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ADRIANO LUALDI

GIUSEPPE MAZZINI E IL MELODRAMMA ITALIANO (*)

2º SUPPLEMENTO A KARAKIRI
NOVEMBRE 1962 pp. 87 ss.


Aurelio Saffi ci parla dell'amore di Mazzini per la musica: «Egli era amantissimo delle ispirazioni dell'arte: amava, sapendosi solo e non ascoltato, talora fra il giorno, più spesso a tarda notte, cantare sottovoce accompagnondosi con la chitarra; aveva tal voce che, modulata dal canto, scendeva al cuore... Era attentissimo a tutto ciò che usciva nel mondo musicale».
La chitarra di cui scrive il Saffi io la vidi a Pisa, visitando la casa dove Mazzini morì nel 1872, in via Sant'Antonio. Quattro corde rotte si arricciavano intorno ai bischeri; la lettera di un Filippo Bettini, del 7 novembre 1866 faceva la storia e garantiva l'autenticità dello strumento: proprio quello che accompagnò l'apostolo sempre e dovunque: fin nella prigione, fin nel fasto (esteriore) del Palazzo Quirinale di cui il Triumviro della Repubblica romana non occupava che una stanzetta. Nella casa di via Sant'Antonio, in una lapide posta davanti alla porta del Mazzini erano scolpite le parole: «Spesso penso che quando finalmente vi lascerò, tutti lavorerete con più fede, con più ardore, per far sì che io non abbia vissuto invano». Parole che oggi, caduto il mondo in tanta miseria soprattutto morale, suonano amarissime.
Certo la sua anima, già predisposta alla tristezza ed oppressa dal dolore di sapersi non compresa, dovette chiedere spesso conforto e sollievo all'arte che amava. Ma l'amore non fu egoistico; non chiese soltanto, ma diede; non si limitò all'ammirazione, ma profuse energie per meglio innalzare l'idolo e per purificarlo dalle offese di cui era oggetto; e non lo volle avvilito all'unico ufficio di «trastullare» le ore di ozio a un piccolo numero di «scioperati», ma gli invocò una più alta missione.
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Filosofo e letterato, voleva che la sua voce e il suo pensiero arrivassero fino al popolo. A questo mirarono gli innumerevoli suoi scritti, le pubblicazioni della famosa tipografia elvetica di Capolago e le riunioni segrete e i convegni. Ma gli sarebbe stato prezioso, in quest'opera di propaganda, l'ausilio di un'arte che con la sua potenza giungesse a trascinare le folle e ad infiammarle di quell'amore di Patria ch'egli sentiva ardere nel proprio cuore. E quale arte, se non la musica, avrebbe potuto servirgli allo scopo?
È dunque naturale che Mazzini cerchi un'alleata in essa e con parola alta e magnifica si rivolga - nelle auree pagine della Filosofia della musica - «a quegli intelletti che non hanno rinnegato il pensiero per il materialismo, l'idea per la forma», per indurli a seguire le sue idee e a secondare l'opera di rigenerazione sociale che si è prefisso; e che dedichi l'opuscolo «Ignoto numini», al giovane ignoto che «forse in qualche angolo del nostro terreno s'agita, mentre io scrivo, sotto l'ispirazione, e ravvolge dentro sè il segreto di un'epoca musicale».
Sia detto per incidenza che, in quel momento, Giuseppe Verdi aveva, ventitrè anni, e faceva il Maestro di banda a - Busseto.
L'idea mazziniana di attribuire alla musica un ufficio sociale e civile si riallaccia a molto auguste e remote tradizioni: ai legislatori e ai moralisti greci del periodo classico, che considerarono lo studio della musica e il suo alto potere educativo sui giovani come necessità fondamentale dello Stato; ai filosofi greci che studiarono e affermarono l'esistenza di rapporti fra le leggi dell'universo e dell'anima umana e le leggi della musica. E tanto identificarono queste e quelle, da chiamare e considerare «musica» la stessa filosofia.
Il concetto di « musica » comprendeva nel mondo greco l'armonia intellettuale, l'eleganza artistica, il bene morale, la educazione dello spirito.
Musica era il principio che elevava l'anima dandole la più alta forma di benessere morale attraverso il godimento dei sensi; musica era l'etica, poichè la melodia e il ritmo racchiudevano l'essenza dell'anima umana e avevano perciò su di essa potenza di azione più che le altre forma visibili della bellezza: potenza di purificazione e quasi di liberazione da ogni male. Chi dunque voglia rintracciare le origini del pensiero mazziniano, specie per ciò che riguarda il dominio dell'arte, dovrà cercarle nei filosofi della antica Grecia. Ma volendo considerare l'atmosfera ambiente in cui fiorirono i concetti mazziniani sulla musica, sui suoi rapporti con l'universo mondo, sul suo ufficio sociale e civile, non potrà trascurare un documento assai significativo su Volfango Goethe e la musica che - rimasto inedito e ignoto per più di un secolo - solo una ventina di anni or sono è stato rivelato ad un cerchio ristretto di studiosi. Si tratta dei «Pensieri sulla musica» che il poeta romantico tedesco Rudolf von Beyer raccolse dalla viva voce di Volfango Goethe, e diligentemente annotò nel 1820. Anche il Goethe ha il suo punto di partenza nell'antica Grecia; anch'egli affida all'umanità una alta missione civile che dovrà essere compiuta attraverso la musica e per mezzo di essa; anch'egli riconosce, come il Mazzini, nella musica il presentimento di un mondo migliore.
Si può tracciare un parallelo fra il pensiero di Goethe e quello di Mazzini mettendo a confronto i loro concetti.
Dice il Goethe: «Io contemplo e indago il mistero della musica per poter poi comprendere il mistero della nostra umanità».
E il Mazzini: «L'arte musicale era nella Grecia tenuta come lingua universale della nazione, e veicolo sacro della storia, della filosofia, delle leggi e dell'educazione morale».
Goethe precisa: «La musica ci dà il presentimento di un mondo più perfetto.»
E Mazzini gli risponde: «La musica è la fede di un mondo di cui la poesia non è che l'alta filosofia.»
Goethe accenna: «La vita è la musica della anima.»
E Mazzini amplifica: «La musica è il profumo dell'universo... L'immagine del bello e dell'eterna armonia vi appare...».
Proprio perchè Mazzini non poteva conoscere ne intuire il pensiero espresso sedici anni prima e a qualche centinaio di chilometri di distanza dal Goethe sulla musica, e perché neanche Goethe poteva conoscere quello di Mazzini, a me pare sommamente significativo questo incontro di due grandi intelletti nell'amore e nel concetto della musica, come della arte che tiene più del divino che dell'umano; e che in ogni caso all'umanità infelice spiana e illumina la via verso i più alti cieli dell'ideale e della liberazione.
L'amarezza che spira da alcune pagine della Filosofia della musica ha cause profonde. Quando Mazzini, giovane d'anni, (ne aveva trentuno) dettava la Filosofia della musica, era il 1836, l'anno - mai più dimenticato - della «tempesta del dubbio». Nelle «Note autobiografiche» scrisse più tardi: « Io avevo l'anima traboccante di affetti, e giovane, e capace di gioia... Ma in quei mesi fatali mi si addensarono a turbine sciagure, delusioni, disinganni amarissimi, tanto che io intravvidi in un subito, nella scarna sua nudità, la vecchiaia dell'anima solitaria e il mondo deserto d'ogni conforto, nella battaglia, per me. Allora, in quel deserto, mi si affacciò il dubbio. Forse io erravo, e il mondo aveva ragione. Forse l'idea che seguivo era un sogno».
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L'idea che egli seguiva era la libertà della Patria e la redenzione dell'umanità nel segno della civiltà romana; i disinganni amarissimi e le delusioni erano stati i moti non riusciti della Carboneria, la prigionia nella fortezza di Savona, l'esilio a Ginevra e a Marsiglia, le conseguenze dolorose della famosa, altissima lettera da lui indirizzata a Carlo Alberto, la prigionia e la morte dei suoi più cari amici, e i molti pericoli, e le persecuzioni sofferte durante tutto il 1836 in territorio elvetico.
Nello squallido deserto degli affetti, nello spettacolo di sordità che il mondo contrapponeva alla sua predicazione, fra il rovinare di tante speranze, fra il cadere di tante illusioni: in questo paesaggio senza luce, nel quale anche l'incomprensione del padre dovette avere il suo peso, solo una voce egli coglie di speranza: quella della madre che non si stanca di ripetergli: «Tu non hai la fede, io l'ho tutta... sei prediletto di Dio...».
Ed è certo anche mercè questa provvidenziale assistenza materna che il pensiero lugubre di sopprimersi è presto vinto, perchè la forza dell'eroe è di quelle che riescono a superare la crisi di stanchezza, e in ogni caso, non arrivano a spezzarsi: «Un giorno io mi destai con l'animo tranquillo, come chi si sente salvo da un pericolo estremo... Rifeci da capo l'intero edifizio della mia filosofia morale. Una definizione della vita dominava tutte le questioni che mi avevano suscitato dentro quell'uragano di dubbi e di terrori; La vita è missione. Ogni altra definzione è falsa e travia chi l'accetta».
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La filosofia della musica è dunque una delle prime, e perchè tale, delle più preziose e significative testimonianze del ritorno di Mazzini alla fede, alla volontà, alla speranza, alla vita, dopo il tormentoso periodo di abbattimento. È dal più profondo abisso nel quale era caduto e stava per perdersi, che l'uomo, nell'atto di risollevarsi alla luce dell'equilibrio spirituale, riconosce nella musica «l'imagine del Bello e dell'eterna armonia», «la fede di un mondo, di cui la Poesia non è che l'alta filosofia». Ed è dalle sue meditazioni intorno ad essa che trae nuove energie e nuove certezze alla azione di là da venire.
Se la vita è missione, anche l'arte deve avere una missione; e Mazzini vuole che «si prefigga un alto intento sociale, e sia posta a sacerdote di morale rigenerazione». L'arte dovrà redimere per la terza volta l'Italia, e restituirla all'ufficio di «Maestra delle genti».
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Le rarissime volte che si parla o si scrive della Filosofia della musica di Mazzini, non manca mai qualcuno che ripeta la domanda tendenziosa: «Ma perchè Mazzini si occupa, in essa, soltanto della musica di teatro? Forse che nel panorama artistico europeo la musica sinfonica e da camera non esisteva e non occupava anch'essa una zona fertilissima ed estesa?
La risposta è semplice: Mazzini guarda al paesaggio musicale italiano, e non all'europeo, che pur conosce. Parla ai Maestri e ai giovani d'Italia, non già di Germania, di Francia e d'Austria; e siccome è a quelli che vuole additare l'alta missione da compiere, a quelli parla della forma d'arte unica che essi intendono e verso la quale si sentono attratti; dell'unica che allora si praticava in Italia; e con tanta fortuna, con tanta vivacità e varietà, che il successo varcava spesso i confini geografici e portava opere ed operisti oltr'Alpe: a Parigi, a Londra, a Vienna.
Tra lo spegnersi del '700 e i primi decenni dell'800, quando Mazzini veniva al mondo e Rossini si affacciava alla vita artistica, tutta la nostra arte musicale si compendiava nel Teatro. Ogni altra attività era andata languendo fino a scomparire; l'opera teatrale era rimasta in Italia padrona assoluta e senza rivali, ma non esente, anch'essa, dalla nefasta tirannia dei cantanti che, affermatasi già nel XVIII secolo, era andata ancor più appesantendosi sul principio del XIX.
Così nei primi anni dell'800 l'Opera era ancora un lungo succedersi di monologhi e di scene a due personaggi. Terzetti, quartetti, quintetti, pochi o nessuno. Nessun interesse, da parte del pubblico, all'argomento; morti Cimarosa e Paisiello, la musica aveva perduto in Italia i suoi uomini più forti, perchè Cherubini e Spontini svolgevano la maggior parte della loro attività in Francia. Nella penisola la musica era rappresentata dai Morlacchi, Paer, Generali, Fioravanti e pochi altri; personalità di secondo piano, non tali da poter ricondurre il gusto verso migliori vie. Tali, anzi, da aggravare il male così diffuso, e rendere sempre più assoluta la dominazione del teatro da parte degli artisti di canto.
Il predominio assoluto del vocalismo, oltre ad avvilire e ad inaridire il contenuto ideale dell'Opera, aveva prodotto un'altra grave conseguenza: l'orchestra, ridottasi al puro ufficio di accompagnare il canto, aveva perduto ogni importanza, e gli esecutori strumentisti erano assolutamente incapaci di affrontare difficoltà anche lievi.
Ogni città capitale di Regione o di piccolo Stato aveva allora il suo teatro, e col teatro l'ambizione delle opere inedite. Le stagioni d'opera erano gener mente quattro: Carnevale, Quaresima, Primavera e Autunno. In queste condizioni un compositore che godesse il favore del pubblico era costretto a una produzione a getto continuo, per poter accontentare, nel corso di un anno, il maggior numero possibile di teatri e di pubblici. La rapidità era allora una necessità vitale per il musicista: bisognava improvvisare, alla svelta e senza pentimenti.
E Rossini improvvisava, e vinceva i predecessori e i coetanei per la incredibile ricchezza di idee di cui dava prova, per la profusione della melodia e la nettezza del disegno, che rendevano le sue opere cosí piene di carattere in confronto agli abbozzi piatti e grigi che allora popolavano il teatro.
Il Mazzini considerò il pesarese un «compendiatore», non un innovatore: ma bisogna dire che le stesse condizioni in cui si trovava il teatro italiano di allora avrebbero impedito qualsiasi opera profonda e radicale di rinnovamento. «Rossini non creò, restaurò. Protestò, ma non contro l'elemento generatore, non contro il concetto primitivo fondamentale della musica italiana; bensì contro la dittatura dei professori, contro la servilità dei discepoli, contro il vuoto che gli uni e gli altri facevano. Innovò, ma più nella forma che nell'idea, più nei modi di applicazione e di sviluppo, che nel principio».
Neanche Bellini incarnò il suo ideale, e non gli parve musicista dell'avvenire. Pensava Mazzini che gli mancasse il genio essenzialmente e perennemente creatore, la potenza, la varietà. «Bellini, pur superiore a tanti altri, era un ingegno di transizione... un suono di ricordanza e di desiderio... La sua musica, quando non somiglia alla fiacca e sdolcinata di Metastasio, si accosta alla poesia del Lamartine, più atta, nelle sue ultime conseguenze, a illanguidire, a sfibrare, a isterilire la potenza dell'anima umana, che non a sollecitarla, a rinforzarla, a crescerle fecondità».
Qui bisogna dire che l'idea preconcetta dell'arte «per il perfezionamento sociale» fa un po' velo allo scrittore, se un uomo di così acuta sensibilità artistica non si sofferma, e lungamente, su quel che di inusitato e di nuovo è - per citare solo tre titoli - nel Mosè, nel Guglielmo Tell, nella Norma. Ma la ragione per la quale il Mazzini non avvertì o non dette il giusto peso alla grandiosa interpretazione dell'opera collettiva e alla solennità dell'accento che caratterizzano il Mosè, al pittoresco, all'atmosfera musicale, alla risonanza dell'idea di Patria che troviamo nel Guglielmo Tell, e alla potenza drammatica di alcuni recitativi e di alcune melodie di Norma.... la ragione di questo atteggiamento mazziniano va ricercata nel fatto che il carattere progressivo ed evolutivo dell'arte rossiniana e di quella belliniana si manifestò in modo del tutto naturale, e tutt'altro che rivoluzionario», o proclive a gesti vistosi di emancipazione, o addirittura di rivolta. Eravamo, infatti, nel primo ottocento, e fra artisti di grande probità e serietà. Nietzsche non era ancora nato; e perchè, venuto al mondo, dettasse la Prefazione a Riccardo Wagner, dovevano trascorrere esattamente trentacinque anni.
Passando in rassegna i compositori italiani del suo tempo, Donizetti è l'unico al quale il Mazzini volga il pensiero con qualche speranza, sia pure senza gettarsi ad ipotecare il futuro. Lo colpì forse, di lui, in confronto del Bellini, la maestrìa tecnica, la mano più sciolta e abile nell'armonia, nel contrappunto, nella tavolozza orchestrale. Se rimproverava al Donizetti di seguire le orme rossiniane, ciò non gli impediva di osservare che «la potenza con che Donizetti ha calcata la via di Rossini è indizio d'altra potenza che non si è rivelata fin ora e che un impulso diverso susciterebbe».
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Della musica del suo tempo Mazzini vede dunque e denuncia i difetti e gli errori; e poi che restringe l'esame al melodramma, cerca di scuotere dalle sue basi l'organismo dell'opera teatrale che gli sembra troppo vuoto di contenuto, troppo assurdo nella forma, troppo superficiale negli intenti che si propone e negli effetti che ottiene. Ma osserva il male con dolore, e con spirito costruttivo cerca il rimedio e lo propone.
Mazzini parla di «progresso», di «più alto concetto» dell'arte rispetto al passato; ma qui vuol dire evoluzione. Evoluzione, rivoluzione anche, talvolta, se si vuole, dei mezzi tecnici, del gusto, dell'atmosfera spirituale e sociale di cui l'arte è presentimento o riflesso; non progresso e tanto meno più alto concetto propriamente parlando. Perché l'arte, già con Pierluigi, Monteverdi, Vecchi, Scarlatti, Frescobaldi e tanti altri aveva raggiunto espressioni insuperabili e insuperate. Tali espressioni non ammettono perfezionamento alcuno, nè progresso, nè più alto concetto. Ma impongono, se mai, ricerche di nuove inusitate vie, contemplazione di altri ideali, coraggioso cammino verso nuove mete.
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Con parole mirabili che - a più di un secolo di distanza - risultano ancora attuali, Mazzini riassume le sue impressioni: «Il concetto che alla musica ha dato vita fin qui è concetto esaurito. Il nuovo non si è rivelato. E fino a che non lo sarà, finché i giovani compositori si ostineranno a lavorare sul vecchio, finchè l'ispirazione non iscenderà sovra essi da un altro cielo inesplorato finora, la musica si rimarrà diseredata della potenza che crea, le scuole contenderanno senza fine e senza vittoria, gli artisti si trascineranno erranti, incerti fra diversi sistemi, fra diverse tendenze, senza intento e proposito deliberato, senza speranza di meglio, imitatori sempre, e incoronati del serto che gli uomini danno agli imitatori: vivido di bei colori, ma caduco e appassito in un giorno... Avremo mutamenti di stile, non nuove idee; lampi di musica, non musica; ammiratori entusiasti per moda, appassionati se vuolsi: non credenti, non fede».
Vi sarete accorti che in queste parole è condensata profeticamente la tragedia di quest'ultimo cinquantennio di produzione musicale, a casa nostra.
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La rigenerazione musicale, continuava Mazzini, doveva compiersi parallelamente alla rigenerazione della poesia musicale, «serva finora, non sorella della musica; e serva venale dei capricci di un uditorio che vuole essere divertito, e dello spirito di speculazione che veglia nei direttori». Riguardando il panorama della musica francese, Mazzini mette al primo posto Meyerbeer che definisce «italiano». Italiano non era; ma italianizzante sì, nella massima accezione del termine. Mazzini lo colloca troppo in alto nella scala dei valori musicali dell'epoca; ma non bisogna dimenticare che nel giudizio dell'osservatore influiva il fatto di vedere nei melodrammi del Meyerbeer almeno qualche tentativo di realizzazione dei concetti a lui cari. In Roberto il diavolo e ne Gli Ugonotti specialmente, l'atmosfera ambiente e il colore locale offrono testimonianze che anche oggi possono essere ricordate. E Meyerbeer era bene aderente allo spirito italiano quando sosteneva essere il color locale qualche cosa di diverso dalla osservazione esatta degli usi e dei costumi; che è il principio affermato dal Mazzini, e il criterio spontaneamente seguito da Rossini nel Guglielmo Tell, e quarant'anni più tardi da Verdi nell'Aida: la subordinazione della osservazione diretta e della documentazione alla intuizione.
Si era bene accorto, il Mazzini, di un veramente grande artista vivente e operante nel suo tempo, e lo aveva giustamente valutato: Hector Berlioz. Ma questi, l'unico francese di genio, che aveva dato all'arte del suo paese opere come la Sinfonia fantastica, le Otto scene del Faust, Cleopatra; l'unico artista davvero potente, e totalmente nazionale, e carico di avvenire, sebbene conosciuto e apprezzato da uomini come il Mazzini appunto, e Chopin, Liszt, de Vigny, Legouvé, Sue, Paganini, era in quei giorni boicottato e duramente respinto, nella grande Parigi, e dall'Accademia, e dal Teatro.
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Parlando dei caratteri generali della musica italiana Mazzini osservava: «La musica italiana si pone in mezzo agli oggetti, riceve le sensazioni che vengono da questi, poi ne rimanda l'espressione abbellita, divinizzata. Lirica sino al delirio, appassionata sino all'ebbrezza, vulcanica come il terreno ove nacque, scintillante come il sole che splende su quel terreno, modula rapida, non cura, o poco, dei mezzi e delle transizioni, balza di cosa in cosa... dalla gioia satanica al dolore senza conforto, dall'ira all'amore, dal cielo all'inferno. Sempre potente, sempre commossa, sempre concitata ad un modo, ha vita doppia d'altre vite, un cuore che batte a febbre...».
Ed eccolo, poi, coglierne il preminente carattere nazionale: «La musica italiana è in sommo grado melodica». Ma, quasi ad evitare false o interessate interpretazioni, e respingere preventivamente non desiderati consensi da parte della banalità e della mediocrità, allora come oggi disposte alla equazione: «musica italiana uguale a canzone e canzonetta, urlo ed enfasi, manovella e mandolino», ecco subito il Mazzini pronunciare un grandissimo nome aggiungendo: «Fin da quando Palestrina tradusse il Cristianesimo in note, e iniziò con le sue melodie la scuola italiana, essa assunse questo carattere e lo conservò»: ed eccolo ancora precisare in una nota: «Parlo di carattere predominante. Nessuna scuola può far tanto conto d'un elemento che l'altro rimanga escluso, o sottomesso sempre e quasi accessorio».
Per melodia insomma il Mazzini non intendeva soltanto il motivo vocale solistico del tenore o della primadonna, ma ciò che Wagner avrebbe ellenicamente chiamato più tardi il melos, che costituisce l'anima e l'essenza di ogni musica: vocale o sinfonica o strumentale, polifonica od omofona.
«La musica italiana - precisa il Mazzini - s'abbandona a tutti i capricci, l'io v'è re, despota e solo... Norma razionale e perpetua, vita progressiva e unitaria, ordinata pensatarnente a un intento non v'è. V'è sensazione prepotente, sfogo rapido e violento. La sua è ispirazione di tripode: altamente artistica, non religiosa. L'Arte per l'Arte è formula suprema per la musica italiana. Quindi il difetto d'unità, quindi il procedimento frazionario, sconnesso, interrotto. Come Fausto, essa può dire: «Ho percorso del mio volo l'intero universo, ma a parti, a sezioni, con l'analisi, di cosa in cosa; ma l'anima, e il Dio dell'Universo, dove sono?».
Dopo aver descritti i caratteri fondarnentali della musica italiana, non trascura di esaminare i caratteri dell'altra unica Nazione di grande civiltà musicale che può contendere all'Italia la gloria di una nuova iniziativa musicale: la Germania. «La musica tedesca, scrive, procede per altra via. Vi è Dio senza l'uomo. V'è tempio, religione, altare, incenso: manca l'adoratore, il sacerdote della fede... Armonica in sommo grado, essa rappresenta il pensiero sociale, il concetto generale, ma senza l'individualità che traduca il pensiero in azione, che sviluppi nelle diverse applicazioni il concetto, che svolga e simboleggi l'idea. L'io è sparito».
Segue il paragone fra le due musiche: «Manca alla musica italiana il concetto santificatore di tutte le alte imprese, il pensiero morale che avvia le forze dell'intelletto, il battesimo di una missione. Manca alla musica tedesca l'energia per compirla, l'istrumento materiale della conquista; manca non il sentimento, ma la formula della missione. La musica tedesca si consuma inutilmente nel misticismo».
Stranamente il Mazzini chiama inutile il misticismo della musica tedesca. Non è forse un sogno mistico tutto ciò che Mazzini vagheggia per l'avvenire della musica italiana? Non è forse un rapimento mistico che, solo, può portare l'artista ad eleggersi e a perseguire, come ideale, l'arte per la elevazione, per il perfezionamento sociale? Quel misticismo su cui insiste il Mazzini doveva più tardi trovare in Wagner, che aveva allora, come Verdi, ventitrè anni, e nella sua mistica, appunto, monumentale e tutt'altro che inutile glorificazione e germanizzazione degli antichi miti nordici, il più alto, il più significativo degli esponenti.
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Dopo il lungo ragionamento del quale non ho dato che qualche brevissimo cenno, la ricerca delle vie del bene, l'incitamento all'azione. «Quel genio sorgerà. Maturi i tempi e i credenti che dovranno venerarne le creazioni, sorgerà senza fallo. Urge convincersi che si tratta, in oggi, non di perpetuare o di rifare una scuola italiana, ma di cacciare dall'Italia le fondamenta di una nuova scuola musicale europea. E scuola musicale europea non può essere se non quella che terrà conto di tutti gli elementi musicali che le scuole parziali anteriori hanno svolto, e - senza sopprimerne alcuno - saprà tutti armonizzarli e drizzarli ad unico fine». E se dovrà scomparire «l'individualismo gretto ed esoso» che ha ridotto l'arte musicale in così misero stato e che le ha fatto perdere anche il ricordo della sua missione altissima e l'ha isolata dalla vita e dalla umanità, dovrà invece, nella musica avvenire, ampliarsi ed estendersi la sacra individualità storica. Vi è come un'architettura, come una poesia, una espressione musicale per ogni epoca e per ogni contrada. Perchè non studiarla? Se il dramma musicale deve armonizzarsi al moto della civiltà e seguirne ed aprirne le vie, ed esercitare una funzione sociale, è necessario anzitutto che rifletta le epoche storiche che vuol descrivere».
Nessuno, prima di Mazzini, aveva detto questo od alcunchè di simile, e non v'è chi non veda quale e quanta preziosa semente di nuove idee e quali nuovi concetti fossero centovent'anni fa e siano ancor oggi in tali parole.
Nessuno aveva tentato, prima del Mazzini, di risalire alle origine filosofiche del problema «Dramma musicale» affrontando con tanto coraggio, con tanta conoscenza dell'argomento, con tanta onestà di pensiero e di parole il gusto dominante, la tirannia delle convenzioni e la tradizione trionfante (che in molti casi era basso mestiere di epigoni minori).
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I nuovi spiriti, le nuove forme che Mazzini auspica per il Melodramma nuovo, le nuove vie che addita ai compositori di teatro italiani, preannunciano molte delle idee che Riccardo Wagner esprimerà e svilupperà più tardi attingendo non soltanto all'ideale greco, ma anche da Schopenhauer.
Con questo non intendo affatto fissare, per ciò che riguarda Wagner, una «derivazione» da Mazzini bensì una semplice, ma eloquentissima priorità del genovese, e sottolineare la feconda genialità della sua intuizione. Ma il Mazzini va anche più oltre. Perchè se Wagner vuole che il dramma e non la musica debba essere lo scopo della espressione, Mazzini sostiene che non la musica e neppure il dramma: ma il pensiero sociale, che è in cima a tutti i suoi pensieri, e il progresso e l'evoluzione dell'umanità debbono essere i fini supremi dell'opera d'arte.
Non soltanto dunque Mazzini vuole che il dramma musicale si arricchisca di un contenuto filosofico ed etico che lo renda partecipe in qualche modo della vita sociale e del moto progressivo della civiltà; e chiede, ad ogni dramma, la sua propria atmosfera; ma fissa anche, con rigore, i principi, i limiti e i modi entro i quali dovrà svolgersi la rivoluzione che egli bandisce nel campo ideale; e giunge anche a precisare per quali vie e per mezzo di quali innovazioni formali tale rivoluzione potrà essere compiuta. Sentiamolo, questo ardente, appassionato, inascoltato Maestro e Profeta che - una cinquantina di anni or sono - quando ne conobbi il verbo, parve a me, italiano, più che entusiasmante, addirittura illuminante e orientativo; e tale mi rimase, per sempre. In esso, infatti, trovai la mia guida e il mio Vangelo morale e artistico.
«L'individualità», scrive il Mazzini, «è sacra. E non che sopprimersi, dovrà nella musica avvenire ampliarsi, estendersi a cose non curate dai compositori di drammi, e assumere grevità di carattere filosofico, dove oggi non è che slancio di reazione e protesta in favore di una sterile libertà... Ma la individualità dell'epoca che il dramma figura, l'individualità dei personaggi. ognuno dei quali rappresenta pure un'idea, dove sono?... Dove la formola dell'epoca, il colore dei tempi ne' quali il fatto rappresentanto s'aggira? Dove il carattere dei luoghi nei quali è posta la scena?... Chi sa dirmi le diversità che oggi regnano tra la musica d'un dramma romano, e quella d'un dramma tratto dalle storie del medio evo; tra le melodie d'uomini del paganesimo, e quelle che suonano su labbra di personaggi cristiani? Chi sa dirmi perchè quell'attore si chiami Pollione e quell'altro Romeo? Chi può discernere nelle opere dei maestri la Roma repubblicana, la Roma togata, severa, rigida, guerriera, conquistastrice, dove ogni cittadino era grande di tutta la grandezza della sua Patria, dove la parola suonava rotonda, altera, decisa, interprete di un orgoglio di suolo che non concedeva allo straniero altro nome che quello di barbaro, interprete idi una fede nei destini della repubblica che non crollava per venti disfatte - dalla Venezia dei tempi di mezzo, dalla Venezia voluttuosa, spensierata, incauta, però misteriosa e tremenda, dove la vita si consumava tra l'amore e il terrore, tra un Palazzo e una Prigione?...
V'è pure come un'architettura, come una pittura, come una poesia, una espressione musicale per ogni contrada. - Perchè non istudiarla? Perchè non dissotterrarla dai frammenti che ne rimangono e giacciono ignoti nella polvere, degli archivi e delle biblioteche, dacchè nessuno pensa a raccoglierle, - e più ancora, dallo studio assiduo, profondo della indole, dei caratteri, dei fatti e dell'arte di ogni epoca, nelle diverse contrade?
E perchè, afferrato una volta il pensiero dell'epoca, il concetto dei tempi, non tradurlo in note, e versarlo come un'onda, come un'aura musicale, e dopo avergli dato più larga e formale espressione nella Sinfonia, che avrebbe sempre a far vece di prologo d'esposizione del Dramma per tutto quanto il lavoro? Certo, l'elemento storico non che sorgente nuova e sempre varia d'ispirazioni musicali, deve essere base essenziale a ogni tentativo di ricostruzione drammatica quando il dramma musicale cerca in epoche storiche i suoi personaggi. Per questo riguardo nulla è tentato; e mentre in questi ultimi tempi le lettere hanno progredito di un passo, e gli scrittori di drammi (non musicali) hanno intesa la necessità, (se non d'inviscerarsi nella storia e afferrarne lo spirito, la verità), di ricopiarne, non foss'altro, la parte materiale) la realtà, il dramma musicale si giace ancora nel falso ideale dei classicisti, rinnega, non la verità solamente, ma la storica realità, e - pochi eccettuati - i compositori di musica non sanno nè cercan sapere, se non quanto spetta direttatamente all'arte d'appiccare una melodia a un pensiero determinato.
L'individualità è sacra. Ma i tanti che travedono in essa il solo esclusivo elemento di tutte cose e di tutti lavori, i tanti che in Italia ed altrove hanno spinto tanto oltre la cieca venerazione a quel vero, ma insufficiente principio, da farla degenerare in individualismo gretto ed esoso - perchè almeno non gridano ai compositori di drammi per musica, che fra tutte le individualità, l'umana è sola inviolabile, e che, cancellandola nell'arbitrio di melodie che rappresentano concetti isolati, non uomini, è, violata insolentemente la legge d'ogni esistenza, calpestata l'unità dei caratteri, eliminata una sorgente altissima d'impressione poetica? -perchè non urlare la crociata addosso ai barbari che fanno dei loro personaggi monete battute a un conio, entità senza vita, fuorchè quella di tenori e di bassi, usurpatori di nomi sovente storici, che sul gran teatro terrestre rappresentano pure una parte, un intento, un'idea, e sulle scene dell'opera rappresentano voci e non altro?
Ogni uomo - e più evidentemente chi vien scelto ad attore in un dramma, - ha tendenze proprie, carattere proprio, stile proprio e non d'altri, è insomma un concetto che tutta una vita sviluppa. Perchè non sviluppare quel concetto in un'espressione musicale appartenente a quell'individuo, e non ad altri?
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«Perchè non valersi più frequentemente e con più studio dell'istrumentazione, a simboleggiare, negli accompagnamenti intorno a ciascuno dei personaggi, quel tumulto d'affetti, d'abitudini, d'istinti... che operano più sovente nell'anima sua... Perchè non più generi di melodia, dove sono più personaggi?
«Perché, col ricorrere a tempo di una frase musicale, d'alcune note fondamentali e piccanti, non tradireste la tendenza che più spesso li domina, l'influenza dell'organo che più spesso li sprona?... E perchè il coro, che nel dramma Greco rappresentava l'unità d'impressione e di giudizio morale, la coscienza dei più raggiante sull'anima del Poeta, non otterrebbe nel dramma musicale moderno più ampio sviluppo, e non s'innalzerebbe, dalla sfera secondaria passiva che gli è in oggi assegnata, alla rappresentanza solenne ed intera dell'elemento popolare ?...
«Perchè l'orchestra, coll'intrecciarsi di più melodie, di più frasi musicali, intersecate, combinate, armonizzate l'una coll'altra a interrogazioni e risposte... non costituirebbe quell'elemento di contrasto essenziale a ogni lavoro drammatico?...
«Perchè il recitativo obbligato... non assumerebbe nelle composizioni future maggiore importanza e tutta quella efficacia di cui è capace?».
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Ed ecco - dopo tanti interrogativi (e molti ne ho tralasciati) - la parola di speranza, anzi di certezza, che in Mazzini non manca mai.
«Il Genio, ingigantito dalla coscienza del fine, dalla vastità dei mezzi... sciorrà quel problema di lotta che s'agita da migliaia d'anni, tra il bene e il male, tra l'intelletto umano e la materia, tra il cielo e l'inferno... e ponendosi innanzi il concetto sociale, lo innalzerà - e questa è la missione serbata alla musica - ad altezza di fede negli animi, muterà le fredde ed inattive credenze in entusiasmo, l'entusiasmo in potenza di SACRIFICIO, ch'è la virtù.»
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Piene di fati e di presentimenti sono queste pagine del Mazzini, come lo sono tante altre sue, in diversissimi campi. Per quello che riguarda l'immediato avvenire, pare che - in molti tratti - preannuncino il Wagner dei Nibelungi, il Verdi di Nabucco e dei Lombardi, e la parte gloriosa che avrà la musica nella vita civile della Nazione durante il Risorgimento.
Per quanto riguarda l'avvenire più lontano, cioè i nostri giorni, bisogna invece riconoscere con rammarico, come ho già accennato che, se - all'infuori della coincidenza verdiana - il secolo XIX tutto intero fu completamente sordo e del tutto indifferente alla predicazione del Mazzini, anche i compositori italiani del XX secolo non tennero in alcun conto tale predicazione. Non dirò in quello che essa propone come più alto ideale: la funzione sociale dell'arte, il suo ufficio nello sviluppo della civiltà progressiva e nella elevazione dello spirito; ma anche in quel che concerne le osservazioni e i suggerimenti pratici, riferentisi al carattere, all'economia, all'architettura dell'opera d'arte, alle condizioni base necessarie alla sua nuova dignità e alla sua vitalità.
Tanto è vero che basta ripensare panoramicamente la produzione lirica di questa prima metà del XX nostro secolo per constatare che alla quasi totalità di essa possono essere rivolte, le censure del Mazzini; e per derivarne, amara riflessione, che proprio anche a tali deficienze organiche è dovuta la difficile vita che tanta parte di tale produzione ha avuto in questi decenni, e continua ad avere.
Se dunque dalle generazioni dei nostri Padri e dei miei coetanei non furono raccolti gli insegnamenti del Mazzini, è da augurare che essi siano finalmente raccolti, meditati e portati a buon frutto almeno dalle generazioni che seguiranno negli anni avvenire.
L'appello che ad esse rivolge Giuseppe Mazzini, questa grande anima di artista, si rivela ancor oggi del tutto efficiente, attuale, generosissimo di promesse.
«I giovani artisti s'accostino alle opere de' grandi della musica: dei grandi non di un Paese, d'una scuola o di un tempo, ma di tutti i Paesi, di tutte le scuole e di tutti i tempi. Non per anatomizzarli e dissecarli con le fredde e vecchie dottrine dei professori di musica, ma per accogliere in se stessi lo spirito creatore ed unitario che muove da quei lavori; non per imitarli grettamente e servilmente, ma per emularli da liberi. Santifichino l'anima loro con l'entusiasmo, come soffio di quella poesia eterna che il materialismo ha velata, non esiliata dalla nostra terra. Adorino l'arte, siccome cosa santa e vincolo fra gli uomini e il cielo.
L'ispirazione scenderà sovra essi come un angelo di pace e di armonia; ed essi otterranno la benedizione delle generazioni migliorate e riconoscenti, che val mille glorie, e le supera tutte di quanto la virtù supera le ricchezze; e la coscienza la lode, e l'amore ogni potenza terrena».
(*) Discorso tenuto nell'anteguerra nelle città di Milano, Roma, Buenos Aires, Cordova, Rio de janeiro, San Paolo, Parigi, Roma; nel dopoguerra: Roma, Pisa, Larino, Genova, Trieste, Venezia, Milano, Firenze, Napoli, Palermo, Bologna, Santa Margherita.