GIANNOTTO BASTIANELLI

PRO E CONTRO
LA MUSICA MODERNISSIMA


MUSICISTI D'OGGI E DI IERI
SAGGI DI CRITICA MUSICALE

SEL MILANO 1914
pp. 13-22
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Gli studi della critica musicale italiana cominciano, per quanto ancora incerti e sporadici, a adoprarsi intorno all'ultima di quella musica straniera, che ogni primavera spirituale della nostra terra risorta, almen per ora, più materialmente che moralmente, attraverso le alpi ci rimena «pur com'è d'uso». E nessuno più di me sarebbe contento di questo rinnovante bisogno critico che la coscienza musicale del mio paese comincia a dar prova di sentire, se questi studi, che condotti con severo metodo critico tanto utile potrebbero apportare alla nostra musica futura, non risultassero invece, almeno allo stato attuale, stranamente orientati su due indirizzi di gusto e di coltura così opposti da far quasi sembrare, gli studi suddetti, pensati e scritti in due paesi diversi : l'uno, un paese sano, sì, di buon senso e di moralità, ma di quella sensatezza e moralità provinciale che costa poco non essendo lucida resistenza sibbene opaca indifferenza ai mali della troppa civiltà; il secondo, un paese di più raffinata civiltà, ma sprovvisto d'equilibrio tra l'enorme sua preparazione artistica e la scarsa facoltà filosofica di sottoporre a un ferreo metodo critico i giudizi disordinati del gusto estetico.
Per delineare ancora più precisamente la posizione della critica italiana di fronte a musicisti come lo Strauss, il Debussy, il Ravel, il Dukas, il Bloch, il Mahler, il D'Indy e l'Albeniz, dirò che essa sembra prodotta da uomini di due epoche diverse: l'epoca della coltura romantica ormai tramontata per sempre come attualità presente, non come grandissimo eterno valore storico; e l'epoca della coltura decadente o, come dicono, d'eccezione, oggi in pieno vigore, sebbene già minata da pensatori come Benedetto Croce, e da tutta una giovane schiera di critici d'avanguardia tra cui primeggiano il Cecchi, il Borgese, il Torrefranca. Naturalmente, a seconda che il critico appartenga all'una o all'altra epoca i musicisti modernissimi appaiono come un tramonto o come un'aurora, come dei corruttori o come dei risanatori. Così vedremo un Paglia e un Setaccioli (critico, e serio compositore di carattere formalistico e accademico) sacrificare i musicisti modernissimi sugli altari d'un unico culto offerto ai grandi romantici Beethoven, Wagner, Schumann, Brahms, Berlioz; e così pure vedremo un Pizzetti (fortissimo musicista del presente «dolce stil nuovo» e critico di novissime aspirazioni) sacrificare persino l'intera storia del melodramma, italiano e straniero sugli altari eretti al nuovo dramma musicale, presentito ma male attuato nella sua totalità d'esecuzione (sono giudizi dei critico non miei) da Riccardo Wagner e con più artistica coerenza perfezionato da Richard Strauss e da Claude Debussy.
In realtà, a mio parere, errano tanto i Paglia e i Setaccioli che i Pizzetti, i Debussy, i Laloy, i Lalo ecc, ecc. Non si tratta, per questi musicisti modernissimi, nè di tramonti, nè di aurore, nè di corruttori, nè di rinverginatori. Si tratta di artisti, semplicemente, che hanno avuto la mala ventura di nascere in un tempo in cui si chiacchera troppo intorno a quello che si fa o si vuol fare. Le baruffe critiche passeranno, gli artisti rimarranno. Infatti quest'ostinarsi a cercar troppo o a non vedere affatto i nessi misteriosi che collegano il passato dell'arte al suo presente, è infantile. La vita delle cose dello spirito purtroppo non presenta quel trapasso graduato e quasi insensibile che hanno voluto farci credere i seguaci del meccanico metodo storico o alcuni dialettici filosofi ottimisti. L'arte non si sviluppa come una fermentazione di germi o come una coltivazione di microbi. L'arte si genera liberamente, a sbalzi, starei per dire «a schianti» ; giacchè essa non è azione collettiva, ma creazione individuale. Quando l'umanità - il buon gregge delle anime fatte per esser condotte e non per condurre - comincia a comprendere, e a volte troppo tardi, l'idea e l'opera d'un grande pastore d'anime (quello che oggi accade appunto per Beethoven e per Wagner), un altro, pastore d'anime è già sorto ed ha la missione (per lo più ostacolata da i seguaci dei suoi precedessori) di gettare la nuova semente nelle terre deserte del futuro. Vi sono, è vero, dei casi in cui le anime del popolo e l'anima del loro pastore ideale s'incontrano, si fondono, vibrano all'unisono: ma sono coincidenze fuggevoli e rare; uomini profondamente vivi nell'amore di tutti, per es.: Giuseppe Verdi, per es.: Bellini, si sono trovati, all'occasione di qualche loro sbalzo leonino nel nuovo e nell'impreveduto, ad essere, peggio che lasciati soli, bestemmiati ed irrisi. La Norma e la Traviata, per quell'attaccamento pigro al vecchio e al consueto sia pur bellissimo che s'annida in ogni anima non creatrice furono fischiate solennemente, e il Falstaff, opera che nel teatro verdiano è la più impreveduta di tutte, resta ancora al di là della coscienza popolare, aspetta ancora, in Italia, non per es.: in Germania, la sanzione vitale dell'entusiasmo.
Tra esso e l'anima italiana c'è uno iato ben più grave di quello che si manifestò tra il pensiero verdiano e il gusto del pubblico quando comparve la Traviata. Figuriamoci che cosa deve accadere, per es:, per un Pelléas et Melisande, opera in cui la imprevedutezza della forma viene anche a coincidere con una reale lontananza del suo contenuto drammatico dai sentimenti comuni e normali. Pure, anche quest'opera, è sciocco contrapporla continuamente, come si fa dai suoi partigiani, alle opere del Wagner; un'opera non può esser bella che di per sé stessa; altrimenti diventa l'esemplicazione fredda d'una differenza teorica. E tale la potrebbero sospettare i maligni. Ma il Pelléas è al disopra di qualunque malignità. La difficoltà comprensiva del suo contenuto drammatico troppo raffinato e anormale non cambia in nulla il suo valore formale che un giorno o l'altro sarà universalmente riconosciuto - appunto - quando sarà cessato il croscio della critica pettegola.
«Attaccamento pigro al vecchio e consueto sia pur bellissimo» ho detto più sopra: giacchè non soltanto per crear cose nuove occorrono occhi nuovi e cuore nuovo: ma anche per comprenderle. Ognuno di noi non dev'essere ingannato dalla spontaneità gioiosa con cui da giovanetto comprese «alla prima» qualche sinfonia di Beethoven o un'opera di Wagner. In realtà quella comprensione spontanea era una fatica profonda in cui si cimentavano tutte le forze sintetiche del nostro spirito e la gioia che derivava dalla bella conquista ne nascondeva la faticosità. È quindi naturale che svanendo cogli anni il desiderio delle belle conquiste (ed anche la possibilità) - resti, ignuda e arida, la fatica.
Per questo accade che la coltura musicale che più rimane connaturata allo spirito del critico è quella che il critico si formò spontaneamente da giovane. Da giovani il nostro cervello meglio assorbe ed assimila. A parte il pericolo che ogni giovane ha, così nella vita che nel pensiero, di veder Elena in ogni femmina ed un capolavoro in qualunque prodotto artistico, è però certo che giovinezza è sinonimo di attività alacre e pronta.
Il vecchio ha invece il pericolo contrario a quello del giovane: il periodo di vedere un uomo mediocre in ogni nuovo eroe. Chi non ricorda le parole del vecchio Nestore dell'Iliade? Egli amava ripetere d'aver visto ai suoi bei tempi sollevare a un sol uomo una pietra «quale soltanto solleverebbero quattro degli uomini d'oggigiorno». E non somiglia il lontano eroe omerico impotente di vecchiaia al nostro critico romantico il quale non ammette che oggi musicisti quali il Debussy, lo Strauss e il D'indy possano altro che debolmente e con mille aiuti che non sono forza musicale, sostenere il peso della vera composizione? L'età degli eroi è passata; diceva tristamente Nestore e nella sua rètina stanca l'immagine fissa, e ingigantita dal ricordo, degli antichi eroi copriva la rossa splendida fiamma dei puro eroismo d'Achille. L'età dei giganti è passata, proclama il critico romantico a cui nell'orecchio perdura il sònito eroico delle sinfonie di Beethoven o delle opere di Wagner; perdura e gli impedisce di sentir bella e spontanea e giusta ogni musica che a quel sònito non s'accordi. Ma alla lega Achea più serviva l'eroismo giovane e vivo d'Achille che le ricordanze pessimistiche di Nestore; come, me lo perdonino tutti i professori di conservatorio che hanno imparato il loro formulario stilistico da Wagner, da Schumann e da Beethoven, alla vita dei giovane compositore moderno è più utile un'ora passata con Debussy che la lettura di tutti i tentativi denigratori di chi non lo può e vuole comprendere, appunto perchè, semplicemente, il Debussy è al di là dell'esperienza di tali critici negativi.
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Ma lasciamo da parte le considerazioni generali e veniamo a un esame particolareggiato di qualcuno dei lavori di quei critici (per il solito non più giovani sebben questo non tolga che ve ne siano dei giovanissimi: si nasce accademici come si nasce impiegati); i quali, posti in contatto con opere feconde come quella del Debussy per esempio, rimangono sterili e la giudicano: «senza coerenza, senza grammatica, senza melodia» - in una parola: senza forma.
Ecco qui due opuscoli di contenuto critico, uno riferentesi a diversi musicisti moderni, il Dukas, il Debussy e lo Strauss, l'altro ristretto all'esame dell'opera del solo Debussy; il primo è di Cesare Paglia, il gaissimo Gaianus, l'altro è di Giacomo Setaccioli, stimato professore di discipline musicali a Roma. A differenza del saggio del Setaccioli che ci si impone per la solida preparazione musicale, se non per il suo fondamento filosofico, l'opuscolo del Paglia consiste più in una raccolta di articoli scritti con brio giornalistico ed ispirati a una posizione di scetticismo ridanciano e motteggiatore, che in un vero e proprio saggio analitico condotto con lucido metodo critico. L'autore ha anzi noioso come il fumo agli occhi un buon metodo critico. Egli scrive infatti: «oggi esiste il crocianesimo: un modo discutibilissimo e pretenzioso come un altro di vedere le idee», aggiungendo però di ammirare la forza d'ingegno di quei giovani che quel crocianismo - che altro poi non è che un metodo filosofico fondato su solidi principi estetici - seguono o cercano di seguire: come se la forza dell'ingegno non dipendesse dalla qualità del metodo adottato. Così il Paglia quasi a riprova della sua ametodicità appone al titolo del libretto: Strauss, Debussy e compagnia bella (ma, di grazia, gaio Gaianus, che li avete presi per un'associazione a delinquere ?) la specificazione: «saggio di critica spregiudicata e semplicista per il gran pubblico» ... Quante cose un giovane e non so quanto crociano ma per certo convinto, come il Croce, della necessità di un robusto metodo nella critica, potrebbe osservare al buon Paglia intorno a questa sua concezione assai primitiva della critica! -
Ma tant'è: quando saremmo a un pelo per arrabbiarci, ecco che il Paglia con quel suo fare scettico e satirico di buon uomo molto più acuto di quello che non voglia sembrare, ci fa dare in un'allegra risata. E io dico la verità : sebbene trovi più che anticritica, antivitale la posizione del Paglia contro i musicisti modernissimi; sebbene trovi che la rovina della critica musicale italiana sia stata appunto il suo scetticismo semplicista e freddurista; pure mi sento ancora troppa gioventù addosso per non aver simpatico chi se la ride un po' di tutto e di tutti. Veramente in questo perenne affannarsi delle scuole vecchie a chiudere il passo alle scuole nuove e delle scuole nuove a boicottare le scuole vecchie, c'è abbondantissima materia di comicità. La spregiudicatezza del Paglia somiglia parecchio all'indifferenza statica di chi ne ha viste di tutti i colori. Figurarsi che cosa deve succedere quando questi colori - sono di un colorista come lo Strauss!
Comunque, ripeto, tornando alla mia classificazione dei critici moderni, è innegabile che se il Pagiia se la ride a crepapelle alle furie straussiane, non osa però ridere della musica di Beethoven e di Wagner; e con quel suo metodo del riso, se non col metodo estetico e critico, appartiene dunque a quella categoria di persone che per dimostrare la vanità della musica modernissima citano continuamente e solamente Beethoven e Wagner, ossia i musicisti romantici. O se oggi l'umanità si rispecchiasse più in Strauss e in Debussy e in quella compagnia, dove esiste anche un musicista come il D'Indy, il quale, a dir il vero, non merita affatto di esser considerato membro d'un'associazione a delinquere? O se questo appellarsi sempre e soltanto ai musicisti romantici non dovesse anche, criticamente parlando, metterci in guardia sulla larghezza di questo giudizio a riferimento? Non crede il Paglia, per es. che a confrontare Debussy con musicisti che non siano soltanto Beethoven e Wagner, si potrebbe acquistare una più vasta visione critica della musica in generale e anche una ben più larga spregiudicatezza di giudizio verso la compagnia bella dei modernissimi?
Il saggio critico del Setaccioli «Debussy è un innovatore?» risulta invece notevole per il tentativo di stringere dappresso l'arte del Debussy e non attraverso a impressioni personali risolute in ischerzi di parole, ma attraverso formole musicali scelte con accuratezza dall'opera stessa del Debussy. Il Setaccioli si parte dal fare un quadro quale a lui almeno sembra il giusto dello stato d'animo (morale, vitale) del Debussy, stato d'animo che per esser già stato espresso, almeno simigliantemente, dagli ultimi poeti francesi - i così detti decadenti - Baudelaire, Mallarmé, Verlaine, Maeterlinck etc, ed anche, sotto un certo aspetto, dai pittori impressionisti, era profondamente sentito dallo spirito francese moderno. Da ciò il successo (molto francese) del Debussy presso gli intellettuali come presso i mistici francesi. Il qual Debussy (continua in un altro capitolo il S.) se dai poeti ha preso il contenuto, dai pittori impressionisti ha dedotto la sua nuova forma musicale : l'impressionismo musicale, ottimamente tra noi definito da un giovane artista e critico, Vincenzo Tommasini: il Tommasini infatti scrive che «la prevalenza dell'emozione armonica è il carattere più spiccato dell'impressionismo musicale» in base alla quale «il disegno ritmico e melodico sembrano svanire, quasi volontariamente evitati o coscientemente lasciati imprecisi, mentre l'armonia ha una ricchezza e novità inesausta, sempre sorprendente», giungendo poi il Tommasini a concludere che tale prevalenza armonica viene a coincidere con quello che egli chiama «la composizione amorfa . Il Setaccioli poi nel 3º e 4º cap. studia con abbondanti esemplificazioni quella che a lui sembra nella musica sinfonica e pianistica del Debussy: 1º , la mancanza di disegno melodico e ritmico; 2º , la monotonia armonica e strumentale; e 3º, nell'opera in particolare, la balbuzie monotona della «declamazione inarticolata».
Il concetto centrale del saggio del Setaccioli si può dunque per comodo di discussione raccogliere sotto questi due giudizi particolari: 1º il contenuto debussista è vano, insipido e quando qualcosa significasse, patologico; 2º la forma debussista non esiste: è balbuzie voluta tale per smania di hriginalità e di novità.
Come si vede non si potrebbe essere più antidebussisti di così. E certamente il Setaccioli per la parte musicale del suo lavoro riesce, almeno in apparenza, a dimostrare la fondatezza dei suoi due giudizi, i quali per l'identità della forma e dei contenuto, identità di cui il S. crocianamente è convinto, riescono ad una totale estirpazione del valore del Debussy. Ma il male, mi pare, è purtroppo duplice. Osserviamo un istante le citazioni rozze del contenuto dei poeti decadenti per le quali il S. tenta di avvalorare la giustezza della sua tesi: d'una vacuità di contenuto nell'arte dei Debussy ; come mai ogni buon conoscitore di Verlaine, di Mallarmé (il cui aforisma: la poesia dev'essere un enigma, è stato più igienico alla poesia francese di tutta l'estetica parnassiana); come mai ogni squisito conoscitore di Maeterlinck potrebbe non sorridere all'affermazione del S. che quei poeti cantano: lo spleen e il flirt anodino, l'anemia e la debolezza, le crisi di nervi, la clorosi, i tessuti esangui, le vertigini le fiamme sensuali, il brivido del malato invaso d'amore, la febbre delirante e il fascino puerperale? Non sembra di sentire le caricature del Travaso a una poesia del D'Annunzio, piuttosto che la sottile esegesi di un critico delicato e profondo? Noi dunque possiamo subito considerar vano il primo giudizio del S., osservandogli che troppo ci corre tra la rozzezza del suo gusto letterario e la squisitezza sapiente d'un poeta di eccezione; e che, quindi, egli si trova in una palese inferiorità per ben comprendere il complesso stato d'animo decadente e la raffinatissima civiltà letteraria a cui ha dato nascimento.
Dimostrato questo, non ci farà più meraviglia se il S. non comprende la musica decadente del Debussy. L'arte dei suggerire sensazioni fuggevoli, brevissime ed elettissime, come trova, nella poesia, il sentimento del Setaccioli refrattario e impreparato, così lo trova sordo nella musica. Il Debussy in realtà non ha fatto che trasportare dalla poesia e dalla pittura alla musica (ed è un vero miracolo di ricchissima musicalità) i procedimenti novissimi di questa e di quella, onde esprimere, con le sonorità e le loro attrazioni tonali, non più i semplici, robusti e in un certo senso facili sentimenti a larghe linee eroiche che eran propri ai romantici; sibbene le sensazioni le impressioni e i sentimenti d'infinita e squisita complessità dell'anima modernissima.
Ed ecco che qui deve cessare di parlare il musicista e deve cominciare il filosofo. Il musicista, dal suo punto di vista, nel problema debussista, altro non deve fare che stabilire, se può, la perfetta corrispondenza dell'espressione musicale allo stato d'animo dei medesimo: la quale corrispondenza se egli non riesce a vedere non è colpa (com'ho mostrato per il S.) del Debussy, sibbene della estraneità del detto musicista giudicante allo stato d'animo del Debussy. Il filosofo invece deve notare un'altra cosa: dato e ammesso che esista uno stato d'animo reale e concreto nel Debussy e che questo stato d'animo abbia la sua adeguata espressione in quello che il Tommasini chiama «composizione amorfa», è compito dei filosofo analizzare questo concetto di composizione amorfa. Ogni opera d'arte, esteticamente parlando, è forma, non può non essere forma. Soltanto che questo concetto di forma non va preso in particolare dalle singole arti; un concetto di forma, per esempio, preso dalla musica, effettivamente non potrà esser dedotto che da un numero sia pur vasto, ma sempre storicamente limitato, di composizioni musicali. Il vero concetto di forma non può dunque essere estratto (a posteriori) dalla storia, ma dovrà essere 'a priori', dovrà trascendere qualunque empirismo storicistico.
Ora è evidente che il S. nel suo giudizio formale si fonda esclusivamente sopra elementi (disegno melodico e ritmico, armonia e strumentazione) estratti empiricamente da un numero, per di più limitatissimo, di opere musicali: le opere cioè sia pur bellissime dei grandi romantici. È sintomatico anzi che tutti i critici romantici non citino mai gli autori prebachiani e tanto meno prepalestriniani. Ma Beethoven non è tutta la musica; Wagner non esaurisce tutte le possibilità di teatro musicale: appunto perchè il concetto universale di forma trascende ogni empirismo storicista e coincide con tutte le possibilità di espressione atte a estrinsecare qualunque contenuto. È dunque impossibile che il S. dia un equo giudizio sul Debussy: 1º perchè la sua critica difetta di un concetto veramente filosofico, ossia universale di forma, 2º perchè anche se l'avesse, la sua indifferenza e refrattarietà al contenuto debussista gli farebbe di necessità apparire vana anche la forma debussista, giacchè una forma piena di un contenuto vuoto non esiste.
Termino questa mia lunga rivista raccomandando però a chi s'interessa di queste cose, la lettura del «Debussy è un innovatore?» dei Setaccioli. Se non altro la sua ricerca musicale può essere di grande aiuto per cominciare a farsi un'idea dei procedimenti stilistici del Debussy. Il volumetto, uscito già due o tre anni fa, fu edito a cura del giornale Musica di Roma.