in tutte le combinazioni che si possono facilmente prevedere. La batteria non avrà altra funzione che quella di colorire, quindi non funzione individuale e indipendente (ricordiamo che qui per ora si tratta di partiture tradizionali ottocentesche).
Accennato a quella che è una funzione quasi esclusivamente visiva dell'occhio che percorre la selva dei segni scritti, affinchè il segno non sia piuttosto un ostacolo alla comprensione dell'idea (come può accadere) invece che la rivelazione di essa, occorre che la mente tenga conto di tutti gli elementi che costituiscono la vita di un'opera espressa nella sua completa forma.
Ogni idea musicale che arrivi alla vita a traverso la sua forma, nella sua via dall'origine del contenuto alla espressione sonora si riveste di elementi musicali che sono in assoluto sempre gli stessi e cioè:

il melos (elemento melodico del canto lineare);
l'armonia (elemento della simultaneità dei suoni verticali);
il ritmo (elemento del moto nello spazio e nel tempo).

Il rapporto che lega questi tre diversi elementi costituisce il quarto elemento, cioè il senso dell'architettura o costruzione.
Si può infine aggiungere un ultimo elemento che chiamiamo colore, derivante dal melos e dall'armonia.
Il senso del melos (come Wagner aveva chiaramente veduto e detto, nel suo bello studio Sul dirigere) è alla base di tutto; da esso deriva anche il senso del movimento, come conseguenza, tanto che «l'esatta misura del movimento vero dipenderà dalla comprensione del melos» (parole di Wagner santamente esatte da non dimenticare, o direttori d'orchestra di tutti i tempi!).
Ora i segni fissati dagli uomini a rappresentare l'espressione di 'questi elementi, sono oramai definiti in modo tassativo, e se la comprensione di essi potesse bastare a penetrare il senso della partitura, sarebbe facile, una volta stabilito un metodo di esplorazione, arrivare in fondo. Ma la cosa non è così semplice.
Il mistero che accompagna il fenomeno di creazione sin dalla sua origine via via a traverso le vie dell'espressione sensibile fino a ritorno nel mondo dei sensi, permane anche nell'intrico dei segni, i quali possono parlare diverso linguaggio secondo come la mente li interpreta. Ricostruire nel proprio mondo interiore fonico (perchè esiste nella nostra coscienza profonda di musicisti un mondo che potremo chiamare così e non altrimenti che così) ricostruire l'insieme sonoro che è racchiuso nella partitura, per ritrovarlo poi esattamente nella sua riproduzione sensibile al momento della materiale realizzazione, alla esecuzione, è cosa che impegna diverse facoltà della mente umana. Non basta l'attenzione vigile e lucida che segua lo sviluppo del segno rivelatore del melos questa è l'operazione più semplice) o del ritmo; il senso armonico è inerente al melos, a volte assai più di quanto non sembri superficialmente. In altre parole il significato reale e interno d'una melodia riposa certe volte (pensate a certe parole di Debussy) più sulla sua verticalità che non sulla orizzontalità melodica. Un semplice accordo può essere più ricco di melos che non una melodia banale di quaranta battute stemperate nello spazio e nel tempo senza interesse emotivo. La campana che accompagna la morte di Boris o di Melisenda è di per sè stessa con la sua nota isolata, più ricca di risonanza melodica che tante canzoni o melodie...
Facoltà intellettive ,di logica non aiuteranno in certi casi, dove invece la luce di una intuizione felice potrà portare molto più addentro nella comprensione dell'idea; il senso della forma e dell'architettura richiederà invece lo sviluppo di una mente ordinata e allenata a cogliere i sottili rapporti che legano le linee e le proporzioni delle parti, ma un lavoro sempre difficile sarà quello di ricostruire nel proprio mondo interiore il mondo armonico (stavo per dire il plasma armonico) che avviluppa tutta l'espressione sonora del pezzo. Si tratta di far rivivere nell'interno della propria immaginazione i suoni nei rapporti che li legano tra di loro in simultaneità.
Faccio una piccola necessaria digressione. Che i suoni siano pensabili come lo sono le parole, è cosa che spesso ho veduto sorprendere persone anche intelligenti ma non musicisti; pure la cosa non dovrebbe essere tanto difficile ad afferrarsi; quando io penso una cosa la penso sempre già racchiusa in una espressione che corrisponde a una lingua; io penso in italiano o in francese ecc, ecc., cioè metto insieme nella mia immaginazione parole in diverse lingue, formando sia pure rapidissimamente, proposizioni grammaticali e periodi; così lo stesso avviene per i suoni legati dai loro rapporti sia lineari (melodia), sia verticali (armonia); il suono esiste in noi assai prima che esso arrivi alla sua materializzazione sensibile; esso può esistere anche senza arrivare ad essa.
La sordità di Beethoven non è affatto un fenomeno ultra-umano come sembra ancora a molti non musicisti; sovrumana è l'altezza della sua inspirazione e del suo genio, questo sì! Riconosciamo che il processo di immaginazione e intuizione per il quale leggendo i segni scritti si può arrivare a vivere la realizzazione sonora, non è facile, e quasi mai assolutamente definitivo; si può arrivare solo per approssimazione, anche vicina, assai vicina, sempre che si tratti di un senso armonico già precedentemente usato e caduto sotto l'esperienza del nostro udito, dove quindi la memoria può validamente aiutare a ritrovarlo. Ma io domando se sarebbe stato possibile ad un lettore che avesse incontrato per la prima volta un accordo esatonale, o una successione d accordi di, quinta aumentata, di afferrarne il senso preciso, senza sentirli con l'udito! Procedimento analogo avverrà con i diversi timbri degli strumenti d'orchestra. Se già conosciuti dal nostro udito, la coscienza li ritroverà (aiutando la memoria) facilmente, e potrà anche immaginare, con molta approssimazione gli accoppiamenti e gli impasti; ma le combinazioni, come è noto, sono infinite; quindi il caso nuovo potrà sempre sfuggire, almeno in parte, anche alla intuizione più lucida. Perciò si può affermare senza timore di smentita, che qualunque partitura che non sia una piatta riproduzione o imitazione del già fatto, potrà sempre alla prima audizione presentare qualche sorpresa! Questo si può dire di tutte le partiture che non siano copia di altre o imitazioni di modelli frusti. Il bello è che tale possibilità di sorpresa c'è anche per lo stesso compositore, e... per evidenti motivi.
Unendo simili considerazioni, per dare un esempio vivo, penso a quel musicista che per la prima volta si sia trovato vanti alla partitura del - preludio del Tristano e Isotta, e lo penso per di più contemporaneo di Riccardo Wagner; credete abbia egli potuto sentire dentro di sè il miracolo perfetto di quell'interrogazione espressa nell'accordo di settima di terza specie risolventesi sull'accordo di dominante per appoggiatura ascendente, nell'ineffabile tristezza dei timbri dei legni che lo portano alla luce della vita sonora per la felicità delle nostre orecchie umane?
Se dunque il nostro lettore di partitura avrà a sua disposizione un modesto pianoforte, non farà male a precisare il suo lavoro di studio provando qualche successione d'accordi sulla tastiera, per lo meno nei casi di dubbio; ciò lo aiuterà a chiarificare qualche zona oscura nel campo dell'indagine.- In quanto al quadro sonoro che per sintesi immaginativa egli deve ricostruire, non potrà servirsi che di riferimenti e di analogie, risvegliando la sua memoria, e lavorando di intuito.
Riassumendo: sia che il procedimento vada dall'interno verso l'esterno (esame e indagine del contenuto per arrivare all'analisi, prima, e quindi alla sintesi della forma) sia che vada in senso inverso, cioè dalla speculazione del contenuto affiorando via via all'esame della realizzazione sonora dell'opera musicale, sempre il lavoro dovrà scindersi in tanti stadi, secondo gli elementi costitutivi che sono il senso del
melos,
dell'armonia,
del movimento; -
i quali sono collegati in rapporti che nel loro insieme vengono a formare il senso architettonico, cioè senso della costruzione.
Risalendo alla superficie, cioè là dove il contenuto rompe la crosta, come il pulcino fa con il guscio dell'uovo per affacciarsi alla luce, l'attenzione sarà rivolta, per intuizione, sui timbri sonori chiamati alla funzione di espressione sensibile per l'udito; tali timbri saranno considerati sia nella loro individualità, sia nelle loro combinazioni, e infine in una più sottile funzione di rapporto tra la loro esistenza sonora e il colore ad essi richiesto dalla idea germinativa, voglio dire la funzione che chiameremo di chiaro-scuro.
Compiuto questo lavoro di analisi, e subito dopo quello di sintesi ricostruttiva di tutto l'organismo sonoro, la partitura avrà rivelato di sè quanto è rivelabile alle facoltà intellettive della mente umana. Ma il mistero dell'arte è assai più complesso e perciò più divino che umano. Fatto dunque questo lavoro preliminare, incomincia ora l'esplorazione in un altro campo, quello i cui confini non sono segnati con linee e muri visibili, dove la facoltà sovrana non è più la lucida intelligenza, ma altra cosa cui ancora nessuno ha saputo dare un nome. Se l'opera di creazione artistica fosse solo il resultato chimico della combinazione degli elementi che abbiamo sopra descritto, essa si muoverebbe dentro il puro e circoscritto campo della materia, sia pure sottilizzata e raffinata, ma sempre materia, e la luce dell'intelligenza potrebbe impadronirsi in modo assoluto di tale creazione che rivelerebbe tutti i suoi segreti. Non è così.
Appunto quel che distingue la creazione d'arte da ogni altro genere di creazione che mente umana può concepire, è la parte di mistero che entra in essa, la presenza di quel tanto di inafferrabile e di indefinibile che la fa partecipe, nei riguardi umani, della natura divina, perchè per gli uomini il divino comincia proprio col mistero e non prima.
Vecchia e non ancora vieta parola «inspirazione», tu intendevi sin dall'origine una cosa ben profonda e vera per l'eternità. Tu significavi che senza la discesa dai mondi superiori d'un elemento superumano dentro il pensiero dell'uomo, di arte non si può parlare; il volto di Dio è velato per sempre agli occhi degli uomini, che non ne sosterrebbero la luce. Si potrà capire, comprendere (che significa «prendere dentro», far proprio, racchiudere nell'interno del proprio essere) un seguito di parole ben disposte e ben sonanti e suscitanti una bella imagine come quelle che formano un verso dantesco:

«riprofondando sè nel miro gurge»;

ma c'è ancora una ragione, la più profonda, per l'eternità della loro bellezza, ed è il mistero della risonanza che esse provocano dentro di noi, e che nessuna intelligenza, per lucida che sia, saprà mai svelare.
Tanto più nella musica, che come mezzo espressivo si serve dei suoni, materia meno definita delle parole almeno in quanto le parole servono ad imagini e si riferiscono ad oggetti reali.
Ad aiutare la penetrazione del mistero, gli stessi autori hanno cercato mezzi diversi, parole ed espressioni verbali che tentino definire l'indefinito dei suoni, che aiutino a trovare il movimento giusto, ecc. Tutte le indicazioni sia verbali che metronomiche usate ed abusate dal settecento in poi, sono testimonianza dello sforzo e della giusta preoccupazione degli autori nei riguardi delle eventuali «méprises» d'una esecuzione errata e delle sue gravi conseguenze. Perchè questa povera e divina arte nostra è certo la più esposta ai rischi e ai pericoli della deformazione.
Un esecutore (il quale deve prima essere stato un lettore della partitura, e perciò qui se ne tratta) che non abbia trovato la porta giusta per entrare e ne sia rimasto fuori, può deformare a tal punto l'idea espressa, da presentare un'altra cosa da quella che essa è! Wagner dice cose giuste molto anche sull'uso delle indicazioni di modo e di moto, che egli stesso modificò radicalmente, escludendo la lingua italiana dalle sue opere tedesche, anche allo scopo di farsi capire un po' meglio dai suoi connazionali... Noi sappiamo purtroppo a quanto poco servano tali indicazioni! Sappiamo anche che per ragioni di inesatta comprensione dei termini (in un certo periodo storico obbligatoriamente in lingua italiana) alcuni autori tedeschi hanno dato a parole significati che non hanno nella nostra lingua corrente; ricordo incidentalmente il «calando» adoperato in certe partiture tedesche a significare insieme le due cose: diminuendo di intensità sonora e di movimento! Ricordo invece d'altro lato certe aggettivazioni felici come quella di Mozart (sempre il più poeta e il, più raffinato) allegro aperto, che è così divinamente confermato dalle prime battute del concerto in la per violino e orchestra.
Ricordiamo, una per tutte, l'indicazione: lento e languente del preludio di Tristano.
Ma è poi proprio detto che tali indicazioni poetiche siano indispensabili per la sensibilità di un interprete vero e capace di intuire il senso profondo dei segni?
Wagner dichiara che il metronomo è cosa addirittura inutile; cita Sebastiano Bach che non metteva nessuna indicazione nè di tempo nè di maniera alle sue divine composizioni, fiducioso o scettico, chi lo sa? Il caso della ouverture dell'Ifigenia in Aulide di Gluck, che Wagner tratta diffusamente, è molto istruttivo. Avvicinandosi ai nostri tempi basterebbe pensare alla confusione che ha potuto generare qualche indicazione, proprio per la aggettivazione, come ad esempio quella del terzo tempo della sinfonia in mi minore di Brahms, dove la parola «giocoso» aggiunta all'allegro può trarre in inganno grave sul movimento (che invece è pesante e come!) un lettore latino, alle cui orecchie la parola «giocoso» potrebbe suggerire una leggerezza di movimento in questo caso disastrosa... Nelle opere di Mozart (Flauto magico, Nozze di Figaro), ci sono dei casi dove il meditare troppo sopra l'indicazione di movimento può portare decisamente fuori di strada! Ma non è il caso qui di soffermarsi a certi particolari; basti aver accennato genericamente al fatto.

***

Concludendo additare un vero e proprio metodo per farsi chiaro a traverso i segni musicali d'una partitura, può servire fino a un certo punto come aiuto allo studio, ma non può portare all'assoluta e completa comprensione della partitura; la chiave dell'ultima porta nessuno può dire di averla a disposizione e di poterla trasmettere.
C'è però una cosa che è possibile e vera; ed è che colui il quale ha per sè capito, trascina, anche senza volerlo, altri nel suo cammino, quando però altri sia degno di capire; lo trascina dentro un mondo oscuro, dove però egli ora si muove in perfetta chiarezza e riesce a far partecipe altri di questa luce.
Così nei misteri Orfici l'iniziato era guidato per mano dal mistagogo a traverso le oscure vie delle prove, fino a che il mistero si rivelava per gradi e per esperienze progressive. Opera di mistero è l'esplorazione della parola inspirata, che dal mistero nasce e di mistero si avviluppa; perchè come il volto di Dio non si mostra che adombrato alla vista degli umani che non lo sosterrebbero rivelato, così quella infinitesima particella di divino che sempre in una espressione di vera arte si contiene, partecipa della natura mistica e obbedisce alla stessa legge. Che è legge umana confortatrice e d'amore; dove l'aiuto umano di chi maggiormente ha capita (o sofferto che è la stessa cosa) è necessario a chi deve ancora compiere il cammino segnato.
In parole più semplici e fuori di metafora, un interprete che a traverso la spia dei segni scritti abbia assimilato il pensiero, lo spirito e il significato profondo sostanziale d'una opera, interpretandola e portandola alla realizzazione della esecuzione sonora, potrà anche senza rendersene conto, trasmettere la chiave a qualcuno che era rimasto fuori della porta in attesa. In tal modo e per tale miracolo l'opera umana della trasmissione della vita si compie secondo la legge che è suprema e costante nella vita e per la morte. Per la morte che non è se non trasformazione di vita in vita; e anche in questo la legge si compie, che cioè l'opera dell'individuo è asservita all'interesse della specie; che è sempre quello di accrescere e perpetuare la vita; la vita che è nell'idea immanente e non nell'accidente della forma; così è giusto che le glorie personali passino come le ombre sui prati (per dirla con quel grande poeta che fu Giobbe) e rimanga immanente, immortale, indistruttibile il flutto della vita in sè, che è continua creazione.
Creazione è anche, in un certo senso, l'opera dell'interprete che dalla morta materiale testimonianza di vita che sono i segni, trae ancora la vita sostanziale e vera dell'opera nel mondo sensibile per comunicarla agli uomini che altrimenti la ignorerebbero.
Così si ricompone il flutto della vita in perfetta continuità, perchè è scritto che la vita vincerà la morte, e che tutto si dovrà ridurre a unità.

Ricomporre sul vertice del sogno
da la pluralità ch'era illusoria
l'eterna unicità che amore crea
indissolubile.


SOUVENIRS SUR FURTWÄNGLER
PAR VITTORIO GUI

Quand la mort nous sépare à jamais d’un grand artiste, et si celui-ci était compositeur, son œuvre en prolonge la vie dans le temps. En revanche si l’artiste disparu était un exécutant – voire un grand interprète – la mémoire est comme un parfum qui s’évapore peu à peu. Sa mission, même lorsqu’elle semble s’élever vers les plus hauts sommets, est destinée à retomber, à disparaître. Aujourd’hui la science a créé et perfectionné la technique de l’enregistrement sur disque ; mais, comme le disait il y a peu l’un de nos meilleurs interprètes, mieux vaudrait ne laisser aucun souvenir physique d’une exécution (qui pourra être entièrement satisfait de sa propre gravure ?), alors que le souvenir de soi ne demeure que dans la mémoire de ceux qui ont pu vivre une heure d’émotion intense. Je n’irai rechercher aucun disque de Furtwängler, de l’ami disparu, mais je me souviendrai de quelques moments d’émotion profonde suscitée par la façon dont il approchait des chefs-d’œuvre qui font désormais partie de notre sang, comme une nécessité vitale : une symphonie de Beethoven, une autre de Brahms, la Passion selon Saint Matthieu de Bach… C’est justement le souvenir de la Saint Matthieu qui me vient à l’esprit en ce moment, l’ouvrage auquel il avait peut-être consacré, pendant des années, son plus grand effort d’interprète. Je revois sa silhouette mince et aristocratique, sa grosse tête attachée au buste par un cou un peu trop élancé, ses longs bras qui bougent d’un rythme et d’une harmonie tout à fait personnelles, son regard sérieux et intense vers sa merveilleuse Philharmonie, peut-être l’orchestre le plus parfait que j’ai eu l’occasion de diriger pendant ma carrière. Même si l’on ignorait ses origines, sa vie, sa formation, on avait tout de suite le sentiment précis qu’il n’était pas un chef – comme l’on dit dans notre jargon – sorti du rang. Dans sa façon d’affronter l’ouvrage, on percevait immédiatement l’apport d’une culture complète etsolide. Trop souvent, dans ce rôle de chef d’orchestre, on voit prévaloir quelque aspect qui n’est pas fondamental, par exemple le souci du beau son, le geste exagéré à l’intention du public, le clair-obscur hyperbolique et forcé, au détriment de la pensée musicale.
 
Rien de tout cela chez lui. Il y avait une grande tradition derrière lui ; encore jeune, il avait eu la chance d’être appelé à la tête de la Philharmonie de Berlin, qui était née sous les auspices de Hans de Bülow, et qui était ensuite passée entre les mains d’un autre chef extraordinaire, Arthur Nikisch. J’ose dire que, dans certains cas, l’influence de l’orchestre peut même être d’une grande aide à son chef : la formation de Furtwängler se compléta au contact de cette masse extraordinaire d’exécutant, qui avaient joué sous les baguettes les plus illustres du monde. Aucun « gauchissement » dans les œuvres classiques n’aurait été admis – ce qui arrive trop souvent de nos jours – ni même sanctionné par des publics, qui n’approchent plus les concerts avec la même préparation qu’autrefois. Mais à cette époque, à Berlin, on ne badinait pas.
 
Le succès de Furtwängler ne fut pas immédiat ; Il s’affermit pendant les années et il devint si grand qu'on put le comparer à ses illustres prédécesseurs. Aussi aujourd’hui son nom demeure-t-il lié à l’histoire de cette glorieuse institution. Ses visites en Italie avec son orchestre au complet furent assez fréquentes et tout le monde s’en souviendra longtemps. Sa sensibilité d’interprète n’était pas seulement liée à ses origines allemandes ; au contraire, on aurait dit qu’il cherchait ses sources d’émotions les plus riches dans la musique latine, comme par exemple dans les Nocturnes de Debussy, qu’il dirigeait admirablement. Cela n’empêche qu’il soit considéré comme l’un des meilleurs interprètes de Brahms. A ce propos, je me dois de lui adresser encore – message vers l’au-delà – ma pensée reconnaissante pour m’avoir invité la première fois à diriger son orchestre dans un programme entièrement consacré à Brahms (1er janvier 1942 : Ouverture tragique, double concerto avec Röhn et Troester, Symphonie n°4). Il connaissait en effet le long apostolat que j’avais entrepris en faveur de ce compositeur que j’adore. Ce geste témoigne aussi de la grandeur de son caractère. Il était vraiment un Homme dans le meilleur sens du terme, avec toutes les faiblesses humaines – qu’on peut accepter et excuser (avant tout l’admiration excessive qu’il nourrissait à l’égard des femmes) – mais aussi avec toute la grandeur d’un génie et d’une conscience qu’il mettait à l’entier service de l’Art.
 
Nos entretiens furent fréquents, à Florence, à Salzburg, à Londres, à Berlin. Une charge aristocratique émanait de sa personne, un charme que l’on oublie d’autant moins qu’il est une chose très rare. Cet homme qui fut accusé par des Allemands plus allemands qu’Arminius d’avoir un caractère féminin et faible, montra une énergie héroïque dans les derniers temps de sa vie, restant immobile à sa place alors que ses forces le quittaient, et il affronta la mort au milieu de ses collaborateurs qui l’aimaient et qui l’aidèrent jusqu’à sa dernière heure. Comme tous les grands, il eut des détracteurs et des ennemis, quelques uns même de gros calibre, comme Richard Strauss, qui n’était pas toujours d’accord avec cette manière d’interpréter sa musique. Toutefois, même si cela peut paraître paradoxal, le jugement d’un compositeur sur sa propre musique n’est pas toujours définitif et justifié face à une interprétation. Que diraient Bach, Beethoven, Schubert et Brahms de ce que nous faisons de leurs œuvres ! C’est pourquoi l’art de l’interprète demeure dans le domaine de l’impondérable et du mystère. Mais ce qui se donne toujours à l’interprète c’est l’émotion unanime du public, ce que Furtwängler a connu toute sa vie durant.
 
Peu après sa mort, j’ai lu dans l’un de nos journaux : « Pendant la période nazie il refusa de quitter l’Allemagne, comme d’autres musiciens l’avaient fait, acceptant même la charge de Vice-président de la Chambre de Musique du Reich ainsi que le titre de Conseiller d’État de Prusse ». C’est pour cela qu’il dut, à la fin de la guerre, se soumettre à un procès d’épuration dont il sortit – comme il disait dans un Italien impropre – « purificato ». Et dans cette erreur de terme il y avait toute une saveur comique qui n’allait pas sans amertume… Aujourd’hui je me sens obligé d’ajouter à ces données, que je considère comme exactes, un élément véridique d’histoire, qui pourra peut-être jeter un éclairage nouveau sur la personnalité de Furtwängler. Nous étions – je ne me rappelle pas l’année, mais certainement en plein nazisme – en correspondance épistolaire pour une invitation, que je lui avais adressée, à venir diriger des concerts à Florence : à la dernière minute un télégramme de Berlin m’avertit que le chef ne pouvait pas partir. Nous apprîmes très vite la vérité de la situation. Depuis quelques mois Furtwängler luttait contre les premières dispositions antisémites, pour défendre sa secrétaire personnelle, Mademoiselle Geissmar, qui était juive, ainsi que six musiciens de son magnifique orchestre, eux aussi de race juive. En outre, il continuait à inscrire à ses programmes les œuvres de compositeurs notoirement anti-nazis, comme Hindemith, qui avait déjà quitté l’Allemagne pour des raisons politiques. Et bien, la réponse à cette résistance fut l’assignation à résidence pour une période de quinze mois : naturellement on nous dit que le chef était souffrant ! …Le grotesque de la situation fut que, quelques années après, ce fut mon tour de subir un retrait du passeport juste avant de partir pour Berlin, et moi aussi je dus télégraphier le mensonge conventionnel : « Je suis malade de la même maladie que Furtwängler ». La réponse m’arriva immédiatement : « meilleurs vœux pour une guérison rapide ». Voilà des choses qui sont arrivées et qui dans la mémoire, voilée de tristesse, nous font sourire avec mélancolie.
 
Même Richard Strauss fut accusé par les plus fanatiques d’avoir favorisé le régime, mais peu savent que Strauss avait une belle-fille juive qu’il adorait et que ses deux petits enfants étaient « mixtes ». Pour sauver sa famille, le grand compositeur dut courber l’échine et consentir à des compromis.
 
Après l’assignation à résidence, Furtwängler fut libre et on lui ordonna de reprendre son travail. Au concert, Hitler, qui était rusé, intervint, conférant à ce concert une forme solennelle de réconciliation, et offrit au chef un gros bouquet de roses… La main aristocratique de Furtwängler, en serrant l’inévitable bouquet, dût ressentir la piqûre des épines, et en garder longtemps les signes.

(Turin, décembre 1954)