FEDELE D'AMICO

RAGIONI UMANE DEL PRIMO MALIPIERO

L'OPERA DI G. F. MALIPIERO
pp. 110-126
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«Nel 1914 la guerra sconvolse tutta la mia vita che, fino al 1920, fu una perenne tragedia. Le opere di questo periodo rispecchiano forse la mia agitazione, ciononostante ritengo che, se qualcosa ho creato di nuovo nella mia arte (forma-stile), è appunto in quest'epoca». Questa dichiarazione di Malipiero, che togliamo da una lettera medita, autorizza in qualche modo a dare un'attenzione particolare al primo periodo malipieriano; intendendo naturalmente escluso da questo periodo il momento della formazione giovanile, normale in ogni artista, e comprendendovi invece gli anni che vanno all'incirca fino al Torneo notturno (1929), e in cui i modi e i motivi dello stile approfondiscono, ma senza divergerne, i cardini affermati nel 1914-1920.
Dopo il Torneo, com'è noto, Malipiero trova nuove direzioni e risoluzioni: ne sono vistosa riprova, a una semplice considerazione esterna, sia la scomparsa dell'antica violenza timbrica come l'abolizione della cosiddetta costruzione «a pannelli» [1] in pro di un discorso unico (donde, tra l'altro, l'accettazione di libretti altrui, o tolti da drammi preesistenti). Non si vuoi davvero affermare con questo che dopo il 1929 Malipiero abbia compiuto l'impossibile operazione di rinnegare se stesso, e quindi non offra più interesse. Ma soltanto che quel primo periodo ha fissato certi cardini del suo mondo, mantenendo scoperti quei motivi che più tardi s'andranno risolvendo in una nuova sintesi che li supererà e forse annullerà come tali: una sintesi diversa da quella che riscontreremo in tanti dei lavori 1917-29, e capace di nuovissime imprese: per esempio di ritrovare (vedi La Passione) l'aperta disponibilità espressiva del declamato monteverdiano, irreperibile nella chiusa e univoca tensione dei lavori del periodo precedente.
E poichè qui non si fa questione di date, ma di posizioni, si tralascerà l'esame di quell'unico lavoro (La Cena) che, pur composto nel 1927, è già compiutamente nella «seconda pratica» malipieriana. Mentre potranno rientrarvi, almeno in parte, lavori come i Cantàri alla madrigalesca (1930) o La favola del figlio cambiato (1933), che, pur con qualche segno del nuovo stile, mantengono molte posizioni del primo.
Tradizionalmente, la critica malipieriana s'impostò sopra un'indagine formale; intendendo questa parola nel senso puramente tecnico, di pratica musicale (forma-sonata, e simili). Quel che colpì inizialmente, in Malipiero, fu soprattutto l'assenza di sviluppi tematici e la costruzione «a pannelli», ossia per elementari contrasti. In Malipiero «l'opera musicale è materiata di soli temi», notò subito (1918) G. M. Gatti [2]: il che torna a dire che codesti temi non sono dunque, a parlar propriamente, dei veri temi, ma delle idee liricamente fermate una volta per sempre. La soppressione dello sviluppo tematico, in sè, non era fenomeno nuovo: basti pensare a Mussorgskij e a Debussy. Ma dal primo, legatissimo di volta in volta alla intonazione della parola e ai liberi suggerimenti del testo letterario, ovvero a una costruzione derivata dal canto popolare (e cioè variata solo dinamicamente), l'immobile «semplicità» del quadro malipieriano si distingueva nettamente; e il distacco dal secondo, teso tutto su una ricerca d'atmosfera armonico-timbrica, della franca impostazione melodica e dranimatica di Malipiero, era forse anche più netto.
La constatazione iniziale della critica non riuscì tuttavia, coll'andar degli anni, a inserirsi in un giudizio ulteriore, più concreto. Anzi il metodo formale di Malipiero, una volta trasferito sul teatro, terreno scottante di tante dispute, apparve più che mai vistoso e radicale; e la soluzione del problema della coesistenza di prosa e poesia nel dramma scenico, raggiunta coll'audace soppressione di uno dei due termini del vecchio dualismo, portò fatalmente a che l'attenzione fosse accaparrata definitivamente dal fatto formale. E come non è ormai più possibile che il giudizio sul teatro di Pizzetti non venga noiosamente esaurito, per nove decimi, nella questione del declamato, così tutti tesero insensibilmente a esaurire quello sul primo Malipiero nella constatazione che, fino al Figlio cambiato escluso, quel teatro viveva dell'abolizione dell'«azione» in favore di una suite di liriche.
L'unico apporto recato alla critica malipieriaria dopo gli studi iniziali di G. M. Gatti (le cui conclusioni furono riprese di peso da quasi tutti) e quelli, per buona parte divergenti, di H. Prunières, fu certo l'esame attentissimo che, più ancora che sulle condizioni dell'architettura e della dialettica malipieriana, Gastone Rossi-Doria andò compiendo, via via, sul linguaggio. Ma si rimase, comunque, in questi limiti: l'indagine linguistica. Tralasciamo naturalmente le qualifiche esornative e generiche dei più; anche nell'attenta intelligenza dei critici citati (ed episodicamente di qualche altro minore) non si affrontò mai in pieno l'altra indagine, a cui le prime appaiono oggi solo come propedeutiche. Al più si adombrò qualche corollario immediato, si riscontrò qualche sparsa testimonianza. Ma sul valore umano di quelle premesse stilistiche non pare che si sia mai fissata fino in fondo l'attenzione; chè certo non sono motivazioni gl'innumerevoli rinvii dei critici stranieri al concetto d'«italianità» (precisato poi, nella più parte dei casi, coll'arbitrio più disinvolto). Per quale ragione interiore Malipiero abbandonava la dialettica romantica? E una volta constatato il suo riallacciarsi agli antichi italiani, in quali termini, e soprattutto da quali necessità sorgeva questo ricorso alla tradizione?
Qualche chiarimento, se non altro, s'ebbe dal saggiare Malipiero al vaglio della disputa, obbligatoria per molti anni del nostro secolo (e ora, fortunatamente, non più di moda), se egli fosse un classico o un romantico. «Ideale classico di un irrequieto spirito romantico», lo disse Gatti: e fu forse la formula che più s'avvicinava al vero. Altri (Coeuroy, per esempio) lo dissero nettamente romantico, e d'estremo romanticismo almeno per buona parte della sua opera («romantisme de fumées lourdes qui traînent obstinément sur tout l'oeuvre symphonique et camérier de Malipiero, et jusque sur les petits tableaux scéniques des Sept chansons. Romantisme qui réclame un antidote», addirittura. «Et la plus jeune génération va le chercher dans la symphonie du XVIII siècle»). [3] Prunières parlò di barocco. Altri infine [4] lo fece addirittura un classico, senz'altri codicilli. E a quest'ultima conclusione non occorreva meno del frettoloso e sprovveduto fervor polemico d'un «moins de vingt ans». Giacchè classico, se le parole hanno ancora un senso, non importa ripetere che Malipiero non fu mai; per la buona ragione che egli è artista moderno, e radicalmente impegnato nella modernità come pochi.
Ma quel dichiararlo tale, e guardarlo sotto quell'angolo visuale, servì a definire, se non i motivi, almeno le categorie e le possibilità dell'«ideale classico»; chiarendo una volta per tutte che in termini di musica italiana la classicità, lungi dal coincidere colla venerazione di forme canoniche, è storicamente libertà formale assoluta, condizionata solo dalle sue occasioni espressive e al più rilevata (l'istinto, con ariosità spensierata, sulla tradizione corrente, ma non mai provocata, germanicamente, dalla lotta con forme prestabilite. Fu insomma, quel chiarimento, almeno la denuncia dell'errore commesso dai ndoclassici, i quali identificavano il classicismo col momento iniziale della forma-sonata, ossia, col nascere del romanticismo; e credettero di ringiovanire scrivendo sinfoniette in luogo di sinfonie. Laddove l'«ideale classico», seppure soltanto ideale, sogno, nostalgia, era veramente appuntato sugli splendori più intatti e folgoranti della classicità italiana: ossia libera, aperta, senza temi formali obbligati. Si vedrà più oltre in che senso.
Come s'è accennato, il ripudio della dialettica sinfonica sviluppativa non è fatto nuovo, ma uno dei caratteri più noti di molta musica moderna. Tuttavia di regola il fenomeno ha un carattere specificamente musicale: è la fuga da una struttura sintattica che s'era ispessita, agli occhi dei musicisti nuovi, in una retorica pesante. In Mussorgskij questa fuga fu il mezzo di ritrovare una verginità linguistica capace di dar libero corso a un ricchissimo temperamento di inventore di persone e situazioni, nelle quali si proponeva addirittura l'esame di un'umanità gogoliana, inedita in musica. In Debussy e successori, invece, fu lo stimolo a evadere da impegni romanticamente «espressivi» nella pura ricerca stilistica, che è quanto dire nell'ambizione di raggiungere inediti climi di fantasia musicale. La poetica debussiana dell'arte come beau mensonge», seguìta più o meno consapevolmente da tanti altri, è tutta qui: evasione nella fantasia pura, spicciando i risultati da mille occasioni diverse, letterarie o musicali.
Da tutt'altre esigenze è motivato il fenomeno in Malipiero. Già nei lavori sinfonici come le Pause del silenzio (1917) la netta impostazione architettonica a contrasti elementari, che poneva dunque vigorosamente una drammatica dialettica, sia pure rudimentale (irreperibile in un Après-midi d'un faune, in un'Iberia, in un Nuages), lasciava intendere che la sua ambizione non si limitava a una definizione d'atmosfera. Ma il trasferimento di quell'impianto nel campo del teatro, ossia del dramma scoperto, e un trasferimento condotto con così temeraria coerenza, precisa senza possibilità d'equivoci i suoi moventi profondi.
Le ragioni della negazione malipieriana del sinfonismo a sviluppi, e insieme dei luoghi discorsivi e d'«azione» sul teatro, non sono affatto musicali. È in lui non tanto la sazietà di certi modi linguistici quanto la sazietà di ogni elaborazione morale dei bruti fatti umani, soprattutto se condotta attraverso una storia, un progredire psicologico: descritta nel suo divenire. E insomma un «j'ai lu tous les livres», portato alle conseguenze più radicali: l'orrore fisico della «storia», del romanzo, del proustismo. In questo artista così spesso luminoso e raggiante, e talvolta addirittura gaio, cova, come un rancore implacabile e dolorante, uno dei più conseguenti pessimismi sul valore demiurgico dell'uomo europeo all'uscita dal romanticismo: la scoperta improvvisa della vacuità d'ogni sistemazione intellettuale del destino umano. Le categorie elaborate da secoli d'umanesimo erano ben rimaste nella sua mente, ma divenute improvvisamente vuote di potere pratico, incapaci di stringere alcunchè: immense «facoltà» astratte, inoperanti, buone ormai solo a mantener vivo un tragico confronto colla loro antica pienezza. Donde la nausea per il brulicare tuttavia in marcia della vita, della storia, del divenire, inutili e incomprensibili. Donde la diffidenza, nel musicista, per il secolo in cui la musica aveva tentato vittoriosamente di articolare le sue più complesse architetture per adeguarle a questo moversi della vita, sino a fare la riflessione morale materia del proprio linguaggio, ragione della propria presenza.
La posizione di Malipiero in questa situazione non è di smarrimento, ma di tragica angoscia. Il suo umano riscatto non si produce in un'evasione, ma appunto nella ostinazione eroica di guardare fino in fondo questa situazione, e farne materia tragica. Rimangono dunque nel suo dramma, come forze in conflitto, i soli moti assolutamente elementari dell'esistenza, ridotti a fissi dualismi, senza possibilità di progresso, di storia: l'amore e l'odio, la felicità e la disperazione, la vita e la morte. I suoi personaggi non sono uomini in divenire, ma pure allegorie. «Alle seine Figuren könnten Masken tragen» ha ripetuto un critico tedesco anche dopo il Figlio cambiato (dove pure la forma a pannelli del primo Malipiero è superata) [5]
L'unica elaborazione intellettuale che Malipiero possa ammettere è questa: la trasposizione nel simbolo, il ritorno letterale alla Sacra Rappresentazione. Variano, e non molto, i pretesti, ma i suoi personaggi sono solo nomi e figurazioni diverse di due soli personaggi, che ripetono all'infinito le proprie ragioni. E neanche dovrebbero dirsi propriamente dei personaggi; ma solo proiezioni di due poli, di due forze, le sole forze esistenti: l'una, il sogno d'un'incantata bellezza, l'altra la distruzione di questo sogno, il suo insensato e inevitabile destino di morte. In questi termini il primo Malipiero riscrive ogni volta, con tragica e kafkiana ostinazione, lo stesso pezzo.
Il polo della vita, della felicità, della bellezza, è riposto per il primo Malipiero in un incantesimo di pura musica. Molto spesso anzi i personaggi che simboleggiano questo polo non sono altro che esplicite allegorie della Musica, del Canto, traduzioni del millenario mito d'Orfeo (Filomela e l'infatuato, Merlino mastro d'organi, Il Finto Arlecchino). Ma è quasi inutile aggiungere che il mito persiste implicito in tutti i lavori del primo Malipiero, teatrali o sinfonici che siano: è l'unico mito, l'unica religione che Malipiero conosca. Donde il senso profondo del suo ritorno ai veneziani del Cinque e Seicento (e non ai soli veneziani, perchè Gesualdo vi ha un posto importantissimo. E non al solo Cinque e Seicento, perchè anche il Settecento può trovarvi la sua parte, e nel suo senso specifico: vedi La Principessa Ulalia, Il Finto Arlecchino, e anche qualcosa di Filomela). Non è dunque il solito «ritorno» neoclassico, condotto a scopi essenzialmente stilistici. La passione di quel mondo per Malipiero è una necessità sentimentale: è la proiezione del suo sogno d'un luogo d'incantato timbro sonoro, di freschezza sorgiva e lontanissima. È il ritrovamento d'un Eden: in questi termini va chiarito l' «ideale classico» di cui parla Gatti. Nessun inconveniente, pertanto, a parlar d'estetismo, salvo a notare che questo estetismo, diversamente che in ogni altro musicista contemporaneo, non sta da sè, e tanto meno è gratuito spleen, ma è l'elemento d'un dramma, di cui si vedranno presto i termini.
È possibile tuttavia che, prima ancora che se ne fosse intesa la funzione dialettica e drammatica, il valore di nostalgia d'un mondo perduto, appunto il «timbro» di questo linguaggio fosse la ragione più immediata del fascino travolgente che Malipiero esercitò sulla nostra adolescenza: quell'italianità che si perdeva nelle radici dei nostri secoli più solari, tramandati alla memoria degli uomini dagli accordi luminosi dei più prodigiosi pittori; e serbante intatto, sebbene racchiuso nei termini d'un linguaggio individualissimo, il conforto arcano d'una patria ideale, misteriosa e dolce d'una materna tenerezza. Si pensi al folgorio timbrico di quasi tutto il primo Malipiero. Nè si dice timbro solo in senso strumentale: è il timbro della melodia, dell'armonia, in una parola del suono malipienano. Sotto questo riguardo, nessun dubbio che Malipiero fu, per noi musicisti italiani, quel che Debussy era stato, vent'anni prima, per noi musicisti europei: il riscopritore d'un luogo sonoro, d'un puro suono di conturbante freschezza.
Ora, appunto, quest'altezza di linguaggio con cui Malipiero ha rievocato il suo sogno è garante della sua serietà interiore, quella che dà alla sua allegoria la presenza concreta del personaggio vivo: nutrito del sangue con cui si amano le creature umane.
E che in quest'allegoria sia l'unico polo positivo del primo Malipiero non è dubbio per noi. Neanche le Commedie goldoniane fanno eccezione, come si pretenderebbe da qualcuno, perchè il loro ultimo impegno non è volto davvero alla definizione di caratteri, ma ad una rievocazione tutta coloristica del mondo goldoniano (di un mondo, anzi, assai più acceso e violento, tutt'altro che settecentesco, di quello goldoniano), a cui i «caratteri» non sono che felice pretesto. Le Commedie goldoniane non sono che una valvola di sfogo di un temperamento troppo ricco per non essere disposto ogni tanto a volgere il sogno di bellezza in festa cordiale ed esuberante, staccandolo momentaneamente dalla sua funzione drammatica per lasciarlo vivere da solo, spensieratamente. Esse sono insomma allo stesso piano di alcune Impressioni dal vero e, soprattutto, quasi per intero, dei quartetti, nei quali, per confessione stessa dell'autore, si mira a «uscire dall'atmosfera della musica da camera per farci respirare l'aria libera della strada e della campagna» (ma anche in essi, qualche volta si accende un loro tono drammatico: vedi la chiusa straordinaria dei Cantàri).
Così è ancora delle macchiette del Finto Arlecchino, che possono serbare un valore di caratteri solo in quanto francamente comiche, ma in realtà restano pretesti alla sentimentale rievocazione d'un colore complessivo; il loro ridicolo, infatti, caso ben notevole nell'autore d'un'Orfeide, è visto senza acredine. Gli è che il Settecento è così lontano che Malipiero ne può ancora vedere i personaggi in una luce tenera e distante, indulgentemente patinata; non è davvero il ripugnante ridicolo della vita quotidiana, ma quasi una materia infantile, che prende risalto dal contrasto colla grazia improvvisamente più seria e quasi dolente del madrigale del protagonista, e del minuetto finale.
In via normale, dunque, nel primo Malipiero l'«ideale classico» non è che uno dei due poli d'un dramma. Se qualche volta questo polo rimane senza il suo antagonista, è nei casi in cui il musicista s'oblia per un istante a lasciare il suo personaggio spensierato, incurante del suo destino ultimo. Così è per lo più nei quartetti o nelle Commedie goldoniane richiamate più sopra, e ancora in buona parte della rievocazione mistica del San Francesco, che è pur sempre ripensamento nostalgico, non certo preghiera francescana in proprio nome.
L'altro polo è la morte, il disfacimento. La «bellezza» malipieriana era evocata da un tocco di castità tenera e raggiante: quasi un d'Annunzio spoglio via via di naturalismi e sadismi ed ebbrezze immaginifiche: il d'Annunzio delle intatte altitudini alcyoniche. Appunto su questa intatta «bellezza», su queste carni verginali scoppia ogni tanto, improvviso, l'orrore della morte. Come nel famoso colpo di scena baudelairiano: «Et pourtant vous serez sembiable a cette ordure, - A cette horrible infection, - Etoile de mes yeux, soleil de ma nature, Vous, mon ange et ma passion».
Non di rado (ma non nella più parte dei casi) la morte compare sulla scena dichiaratamente, col suo macabro nome e cognome: caso tipico, Le Sette canzoni. Si può pensare allora, per la qualità dell'amarezza, e dei suoi acri compiacimenti, a Pirandello. E il pessimismo pirandelliano ha in comune con Malipiero, difatti, la riduzione dell'esistenza a certi moti elementari, spogli d'investitura morale; tuttavia lo scrittore, narratore per eccellenza e cioè inventore di un popolo di casi e di personaggi, s'era dato a riscontrare questa situazione nel fluire della vita reale, nella storia quotidiana e particolareggiata dell'infinita miseria borghese e piccolo-borghese, muovendo alla tragedia da una minuta indagine dell'insoddisfatto edonismo degli uomini; e senza proporre, come termine antagonistico di riferimento, nessun sogno incantato, ma la vacuità stessa d'ogni sete di piacere. In Malipiero la nausea è tale che egli può gettare lo sguardo su quella miseria solo di scorcio, tipizzando le situazioni in macchiette allegoriche, abbozzate colla fretta rabbrividita con cui si tocca una carne ripugnante, oscenamente denudata. Con un astio sgomento e feroce, che tenta di sopraffare lo sgomento totale con una violenza iraconda. (Il suo incontro con Pirandello fu difatti possibile, nella Favola del figlio cambiato, solo in quanto Pirandello vi traspose i suoi motivi nei termini d'una favola allegorica; e l'inferiorità del terz'atto rispetto ai primi due si deve appunto alla presenza, in questo, dei toni francamente discorsivi del protagonista; il quale, tra l'altro, nei suoi sogni di vita semplice e ingenua non s'incontra affatto col sogno di altissimo incantesimo che è la mèta di Filomela, del Viandante muto di Merlino, e insomma dei personaggi malipieriani).
Anche qui, dunque, i personaggi possono dirsi più che mai «Masken tragen». E anche in un senso più letterale; giacché la mascherata funebre (Sette canzoni, Maschere che passano, e mille altri esempi) è il luogo tipico del macabro malipieriano. Tuttavia non diremmo che in questo macabro Malipiero da il meglio di sè; forse neanche quando lo dissimula come ultima risonanza di quei personaggi «grossolani» che s'oppongono con enfasi amara al personaggio-Canto (l'Infatuato di fronte a Filomela). La stessa violenza convulsa delle ragioni autobiografiche impedisce, per lo più, una compiuta trasfigurazione in arte. E a dispetto di pagine che portano il segno incancellabile di un ingegno prepotente, e certo restano a loro modo tipiche di un temperamento, non siamo di quelli che collocano le Sette canzoni sul piano delle Pause del silenzio, di Pantea, del San Francesco, delle Commedie goldoniane, delle Stagioni Italiche, delle Aquile d'Aquileia, del Finto Arlecchino, di Merlino mastro d'organi, (lei Cantàri alla madrigalesca, e a fortiori, del Torneo notturno; per restare nei nostri limiti. Ora, appunto sull'Orfeide (e cioè La morte delle maschere, Sette canzoni, Orfeo) si fonda l'interpretazione «barocca» di Prunières, il quale parla del «meraviglioso» dei nostri antichi scenografi [6] e di una felice « stravaganza» fantastica, naturalmente incurante di logica.
In realtà, anche il burlesco della Morte delle maschere e dell'Orfeo, o di certe pagine pianistiche, è tutt'altro che ricco, felice, sgargiante: ma chiuso, triste, fatto d'astiosa isteria e di sarcastica rivolta. E non mai risolto in un significato preciso; ma steso con segni frettolosi e approssimativi, spesso equivoci, che contano troppo sui privati rancori dell'uomo, e non si chiariscono in una fisionomia obbiettiva. Che questo Malipiero barocco e macabro abbia «fatto colpo», nessuna meraviglia, data la temeraria stranezza del caso, così inedito sul mercato musicale, e gl'innegabili lampeggiamenti d'ingegno che vi si facevano luce a tratti. Ma in sè il suo valore è soprattutto documentario, in quanto scoperta attestazione di quell'ossessione della morte che trova ben più valida trasfigurazione per altre vie.
Agghiacciante ossessione. Nessuna risoluzione della morte sembra più possibile in Malipiero: non una spiegazione trascendente o filosofica, non una pietà dostoievskiana, neanche una leopardiana «illusione». E un Musorgskij, quanto lui pessimista, era pur distratto e sostenuto dall'amore inguaribile per gli uomini, per la sapida vita che gli scorreva intorno. Ma per Malipiero la vita quotidiana è solo nauseabondo brulichio d'insetti, la «molto triste buffonata» pirandelliana. E la morte gl'ispira solo un terrore senza ricupero: talvolta risolto, come s'è visto, in disperata protesta; talvolta nella sgomenta fissità contemplativa che provocano gli avvenimenti ciechi, senza senso.
Appunto per questa seconda via Malipiero raggiunge la trasfigurazione artistica più concreta, compiutamente probante; quando cioè il compiacimento macabro è messo da parte, e l'occhio che contempla non reca torbidi pesi sensuali, rancori non risolti. È il caso di quando l'oscura ossessione della morte prende corpo nel sinfonismo tempestoso e febbrile di alcuni «pannelli» di certi lavori sinfonici (esempio, le Pause del silenzio); o addirittura sostiene tutto lo sfondo del dramma, per farne emergere solo a tratti, a contrasto, i lampi del «canto»: come in Pantea, primo compiuto capolavoro di Malipiero, e a tutt'oggi uno dei maggiori.
Ma più alta è la trasfigurazione di altri casi, sempre più frequente da Pantea fino al Torneo notturno, e, scopo ultimo, catartico, di tutto questo periodo: la trasfigurazione cioè dell'ossessione della morte in lirica contemplazione, nelle scene di canto puro; ossia appunto nel seno stesso di quelle zone che inizialmente si ponevano come «sogno di bellezza». come polo opposto della morte.
Il momento critico, l'esperienza centrale di questo passaggio è visibile soprattutto in Filomela e l'Infatuato. Già prima di questa opera (1925), e cioè nelle dolorose zone di canto di Pantea (1919), nel San Francesco (1921), in buona parte delle Stagioni Italiche (1923) [1], e in alcuni adagi delle Pause del silenzio (1917) e dei due primi quartetti (1920 e 1923) sono ravvisabili momenti sensibilissimi, in cui lo stornellante arabesco che è all'origine del canto malipieriano (simbolo scoperto della sua estatica, immobile aspirazione alla musica come luogo incantato) si scioglieva con ogni cautela, e cioè senza perder nulla della sua astratta «bellezza», in melodia articolata. È ben vero che in Filomela si ha per lo più un ritorno all'arabesco puro, sostenuto tuttavia da una tensione timbrica eccezionale, paragonabile alle più fulgide violenze bartokiane; quasi che l'autore voglia scuotere fino in fondo, per l'estrema volta, quel suo antico dogma linguistico (e si può dire quasi con certezza che ve lo esaurisce per sempre, scoprendone i limiti in quello stesso senso d'incompiutezza che ne rimane a questo dramma, teso internamente a produrre un nuovo vino a cui i vecchi otri non bastano). Ma al tempo stesso sono in Filomela tentativi espliciti di far scadere i termini dell'arabesco a pure componenti di una dialettica ritmica superiore, più avanzata che nei lavori citati: è il caso dello straordinario duetto di Filomela col Principe d'Argento, i cui modi si ritroveranno in certe cantilene del Figlio cambiato, di risultato quasi schumanniano: e cioè di favola rievocata in una espressività romanticamente sciolta e sensibile (vedi soprattutto il secondo quadro del prim'atto).
Lo scopo è raggiunto in pieno in Merlino mastro d'organi (1926) e quindi nelle Aquile d'Aquileia (1928): lo scopo, dicevamo, già esplicito nei lavori citati, ma qui cresciuto a suprema maturazione, di raggiungere l'articolata melodia senza perdere in nulla l'intatta bellezza dell'antico arabesco; anzi innervando questo stesso arabesco di significati più profondi. Ora, appunto in questo innervarsi avviene la trasfigurazione che si è detta, ossia la muta risoluzione del senso della morte in quel medesimo «canto» che all'inizio si configurava come polo opposto. Si vedano la melodia-base di Pantea, e il Cantico delle Creature del San Francesco («per sora nostra Morte corporale...»), e la prima delle Stagioni Italiche, e il madrigale delle tre sorelle e il canto del pastore del Merlino, e il pianto della madre e l'inno a Venezia nelle Aquile di Aquileia. Sono i culmini del primo Malipiero.
Tanto risultato fu possibile solo in quanto lo sguardo rivolto all'incantato luogo sonoro del madrigale antico sentì quella sua intatta freschezza non già come un'ingenua innocenza, ma come frutto carico d'una «civiltà» suprema di cui era rimasto solo il vapore, la memoria lirica, ma scaduti per sempre, rovinosamente, i lieti travagli umani, le articolate avventure che li avevano prodotti. Era insomma, questo amore, la commemorazione di una morte, un seppellimento; che è appunto, sempre, seppellimento di spoglie affaticate, di temporali interessi, per lasciarne in vita solo un'immagine, una memoria immateriale: col rimpianto tuttavia cocente che tutto quello da cui questa larva superstite fu creata sia veramente, irrimediabilmente trapassato. Era fatale dunque che uno sguardo tanto casto e severo non potesse elaborare a lungo il ripensamento di quella antica bellezza in sè e per sè: semplicemente gioire di quel timbro prezioso di linguaggio, complice la prodigiosa rapidità con cui l'aveva estratto, purissimo, dal cuore della sua nostalgia. La serietà assoluta di questo sguardo non poteva ammettere che quello scintillio prezioso desse insomma nel mero estetismo. Era inevitabile che le urgenti ragioni che l'avevano sostenuto all'inizio, magari ponendo provvisoriamente l'accento, qualche volta, sulla sola «bellezza» nell'ansia di elaborarla e fissarla per sempre, era inevitabile che lo volgessero dalla parte opposta, ossia sempre più verso i suoi motivi profondi: a intendere il sogno di vita verso il suo scopo più vero, verso l'unica catarsi possibile.
Ora dunque, una siderale e pacata tristezza, una malinconia ferma e altissima illuminano, e insieme incupiscono, al momento culminante, i più felici abbandoni al canto; l'ombra del disfacimento affiora impercettibile, misteriosamente placata, al punto stesso di saturazione dell'ebbrezza di vivere, nel cuore stesso di quelle sonorità fonte dalle carni tizianesche della sua allegoria: e dona al vivere la condanna della serietà suprema.
Senonchè la situazione, ormai così chiarita al limite delle sue possibilità, poteva offrire dei pericoli. L'antica costruzione a pannelli, ossia con i poli del dramma affiancati, dialettizzati non interiormente, ma solo da un contrasto immobile era ancora il metodo dominante: a segno che il prevalere, alla fine, dell'uno o dell'altro elemento, non bastava a superare la presenza dell'altro. Ora, quella sintesi di cui si è parlato, dei due poli in uno solo, della risoluzione della morte nel canto, si avviava forse a spegnere (lei tutto il divenire del dramma, per elementare che fosse, avvivandosi solo del contrasto con elementi non più d'incantata «bellezza» ma, in vario senso, di «festa»: quali dunque, meno ricchi di motivi umani, potevano tendeve probabilmente a divenire col tempo esterno «balletto».
Già tuttavia nelle Aquile d'Aquileia, lavoro di assoluto equilibrio architettonico, certo il più perfetto dato fino allora da Malipiero, s'indicavano in concreto dei mezzi di riscatto. Da un lato l'elemento della «festa» si giovava dei moventi profondi di una rituale celebrazione: motivo non occorre dire quanto schietto, nell' «ideale classico» malipieriano. E difatti risultava in pratica spontaneamente accordato, nella sua serietà austera, al tono di «canto» nel pianto della madre, e infine addirittura compenetrato con esso nell'inno finale, così glorioso e insieme così grave di tristezza: facendo insorgere, al solito, il fantasma della fine nel culmine stesso della glorificazione (a segno di rendere inutile la presenza dei Corvi di San Marco, già implicita nelle risonanze accorate della celebrazione delle Aquile, e difatti risoltasi in pratica, per buona parte, in una rivista dei vecchi motivi malipieriani d'acre sarcasmo, ormai decisamente rimpiccoliti e poveri di risonanza al confronto con gli altri). Dall'altro il linguaggio stesso si mostrava pronto, puntualissimo, a registrare le nuove esigenze, con una «novità» autentica, e cioè il franco impianto tematico di tanta parte del lavoro; con un vero e proprio tema conduttore che dava luogo qualche volta addirittura a uno sviluppo, conferendo al tessuto sinfonico della celebrazione una sal. dezza, un peso inequivocabile e lampante nell'arco generale.
Ma il riscatto completo da ogni pericolo, e insieme la sintesi di tutto questo periodo, si ha nel Torneo Notturno (1929). Potrebbe sembrare, a un primo sguardo, un ritorno su vecchie posizioni: il motivo della morte, l'inattingibilità del sogno, il duello mortale di due personaggi allegorici, ritornano scoperti, come nelle Sette Canzoni; e torna perfino il vecchio schema formale della suite di sette scene. Tuttavia questo non fa che ristabilire con estrema chiarezza i cardini del mondo malipieriano, ma esaltandoli con profondità nuovissima in un confronto intimo e continuo, non più in un'immobile contrapposizione. Torna la sintesi dei due poli che s'era vista in alcuni alti canti dei lavori precedenti, ma ancor più pratica e probante, perchè qui i due poli non s'annullano ma rimangono scopertamente alla base della risoluzione lirica. Tutti i motivi fondamentali di Malipiero, nelle loro più diverse variazioni, rimangono dunque in vita, ma toccandosi da vicino, e scambiandosi reciprocamente i loro riflessi; sì che persino le vecchie macchiette e il vecchio personaggio «grossolano» s'allargano a figure tragiche. Si veda per tutti lo Spensierato, che sulla carta parrebbe rappresentare da un lato la gioia, e dall'altro i grossolani richiami di un piacere profano. In pratica, si risolve nei rintocchi di quella indimenticabile «canzone del Tempo» che riappare in ogni quadro più misteriosa e sinistra: tanto più fascinatrice, carica di richiami accorati e irresistibili, quanto più lividamente sinistra.
Il linguaggio sboccia ormai a una maturazione fremente, temeraria. Quel crescere dell'arabesco a melodia articolata senza tuttavia rinunciare al proprio senso originario, che s'era constatato in alcuni casi delle opere precedenti, qui diventa quasi la regola; sì che il puro arabesco, quando torna, appare come frammento rievocatore, per via d'urgenti suggestioni liriche, di parlanti e arcani aforismi (si vedano le rotte interiezioni del Disperato, nel quadro della prigione, con la nota lontana dell'assiolo e i campanacci delle mandrie). E le melodie crescono a temi, trascorrendo da un quadro all'altro a segnare il fantomatico passaggio dei personaggi da un'avventura all'altra, personaggi viventi quasi più vite, e pur sempre restando gli stessi, condannati a una metempsicosi senza via d'uscita.
Ma non sono temi, wagnerianamente, ad personam. Non richiamano cose o sentimenti precisi, una «storia». Nel funebre finale questi temi tornano piuttosto a rievocare i moti misteriosi, i salienti del dramma, intendendo tutti questi moti come variazione, sdoppiamenti di un'unica ansia, destinata a non esaurirsi in eterno, e quindi capace di concretar solo forme d'allucinati arabeschi, come quelli prodotti da un delirio febbrile: vuoti di storia e di figure umane, pieni solo del fiato della propria disperazione, della temperatura della propria febbre.
E una pace straordinaria, sovrumana e materna tocca a un certo punto questo delirio. Nell'apparire del tono di fa diesis minore a mezzo del finale è forse la catarsi estrema del primo Malipiero: un dolce ripetere il proprio canto, appena scosso, ogni tanto, dalla febbre antica di Pantea. Non è il porto del filosofo o dell'apostolo o del redentore. Sì la consolazione arcana e travagliosa di chi ha molto amato. Forse il pallido miraggio, sulle soglie del nulla, del paradiso perduto.

[Da La Rassegna musicale, febbraio-marzo 1942]
[1] Sui presentimenti di questo nuovo stile, e sulla sua affermazione decisa, vedere le finissime analisi di G. ROSSI-DORIA rispettivamente sul Finto Arlecchino (in Nuova Antologia, 16 marzo 1933) e sulla Cena (La Rassegna musicale, 1 giugno 1933).
[2] G. M. GATTI: Musicisti moderni d'Italia e di fuori, ed. Bongiovanni, Bologna.
[3] A. COEUROY: Panorama de la musique contemporaine, Parigi, 1928, pag. 76.
[4] L. D'AMICO: Classicità di Malipiero, in «Scenario» agosto 1932.
[5] H. H. STUCKENSCHMIDT: Zu Malipiero's Buehnenwerke, in «Melos» febbraio 1934. Vedi in questo volume.
[6] «Ce n'est pas du fantastique romantique, mais bien de ce 'merveilleux' dont raffolaient les contemporains de Bernin et de Salvator Rosa.» (La Revue musicale, gennaio 1927: vedi qui alle pp. 40-60).
[7] Un discorso a parte meriterebbe questo lavoro, che sembra contenere in boccio tanti e tanto diversi motivi malipieriani, dal più antichi ai più recenti; e vale soprattutto per questo continuo lampeggiare di germi inventivi, che emerge con giovinezza temeraria da un ricchissimo giuoco di prospettive, raggiunto dalla pura forza lirica delle trovate armoniche e dalla gagliardia inesauribile di un declamato onnipotente, anzichè da un piano architettonico. Data la poetica del teatro malipieriano, nessun inconveniente a considerare le Stagioni una vera opera, in cui il divenire del dramma è sostituito dal misterioso saldarsi di tante illuminazioni diverse in un discorso unico.