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ROMA 1942-XXI

PRIMA PARTE

SECONDA PARTE

TERZA PARTE








I

Napoli, luglio 1940-XVIII

È, certo, realtà indubitabile questa di oggi: come le nuvole temporalesche che corrono alte sul golfo; come questo, che vedo, eucalipto che si piega e stormisce nelle raffiche del vento; e quelle onde che, lontano, alla marina, si gettano sferzate dal libeccio sulla diga del piazzale Diaz e la imbiancano tutta di spuma. Eppure, dopo due mesi di guerra guerreggiata, ancora si stenta a credere a questa realtà, e si è ancora incapaci di misurarne la portata: tanto è grandioso e stupefacente l'evento che si va compiendo, a nessun altro paragonabile, dalla caduta dell'Impero Romano in poi. E parliamo di millequattrocento anni.

Ma fra l'antico e l'attuale si deve notare questo divario profondo ed eloquente: che, se il processo di decadenza e di disgregazione dell'Impero Romano durò, da Commodo e Settimio Severo a Romolo Augustolo, cioè dal 200 al 476, per duecentottant'anni, e fu determinato innanzi tutto dal non avere l'Impero Romano potuto fare, della forza del nascente cristianesimo, la sua propria forza; e poi fu affrettato dalla degenerazione interna degli ordinamenti e dei costumi, dalle invasioni barbariche condotte dagli Alarico e Attila, Odoacre, lo sfacelo dei due grandi Imperi che oggi sono in liquidazione per opera delle alleate Germania e Italia: quello spirituale e coloniale Francese, e quello strettamente esclusivamente grettamente coloniale e quattrinalo Inglese, non sarà durato - calcolando il Trattato di Versaglia e la ingratitudine della Francia verso di noi come fòmite della riscossa, e la nostra sfida alle proclamate sanzioni come la prima sassata del balilla ai vecchi, colossali, ciechi e sordi tiranni -non sarà durato dunque, questo sfacelo dei due Imperi mondiali, che quindici anni nella fase di preparazione, e otto o dieci in quella di esecuzione e di liquidazione. Miracolo grande, mai più visto nella Storia.
Ed avrà avuto come ultimo fatto determinante non già una collana di brutali invasioni barbariche, ma la marcia irresistibile, fatale, di una nuova civiltà rivoluzionarla e di una nuova concezione dello Stato e del Mondo: la civiltà, la concezione, la fede del Fascismo costruttore e fecondo di bene creato da Mussolini in Italia, e trapiantato e tradotto in Nazional-socialismo - con quella severità e, serietà di azione e di metodo che ne caratterizza la mente - da Adolfo Hitler in Germania.
Dopo questa guerra, possiamo credere che non avremo più - come dopo il 1918 - un solo ventennio di armistizio; ma anzi dobbiamo aver fiducia che ancora una volta sarà confermato il detto antico: «L'Impero è la pace»: quella pace che s'ebbe Roma nel primi due secoli del suo Impero, e che le moderne Roma e Berlino si saranno ben guadagnata dopo l'immane sforzo che oggi stanno compiendo.
Si può credere che sarà pace lunga e prospera; ma bisogna dir subito che dovrà essere anche duramente laboriosa. Non soltanto per coloro che dovranno materialmente potenziare e rendere attivo il conquistato Impero coloniale; ma anche per coloro che dovranno potenziare e affermare, guadagnandogli la giusta autorità, l'Impero morale e spirituale: compito specialmente grave e impegnativo, questo, per noi italiani e fascisti.
In quanto, dopo la vasta e spettacolosa e clamorosa caduta della Francia, e, con essa, del mito «Parigi-città luce», noi soli, italiani, potremo e dovremo rappresentare e costituire nel mondo e nell'Europa di domani il baluardo e la fiaccola, il centro di espansione e la linea di difesa, la mente suprema e la forza della latinità e della romanità.
Dell'arte, del pensiero, dello spirito, del gusto, della coltura classica, latina, romana.
Onore grande, onere grandissimo: a noi soli italiani, ormai riservati. E dovremo, ancora una volta, mostrarci degni del compito che il destino, forgiato da Mussolini, ci avrà affidato.

Non crediamo affatto contrariamente a quanto ritengono molti specialisti espertissimi delle vite e delle crisi dei popoli e dei regimi - che la Francia potrà riaversi senza troppe difficoltà e in tempo relativamente breve del gravissimo colpo che l'ha gettata a terra. La catastrofe della Francia non è un fatto accidentale, come di uno che incèspica e cade: è la ineluttabile logica conclusione di un lungo processo di decadimento fisico morale spirituale e politico al quale tutti i francesi hanno pazientemente e volonterosamente collaborato per lunga serie di anni: è il completo fallimento dei «sacri principi» della rivoluzione dell'89, e dei loro modi e metodi di applicazione, e del clima morale che da essi principi, e dalle loro degenerazioni, fatalmente derivò, avvelenando tutta intera la Nazione.
I «sacri principi» furono dichiarati e riguardati dal francesi - e pare lo siano ancora - come «intangibili». Ma non valsero a rendere intangibile l'anima della Francia, che ne rimase uccisa.

***
Una caduta così vasta e clamorosa, nella quale la disfatta militare non rappresenta che l'ultimo episodio, il più spettacolare e impressionante, di una tragedia che - sovente sotto l'apparenza della commedia e della pochade - durava da decennii, e che agli occhi attenti e sensibili presentava sintomi evidentissimi specialmente nel campo dell'Arte e dello Spirito (che sono le Sibille profetesse del nostro tempo: infallibili a chi sappia ascoltarne la voce e intenderne i responsi); una caduta così totale e così fatale implica un'altrettanto grave caduta del prestigio di cui la Francia godeva ancora, indubitatamente, in ogni forma di attività, presso molti popoli, specialmente d'oltre oceano; presso molte nazioni anche d'Europa; presso molti individui anche nati e cresciuti sul suolo dell'Italia bella.
***
La «Ville Lumière», perchè poi tutto si condensava e si limitava ad essa: il rimanente era tutto «provincia», aveva perduto in questi ultimi anni alquanto delle sue energie di illuminazione, e parecchi dei suoi poteri di attrazione; ma continuava ad essere chiamata - e ad essere considerata pur sempre, dal popoli dalle nazioni dagli individui che si è detto, la «Ville Lumière». E, sebbene proprio in essa si fossero ultimamente trasferiti - come nell'unica ridotta superstite -, e sebbene da essa traesser ancora e Verbo e Cifra - come dall'unico tempio ancora frequentabile - i propulsori e i difensori, i produttori e gli impresari, i Maestri e i discepoli, di tutte le esperienze, di tutte le «tendenze» e delle «mode» negative nichiliste e bolscevizzanti nel campo dello spirito e in quello di tutte le arti, cioè di tutte le espressioni più antitetiche e avverse a quello che è il carattere dello spirito dell'arte e della coltura classica e latina e romana, pure, in onta a tutto ciò, la «Ville Lumière» era ancora considerata da molti, anche in questi ultimi anni, come faro non soltanto della civiltà europea e mondiale, ma anche come faro e emblema e posto avanzato e difesa della civiltà latina e romana e classica: che è come dire della civiltà per antonomasia, della madre di tutte le civiltà.
Questo grande ufficio, questa imponente funzione di equlibrio, dì forza motrice, di antica benefica luce che Parigi immeritamente detenne, per forza di abitudine e per la lentezza di certi processi, in questi venti anni di armistizio che seguirono la Grande Guerra, e che con l'avvento del Fascismo, col progressivo affermarsi e irradiarsi, da Roma, di quello che è il vero spirito della latinità e della romanità, già incominciava a spostarsi verso la sua vera e unica legittima sede, che è mediterranea e tirrenica, sarà con la caduta senza rimedio del tutto dimesso.
Lo stesso affettuoso e premuroso sbandamento, le medesime vivacissime sterzate ai quali abbiamo assistito nel campo politico da parte di Stati e Staterelli che si muovevano fino a ieri nell'orbita della democrazia francese, noi li vedremo nelle tendenze e tendenzuccie che rotavano sui figurini dello snob parigino. La «Ville Lumière» cesserà di dare la sua luce illusoria, e non avrà più autorità per concedere, nel campo dello spirìto, diplomi e brevetti di grandezza.
Luce vera e potente, brevetti autentici di grandezza potranno essere dati da Roma e dall'Italia che - già avviate a questo negli ultimi anni - ora rappresenteranno, da sole, nel mondo, di fronte a tutte le altre stirpi, quello che vi è di più provato e augusto e sicuro ed eletto ed eterno: il gusto, la coltura, lo spirito Latino e Romano.

II

Compito altamente onorevole e altamente oneroso quello che spetterà all'Italla nel dopoguerra: di rappresentare e difendere e affermare da sola, nell'Europa rinnovata e nel mondo, il gusto, la coltura, lo spirito Latino e Romano. E una eredità che noi italiani e fascisti dobbiamo accettare, dopo la caduta della Francia, senza il beneficio di inventario, e che implicherà, specie nei pnmì decenni, assai più doveri che non diritti.
Dobbiamo accettarla senza il beneficio d'inventario perchè guai se dovessimo valutarne la effettiva consistenza: ci accorgeremmo presto che, come nel campo morale e poltico e militare, anche in quello spirituale bisognerebbe concludere con un «inventario di liquidazione»: tanto si è allontanata la Francia dell'ultima repubblica dalle grandi vie della salute e della civiltà latina: tanto sono degenerati suoi costumi.
***
Sarà dunque un Misogallo in disadorna prosa il ragionamento al quale ci stiamo avviando? e non, allora, materia più confacente ad un politico che non ad un artista? Ma, innanzi tutto, agli artisti italiani spetta per tradizione secolare il diritto di guardare, oltre al confini dell'arte che praticano, al mondo che li attornia e nel quale vivono e operano. Questo diritto, che si sono sempre preso, diventa poi oggi un preciso dovere, anche se scomodo al loro propri interessi personali, anche se possa «compromettere», nell'avvenire, qualche campo d'azione alle loro attività professionali. Fa parte dello stile «vivere pericolosamente», voluto da Mussolini e dell'orgoglio, che è oggi di ogni italiano: di rischiare ciascuno, per la causa comune, quello che può: tu, Maner, con il tuo aereo da combattimento; tuo padre, con i suoi molto terrestri penna e pentagramma che furono sempre anch'essi, e sono, da combattimento.
Superata dunque, se vi fosse, ogni pregiudiziale di «diritto» e di «competenza» (ma sarebbe un bel vedere, a questi chiari di luna) perché, può domandarsi qualcuno, prendersela con la Francia e sceglierla a bersaglio? Son così recenti e cocenti le cronache, che basterà ricordare i titoli degli ingloriosi capitoli: l'intelligenza, la coltura, lo spirito, quanto v'era di più alto e nobile e personale nel grande complesso delle grandi tradizioni spirituali francesi, tanto superiore per ogni riguardo alla mediocre statura della intelligenza e della spiritualità anglosassoni, e perciò tanto più carico di responsabilità verso il patrimonio della civiltà europea, soggiogato da Londra, asservito, da Versaglia a Stresa, dalle Sanzioni alla crisi di Danzica, agli interessi inglesi; che vuol dire tradimento dell'Europa e causa prima dello attuale universale sconquasso. Sarebbe bastato che, invece che all'Inghilterra, la Francia si fosse legata come avrebbe dovuto, all'Italla: e avrebbe provveduto alla sua propria salvezza e la Storia avrebbe avuto altro corso.
Questo atteggiamento, poi, già così grave di colpe imperdonabili, appare ancor più colpevole e nefasto quando sia considerato da noi italiani. Perchè alla base di esso, come prima sorgente di tanto veleno e di tanto male, stanno i più abietti, i più miserevoli sentimenti di cui sia capace l'umanità: l'invidia, la gelosia, la presuntuosa incomprensione, il disprezzo larvato o ostentato, l'incredulità, la cecità di cui il basso mondo politico francese - basso, ma predominante, sì da essere guida ed espressione della nazione - fece oggetto l'Italia, specialmente in questi ultimi venti anni di rinascita del nostro Paese. Quel certo sonetto in cui il Du Bellay dichiarava il suo odio contro i fiorentini, i senesi, i ferraresi, i lombardi, i napoletani, i genovesi, i veneziani, i romani, sembrava diventato parola d'ordine, ago della bussola, per la Parigi politica 1919-1939. La Rome ridicule di Saint Amant, il Virgile travesti di Scarron, il Parallèle des Anciens et des Modernes di Perrault, le piacevolezze di Lamartine, la Roma Vaincue dello Scudery trovarono, in questi ultimi venti anni, innumerevoli imitatori, illustratori, plagiari, amplificatori.
Perchè tanto odio contro di noi? Perché, agli occhi della decadenza, della mollezza, del materialismo, della sterilità (in ogni campo) francesi 1919-39, apparivano intollerabili la fecondità, la fede in un ideale nazionale, la laboriosità, la crescente forza, il coraggio, la decisione, lo spirito di rinnovamento in ogni campo di cui dava prova l'Italia guidata da Mussolini. L'odio e l'invidia dell'impotente contro la virilità ben dotata; dell'aspirante suicida contro chi mostra in tutti i modi di amare la vita e di credere in essa.
Questo è il fondo di bassi sentimenti che rende particolarmente colpevole (per quanto gia, in parte, duramente scontato) l'atteggiamento della Francia verso di noi; questo è il «patrimonio» spirituale morale e politico che oggi non potrebbe condurre che ad un inventarlo di liquidazione, posto che lo si volesse fare.
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Ma facciamolo, un poco di inventarlo: per riconoscere il paesaggio e per non aver l'aria di rifuggire dal guardare in faccia la realtà. E incominciamo dalla musica.
La vita musicale parigina, mi disse luna volta un francese, è tutta questione di cliques e di claques. Un viennese, a Vienna, un cecoslovacco a Praga, un olandese a Amsterdam mi avevano detto la stessa cosa; in ogni altro paese del mondo, forse, è la stessa cosa. E, a guardar bene, la differenza fra Parigi e le altre grandi capitali europee non è che questa: che qui i gruppi sono più vivaci e combattivi, scompaiono e si rinnovano di continuo, e che - come si conviene ad un Paese di grandi tradizioni e di grandi esperienze - possono coesisterne molti, invece dei soliti uno o due (si evitano, così, le troppo crude violenze e tirannie, e le troppo sconcie soperchierie); e illudersi, ciascuno, di tenere la barra e di guidare il cammino dell'arte. In realtà, l'arte continua però anche in questi ultimi vent'anni di amorosi conversari internazionali a calci sotto la tavola - il suo cammino più o meno diritto, in onta alle cliques e alle claques che vorrebbero spingerla tutta a dritta o tutta a manca; e il pubblico, in complesso, di questi timonieri se ne infischia.
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Sono passati i bel tempi in cui tutta Parigi si divideva in due campi, a proposito di un'opera buffa italiana, e scoppiavano battaglie artistiche memorabili per Gluck e Piccinni, e nelle lotte di tendenze e di idee eran tirati in ballo anche il Re e la Regina.
Sopraffatta dalla civiltà meccanica in questo secolo delle grandi invenzioni e scoperte, la musica ha dovuto appartarsi; la sua vita si è ristretta, le sue vicende immiserite. Queste cliques e claques, queste società di mutuo incensamento che si sforzano di accaparrare l'intellettualità parigina e che il più delle volte non fanno dell'arte, ma dello snobismo, sono certamente rette con uno spirito gretto e astioso verso i non affiliati, molto deplorevole e del tutto anti-artistico; ma possono essere spiegate in parte, come fenomeno storico, dall'isolamento in cui è lasciata l'arte nel mondo moderno. Si pensa, a considerarle, che se Goldoni vivesse oggi i suoi ultimi giorni di miseria e se non appartenesse a nessuna di queste cliques, nessun Andrea Chénier farebbe ressa alla tribuna della Convenzione Nazionale per chiedere un aiuto, sia pure tardivo, a favore del glorioso ottuagenario. Si pensa che se Berlioz, tutto indipendenza, fuoco e impulsività, vivesse oggi accanto (e in onta) a queste combriccole tutte impaccio, calcolo e compasso, avrebbe vita ancor più difficile di quella che ebbe; e che Paganini sarebbe indotto da qualche buon consigliere a spendere «meglio» i ventimila franchi da lui donati all'autore di «Aroldo».
È superfluo poi, aggiungere che fra i gregari come fra i condottieri di questi attivissimi manipoli, lo spirito di coesione e di assistenza è tanto forte, quanto sono irrefrenabili, fra i musicisti e gli artisti «indipendenti», gli istinti del fraterno reciproco siluramento e il pio desiderio di far bistecche del caro collega.
In ogni modo a Parigi, al di sopra delle cliques e delle claques, c'è Parigi. Ed è questo, dopo tutto, che conta.

III

È impossibile, così in un articolo come in dieci, fissare la fisionomia musicale di Parigi dai mille volti e dai gusti mutevolissimi. Occorrerebbe, a questo, un diario per ogni centro intellettuale della metropoli (cinematografia dunque, non fotografia); e sarebbe difficile tenerlo aggiornato perfettamente. Per ciò che riguarda la storia delle mode di questi ultimi venti anni - poichè il più delle volte non si tratta che di mode - la produzione di alcuni compositori molto ossequienti ai figurini delle varie stagioni può servire da album ricordo. Oltre a ciò, non è possibile parlare di musica, in Francia, senza tener d'occhio la letteratura.
Anche in questo l'Italia fu maestra alle altre Nazioni, e si è, poi, lasciata prender la mano. Un'altra posizione da riconquistare: un'altra luminosa tradizione da rinverdire. Dal letterati di casa Bardi a Firenze, allo Algarotti e al Calzabigi, molte volte, a casa nostra, è stata la letteratura a dare lo spunto o ad assistere le evoluzioni e le rivoluzioni dell'arte musicale. Ma, col volgere dei tempi, i letterati italiani si sono del tutto disinteressati della musica e - scomparso d'Annunzio - oggi non ce n'è uno, dei nuovi, che ne parli come di cosa viva e degna di passione e di battaglie.
Anche Massimo Bontempelli, anche Marco Ramperti, che una volta lo facevano con tanta finezza e con tanta sensibilità di spirito, oggi se ne astengono ed è male. Non è rimasto che Bruno Barilli; ma lo fa per ragioni puramente salutiste e di ghiottoneria: perchè la costituzione fisica e la natura dei succhi gastrici gli impongono di consumare, ogni giorno, una tartina di direttore d'orchestra a colazione, e un fumo d'arrosto (è risaputo che l'arrosto non lo trova mai) di moderno compositore italiano a pranzo. Egli - così si afferma - non si nutre d'altro.
In Francia, invece, ecco, dopo J. J. Rousseau che prende violentemente partito per la «Serva padrona» di Pergolesi nella lotta fra buffonisti e antibuffonisti, gli Enciclopedisti gettarsi nella battaglia fra Gluck e Piccinni: ecco - dopo un trentennio di assoluto disprezzo dei letterati naturalisti e romantici per la musica, al quale corrisponde un periodo di completa apatia musicale - Baudelaire, Mallarmé, Verlaine farsi sostenitori dell'arte wagneriana e portare già in se (strana concomitanza e contrasto) i germi poetici e la atmosfera ideale che avrebbero aiutato, più tardi, la reazione antiwagneriana di Claudio Debussy; ecco, oggi, innumerevoli letterati che scrivono di musica e di musicisti vecchi e nuovi, grandi e Piccoli, con arte, con sensibilità, con spirito grandi: tessendo biografie più belle di romanzi, pubblicando libri che sono assalti alla baionetta, spendendo generosamente fatiche e ingegno per scuotere la troppo coltivata pigrizia del pubblico e per sbandierargli dinanzi agli occhi qualche opera mal nota o qualche artista misconosciuto: Marcel Proust, Jean Cocteau, C. De Pourtalès, A. Kolb, R. de Saussine informino.
Al di sopra delle chiesuole, è questa ricchezza di rapporti fra musica, letteratura e, si può e sì deve aggiungere, arti figurative, che fa di Parigi 1900-1939 la città d'eccezìone, dove ogni avvenimento acquista subito una risonanza straordinaria, dove ogni tentativo è permesso e trova i suoi sostenitori, dove ogni idea ha i suoi seguaci, ogni gesto il suo riflesso, dove insomma tutto quello che è vita nuova e fervida, e anelito di movimento e tentativo di vera o falsa audacia, trova cento altri sfoghi.
Perchè la curiosità è sempre in atto, e gli spiriti, nella continua vicenda di giorni sempre diversi, si mantengono liberi e svegli; e quel che è respinto dal teatro di Stato è accettato dal teatro fuori legge o dal gruppo letterario o dalla rivista d'arti figurative. Perché, infine, questa è la vera «fu» grandezza di Parigi.
***
Certo, gli entusiasmi, glì amori, gli odii non sono più roventi e diffusi come dovettero essere in altri tempi. I belli abbandoni romantici di un Berlioz che comprava di sua tasca biglietti di teatro per trovar proseliti ad un'opera di Gluck; che sollevava scandali alle recite della Vestale di Pacini; che meditava di far saltare in aria il Teatro italiano con tutta la sua popolazione rossiniana, per amor di Spontini, non hanno riscontro alcuno nel nuovi musicisti e nelle nuove società musicali della metropoli. Un poco della freddezza e della impassibilità della macchina moderna e, certo, entrata in quelli e in queste. Si ascoltano, in alcuni circoli estremisti, musiche atroci senza batter ciglio: si loda e si biasima con la stessa fondamentale indifferenza; molte volte, compositori e pubblico hanno l'aria di'trovarsi d'accordo su questo solo punto capitale: «ma non è una cosa seria». Sembrano diplomatici alla Conferenza dell'Aja invece che amanti e cultori di un'arte elettrizzante come la musica.
È in tali casi che l'italiano vero sente la sua felice... inferiorità dì provinciale sano in confronto di questi malati cittadini di Parigi: l'italiano che, se si annoia, sbadiglia da slogarsì le mascelle; se gli piace, applaude; e se proprio non glì va, è anche capace di fischiare, secondo la gloriosa usanza dei suoi vecchi.
O dove la vanno a pescare tanta flemma, costoro? Nel galateo dell'Internazionale dell'Arte? In un inconfessato fondo di cinismo e di indifferenza? Nel decalogo del perfetto snob?
La medesima, strettissima, intimità di rapporti - non soltanto contemplativi e ideali, ma operanti sia nel campo della propaganda che in quello della creazione, sia nel campo della critica che in quello della polemica - che si è visto esistere nella vecchia Parigi fra musica e letteratura, esiste di fatto anche fra musica e arti figurative, e fra arti figurative e letteratura. L'ambiente spirituale, il mondo morale sono quelli, e arti e lettere compiono il loro ufficio normale, di preannunciarne i movimenti o di rifletterne i caratteri. Il fenomeno, come indice di un mondo spirituale non è limitato alla Francia; è diffuso in tutte le nazioni di alta civiltà artistica, è antico e risaputissimo; e qui si può ripetere, col Taine, che l'arte non è, propriamente parlando, che lo storico veridico e imparziale dei fatti intimi della vita dei popoli e degli uomini, in quanto precede o accompagna o segue, le variazioni e le rivoluzioni, i periodi di stasi e quelli di movimento dello spirito umano. Barometro e termometro dell'ambiente spirituale e intellettuale di una nazione o di un mondo, di un'epoca o di un'èra.
Superflua ogni dimostrazione.
Ma voglìamo - per sfiorare appena un argomento al cui compiuto studio occorrerebbero volumi - convincerci di quale stretta parentela corra fra le manifestazioni delle varle arti -musica, lettere, figurative - fermandoci solo per poco sul più importante e fecondo momento artistico che trovò il suo più vasto e fertile terreno d'azione in Francia, e che precedette la guerra mondiale 1914-1918?
Ripensiamo ciò che un poeta di famiglia bretone, nato nell'Uruguai e vissuto a Berlino (osservatore più «cittadino del mondo» di questo credo che non si possa trovare), intendo Giullo Laforgue, scriveva dell'occhio accademico e dell'occhio impressionìsta; e potremo quasi integralmente applicare il ragionamento dello scrittore anche alla musica. «Insomma l'occhio impressionista è nella evoluzione umana, l'occhio più progredito, quello che sino ad ora ha afferrato e rappresentato le combinazioni più complicate di sfumature. L'impressionista vede e rappresenta la natura tale qual essa è: vale a dire, unicamente in vibrazioni colorate. Nè disegno nè luce, nè modellato, nè prospettiva, nè chiaroscuro - classificazioni infantili -: tutto questo si risolve in realtà in vibrazioni colorate, e deve essere ottenuto sulla tela solo per mezzo di vibrazioni colorate. Il tutto è una sinfonia, ch'é la vita vivente e varia».
E cosa scriveva il nostro Medardo Rosso, il più grande scultore che l'impressionismo abbia avuto?... «Quando io faccio un ritratto, egli scriveva, non posso limitarlo alle linee della testa, perchè questa testa appartiene ad un corpo, si trova in un ambiente che esercita un'influenza su di lei, fa parte di un tutto che non posso sopprimere. L'impressione che tu produci in me non è la stessa che se ti scorgessi solo in giardino o ti vedessi in mezzo a un gruppo d'altri uomini in un salotto, o per la strada». Egli aveva gia detto «Nella natura non vi sono limiti; cosi non possono essercene in un opera».
Cosa disse, un giorno, Maeterlinck, parlando del suo modo di intendere il teatro?... «Io spero di vedere la mia vita riallacciata alle sue sorgenti e al suoi misteri con legami che non ho l'occasione nè la forza di vedere tutti i giorni».
E cosa disse Debussy? «La musica, disse, è un complesso di forze sparse... e se ne fa una corbelleria speculativa. Io preferisco poche note di flauto d'un pastore egiziano: egli collabora al paesaggio e sente le armonie ignorate dai nostri trattati... I musicisti non ascoltano che musica scritta da mani abilissime; mai quella che è inscritta nella Natura. Vedere levarsi il sole, è più utile che ascoltare la Sinfonia pastorale».
Guardando alla sostanza cioè all'essenza spirituale della pittura del Corot - l'Adamo degli impressionisti, nonno di tutti, come lo chiamano - e Manet e Pissarro e Cézanne e Sisley, si vedrà che, come per la musica di Debussy e dei suoi epigoni, si tratta precisamente, come diceva il Laforgue, di un altro modo di guardare e di intendere il mondo e la natura circostanti. È la interpretazione di tutto ciò, per via di vibrazioni cromatiche o sonore. Anche qui tutto è una Sinfonia, ch'è la vita vivente e varia. E vita, perchè ha alla sua base l'emozione, e perchè, a stimolare e ad accendere il genio artistico, è stato finalmente scoperto, dagli artisti nuovi, un campo fino a ieri ignorato, o disprezzato.
«L'idea nuova e profonda - non ricordo chi l'abbia detto; ma è esattissimo - è quella che ci colpisce là dove noi siamo ancora vulnerabili, cioè là dove l'indurimento e l'anestesia prodotti dal ripetersi abitudinario e meccanico di azioni, di fatti, di concetti lascia ancora sussistere qualche lacuna».
In questo caso l'idea nuova era - per i pittori come per i musicisti e i poeti - il ritorno alla realtà della natura, all'istantaneità dell'impressione, alla semplicità e sincerità dell'emozione. E se il paesaggio all'aria aperta era stato il primo teatro dei pittori impressionisti, le piazze e i giardini di Spagna, le spiagge d'Inghilterra, il mare, le nuvole, le feste popolari sono teatri di Claudio Debussy; e i Mallarmé, Verlaine, Villiers de l'Isle Adam, Laforgue, Rimbaud, sono i poeti e i letterati dell'uno e degli altri: altra prova, se occorresse, della coerenza, anzi dell'unicità delle correnti spirituali che avevano dato origine e sviluppo ad una così lmponente rivoluzione di tutte le arti.

IV

La digressione - che aveva soltanto lo scopo di insistere sulla evidenza della parentela e del parallelismo dei grandi, autentici movimenti artistici (da non confondere con le mode e con i dirizzoni efimeri), e sul concetto che essendo, quelli, espressioni di uno stesso ambiente spirituale, parlare di un'arte è come parlare di tutte - non sarà stata inutile al nostro ragionamento-base se ci attarderemo ancora un poco a ricordare, per sommi capi, quello che accadde nel mondo delle arti dopo l'impressionismo, cioè negli anni che precedettero la grande guerra mondiale, e in quelli della falsa pace: negli anni 1918-1935, dell'armistizio inquieto e tormentato; trovando in Parigi-Ville-Lumière il maggiore e piu attivo centro di risonanza di propaganda e - in molti casi - di infezione.
Già intorno al 1910 (il mondo spirituale presentiva l'avvicinarsi di una grande crisi), l'impressionismo percorreva la sua parabola discendente. Si verificava, nel campo della pittura, una violenta reazione contro l'imprecisione di disegno dei Sisley, dei Pissarro, dei Claudio Monet. Alla morbidezza, alla vaporosità degli impasti, alle forme inconsistenti si volle sostituire il rigore inflessibile delle forme geometriche.
Cézanne, che pure aveva militato tra gli impressionisti ne conclude il ciclo, ed incomincia a sostenere che tutte le forme non sono che cilindri, o sfere; i futuristi italiani sostengono, con lui, principi simili; incominciano le prime esperienze. Picasso, che come Cézanne ha nelle origini sangue italiano nelle vene, e che nel 1903 aveva dipinto La soupe e la Femme assise, già lontano molte miglia dall'impressionismo, ma altrettanto lontano dalla geometria, poco più tardi è in pieno cubismo; e nel 1909 dipinge il Mulino da olio, nel 1910 La ragazza dal braccio alzato, nel 1911 La bottiglia di rhum.
Da questo movimento nasce, fra noi, la pittura futurista; in Francia, la pittura cubista: che ha fra i grandi condottieri Picasso.
Non sono la stessa cosa, bene inteso: i futuristi italiani si affrettano a chiarirlo nella Prefazione-Manifesto al Catalogo della 1ª Esposizione di Parigi del 1912: «Pur ripudiando impressionismo,noi disapproviamo energicamente la reazione attuale, che vuole uccidere l'essenza dell'impressionismo, cioè lirismo e movimento. Non si può reagire contro la fugacità dell'impressionismo se non superandolo».
Non sono la stessa cosa.
Il cubismo, dice un altro italiano, il Boccioni, ha distrutto la fluidità impressionista, ma è tornato ad una concezione statica permanente della realtà; il futurismo sostiene invece che il contorno e la linea non esistono se si considerano come fissi per la determinazione dei piani che includono. Le linee e i contorni esistono come forze sprizzanti dall'azione dei corpi.
E, per chiarire la ragione per cui in un quadro, per esempio, dopo aver dato la spalla o l'orecchio destro di una figura, i futuristi trovano inutile dare ugualmente la spalla e l'orecchio sinistro della stessa figura, è curioso e particolarmente interessante per il nostro argomento ricordare che nel loro manifesto tecnico i futuristi ricorrono ad un paragone musicale. Essi dicono: «Noi non disegnamo i suoni, ma i loro intervalli vibranti. Non solo noi abbiamo abbandonato in modo radicale il motivo interamente sviluppato secondo il suo movimento fisso e quindi artificiale; ma tagliamo, bruscamente e a piacere nostro, ogni motivo, con uno o più altri motivi di cui non offriamo mai lo sviluppo intero, ma semplicemente le note iniziali, centrali o finali».
Insomma, se i pittori impressionisti avevano finito col diluire forme e colori in una nebbiolina amorfa ed evanescente, però sempre fisica (il colore è la loro ossessione, come il colore, e l'azzurro precisamente, era stata l'ossessione di Mallarmé, come il colore era stato, in fondo, la ossessione di Debussy: fisica, dunque, e non romantica), i futuristi tendevano alla sintesi della forma e al simboli dinamici con le cellule tematiche, per dirla in musica, e con le linee forza; e i cubisti riaffermavano i diritti della forma con figure cubiche o sfaccettate, con cilindri e coni violentemente modellati, e duri e rigidi.
Svanita l'ossessione del colore, ecco l'ossessione delle masse e dei volumi.
Si arriva così, talvolta, a risultati apparentemente raccapriccianti. Dico apparentemente perché io non m'intendo abbastanza di pittura, per potere pronunciar giudizi in proposito. Ma c'è un esperto che può aiutarmi. Ricordate come Anselmo Bucci illustra i risultati di questa, e di altre tendenze catastrofiche, che egli chiama Accademia del mezzo lutto, (ed io più di una volta gli ho tolto a prestito la definizione graziosa ed eloquente per parlare delle nostre, di noi musicisti, Accademie del mezzo lutto) nel Secondo e Terzo Corso della medesima:

SECONDO CORSO:
Perdio, santi numi,
Non farmi arrabbiar
Le masse, i volumi
Tu devi adocchiar
Le masse, i volumi
Tu dei conquistar
Le masse, i volumi
Tu dei sviscerar.

Ritornello:
Dei sventrare i volumi e le masse
Se hai desir che all'esame tu passe;
Sii, nel fare, feroce e robusto;
Prova: prima dà pena: poi gusto.

TERZO CORSO:
Hai tracciato la statua
Come t'è parso. Bene!
La patata d'America?
Già vedo.... è il cranio. Bene!
E questa teleferica?
Scusa... è la schiena. Bene!
Vedo una mano sferica
E l'altra è assente... Bene!

Ritornello:
Quanto è bella giovinezza
Che disegna tuttavia!
Chi vuol essere pittor, sia!
Farà strada con certezza!
Quanto è bella giovinezza
Che dipinge tuttavia!
Vogliamo ascoltare un altro pittore che, come il Bucci, sa molto bene tenere anche la penna in mano? Ecco una pagina di Cipriano E. Oppo: «Quanti artisti stranieri vivono a Parigi? Che cosa facevano e come erano giudicati nel loro Paese? Meno rarissimi casi, questi giovani non hanno fiducia nell'intelligenza, nella coltura, negli affari del proprio Paese. Condannano la loro Patria che giudicano o troppo vecchia, o troppo giovane, o troppo povera, o troppo contadina, o troppo tutta di un colore.
«Là, tutti all'enorme calderone, nel "jazz" mostruoso, ove la coscienza si addormenta, non ha dubbi, non ha tempo per averli; dove cadono i pregiudizi della razza, della tradizione; dove non importa affaticarsi a dire interamente il proprio pensiero, perchè esso è già nell'arla e viene assorbito e digerito a volo dalle ultime generazioni del millennio che vide la grandezza senza confronti dell'arte italiana.
***
«Quest'arte logoratissima, fine di millennio, ha qualcosa di pauroso. Fatta di mezze parole, di cose mormorate, singhiozzate, di intenzioni lanciate di schiocco, come l'acrobata lancia il suo suggestionatore «voilà» nell'atmosfera vuota e sospesa del trapezio, quest'arte-logogrifo, sciarada dalle mille soluzioni, arte-giuoco di facile scoperta, di truffaldina sorpresa; quest'arte-licenza nella quale sublime fa rima con ignobile, profondo con superficiale; arte caffè-concerto, quest'arte egoista, sconsolante e amara, ha certamente le sue attrattive, e, fra tanti stracci e trucchi, i suoi lati veri e vivi. Ma è un vivere al margini della vita, sull'orlo del suicidio.
E più avanti - e qui Oppo tocca il lato meno simpatico della triste commedia - il lato «affare» e «speculazione» tentati e molte volte perpetrati al danni dell'arte, dell'interesse nazionale e dei gonzi che abboccano: «La scuola, di Parigi: negri, cinesi, giapponesi, russi, turchi, balcanici, spagnuoli, americani, tedeschi, Polacchi e italiani: tutti a tentare la curiosità e la sete inesausta di novità, il capriccio dei francesi. I quali ripagano con la ricchezza e la maestria del mercato. E il mercato richiede varietà e continuo rinnovamento della merce. E un giro vizioso. Sicchè tutte queste aspirazioni all'arte pura, all'arte essenza, all'arte antiborghese, antiaccademica, si riducono a cercare il successo. Tutto sta a indovinare il «tipo» che vada, e se ne impianta subito la «serie»...