I dizionari Baldini&Castoldi

La Favola del figlio cambiato di Gian Francesco Malipiero (1882-1973)
libretto di Luigi Pirandello

Tre atti in cinque quadri

Prima:
Braunschweig, Landestheater, 13 gennaio 1934

Personaggi:
la madre (S), l’Uomo saputo (T), Vanna Scoma (A), il Figlio di re (T), il principe (T), la sciantosa (Ms), l’avventore (Bar), la padrona del caffè (A), tre sgualdrinelle (S), due ministri (Bar), il maggiordomo (Bar), il podestà (T); coro di monelli, marinaretti, donne, folla



Dopo il Torneo notturno (1929) la concezione drammatica di Malipiero smarrisce la sua vena più originale. Il lavoro successivo, il trittico I trionfi d’amore , che nella prima parte riprende il motivo della tenzone a suon di canzoni, venne inserito dall’autore nella serie dei lavori distrutti, segnando una nuova pausa di riflessione nella sua produzione teatrale. Accadde così che, quando nel biennio 1932-33 il musicista riprese a occuparsi di teatro con La favola del figlio cambiato , sul testo preparato da Luigi Pirandello per la recita della compagnia degli Scalognati nei Giganti della montagna , impresse una svolta netta ai propri orientamenti drammaturgici. Con La favola , per la prima volta dal dopoguerra, Malipiero torna a mettere in scena una storia unitaria, torna al libretto concepito in modo tradizionale e, utilizzando il testo di Pirandello, riesce a vincere la propria «riluttanza contro i libretti altrui» (i libretti delle opere degli anni Venti, come è noto, erano stati confezionati dallo stesso Malipiero, con ingegnosi e personalissimi incastri di testi di varia provenienza). L’incontro teatrale di Malipiero con Pirandello non fu per nulla casuale. Tracce di ‘pirandellismo’ sono presenti nella tipizzazione malipieriana dei personaggi fin dalle Sette canzoni , tanto che all’epoca Malipiero veniva indicato dalla critica come il musicista italiano più vicino al drammaturgo (ad esempio, Giannotto Bastianelli scriveva che « L’ottava canzone è addirittura Pirandello sulla scena musicale»). Tuttavia, nonostante una certa congenialità di fondo, l’incontro tra musicista e drammaturgo avvenne sulla base di una disposizione in entrambi refrattaria alla collaborazione reciproca. Prima di allora anche Pirandello era stato restio a unire il proprio lavoro a quello dei musicisti: ad esempio, all’epoca del balletto di Alfredo Casella desunto dalla novella La giara si era totalmente disinteressato della cosa. L’opera di Malipiero ebbe così una genesi del tutto singolare, che la avvicina a quella di una Literaturoper : il musicista lavorò sul testo del drammaturgo, il quale però rifiutò qualsiasi intervento in funzione della messa in musica e anzi, a un certo punto, si dichiarò completamente estraneo all’operazione. Scriveva Pirandello a Malipiero in proposito: «io non vedo che una nostra collaborazione diretta, oltre quella che è nel fatto stesso d’averti io con la mia opera offerto una pura e semplice materia da adoperare per l’opera tua, possa riuscire utile; perché tu devi restare solo e libero di fronte al tuo lavoro come io sono stato di fronte al mio».

La ‘materia’ della Favola presentava a Malipiero un Pirandello diverso da quello che presumibilmente più gli piaceva, quello degli anni del teatro del grottesco, della coscienza della crisi che conduce i personaggi a sdoppiamenti laceranti. Tale, tra l’altro, era stato il ‘pirandellismo’ di Malipiero, quello delle maschere tragiche, del teatro nel teatro, della contrapposizione grottesca tra personaggi veri, maschere e burattini, del teatro nel quale s’intrecciano biografie inconciliabili, accomunate da un unico destino di morte. Nella Favola , invece, Pirandello raggiunge una visione assolutamente positiva dell’esistenza, e i motivi del doppio, della dialettica tra verità e finzione vi sono ricomposti in una visione rasserenante, lontana dai dubbi delle maschere grottesche. È infatti nella coscienza del principe, figlio bello e biondo, sottratto a una povera madre dagli spiriti maligni e sostituito con un essere deforme e demente, da tutti beffardamente chiamato Figlio-di-re, che alla fine si attua la conciliazione tra sé come figlio e sé come principe. E tutto ciò senza traumi, senza divaricazioni reificanti tra l’uomo e i suoi sentimenti, bensì come accettazione della realtà dei fatti come migliore condizione esistenziale possibile, come sereno recupero della memoria, alla luce del più solare tra i miti dell’ultimo Pirandello, quello della maternità; di una maternità che è intermediario per un rapporto pacificato con la vita e la natura. Malipiero non nascose la propria perplessità per la conclusione data dal drammaturgo alla Favola (l’identità del principe ritrovata attraverso il sentimento della vera madre e il contatto con la solarità della natura mediterranea), questione che per lui rimase sempre un problema insolubile. C’erano comunque altri aspetti del testo di Pirandello nei quali Malipiero poté trovare una qualche ragione di continuità con la propria concezione drammatica. Innanzitutto c’è nei primi due quadri la presenza tragica della madre, ferita (come la madre della terza delle Sette canzoni e come quella del secondo brano del Torneo notturno ) nel sentimento istintivo della maternità dalla sottrazione misteriosa del figlio vero. C’è poi la presenza straniante dell’Uomo saputo, antidoto alla credulità superstiziosa della madre e delle donne del paese e, nello stesso tempo, schermo a un eccessivo coinvolgimento emotivo, lui «buffo», «panciuto», con movenze «da burattino» in mezzo a un austero quadro di Sicilia arcaica, intrisa di magia, il cui dolore ha la dignità dell’antica tragedia. E c’è anche la presenza nel testo pirandelliano di più registri stilistici, dal burlesco al tragico, dal tono di filastrocca infantile allo slancio lirico.

Tra convergenze e incomprensioni, nella Favola Malipiero finì per mettere in atto – per la prima volta nel suo teatro – un rapporto dialettico tra parole e musica. Egli scrive la ‘sua’ opera anche di fronte a un libretto che, a parer suo, risolve una situazione «assurda in modo paradossale». Al di là di un recupero estensivo del canto in stile recitativo, venato di inflessioni seicentesche, indispensabile per le parti dialogiche, Malipiero impiega infatti anche nella Favola i mezzi che avevano connotato il suo teatro dalle Sette canzoni in avanti: incornicia i quadri di cui si compongono gli atti entro un preludio e un postludio strumentale, alla maniera delle opere ‘a pannelli’; si serve dei soliti metodi asistematici di proliferazione tematica per intensificare con la musica la parola drammatica; si cerca le occasioni opportune per ritagliare nel testo di Pirandello vere e proprie ‘canzoni’, sottratte all’azione e di assoluta concentrazione drammatica. Si pensi in proposito alla sequenza di tre momenti di canzone (della madre, dell’Uomo saputo e delle madri del paese) nel primo quadro dell’atto primo, che si compongono nel flusso continuo del recitativo là dove il canto si fa più regolare nel disegno e nel metro, dove la parte strumentale delinea uno spazio uniforme nel timbro e meno frammentario nella costruzione formale. E si pensi, soprattutto, alla situazione statica (non più narrativa come nel primo atto) con cui vengono rappresentati l’ambiente e le figure della squallida osteria del porto nell’atto secondo, al centro del quale sta la canzoncina burlesca della sciantosa (“La mia vita è qua, la mia vita è là”), il cui andamento cabarettistico è sottolineato da un accompagnamento elementare da pianola. Al contrario di Pirandello, il quale non rinuncia mai alla psicologia, ora come ‘inferno’ del personaggio, dalle cui catene ci si può liberare solo attraverso la maschera, ora – ed è il caso della Favola – come strumento di scavo della verità, i personaggi della Favola malipieriana, al pari di quelli delle Sette canzoni e del Torneo notturno , rimangono tipi chiusi in una fissità emblematica, priva di spessore psicologico. E proprio questo determina una frattura nell’opera malipieriana a partire dal terzo atto, allorché il musicista si trova ad affrontare la svolta positiva del mito pirandelliano (un giorno Malipiero, dubbioso circa l’esito della Favola , si sarebbe chiesto: «una volta assimilato [l’atto terzo] la musica è riuscita a salvarlo e a portarlo per l’orecchio al livello degli altri due?»). Nel momento della ritrovata identità del principe, il pessimista Malipiero ha come un gesto di ripulsa, sembra non stare più al gioco del drammaturgo. Nel monologo del principe già figlio cambiato («Lasciatemi per ora riguardare la bella riviera») ricorre infatti a ciò che per lui era sempre stato la negazione dell’opera in musica: per la voce tenorile del figlio cambiato egli si attiene a una vena lirica espansiva, spinta verso il registro acuto, nella quale sono chiari i segni della tradizione melodrammatica e, in particolare, della vocalità veristica. Per Malipiero quest’opera, con il ritorno alla vicenda unitaria, al libretto dialogato, e con il conseguente uso estensivo del canto recitativo, avrebbe sancito il definitivo trapasso del suo teatro a una concezione ‘lirica’, prevalente nei lavori degli anni Trenta, ispirati a un’ideale classicità ( Giulio Cesare , Antonio e Cleopatra ) e non del tutto esenti da intenzioni encomiastiche nei confronti del regime fascista. Per le tendenze moderniste della musica e dell’opera italiana del primo Novecento, l’insuccesso della prima rappresentazione italiana della Favola (Roma, Teatro dell’Opera, 24 marzo 1934), sospesa per volere di Benito Mussolini, irritato per gli spunti polemici contro il potere regale, sancì l’inizio di una svolta restaurativa che metteva fine a un’epoca di ricerca di nuove soluzioni drammatiche.

v.b.

Dizionario dell'Opera