VITTORE BRANCA


MALIPIERO
MUSICISTA DA GRANDI BATTUTE

L'intelligenza acuta e il gusto per la dissacrazione
gli procurarono inimicizie e noie nella carriera artistica.
Al gerarca che gli diceva di aspettarsi di meglio da lui
rispose: «Io da lei no». E il regime boicottò la sua opera.


© IL SOLE 24 ORE 04/03/2001
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Il curatore del sito ringrazia di cuore la Direzione de IL SOLE 24 ORE per il permesso di pubblicazione ed esprime ammirazione e gratitudine al prof. Vittore Branca per gli splendidi articoli su un Kulturmensch tra i sommi del Novecento italiano ed europeo.
Memorabile, anzi rivelatore, per me - grazie a Mario Labroca - già il fugace incontro con Gian Francesco Malipiero, sessantasette anni fa, alla prima, e allora unica, rappresentazione della sua Favola del figlio cambiato su libretto di Pirandello al Teatro dell'Opera di Roma (24 marzo 1934). Alla presenza di Mussolini, «Da Lei mi sarei aspettato meglio» gli disse supponente un gerarca, che poteva essere Starace. «Ed io da Lei no, nel giudicare la musica e di arte», scoccò pronto e impavido Malipiero. Impavido, ma non poi indenne, perché ogni replica dell'opera fu vietata. Il 27 marzo il Duce e Starace per la penna del famigerato Asvero Gravelli facevano scrivere su «Ottobre»: «Non c'è piaciuta l'opera di Pirandello e Malipiero perché: 1) essa non risponde alle esigenze e ai caratteri del tempo fascista; 2) è una diffamazione di tutta la spiritualità che il fascismo si sforza di imprimere al popolo italiano; 3) è dacadente, pessimista, deleteria, antimorale; 4) è diarrea musicale; 5) contrasta in pieno con lo spirito e la finalità dell'etica fascista». Davano così una patente di indiscutibile nobiltà artistica e umana al nostro musicista più felice e già di fama mondiale. Ma per una battuta Malipiero s'era giocato le repliche di un suo capolavoro. Fu ripreso a Venezia diciotto anni dopo, nel '52 alla Fenice, al Festival di Musica Contemporanea della Biennale. Ma anche allora per una battuta Malipiero non esitò a giocarsi la posizione preparata per lui di Presidente del «Conseil International de la Musique» all'Unesco.
Avevamo proprio in quei giorni organizzato - per l'Unesco di cui ero allora a Parigi direttore delle Arti e Lettere - a San Giorgio, a Venezia, la grande e memorabile conferenza mondiale degli artisti. Volevamo riaffermare, contro le tirannidi staliniane e zdanoviane, ancora imperanti, e le strumentalizzazioni di ogni genere della cultura, la irrinunciabile libertà dell'arte e degli artisti. Accanto a Thornton Wilder e Ungaretti per la letteratura, a George Rouault e Jaques Villon per la pittura, a Henri Moore per la scultura, a Le Corbusier per l'architettura, era toccato a Honegger e a Malipiero la relazione per la musica. Da grande musicista e da forte scrittore Gian Francesco l'aveva redatta splendidamente e detta elegantemente. Ma una delle tediose e puntigliose congressiste francesi - una delle classiche e autorevolissime «emmerdeuse» (come le definiva il maestro) che non mancava mai nei congressi e che imperava all'Unesco - interrompeva ripetutamente con obiezioni e puntigli del tutto vacui e passatisti. Malipiero in principio rispondeva cortesemente, poi tentava di tirar via: finché a un grido isterico dell'Erinne «On ne comprend rien», rispose sorridendo, con un leggero inchino, «Tant mieux pour vous, madame». E incontrando altra volta un altissimo personaggio della Rai-Tv, ma piccolo piccolo di statura... e d'ingegno, non esitò a commentare ad alta voce «Go capio: el xe a l'altessa de la situasion». E i programmi radiotelevisivi da allora e per molto lo ignorarono.
Fulmini inesorabili e aristocratica cortesia me lo rifecero, così, vicino, ritrovandolo proprio alla Fondazione Cini, fra '52 e '73, dove avremmo collaborato attivamente, specialmente per edizioni di musica fra '500 e '700; dove avremmo sviluppato la nostra amicizia, per più di vent'anni; dove Gian Francesco avrebbe avuto il suo «paese dell'anima» nella vita e anche dopo la morte (ventotto anni fa) coll'archivio prezioso dei suoi autografi e delle sue splendide lettere.
Il suo estro di musicista e di scrittore - librettista sorprendente, memoralista elegantissimo, saggista fra i più fulminei e penetranti - sembrava modulato sul suo muoversi e sul suo conversare. Lo accompagnavo spesso nelle sue passeggiatine su Riva degli Schiavoni e le Zattere. Camminava lento, ma a scatti, sostando a guardarti perché i cani che lo accompagnavano glielo imponevano, riprendendo d'un tratto per fermarsi di nuovo o tornare sui suoi passi per una vetrina o per un particolare stradaiolo che lo colpiva. Un passeggiare così per passeggiare, sembrava; ma aveva invece una direzione ben precisa, una meta già stabilita. Parlava a sprazzi e baleni, ad aforismi, in un dialogare spezzettato da parentesi, da soste del suo sguardo interrogativo e di battute divaganti, misteriose o pungenti, vibrate con quella sua voce dai timbri puri, come gridi di uccelli marini. Ti avviava in una direzione, per poi svicolare in un'altra, sempre fra deviazioni, arresti, falsi scopi, per farti solo infine avvertire che tutto il discorso era, come la sua musica, logico e costruitissimo, e mirava a un fine, a una conclusione intuita e fissata da lui lucidamente sin dal principio. La sua stessa aria perennemente svagata era un siparietto dietro cui signorilmente nascondeva una memoria vivacissima e tenacissima, un'eccezionale capacità di comprendere, un prezioso e costante senso del pittoresco, una multiforme cultura volta sempre a casi concreti.
Il movimento della sua musica e della sua scrittura ha questo stesso fascino, insieme dell'imprevedibile, anzi del rabdomantico, e del logico e conseguente: dell'avventura a sorpresa e del già tutto prestabilito. Nel suo procedere, tutto ambagi calcolatissime e soste di parentesi e deviazioni ammiccanti, sfolgora improvvisa e decisiva l'illuminazione.
«Il suo stile, la polifonia vocale del XVI secolo, Monteverdi lo perfezionò accostandosi, nell'inevitabile ritardo del suono rispetto alla luce, all'arte del Rinascimento...»: ed è definita con uno scorcio prodigioso la proporzione matematica e metaforica, fisica ed estetica: suono sta a luce, come musica sta a pittura. «Durante il XV e XVI secolo la musica avanzò compatta, quasi volesse dare in forze l'assalto all'avvenire»: un crescendo militare, alla Chesterton, che annuncia il grande secolo musicale europeo. «Sciagurata musica, che cosa sono quei poveri che devono far stare allegri i ricchi? Poveri di spirito, cioè musici, che non sanno far meglio che cantare, sonare e ballare»: una voragine grottesca e apocalittica, alla Ensor, in cui minacciava di sprofondare nell'Ottocento la musica, come avvertì questo nuovo profeta di Babilonia.
La città stessa che ci avvolgeva, Venezia, era per lui la capitale di un mondo infantile, onirico, favoloso. Era la matrice in Malipiero dell'originalissima invenzione delle maschere come simboli d'anima. Sì, quella intuizione fantastica, da poeta autentico, si situa fra i compiaciuti ritrovamenti del Callot all'inizio del secolo, il simbolismo dei Pierrots lunaires e del Petrouchka, il liberty poetico del Lucini, il nostro teatro simbolista degli anni 20 e i vari recuperi della commedia dell'arte. Ma in Malipiero quel mondo, anzi quella che è stata chiamata l'ossessione delle maschere - dalla Morte delle Maschere (1922) continuamente fino alle Metamorfosi (1966) - nasceva tutta dall'interno dell'ispirazione più rigorosa e più sua: non aveva nulla di espressionistico o di dialettale, così come la sua musica respingeva ogni mimesi onomatopeica. Con trasparenza autobiografica mi confidava (e poi avrebbe scritto): «Guai se le maschere mi abbandonassero. Le vedo in folla danzare intorno a me, vorrei ghermirne una per vedere la sua vera faccia. L'uomo si veste con stracci multicolori e si copre la faccia con la maschera per fingersi gaio e amoroso, mentre il teschio ghigna di nascosto... Io non mi tolgo la maschera e recito la mia commedia».
Lo scatto e la battuta, il saettare e il folgorare, fra entusiasmi e risentimenti, fra passioni e puntigli, fra esaltazioni e maledizioni, fra tizzi e fiamme erano i ritmi nativi del vivere e del creare di quell'unicum che fu Gian Francesco. Malipiero li rimescola tutti nella sua musica con prodigiosa leggerezza da virtuoso alla Doni, da artista vero e autonomo nella più estrosa tradizione veneta, dal Marcello e dal Gozzi alla Teotochi e al Nievo; e quei ritmi animano anche il fascino di quella sua bizzosa autobiografia che è l'inedito singolarissimo scritto apologetico Esalazioni epurative (1945).
Alla tavola di Vittorio Cini, cui fra 50 e 70 sedeva spesso, i giudizi sui contemporanei si risolvevano spesso in epigrammi: Schonberg «spiega scientificamente ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, diminuendo le grandi e ingrandendo le piccole»; Bloch, prima amico e poi avversario, era rievocato nostalgicamente: «Allora ci separava solo l'Atlantico»; D'Annunzio - l'amatissimo da questo scrittore visceralmente antidannunziano - era fatto comparire fra le paccottiglie del suo ritiro: «Al Vittoriale... applicò la sua retorica alle idee politiche che lo tormentavano; e gli abbondanti tendaggi, i cuscini, le comode poltrone assorbivano la sua voce senza eco. Il Vittoriale è stato, dal giorno in cui entrò, la tomba di Gabriele D'Annunzio».
Persino certe esperienze, saggiate appassionatamente anche da lui, erano drasticamente ridimensionate. A Cini che gli chiedeva, nel 60, di spiegargli cosa fosse la dodecafonia, che sentiva ancora esaltata in certi compositori contemporanei, lampeggiando di riso critico per le ritardate esagerazioni: «Xe esser ancuo dodese volte cafoni» (e annotava in un suo taccuino «i dodecafonici oggi sono soppiantati dai rumoristi: in realtà il cromatismo, Tristano, fu il precursore della dodecafonia»). E ironizzando anche sul suo nome, dopo che Vittorio Cini per la sua mordacità l'aveva chiamato il Malissimo Piero: «Il nome Malipiero ha una strana origine (documentata): viene da Mastro Piero, latinizzato Maripetrus e venezianizzato Malipiero. Come vedi, contro Cini, niente Piero: e forse i mali provengono dal fatto che sono nato Mastro, da cui Maestro. È terribile».
Ma altra volta molto impegnativamente scrivendomi (16 settembre '56) mentre stavano impostando le edizioni di musica antica alla Fondazioni Cini ed evocando polemicamente il suo rifarsi alle esperienze preromantiche e preoperistiche: «Non so perché la musica debba cominciare col piccolo Donizetti: e che Luca Marenzio, Gesualdo da Venosa e altri dell'«eroica schiera» per dirigerli si debbano presentare ben cotti e conditi con salse beethoveniane; wagneriane e possibilmente mendelssohniane... Non sono riuscito a combattere il Malcostume: anzi, avendo io presentato alcuni autori nudi e crudi, ho contribuito indirettamente alla loro perdizione, ché li ho inviati al domicilio dei vari mercanti di schiavi». E dieci anni dopo, il 24 luglio 1966 (ed è interessante la citazione in questo anno verdiano): «Da più di quarant'anni mi accusano di aver scritto contro Verdi. Ho protestato chiedendo che pubblicassero quello che ho scritto: tutti finì in un silenzio tendenzioso, ché nulla esisteva... I soliti parassiti hanno organizzato una società per riempirsi il ventre, e l'esaltazione che fanno del genio di Busseto è un danno che recano a un grande Musicista che non ha voluto né potuto sollevare problemi».
Continuava autobiograficamente: «Mio nonno paterno scrisse un melodramma Attila, contemporaneamente a Verdi. L'Attila verdiana fu un fiasco; un successo invece arrise a quello di mio nonno. Ira di Ricordi, boicottaggio contro mio nonno, il quale per salvarsi si affidò agli impresari che lo ridussero a zero: ville, campagne, case, tutto perduto. Mentre io, fino dalla più tenera infanzia sentivo imprecare contro gli impresari e gli editori, mai ricordo di aver sentito inveire contro il genio di Busseto. Mai». E con aneddotica umoristica ma illuminante a Guido Gatti nel marzo '64, in una lettera aperta: «Ormai circola nel mondo della musica la leggenda della mia verdifobia che ha avuto origine in quei tempi lontani in cui abitavo due deliziose stanze al mezzanino di una pensione in via Sistina a Roma. Fui costretto a sloggiare perché un organetto più volte al giorno sotto le mie finestre ripeteva sempre le stesse melodie, preferendo l'«Addio del passato» della Traviata. Avrei sofferto pure se avesse scelto il «Lasciatemi morire» di Claudio Monteverdi. Più di quarant'anni sono passati dall'insignificante episodio, ma ingrandito, deformato, serve ancora per una bene organizzata persecuzione. Ogni artista, se dotato di una personalità, difficilmente può adagiarsi sugli immediati suoi precursori, cioè sull'arte che lo precedette...».
Aveva ragione trent'anni fa un critico sensibilissimo alla musica d'oggi, come Mario Messinis, a salutare Malipiero come «L'ultimo Doge della musica veneziana». Era teso, sì, nel sogno di ridare vita a una età irrimediabilmente perduta, quella del Poliziano e dell'Aretino, dello Zarlino e del Burchiello, degli amatissimi Monteverdi e Vivaldi restituiti alla nostra cultura proprio dalla sua squisita sensibilità musicale e dalla sua instancabile attività di trascrittore. Ma era insieme sempre coraggioso e geniale militante sulle prime posizioni, «senza sfuggire agli impegni imposti dalla lingua del nostro tempo»; era sempre più nell'oggi che nell'ieri.
Annotava nel suo ultimo taccuino segreto: «Credo che sia un atto di eroismo vivere, dopo tutto quello che si è perduto, senza doversi considerare dei superstiti». Ma negli ultimi giorni, già quasi più in là che in qua, a chi gli diceva «La vedo bene, Maestro» rispondeva soltanto, con la solita scattosa autoironia, nemica di ogni concessione al sentimento, «Vol dir ch'el ga boni oci».