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LUIGI MARIA PERSONÈ

LA POESIA DRAMMATICA DI ADRIANO LUALDI

Il problema dei rapporti fra librettista e musicista, fra poesia e musica è ormai frusto: ed è frusta anche la soluzione alla quale con più o meno chiarezza definitrice, ha dato luogo: eppure non si può fare a meno di riportarvisi, di renderlo quasi attuale, tutte le volte che ci si trova con un musicista che si è scritto, da sé, i libretti delle sue opere.
La cosa diviene addirittura fatale, quando non si tratta tanto di studiare o capire il segreto (e l'arte) del musicista, quanto quella del librettista.
Dunque nulla di più naturale che io, accingendomi a studiare i libretti di Adriano Lualdi, sia tornato con lui sulla vecchia questione, e gli abbia chiesto per esempio, per prima cosa:
- Qual è la sua opinione, Maestro, sui rapporti che intercorrono fra il poeta e il musicista; fra chi ha l'idea poetica (volgarmente e impropriamente, si dice, l'argomento) e colui che deve esprimerla in musica?
La reazione del maestro Lualdi, che è un artista e non un filosofo o studioso d'estetica, m'interessa. Ma Lualdi abilmente ricorre al giudizio che Salvatore Cammarano, espresse a Verdi in una lettera dell'11 giugno 1849: «Se non temessi - scrive - la taccia di utopista, sarei tentato a dire che per ottenere la possibile perfezione di un'opera musicale, dovrebbe una mente sola essere autrice dei versi e delle note». Ma al Lualdi questo giudizio non basta, egli spara ancora più grosso e si rifà a Giuseppe Mazzini.
Mentre il Lualdi mi discorre, siamo forse all'opposto: ché, oggi, il libretto è parte integrante dell'opera musicale, e diventa quindi anche un coefficiente importante del suo successo. Semmai osservo che, nel caso del Lualdi, al libretto si attende, oltre che per i legami (e la parola sarà qui impropria) con la musica per fini di spiccato ordine letterario. Si arriva al punto che si può studiare il libretto del Lualdi a sè, indipendentemente dalla musica come espressione compiuta del sentimento dello scrittore, della sua esperienza e della sua commozione di artista: e ciò è ancor più evidente nelle opere che parrebbe dovessero trar motivo da altri testi; nella capacità di servirsi dell'occaFione che gli si presenta, alla lettura di un poeta, per dichiarare quanto ha dentro di sè, ossia per esprimere i suoi motivi originali, assimilando o ricreando gli spunti o i pretesti estranei.
IL DIAVOLO NEL CAMPANILE
Questa osservazione vale soprattutto per Il diavolo nel campanile (1924) che ha il suo pretesto in un racconto di Edgard Allan Poe intitolato Il diavolo nella torre, e ne La luna dei Caraibi, che ha il suo pretesto nell'atto unico di Eugene O'Neill. L'invenzione del Poe è originale e bizzarra: ma al Lualdi serve per mettere in moto la sua fantasia, per svegliare il suo estro secondo l'indole della sua sensibilità e del suo temperamento.
In fondo, il racconto del Poe equivale a un grande scenario, determina una speciale atmosfera, ma lascia alquanto sbiaditi i personaggi, o meglio mette la sordina ai loro pensieri e soprattutto ai loro sentimenti. Il Lualdi si è interessato specialmente a questi sentimenti: in quell'ambiente e in quel clima ha sentito (e ha espresso) soprattutto l'amore.
L'ambiente è quello, la legge è quella: eppure nei versi del Lualdi penetra uno spirito diverso, come se la molla scattasse differentemente.
L'ora, il sistema e il metodo
son la felicità,
d'ogni velen l'antidoto
in te, orologio, sta;
la tua lancetta è l'arbitra
di nostra lieta età.
Se si guarda bene, il motivo o l'interesse principale qui è per la felicità: e si parla di una lancetta che è l'arbitra di ogni letizia. Ma se è l'arbitra si smentisce l'impietrita o inflessibile disciplina, si ammette qualcosa che l'alteri o la sovverta.
Arbitrio è, infatti, l'opposto della regola e della legge. Questa osservazione ci illumina sulla speciale posizione spirituale e critica del Lualdi: e ci fa capire qual è il suo animo e quale la sua mentalità. Mentre il Poe fa sul serio, e sembra che creda seriamente, il Lualdi accenna, fin dalle prime battute, un particolare sorriso, una sua ironia; e perciò qualche volta si risente, addirittura spiccato, un tono di satira che il racconto del Poe non ha. Qualche volta si può cogliere anche un alto pensiero, anche un'idea profonda, come nelle varie parlate degli orologi.
Se si galoppa, la livida
(frigida - algida - brivida - livida)
morte più ratta verrà.
In Poe mancano queste suggestioni e illuminazioni, calato com'è nella curiosità della sua allucinata fantasia, portato a vedere il paesaggio più che a scavarlo e a commentarlo: e manca, come si diceva, l'amore.
Assistiamo, nell'opera del Lualdi, appunto a vicende d'amore - marito vecchio e moglie giovane, moglie vecchia e marito giovane, e poi il giovane che se l'intende con la giovane, e i vecchi che vanno d'accordo fra di loro: ma in segreto zitti zitti, finchè non succede il pandemonio.
Dopo l'apparizione del diavolo, ormai non c'è più ragione di amori clandestini o di prigionia d'amore: i giovani amanti escono in piazza e si allontanano, felici per la libertà che hanno acquistato.
Come si vede, c'è qualcosa di più o di diverso di una variante fra il testo del Poe e quello del Lualdi.
In tutti i modi, quest'opera ci dà la misura e ci indica la qualità del temperamento dello scrittore: ce ne svela la tendenza all'ironia o alla satira, sia pur mantenuta in un tono medio e illuminata o addolcita dal buon senso e da un sorriso bonario.
Del resto, tutto ciò risultava evidente fin nella prima opera - un'opera giovanile - del Lualdi, Le furie di Arlecchino, in collaborazione con Luigi Orsini.
Il Lualdi, nato a Larino da famiglia veneziana, è stato educato a Venezia e ricorda come suo massimo maestro Ermanno Wolf-Ferrari: quindi nessuna meraviglia che risentano di quell'ambiente le sue caratteristiche più spiccate, quelle sue tenerezze, quei suoi scatti improvvisi, quei suoi sorrisi indulgenti, quelle sua aspre ribellioni, e il sentir dolcemente l'amore, e il divertirsi alle baruffe degli innamorati, e il celiare sugli ardori erotici dei vecchi, e il sorridere ai giovani... C'è per tutta questa alternativa di sentimenti, un colorito o un tono che è proprio di Venezia: fra il sorriso e la lacrima, fra la dolcezza e l'ira: come c'è nell'accento dei venziani soavità e amarezza, gemito e languore: e il Lualdi pare che l'abbia espresso in queste sue Furie di Arlecchino, fra scaramucce, gelosie e palpiti d'amore.
A diciassette anni di distanza da Le furie di Arlecchino, nel 1931, il Lualdi, con La grançeola, torna alle baruffe, alle gelosie e alle burle degli innamorati: con qualche punta ironica o sarcastica (mi riferisco soprattutto all'erotismo dei vecchi) che ricorda gli amori de Il diavolo nel campanile. Ma ne La grançeola vi è maggior intensità di sentimento e più sicura scioltezza lirica; né si cade nella maniera e nel melodrammatico anche là dove sarebbe facile.
Qualche concessione all'effetto, lo scrittore la fa verso la fine dell'opera, quando il vecchio Schiavone, che era stato burlato, si alza e dà inizio alla danza.
LA LUNA DEI CARAIBI
Ma io vorrei più propriamente tener d'occhio il testo del dramma di O'Neil dal quale il Lualdi ha preso le mosse per la sua Luna dei Caraibi. A noi, per il nostro studio, interessa leggere prima una pagina di O'Neill, e poi la corrispondente del Lualdi.
SMITTY - (un marinaio dopo aver ascoltato una musica melanconica) - Non volevo dire che fosse brutta la musica. Tutt'altro! ma è insopportabile, perchè fa rinascere certi maledetti ricordi; non so perchè.

OLD TOM - L'hai già sentita altre volte?

SMITTY - No, mai. Eppure c'è qualche cosa in quella stupida canzone, che mi costringe a pensare a... Ma via, va al diavolo!

Ed ecco come la stessa scena è resa nell'opera del Lualdi:

SMITTY - No. No. Non dico che questa canzone è brutta. Anzi. Mi fa pensare, mi fa ricordare tante cose...

OLD TOM - Ma tu, la conoscevi?

SMITTY - No: eppure mi parla di cose che mi par di conoscere, mi sveglia nella mente ricordi di non so dove, di non so quando, sai, come una nebbia. Come quando si naviga in mezzo alla nebbia. Chi sa perchè! Io non capisco, mi dà quasi un senso di paura. La paura di ricordare tante cose lontane, di tanto tempo fa, alle quali non voglio pensare.
In O'Neill la battuta è secca, nervosa, irritata, quasi ribelle o imprecante: in Lualdi c'è malinconia e tenerezza, un pianto appena represso, cioè struggimento d'amore. E questo esempio basta, mi pare, a spiegarci l'indole differentissima dei due temperamenti, delle due ispirazioni, delle due opere, e come il Lualdi, picchia e ripicchia, giri intorno al suo problema o lo affronti direttamente, risulta sempre poeta d'amore.
Dirò anzi che la bizzarria, com'è soprattutto ne Il diavolo nel campanile, o come anche nella Grançeola, è un correttivo, un temperamento, un modo pudico del suo sentire e intendere l'amore: e forse è segno di una prudenza e di una avvedutezza che si accompagna con la sua esperienza, con la sua esperienza e con la sua maturità.
Il difetto del Lualdi è questo: sul meglio, cioè quando l'espressione lirica è più animata e franca, vien meno improvvisamente e incomprensibilmente il controllo o l'autocritica; e si insinua un'espressione ordinaria o una battuta melodrammatica. Qualche volta il suo venezianesimo e il suo napoletanesimo gli tendono una trappola. Ma d'altra parte, ciò ci fa capire meglio come il Lualdi sia, per temperamento, lungi da ogni cerebralismo: e che in lui l'esperienza umana, il fatto dell'anima, un sentimento vivo e schietto, costituiscano la segreta molla della sua opera.
POETA D'AMORE
Poeta d'amore, insomma, come si è accennato dianzi, o dell'ironia che è un correttivo o un elemento equilibratore dell'amore. Direi che anche la sua polemica è nata da una protesta non soltanto contro il conformismo che anche nel secondo ventennio fu più che mai in auge, e contro la menzogna convenzionale che è di sempre; ma la sua protesta investe anche la mancanza d'amore e si scaglia contro l'aridità che è una triste caratteristica di questo nostro tempo: polemica di cui si hanno tracce anche nell'atto radiofonico Il signore degli echi, scritto in collaborazione con Orio Vergani.
Certo, preferiamo il Lualdi nelle sue espressioni più propriamente poetiche, come nella dichiarazione d'amore e nell'estrema confessione di Damara ne La figlia del Re. Ci si dimentica, in questi momenti, dei suoi sfoghi polemici: che, del resto, non sono da trascurare, specie quando gli servono a chiarire il suo temperamento e i suoi intendimenti.
«Non è da meravigliare - ha scritto una volta il Lualdi - che si sia fatto in me ancora più vivo e intransigente l'amore per l'arte, e la disposizione a battermi contro l'asservimento dell'arte nostra alla straniera, e alle mode; e la convinzione che una grande chiarezza di idee e franchezza di modi e di espressioni fossero la base necessaria ad ogni forma di attività italiana nel campo dell'arte.»
Dichiarazione di galantuomo: che non è inutile a chi studi il librettista Lualdi.

LA SCENA ILLUSTRATA, Firenze, agosto 1952