I dizionari Baldini&Castoldi

Giulio Cesare di Gian Francesco Malipiero (1882-1973)
libretto proprio, da Shakespeare

Dramma musicale in tre atti e sette quadri

Prima:
Genova, Teatro Carlo Felice, 8 febbraio 1936

Personaggi:
un tribuno (Bar), tre cittadini (T, Bar, Bar), Giulio Cesare (Bar), Calpurnia (S), Marco Antonio (T), Bruto (bar), Cassio (Bar), Casca (T), Decio (B), Cinna il cospiratore (T), Cinna il poeta (T), l’indovino (Bar), Lucio (T), Porzia (S), Ligario (T), un servo di Cesare (Bar), Metello Cimber (Bar), Ottaviano Augusto (T), un messaggero (Bar), Pindaro (T), Volumnio (Bar), Stratone (B); cittadini, popolo, soldati



In seguito all’esperienza della Favola del figlio cambiato , ritirata dall’Opera di Roma per volere di Mussolini dopo la ‘prima’ italiana del 24 marzo 1934, Malipiero volse la propria attenzione verso testi e soggetti poco o nulla in sintonia con l’idea di teatro che egli aveva realizzato nelle opere degli anni Venti. Già nel Festino e nella Favola la decisione di utilizzare libretti dialogati, d’impianto abbastanza convenzionale e tratti da altri aveva segnato una svolta rispetto ai metodi drammaturgici dei lavori come l’ Orfeide , Filomena e l’ infatuato , Merlino mastro d’organi e Torneo notturno . Svolta che risultò ancor più marcata nel Giulio Cesare , scritto nel 1935 sulla base di una propria riduzione del dramma di Shakespeare. Con Giulio Cesare , infatti, Malipiero sembra trarre ispirazione da posizioni per lui insolitamente convenzionali e allinearsi al nuovo mito della romanità, imposto dal regime fascista: «Ho scelto Giulio Cesare – confesserà – perché nell’aria c’era qualche cosa che mi spingeva verso un eroe latino». Ciò che indusse Malipiero ad affrontare il nuovo soggetto fu innanzi tutto la volontà di smentire le critiche suscitate dalla vicenda sfortunata della Favola del figlio cambiato , tanto che, opportunisticamente, l’autore dedicò il Giulio Cesare a Benito Mussolini.

Il libretto, nel quale Malipiero traduce con varianti minime il dramma shakespeariano, presenta in generale caratteri poco congeniali per un’opera (si pensi, ad esempio, all’elevato numero di personaggi – in tutto 27 – alla maggior parte dei quali spettano apparizioni fugaci) e, in particolare, per un’opera di Malipiero, il cui mondo teatrale era costituzionalmente poco incline alle sottigliezze e ai dettagli psicologici del testo shakespeariano (va ricordato che proprio nei risvolti psicologici della vicenda del principe-figlio cambiato nella Favola di Pirandello, la musica di Malipiero era incorsa in vistose incongruità stilistiche). Non diversamente da quanto messo in evidenza nell’ultimo atto della Favola, anche in Giulio Cesare la musica di Malipiero non riesce a dar forma a personaggi dotati di una fisionomia in divenire e, al massimo, come nel caso del motivo squillante di fanfara che da un capo all’altro dell’opera connota la fermezza di Cesare, li blocca in un contrassegno motivico fisso, immutabile. Alla definizione dei personaggi e del dramma non può infatti concorrere il recitativo malipieriano, fatto di implacabile declamazione sillabica, percorsa dalla ripetizione di brevi incisi e punteggiata da monocordi movenze cadenzali e sempre più incline al ‘parlato’ (il libretto stesso è per lo più in prosa, tranne nelle parti corali in latino). Imomenti più significativi dell’opera rimangono pertanto quelli in cui Malipiero si ferma a considerare per un attimo condizioni umane esemplari: i presagi di morte di Calpurnia nel secondo atto, affidati a un canto che procede per linee cromatiche in un tessuto armonico fitto di dissonanze; l’accorato addio di Antonio a Cesare nel medesimo atto (“Possente Cesare! Sei tu caduto tanto in basso?”). Ma la deroga più accentuata al dramma di Shakespeare si compie nel finale dell’opera. Al suicidio di Bruto segue il trionfo di Ottaviano, accompagnato dalla folla inneggiante sui versi del Carmen saeculare di Orazio (“Alme sol, curru nitido diem”). L’intento encomiastico nei confronti del dedicatoario dell’opera vi appare fin troppo evidente, anche se, con sottile ironia, l’autore avrebbe definito la ‘romanità’ trionfalistica di questa pagina, ma ben accetta al regime, un vero e proprio «finale da melodramma».

v.b.

Dizionario dell'Opera