È questa - a distanza di sessantacinque anni dalla precedente - la terza e definitiva edizione del teatro di Gian Francesco Malipiero: dal 1913 al 1970 il musicista veneziano scrisse i testi - non i «libretti», ché mai accettò questa definizione - per un teatro musicale di armoniosa e labirintica invenzione, polemicamente anti-ottocentesca.
Per giudizio critico quasi unanime i capolavori di Malipiero appartengono soprattutto al primo dopoguerra: dalle
Sette canzoni, che nel 1920 scandalizzarono Parigi e dieci anni dopo caddero clamorosamente a Roma, difese da Marinetti e pochi altri amici, al magico Torneo notturno che «è la quintessenza di tutto ciò che ho sempre sperato di poter attuare col 'mio' teatro» (Monaco 1931), alla pirandellíana e novecentista Favola del figlio cambiato.
Ma il teatro di Malipiero era tutt'altro che giunto al traguardo: durante la seconda guerra mondiale incontrerà Vírgilio e Calderón e ancora
I capricci di Callot; negli anni sessanta sarà Bonaventura proto-romantico l'eroe di un disvelamento lirico radicale.
Il teatro di Malipiero, raccolto e curato da Marzio Pieri, rivela lo spessore letterario di un itinerario di ricerca e di invenzione troppo spesso valutato soltanto in termini musicali, mentre si traduce in un'appassionata «difesa della poesia», contro quella «Babilonia musicale» che il bel canto aveva imposto al teatro italiano.

DALLA PREFAZIONE DI
MARZIO PIERI

MINIMA TESTIMONIANZA D'ATTENZIONE,
CON QUALCHE ISTRUZIONE D'USO PER UN (ANTI)ESTETA,
ESPRESSIONISTA, MORALISTA, FANATICO/FANTASTICO,
(MALCONTENTO, (VENEZIANO), DELL'UNTERGANG

[pp. 9-13 senza le note a piè di pagina]

Malipiero, è cosa nota, ha sempre amato registrarsi in memorie, in aneddoti, in incontri, in «occasioni»; in uno sterminato (quasi) catalogo-diario, che alle singole opere offre un sedimento quasi più fisiologico che psicologico; perché (pare che sottintenda) «factum infectum fieri nequit». Si riconosce, in questo, che lo riguarda ed è «la storia» dell'intrecciarsi degli uomini, degli artisti, delle «poetiche» del Novecento, lo stesso atteggiamento che lo porta - nella sua immensa e affascinata opera di restauratore e conservatore delle «ricche fucine» della musica del passato, nella sua dedizione archeologica fondativa e vorace - a prediligersi trascrittore, anziché filologo o «musicologo». La nuda positività del fatto, del segno, contro ogni aberrazione o abbellimento (non poi, disinteressato) della «verità». Anche, dunque, sùbito (si cita ancora dai Ricordi accolti nel Malipiero, uno dei cippi critici miliarì della «carriera» malipieriana, di Bontempellí e Cumar), quest'altro:
Sono passati sei anni [1918...]. Siamo a Morges. Una piccola stanza tappezzata di istrumenti a percussione: tamburi di ogni dimensione, piatti, triangoli, grancasse, tam-tam ecc. ecc.
L'Histoire du Soldat con Igor Strawinsky al pianoforte e un indiavolato violinista spagnolo. Strawinsky non suona il pianoforte: braccia, gambe, testa, esprimono e sottolineano l'accento ritmico. Non deploriamo l'assenza della grande orchestra: due soli esecutori, ebri di ritmo, sostituiscono non una ma centomila orchestre. Avendo compreso le fasi dell'evoluzione strawinskiana, specialmente quella che seguì al suo ritorno in Francia, ci siamo domandati che cosa sarebbe accaduto qualora (nel 1920) egli si fosse stabilito a Roma com'era sua intenzione! Strawinsky abbandonò il progetto perché non riuscimmo a procurargli una certa casa a Trinità dei Monti della quale s'era innamorato. La vicinanza di Cocteau, di Picasso ha certamente influito sulla sua evoluzione spirituale e, di seconda mano, su quella musicale.
A Roma avrebbe potuto isolarsi?
Caratteristica, alla quale è sempre bene essere preparati, di Malipiero, è la boscaglia dei segni: i «vincitori» offrono, e si offrono, al dispiegamento univoco, inequivoco, dell'atto virtuosistico: («non sono un Mascagni...», dirà di sé, in versi, Angelo Maria Ripellino, natura malipieresca); la richiesta di Malipiero, radicato, radicale, nel suo segno «nero», è l'essere decrittato, decifrato, «conosciuto» in quanto molteplice. Chi non irradia per solarità (il candore della stella), è segreto di lume in quanto spettro, in quanto rifrazione e diffrazione, pulviscolo luminescente; non vi lasciate sfuggire il «mistero» di Claudio Debussy («di Francia?») che, fra l'inequivoca «nuova» bellezza del Sacre e l'inequivoca rissa dei fischiatori e degli applauditori «ín buonissima fede», «nascosto... freme e tace».
Vedeva forse quello che Malipiero, poi, sempre si sarebbe piccato di vedere: Cocteau, Picasso, ovvero l'intellígentija parigina, l'«intelligenza» (a specchio della città-lumière) «tentacolare», viste da un «provinciale», da uno che sa di non doversi muovere da bomba («da Venezia lontan...»):
Pur ammettendo che l'abitudine talvolta ci costringe a non reagire contro le cause del nostro umor nero, questo spesso si giuoca di noi, come è il caso di una moneta da cinque cents degli Stati Uniti d'America, che in mezzo ad altre monete aspetta sul mio tavolo. Tutte hanno la loro storia, ricordano anzitutto il noioso mio viaggiare in giro per l'Europa, ma quella da cinque cents non avrei dovuto confonderla con le altre perché mi venne offerta dalla moglie di un musicista americano, mio amico, e avrebbe dovuto servire da gettone telefonico, per annunziarle il mio arrivo a New York. La gentile donatrice s'illudeva che io, ospite di Mrs Coolidge, mi sarei precipitato in America forse perché ero già in possesso del biglietto Genova-New York, che restituii. Che cosa me lo fece restituire? Sempre la mia implacabile nemica: la malinconia,
e dunque, insieme, la consapevolezza che anche questo ricatto, questo carcere delle radici, è una servitù, una abitudine, una disfatta, una gabbia - «tutti gabbati». Tutti gabbati?
Pur sapendo che in un'epoca in cui il divismo infierisce, anzitutto attraverso le indiscrezioni fotografiche, farsi vedere, in America era indispensabile (non essendomi mai fatto vedere, automaticamente, mi sono quasi espulso) purtroppo non riuscii a vincere la desolazione che eccitava la mia fantasia. Mi immaginavo sommerso dallo scatolame e dall'automatismo, e poi la felicità elettrica coi suoi multicolori pulsanti, gli alberghi con tutte le più inverosimili comodità, il paradiso artificiale, cioè le tentazioni dell'inferno!
A quelle tentazioni, non ha saputo (voluto) dire di no Strawinsky, eppure Malipiero, che lo accusa (del 1945, in ben altre faccende affaticato, è il ricordato libello contre Stravinskij, che, tradita l'originaria ispirazione russa, «aspira forse a l'Académie?» - «Oggi Igor Stravinskij vive in America [...]) lo sa, che non vi si è trasformato in una specie di Monsieur Hulot travolto dai marchingegni confortevoli e dal turbine del traffico. E se Stravinskij avesse, invece, «colta Poccasione», che in anni lontani, dice, Malipiero gli porgeva? Che gli aveva trovato quasi casa a Roma.
Cosa sarebbe stato allora Stravinskij, sarebbe stato forse un Malipiero, ostinato e, in Roma, «asolante»? E Roma, l'Italia se ne sarebbero, o non se ne sarebbero accorte, giovate? A Roma c'era un poeta, Vjaceslav Ivanov (e somigliava a un D'Annunzio spatriato e sfortunato) ch'era stato, nella «vecchia Russia», sodale stretto al dannunzíano, si sa, miticamente, Scriabin; e D'Annunzio, come anche Dante e Petrarca, aveva tradotto. Sarebbe stato, a Roma, Stravinskij - Malipiero se ne andò presto, quasi sùbito, per i suoi colli veneti arrisi da un'idea del lagunare orientale salmastro - una specie di Ivanov musicista, fra Vigolo e Lo Gatto e Casella, in attesa che un qualche Poggioli (e poi partito - lui e invece - per l'America) lo azzerasse pre-ermetico fiorentino?
In fondo la storia è davvero una «puttana santa»; quando pensiamo che prima di D'Annunzío e prima dell'eccellente, in verità, Poggioli, Ciajcovskij aveva sposato il Simbolo e Firenze (a Firenze nacque, in essenza, la Dama di picche) con quel Sestetto per archi, Souvenir de Florence, che anticipa, o pare, lo Stravínskij del neoclassicismo apollineo - paia o non paia a Malipiero dionisiaco - alcionico, stregato.
Ma tutte queste domande, questi pensieri secondi, questi crocicchii del possibile, ricognizioni, licenze, restano, in quanto oltre il segno, indebiti, sfiatati - laddove Malipiero è impertinente e imperbenista, scheggiato di perfidia e innamorato: «non importandogliene nulla di essere smentito dalla realtà e dalla storia».
Gavazzeni osserva anche, pare che qui rinasca «il gusto e il frizzo di un Gasparo Gozzi fatto novecentesco», e non è inerte giunzione, né ovvia, quella dell'irrazionalismo giocato contro la storia, e della separatezza bisbetica ma savia, dell'«umor civile», dello scrittore veneziano. A meno che (con Fassbinder, nella trasmutazione della Bottega del caffè in un doebliniano o weilliano Kaffeehaus [Brema 1969]) non siamo autorizzati a pensare che Don Marzio, protagonista-negativo goldoniano, sia anzi «un personaggio melanconico, dalla tristezza morbida», meritevole di un'ode «beffardamente encomiastica» dalle sue stesse vittime-carcerieri.
«Da Venezia lontan...», subendone il ricatto della vietata trasfigurazione; ecco, diciamolo netto, è su questo punto, ch'è delitto ogni trasfigurare, ogni venire a patti col ragionevole, col «tondo», che Don Marzio-Malipiero non fa grazia ai suoi idoli, né a Gabriele-Ariele né al «Princípe Igor»: (né, per altro rispetto, alle sirene, «futuristiche», del «dodecafonismo»). Quello ch'è stato è stato, quello ch'è consumato è consumato, quello ch'è di coscienza (impietosa, spietata, come l'occhio che vede anche in tralice, anche quando non vuole, se non vuole, col chiudersi, smettere d'essere occhio) non sarà mai di canto:
Se continuiamo a passare in rivista i nostri ricordi e pensiamo ai musicisti che ci scrivevano e ci chiamavano «caro amico», «cher ami», «Lieber Freund», «dear friend», il deserto si popola di innumerevoli tombe. Tombe dalle più strane forme: un teatro di burattini. Pulcinella si agita e distribuisce botte da orbi. Una tomba s'apre come un grande pianoforte «a coda» e strane esercitazioni ci confermano lo smarrimento e l'impotenza di alcuni nostri amici. Grandi corone d'alloro appassite. Chioschi con l'insegna del «cambia valute». Un laghetto. Concerto di ranocchie. Ivi riposano alcuni critici che non sono defunti solo perchè non sono mai nati. La ridda delle illusioni si trasforma a poco a poco in uno strano baccanale. I nostri amici non sono ubriachi, han però bevuto avidamente l'acqua stagnante del laghetto e inghiottite vive le ranocchie. Gonfi come gli annegati cadono col ventre all'aria e s'assopiscono. Le ranocchie escono dalle bocche spalancate per ricantare la loro eterna canzone.
Cautamente una grande tenda è stata innalzata non per pietà ma per sfruttare uno spettacolo singolarissimo e attraente.
Chi già conosce il teatro di Malipiero, non stenta a ritrovare qui lo stile epico delle Sette canzoni, tagliato con l'acredine dei Corvi di San Marco. Altro, fondativo, paradosso (provatevi, del resto, nel rileggere «a voce alta» e come una didascalia da non sopprimersi in solo decoro e fattualità, la scheggia di satira appena citata), una phonè narcisa e consapevole della propria irriducibilità, che al posto di scegliere la soluzione facile, immediata - il lirismo, il canto, la «poesia» - si diffida e si immilla in trucioli taglienti, e forse cruenti, d'epos. Questo teatro strano, questo unico teatro.