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DUE PRIME AL «TEATRO DI TORINO»

LE «SETTE CANZONI»
DI G. F. MALIPIERO


[E «L'HEURE ESPAGNOLE» DI M. RAVEL]

19 maggio 1926


IN SERATE MUSICALI
pp. 276; 279-280--
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Le Sette canzoni di G. F. Malipiero rappresentate sei o sette anni or sono all'Opéra di Parigi e questa sera per la prima volta in Italia al Teatro di Torino, sono brevi scene che si seguono senza soluzione di continuità, ciascuna di carattere diverso come azione, e imperniate su una canzone che di ogna scena costituisce il nucleo musicale e stabilisce - per via di contrasti con l'ambiente, il più delle volte - il significato.
Nella prima canzone I vagabondi, un cieco suonatore di chitarra, una giovane donna che lo guida, un cantastorie, si fermano dinanzi ad una porta. Il cieco siede sui gradini e accompagna il cantastorie che canta una sua canzone. Suggestionata dal canto, soggiogata da un gesto imperioso del cantore, la giovane donna finisce con l'abbandonare il cieco dopo avere gettato nel cappello di lui, teso per le offerte, un po' di denaro. Il cieco non si è accorto di nulla, continua il suo accompagnamento con la chitarra, poi chiama la donna e, rimasto senza risposta, intuisce la fuga. Allora, getta il denaro e si allontana vacillando.
Un breve interludio orchestrale ed ecco la seconda canzone: A vespro. In una chiesa, dinanzi all'immagine della Madonna, ardono alcuni ceri. Si odono, dal coro invisibile, le litanie. Un frate incomincia a spegnere i ceri; quando sta per chiudere la chiesa, si avvede che una donna, vestita a lutto, è entrata furtiva, e prega fervidamente dinanzi alla Madonna. La invita prima, poi la costringe ad uscire; e spegne l'ultimo cero.
Il centro musicale di questa scena è dato dalle litanie, sulle quali l'orchestra intreccia una sottile rete di disegni istrumentali.
Nella terza canzone, Il ritorno, una vecchia madre demente piange attendendo il figlio perduto. La canzone che essa canta passa alternativamente dagli accenti drammatici, coi quali la vecchia impreca alla morte, a quelli dolci, di ninna nanna, rievocanti l'antica canzone che cullava i sonni del bambino, a quelli di una canzone villereccia, altra nostalgia di altri giorni lontani. Quando - dopo un crescendo ed un agitarsi del discorso sinfonico - ritorna il figlio e si precipita verso la madre, questa, resa immemore dalla pazzia, lo respinge ridendo convulsamente.
Nella canzone L'ubriaco, una giovane donna attende alla finestra il suo amante. Come questo giunge, lo chiama in casa. Sopravviene un ubriaco che si ferma alla porta della donna e incomincia a cantare la sua canzone, dal Poliziano: «Canti ognun, ch'io canterò». Ma il giovane, forse disturbato nei suoi filosofici ragionari con l'amica, esce improvvisamente dalla casa di lei e nella corsa fa cadere l'ubriaco; subito dopo esce dalla stessa porta un uomo in camicia e berretto da notte - il marito
della bella - che bastona di santa ragione l'ubriaco, di null'altro colpevole, che d'aver cantato mentre altri faceva all'amore.
La quinta canzone è la Serenata. In una stanza fievolmente illuminata da ceri, su un letto è disteso un morto. Ai suoi piedi, una fanciulla inginocchiata, che piange e prega. Si sentono, da voci di donna, le preghiere dei morti. Su questo sfondo giunge dalla via, la serenata che l'innamorato canta alla sua bella. Quando il giovane appare sulla porta e vede la scena funebre, si inginocchia, mentre la fanciulla sparge sul letto i fiori da lui donati.
Fra questa, e la canzone che segue, Il campanaro, un interludio sinfonico, piuttosto sviluppato, ha lo scopo di preparare alla nuova scena. Un paese è tutto soossopra per un grande incendio che si vede in lontananza; il campanaro canta placidamente una sua canzone (anche questa su parole di Poliziano) mentre suona la campana d'allarme. Quando l'incendio e la canzone sono finite, il campanaro accende tranquillamente la pipa e si riposa.
L'alba delle Ceneri è l'ultima canzone. L'azione si svolge in una strada. L'orchestra prepara al quadro con ritmo, e accento e modi che ricordano molto da vicino alcune brillantissime pagine di Debussy; suoni di campane che invitano alla prima messa di quaresima; beghine che vanno in chiesa. Salmodiando, giunge la «Compagnia del carro della Morte». Una mascherata di pagliacci si fa incontro ai penitenti e danza intorno al carro, fino a che, da una macabra apparizione, tutte le maschere sono messe in fuga. Gli uomini della «Compagnia» riprendono il loro canto, largamente e gravemente sostenuto dall'orchestra. Quando il « carro» è uscito di scena, un pagliaccio che aveva perduto il berretto ritorna a raccattarlo; si incontra con una mascherina, l'abbraccia e con lei si dilegua.
Ascoltando queste sette «Canzoni» non sono riuscito a trovare le ragioni che possono averle fatte designare al primo loro apparire come musica «futurista». Ad esse bisogna riconoscere un merito, che è nell'idea di aver voluto presentare in sette brevi momenti scenici sette momenti drammatici, romanticamente contrastanti l'uno con l'altro, e poggiati ognuno su un altro contrasto, dirò così interno, di carattere romantico anche questo: la serenata e la morte; l'indifferenza del campanaro e la furia dell'incendio; il carro dei penitenti e la compagnia delle maschere.
E gli appunti che si possono muovere alla concezione e alla musica di Malipiero sono precisamente opposti a ogni «accusa» di futurismo. Per ciò che riguarda le azioni sceniche, oltre ai lunghi e agghiaccianti silenzii di troppe figure sceniche, l'avere dato ufficio e valore di «sintesi» a quelli che non sono se non «frammenti»; per ciò che riguarda la musica, l'essersi servito anche troppo - per intonare ed ambientare canzoni tratte quasi completamente dai secoli d'oro della nostra letteratura, di modi che appartengono più alle varie esperienze moderniste straniere (e perciò eminentemente passatiste, per l'effimero della loro vita) che al vero «futurismo» italiano, il quale vanta musiche come quelle di... Monteverdi, Pergolesi, Rossini, vive e freschissime dopo centinaia d'anni.
Delle sette «canzoni», ben riuscite, e rispondenti nell'effetto raggiunto alle intenzioni dell'autore, mi sono sembrate la terza (Il Ritorno), la quarta (L'ubriaco) e la settima (L'alba delle Ceneri). In queste appunto i contrasti sono efficacemente espressi e la musica presenta forme più precise e aderenti alle atmosfere dei vari quadri.
Manchevole in più di un punto mi è sembrata l'orchestrazione di queste Sette canzoni, sia per qualità di impasti che per equilibrio.
Interpreti scenici: M. Bugg, R. Bello, G. Doria, L. Ponzio, L. Secco, A. Wesselowsky. Direttore d'orchestra: V. Gui.