GIANNOTTO BASTIANELLI

G. FRANCESCO MALIPIERO

[1927]

Pubblicato su Solaria di Firenze
1º febbraio 1927 e
in
L'OPERA DI G.F. MALIPIERO
------------------------------------------------------------------------
Premetto che per ispiratore della musica ottocentesca intendo un dio risuscitato dal fecondo polverone della filologia greca - da Federigo Nietzsche: e cioè Dionisos, il dio del rombo orgiastico - del sinfonismo beethoveniano e wagneriano in una parola, trascinatore e infiammatore di folle in calore rivoluzionario e in foia di novità democratiche.
E premetto ancora che, per iddio ispiratore della musica novecentesca -ancora a balia dei letterati e dei critici - intendo Hermes, il nume cantato da Gabriele D'Annunzio - che di trucchi ermetici sia pratici che intellettuali è stato conoscitore espertissimo - nel famoso peana (dionisiaco anch'esso, se bene inneggiante ad Hermes, iddio astuto, avaro ed egoista, quanto Dionisos era stato altruista, bonaccione e generoso fino alla demagogia) del Iº Libro delle Laudi.
E aggiungerò subito che se tra i musicisti così detti cerebrali, cioè disdegnosi dei facili effettoni democratici, uno ve n'è che novecentescamente possa dirsi «il beniamino italiano di Hermes», egli è, precisamente - G. F. Malipiero.
Si sa che se gli ottocentisti fecero della musica inspirata alle sorgive, innocenti spontaneità della musica popolare - basta ricordare la fiabesca popolarità del Der Freischütz o la primitività vulcanica del Trovatore, così caro al più romantico di tutti i critici-musicisti italiani, a Bruno Barilli -; i novecentisti prediligono musica più contrappuntata di riferimenti letterari che di contrappunti realmente musicali.
Non faccia perciò meraviglia se proprio Goldoni (Commedie Goldoniane - La Bottega da caffè, Sior Todaro Brontolon, Le Baruffe chiozzotte) ha inspirato al più biricchino, spregiudicato, antiottocentesco dei moderni compositori italiani, tre - come devo chiamarle? - particole di opere comiche di ultra-raffinato buongusto e da teatri così piccolini (tutti sanno che oggi si va anche in musica verso i teatri piccoli, individuali e antidemocratici) da chiamarli, addirittura - teatri per piccoli. Che cosa ne penserà Goldoni nel vedersi ridotto la parrucca incipriata - a capigliatura ambiguamente 'à la garçonne'? Difficile dirlo. Certo che il nuovo dio della musica si dev'essere divertito un mondo consigliandogli malignamente di lasciarsi «rinvenezianizzare», prima, da un tardo nipote di Cimarosa e di Mozart (alludo ad Ermanno Wolf-Ferrari); quindi da un fratellastro di Strawinsky. Soltanto M. de Voltaire, oppure Enrico Heine, avrebbero potuto ripetere il dialogo corso tra il sullodato Nuovo Dio della Musica e Carlo Goldoni. Io mi contento di suggerirlo.
Le tre «particole» sintetico-melodrammatiche, sieno o no il non plus ultra del cerebralismo musicale moderno, per chi ha imparato - e ha finito per invaghirsene, com'è successo a me che pure sono notoriamente cittadino di tutte le epoche musicali dalle più rivoluzionarie alle più codine - per chi ha imparato, dico, a godersi le freschezze inviperite e le trouvailles vocali, orchestrali e sceniche e, soprattutto, la signorile ironia di G. F. Malipiero, non valgono forse le Sette Canzoni, con l'aggiunta di quell'Ottava Canzone che è, penso, uno dei più abbaglianti miracoli italiani e stranieri compiuto dall'intelligenza musicale moderna. Fa piacere parlare di questo ormai europeo compositore nostrano che (mi ricordo) era tenuto da principio, anche dai suoi commilitoni novecenteschi in germe vent'anni fa, per un, su per giù, non temibile concorrente. Hermes è stato sempre il maestro di tutte le ironie, da quando rubò i bovi d'Apollo, a quando esilarò l'Olimpo insinuando nel cervellone di Zeus i consigli più da Arsenio Lupin che si possono immaginare. E G. F. Malipiero, dati i limiti che codesto suo ironico iddio ha saputo suggerirgli, e il suo gusto aristocratico accettare, al contrario d'ogni previsione profeticamente di moda vent'anni fa, a poco a poco, sempre con discretissima signorilità, ha saputo imporsi in terra straniera e di là tornare fra noi - italianissimo com'è, a giocondarci con le sue frizzanti freschezze e con la sua incalcolabile sapienza musicale - non mai fatta pesare come era uso presso gli atletici genii un po' da fiera del sec. XIX; bensì, con armonica leggerezza e con chiarità che a volte ha della rarefazione, fattaci tintinnire negli orecchi e nell'intelligenza - con sonorità di zecchino.
Io non scorderò mai un suo scintillantissimo Quatuor (intitolato «Stornelli e Strambotti») eseguito, con scandalo insigne, da uno di quegli indemoniati - eppure meravigliosamente affiatati come una troupe d'equilibristi del Siam o del Giappone - quartetti venientici d'oltr'alpe, più dalla direzione zingaresca dell'Ex-Impero Austro-Ungarico, che dalla direzione latina di terra di Francia, a accademica di terra alemanna -Quatuor eseguito, dico, in una delle più barbogie sale da concerti del nostro italico regno. I maligni vi trovarono dell'isterismo folkloristico-strawinskiano (qui fofkloristico ha una lieve sfumatura bolscevica). Ma alla fin fine, non suonava meravigliosamente quella roba in apparenza fuori della grazia di Dio e delle regole del P. Martini, in realtà limpida, scintillante e perfino popolare come certe acerbe voci di mare e di fanciulle echeggianti nelle silenziose calli di Venezia? A leggerla da sè, quella musica può sembrar nulla - o poco. A sentirla eseguita a dovere, ne sprizzano felicità non dissimili - si guardi! -da quelle provate nelle feste campestri, quando si miete, si spannocchia o si svina. O pure vi tremano accenni di malinconie lancinanti che solo un autentico ironista - è ormai risaputo - sa destare con quella sapienza cortese di chi molto spregiudicatamente irride, ma al momento opportuno dimostra d'aver più cuore di un sentimentalone di borghese che fa professione di buoni sentimenti ed è poi il più angusto egoista che ci sia. E del resto - nella sala barbogia dalle cui pareti pendono i ritratti di tutti i musicisti, con la loro brava data di nascita e di decesso e perfino (!) con in bianco la data di morte di quei musicisti che non si sa se sono ancora vivi, o non ancora nati alla grande storia ufficiale - il successo di quel Quatuor, non osato osteggiare dai taciturni e tacitati benpensanti - fu clamoroso.
G. F. Malipiero - come tutti i novecentisti musicali e come lo furono Riccardo Wagner, Franz Listz, Hector Berlioz, Modesto Moussorgsky, loro inoppugnabili predecessori non ostante il diverso iddio che li inspirava - è un «poeta musicale». Ma lo stesso gusto raffinato e niente affatto 'decadente' (come invece si può riscontrare in Claude Debussy e in Ildebrando Pizzetti), egli lo manifesta, oltre che nella musica, nella poesia. G. F. Malipiero è il primo in tutta Europa che ha osato concepire un teatro che - antiottocentescamente - non sia per niente - un teatro. Tanto Debussy che Pizzetti ebbero il torto di figurarsi che si potesse far stare una perla troppo piccola (i loro melodrammi) in una conchiglia troppo vasta - il teatro dell'Opera o il teatro della Scala. G. F. Malipiero osa, addirittura - il «teatro da camera». Le Sette Canzoni consistono in sette scene, l'una indipendente dall'altra. Piccoli drammi in sintesi, in cui uno sfondo melodico (sissignori! melodico - in generale cioè una «canzone» o «canzoncina» spesso bellissima, di derivazione ora popolare moderna, ora medioevale) fa da amalgama realmente e persuasivamente musicale. Ora sarà la canzone dell'innamorato sotto la finestra della bella; ma a costei è morta la madre; e l'innamorato, furioso di non essere ascoltato, irrompe in iscena e trovando la povera ragazza in atto di vegliare la morta, sparge tutti i fiori che aveva portato come dono alla propria bella, sul letto funereo, con un gesto di rispetto e d'amore insieme. Ora sarà un magnifico movimento orchestrale descrivente lo scoppio d'un incendio; mentre il campanaro se ne sale sul campanile per «suonare a caso» (così si dice in campagna) e di lassù canta una canzone pornografica del tempo della Pleiade - una canzone alla Villon («una vecchia mi vagheggia»). Ora sarà la mattina delle ceneri e il contrasto della canzone delle beghine colle ultime matterie delle maschere carnevalesche. È estremamente curioso e divertente.
L'Ottava Canzone è addirittura Pirandello sulla scena musicale. Sull'irrealtà del palcoscenico settecentesco, i palcoscenici - come un giuoco di rifrazione di specchi - si moltiplicano. In realtà - realtà? irrealtà? - i palcoscenici su cui si presenta un personaggio son due. Ma ognuno di questi palcoscenici rifranti ha il suo pubblico, ed ogni pubblico, là, sulla scena, il suo personaggio. Così Nerone - oh! quanto diverso da quello di Boito! - ironizza davanti a un pubblico giovanile (immagino simboleggiante i futuristi); mentre i vecchioni, che avrebbero anch'essi il loro palcoscenico (il cui sipario, però, non si alza mai) protestano contro l'ironico immoralismo neroniano con ululati scimmieschi. Finchè, nel palcoscenico di mezzo, (quello reale?) compare Orfeo e declama un: «Salute al vostro secolo imperturbabile ed eclettico» (non sarebbe per caso il famoso 1900?) e finisce per dottamente ed umanisticamente addormentare il pubblico ufficiale - quello schierato presso la ribalta e tra cui si trovano nientemeno che un Re e una Regina - nonchè per mettersi a fare all'amore colla Regina stessa - mentre il pubblico che è chiamato ufficiale stronfia su degli accordi onomatopeici dell'orchestra, d'effetto indovinatissimo.
Per finire dirò che nell' anno francescano G. F. Malipiero ha composto un San Francesco d'Assisi che - benchè lasciato in disparte - a mio modesto parere, in tanta vanagloria di volersi far belli allo splendore ancor chiaro di Frate Sole, resterà l'unica cosa di genio - oh dio!, si capisce, novecentesco, - che sia stata prodotta in mezzo alla deplorevole caterva, di produzioni francescane.E una lode in simile genere di materia, tra religiosa, farisaica e politica, dovrebbe bastare per mettere il Malipiero tra i più squisiti signori della musica italiana ed europea moderna.