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FEDELE
D'AMICO
RAGIONI UMANE DEL PRIMO MALIPIERO
L'OPERA DI G. F. MALIPIERO
pp. 110-126
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«Nel 1914 la guerra
sconvolse tutta la mia vita che, fino al 1920, fu una perenne
tragedia. Le opere di questo periodo rispecchiano forse la mia
agitazione, ciononostante ritengo che, se qualcosa ho creato di nuovo
nella mia arte (forma-stile), è appunto in quest'epoca».
Questa dichiarazione di Malipiero, che togliamo da una lettera
medita, autorizza in qualche modo a dare un'attenzione particolare al
primo periodo malipieriano; intendendo naturalmente escluso da questo
periodo il momento della formazione giovanile, normale in ogni
artista, e comprendendovi invece gli anni che vanno all'incirca fino
al Torneo notturno (1929), e in
cui i modi e i motivi dello stile approfondiscono, ma senza
divergerne, i cardini affermati nel 1914-1920. |
Dopo il Torneo,
com'è noto, Malipiero trova nuove direzioni e risoluzioni: ne
sono vistosa riprova, a una semplice considerazione esterna, sia la
scomparsa dell'antica violenza timbrica come l'abolizione della
cosiddetta costruzione «a pannelli» [1] in pro di
un discorso unico (donde, tra l'altro, l'accettazione di libretti
altrui, o tolti da drammi preesistenti). Non si vuoi davvero
affermare con questo che dopo il 1929 Malipiero abbia compiuto
l'impossibile operazione di rinnegare se stesso, e quindi non offra
più interesse. Ma soltanto che quel primo periodo ha fissato
certi cardini del suo mondo, mantenendo scoperti quei motivi che
più tardi s'andranno risolvendo in una nuova sintesi che li
supererà e forse annullerà come tali: una sintesi
diversa da quella che riscontreremo in tanti dei lavori 1917-29, e
capace di nuovissime imprese: per esempio di ritrovare (vedi La
Passione) l'aperta disponibilità espressiva del declamato
monteverdiano, irreperibile nella chiusa e univoca tensione dei
lavori del periodo precedente. |
E poichè qui non si
fa questione di date, ma di posizioni, si tralascerà l'esame
di quell'unico lavoro (La Cena) che, pur composto nel 1927,
è già compiutamente nella «seconda pratica»
malipieriana. Mentre potranno rientrarvi, almeno in parte, lavori
come i Cantàri alla madrigalesca (1930) o La favola del figlio cambiato (1933),
che, pur con qualche segno del nuovo stile, mantengono molte
posizioni del primo.
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Tradizionalmente, la
critica malipieriana s'impostò sopra un'indagine formale;
intendendo questa parola nel senso puramente tecnico, di pratica
musicale (forma-sonata, e simili). Quel che colpì
inizialmente, in Malipiero, fu soprattutto l'assenza di sviluppi
tematici e la costruzione «a pannelli», ossia per
elementari contrasti. In Malipiero «l'opera musicale è
materiata di soli temi», notò subito (1918) G. M. Gatti
[2]: il che torna a dire che codesti temi non sono dunque, a
parlar propriamente, dei veri temi, ma delle idee liricamente fermate
una volta per sempre. La soppressione dello sviluppo tematico, in
sè, non era fenomeno nuovo: basti pensare a Mussorgskij e a
Debussy. Ma dal primo, legatissimo di volta in volta alla intonazione
della parola e ai liberi suggerimenti del testo letterario, ovvero a
una costruzione derivata dal canto popolare (e cioè variata
solo dinamicamente), l'immobile «semplicità» del
quadro malipieriano si distingueva nettamente; e il distacco dal
secondo, teso tutto su una ricerca d'atmosfera armonico-timbrica,
della franca impostazione melodica e dranimatica di Malipiero, era
forse anche più netto. |
La constatazione iniziale
della critica non riuscì tuttavia, coll'andar degli anni, a
inserirsi in un giudizio ulteriore, più concreto. Anzi il
metodo formale di Malipiero, una volta trasferito sul teatro, terreno
scottante di tante dispute, apparve più che mai vistoso e
radicale; e la soluzione del problema della coesistenza di prosa e
poesia nel dramma scenico, raggiunta coll'audace soppressione di uno
dei due termini del vecchio dualismo, portò fatalmente a che
l'attenzione fosse accaparrata definitivamente dal fatto formale. E
come non è ormai più possibile che il giudizio sul
teatro di Pizzetti non venga noiosamente esaurito, per nove decimi,
nella questione del declamato, così tutti tesero
insensibilmente a esaurire quello sul primo Malipiero nella
constatazione che, fino al Figlio cambiato escluso, quel
teatro viveva dell'abolizione dell'«azione» in favore di
una suite di liriche. |
L'unico apporto recato alla
critica malipieriaria dopo gli studi iniziali di G. M. Gatti (le cui conclusioni
furono riprese di peso da quasi tutti) e quelli, per buona parte
divergenti, di H.
Prunières, fu certo l'esame attentissimo che,
più ancora che sulle condizioni dell'architettura e della
dialettica malipieriana, Gastone Rossi-Doria andò compiendo,
via via, sul linguaggio. Ma si rimase, comunque, in questi limiti:
l'indagine linguistica. Tralasciamo naturalmente le qualifiche
esornative e generiche dei più; anche nell'attenta
intelligenza dei critici citati (ed episodicamente di qualche altro
minore) non si affrontò mai in pieno l'altra indagine, a cui
le prime appaiono oggi solo come propedeutiche. Al più si
adombrò qualche corollario immediato, si riscontrò
qualche sparsa testimonianza. Ma sul valore umano di quelle premesse
stilistiche non pare che si sia mai fissata fino in fondo
l'attenzione; chè certo non sono motivazioni gl'innumerevoli
rinvii dei critici stranieri al concetto
d'«italianità» (precisato poi, nella più
parte dei casi, coll'arbitrio più disinvolto). Per quale
ragione interiore Malipiero abbandonava la dialettica romantica? E
una volta constatato il suo riallacciarsi agli antichi italiani, in
quali termini, e soprattutto da quali necessità sorgeva questo
ricorso alla tradizione? |
Qualche chiarimento, se non
altro, s'ebbe dal saggiare Malipiero al vaglio della disputa,
obbligatoria per molti anni del nostro secolo (e ora, fortunatamente,
non più di moda), se egli fosse un classico o un romantico.
«Ideale classico di un irrequieto spirito romantico», lo
disse Gatti: e fu forse la formula che più s'avvicinava al
vero. Altri (Coeuroy, per esempio) lo dissero nettamente romantico, e
d'estremo romanticismo almeno per buona parte della sua opera
(«romantisme de fumées lourdes qui traînent
obstinément sur tout l'oeuvre symphonique et camérier
de Malipiero, et jusque sur les petits tableaux scéniques des
Sept chansons. Romantisme qui réclame un
antidote», addirittura. «Et la plus jeune
génération va le chercher dans la symphonie du XVIII
siècle»). [3] Prunières parlò di
barocco. Altri infine [4] lo fece addirittura un classico,
senz'altri codicilli. E a quest'ultima conclusione non occorreva meno
del frettoloso e sprovveduto fervor polemico d'un «moins de
vingt ans». Giacchè classico, se le parole hanno ancora
un senso, non importa ripetere che Malipiero non fu mai; per la buona
ragione che egli è artista moderno, e radicalmente impegnato
nella modernità come pochi. |
Ma quel dichiararlo tale, e
guardarlo sotto quell'angolo visuale, servì a definire, se non
i motivi, almeno le categorie e le possibilità
dell'«ideale classico»; chiarendo una volta per tutte che
in termini di musica italiana la classicità, lungi dal
coincidere colla venerazione di forme canoniche, è
storicamente libertà formale assoluta, condizionata solo dalle
sue occasioni espressive e al più rilevata (l'istinto, con
ariosità spensierata, sulla tradizione corrente, ma non mai
provocata, germanicamente, dalla lotta con forme prestabilite. Fu
insomma, quel chiarimento, almeno la denuncia dell'errore commesso
dai ndoclassici, i quali identificavano il classicismo col momento
iniziale della forma-sonata, ossia, col nascere del romanticismo; e
credettero di ringiovanire scrivendo sinfoniette in luogo di
sinfonie. Laddove l'«ideale classico», seppure soltanto
ideale, sogno, nostalgia, era veramente appuntato sugli splendori
più intatti e folgoranti della classicità italiana:
ossia libera, aperta, senza temi formali obbligati. Si vedrà
più oltre in che senso. |
Come s'è accennato,
il ripudio della dialettica sinfonica sviluppativa non è fatto
nuovo, ma uno dei caratteri più noti di molta musica moderna.
Tuttavia di regola il fenomeno ha un carattere specificamente
musicale: è la fuga da una struttura sintattica che s'era
ispessita, agli occhi dei musicisti nuovi, in una retorica pesante.
In Mussorgskij questa fuga fu il mezzo di ritrovare una
verginità linguistica capace di dar libero corso a un
ricchissimo temperamento di inventore di persone e situazioni, nelle
quali si proponeva addirittura l'esame di un'umanità
gogoliana, inedita in musica. In Debussy e successori, invece, fu lo
stimolo a evadere da impegni romanticamente «espressivi»
nella pura ricerca stilistica, che è quanto dire
nell'ambizione di raggiungere inediti climi di fantasia musicale. La
poetica debussiana dell'arte come beau mensonge»,
seguìta più o meno consapevolmente da tanti altri,
è tutta qui: evasione nella fantasia pura, spicciando i
risultati da mille occasioni diverse, letterarie o
musicali. |
Da tutt'altre esigenze
è motivato il fenomeno in Malipiero. Già nei lavori
sinfonici come le Pause del
silenzio (1917) la netta impostazione architettonica a
contrasti elementari, che poneva dunque vigorosamente una drammatica
dialettica, sia pure rudimentale (irreperibile in un
Après-midi d'un faune, in un'Iberia, in un
Nuages), lasciava intendere che la sua ambizione non si
limitava a una definizione d'atmosfera. Ma il trasferimento di
quell'impianto nel campo del teatro, ossia del dramma scoperto, e un
trasferimento condotto con così temeraria coerenza, precisa
senza possibilità d'equivoci i suoi moventi
profondi. |
Le ragioni della negazione
malipieriana del sinfonismo a sviluppi, e insieme dei luoghi
discorsivi e d'«azione» sul teatro, non sono affatto
musicali. È in lui non tanto la sazietà di certi modi
linguistici quanto la sazietà di ogni elaborazione morale dei
bruti fatti umani, soprattutto se condotta attraverso una storia, un
progredire psicologico: descritta nel suo divenire. E insomma un
«j'ai lu tous les livres», portato alle conseguenze
più radicali: l'orrore fisico della «storia», del
romanzo, del proustismo. In questo artista così spesso
luminoso e raggiante, e talvolta addirittura gaio, cova, come un
rancore implacabile e dolorante, uno dei più conseguenti
pessimismi sul valore demiurgico dell'uomo europeo all'uscita dal
romanticismo: la scoperta improvvisa della vacuità d'ogni
sistemazione intellettuale del destino umano. Le categorie elaborate
da secoli d'umanesimo erano ben rimaste nella sua mente, ma divenute
improvvisamente vuote di potere pratico, incapaci di stringere
alcunchè: immense «facoltà» astratte,
inoperanti, buone ormai solo a mantener vivo un tragico confronto
colla loro antica pienezza. Donde la nausea per il brulicare tuttavia
in marcia della vita, della storia, del divenire, inutili e
incomprensibili. Donde la diffidenza, nel musicista, per il secolo in
cui la musica aveva tentato vittoriosamente di articolare le sue
più complesse architetture per adeguarle a questo moversi
della vita, sino a fare la riflessione morale materia del proprio
linguaggio, ragione della propria presenza. |
La posizione di Malipiero
in questa situazione non è di smarrimento, ma di tragica
angoscia. Il suo umano riscatto non si produce in un'evasione, ma
appunto nella ostinazione eroica di guardare fino in fondo questa
situazione, e farne materia tragica. Rimangono dunque nel suo dramma,
come forze in conflitto, i soli moti assolutamente elementari
dell'esistenza, ridotti a fissi dualismi, senza possibilità di
progresso, di storia: l'amore e l'odio, la felicità e la
disperazione, la vita e la morte. I suoi personaggi non sono uomini
in divenire, ma pure allegorie. «Alle seine Figuren
könnten Masken tragen» ha ripetuto un critico tedesco
anche dopo il Figlio cambiato (dove pure la forma a pannelli
del primo Malipiero è superata) [5]
L'unica elaborazione intellettuale che Malipiero
possa ammettere è questa: la trasposizione nel simbolo, il
ritorno letterale alla Sacra Rappresentazione. Variano, e non molto,
i pretesti, ma i suoi personaggi sono solo nomi e figurazioni diverse
di due soli personaggi, che ripetono all'infinito le proprie ragioni.
E neanche dovrebbero dirsi propriamente dei personaggi; ma solo
proiezioni di due poli, di due forze, le sole forze esistenti: l'una,
il sogno d'un'incantata bellezza, l'altra la distruzione di questo
sogno, il suo insensato e inevitabile destino di morte. In questi
termini il primo Malipiero riscrive ogni volta, con tragica e
kafkiana ostinazione, lo stesso pezzo. |
Il polo della vita, della
felicità, della bellezza, è riposto per il primo
Malipiero in un incantesimo di pura musica. Molto spesso anzi i
personaggi che simboleggiano questo polo non sono altro che esplicite
allegorie della Musica, del Canto, traduzioni del millenario mito
d'Orfeo (Filomela e l'infatuato, Merlino mastro
d'organi, Il Finto Arlecchino). Ma è quasi inutile
aggiungere che il mito persiste implicito in tutti i lavori del primo
Malipiero, teatrali o sinfonici che siano: è l'unico mito,
l'unica religione che Malipiero conosca. Donde il senso profondo del
suo ritorno ai veneziani del Cinque e Seicento (e non ai soli
veneziani, perchè Gesualdo vi ha un posto importantissimo. E
non al solo Cinque e Seicento, perchè anche il Settecento
può trovarvi la sua parte, e nel suo senso specifico: vedi
La Principessa Ulalia, Il Finto Arlecchino, e anche
qualcosa di Filomela). Non è dunque il solito
«ritorno» neoclassico, condotto a scopi essenzialmente
stilistici. La passione di quel mondo per Malipiero è una
necessità sentimentale: è la proiezione del suo sogno
d'un luogo d'incantato timbro sonoro, di freschezza sorgiva e
lontanissima. È il ritrovamento d'un Eden: in questi termini
va chiarito l' «ideale classico» di cui parla Gatti.
Nessun inconveniente, pertanto, a parlar d'estetismo, salvo a notare
che questo estetismo, diversamente che in ogni altro musicista
contemporaneo, non sta da sè, e tanto meno è gratuito
spleen, ma è l'elemento d'un dramma, di cui si vedranno
presto i termini. |
È possibile tuttavia
che, prima ancora che se ne fosse intesa la funzione dialettica e
drammatica, il valore di nostalgia d'un mondo perduto, appunto il
«timbro» di questo linguaggio fosse la ragione più
immediata del fascino travolgente che Malipiero esercitò sulla
nostra adolescenza: quell'italianità che si perdeva nelle
radici dei nostri secoli più solari, tramandati alla memoria
degli uomini dagli accordi luminosi dei più prodigiosi
pittori; e serbante intatto, sebbene racchiuso nei termini d'un
linguaggio individualissimo, il conforto arcano d'una patria ideale,
misteriosa e dolce d'una materna tenerezza. Si pensi al folgorio
timbrico di quasi tutto il primo Malipiero. Nè si dice timbro
solo in senso strumentale: è il timbro della melodia,
dell'armonia, in una parola del suono malipienano. Sotto questo
riguardo, nessun dubbio che Malipiero fu, per noi musicisti italiani,
quel che Debussy era stato, vent'anni prima, per noi musicisti
europei: il riscopritore d'un luogo sonoro, d'un puro suono di
conturbante freschezza. |
Ora, appunto, quest'altezza
di linguaggio con cui Malipiero ha rievocato il suo sogno è
garante della sua serietà interiore, quella che dà alla
sua allegoria la presenza concreta del personaggio vivo: nutrito del
sangue con cui si amano le creature umane.
E che in quest'allegoria sia l'unico polo positivo
del primo Malipiero non è dubbio per noi. Neanche le
Commedie goldoniane fanno eccezione, come si pretenderebbe da
qualcuno, perchè il loro ultimo impegno non è volto
davvero alla definizione di caratteri, ma ad una rievocazione tutta
coloristica del mondo goldoniano (di un mondo, anzi, assai più
acceso e violento, tutt'altro che settecentesco, di quello
goldoniano), a cui i «caratteri» non sono che felice
pretesto. Le Commedie goldoniane non sono che una valvola di
sfogo di un temperamento troppo ricco per non essere disposto ogni
tanto a volgere il sogno di bellezza in festa cordiale ed esuberante, staccandolo
momentaneamente dalla sua funzione drammatica per lasciarlo vivere da
solo, spensieratamente. Esse sono insomma allo stesso piano di alcune
Impressioni dal vero e, soprattutto, quasi per intero, dei
quartetti, nei quali, per confessione stessa dell'autore, si mira a
«uscire dall'atmosfera della musica da camera per farci
respirare l'aria libera della strada e della campagna» (ma
anche in essi, qualche volta si accende un loro tono drammatico: vedi
la chiusa straordinaria dei Cantàri). |
Così è ancora
delle macchiette del Finto Arlecchino, che possono serbare un
valore di caratteri solo in quanto francamente comiche, ma in
realtà restano pretesti alla sentimentale rievocazione d'un
colore complessivo; il loro ridicolo, infatti, caso ben notevole
nell'autore d'un'Orfeide, è visto senza acredine. Gli
è che il Settecento è così lontano che Malipiero
ne può ancora vedere i personaggi in una luce tenera e
distante, indulgentemente patinata; non è davvero il
ripugnante ridicolo della vita quotidiana, ma quasi una materia
infantile, che prende risalto dal contrasto colla grazia
improvvisamente più seria e quasi dolente del madrigale del
protagonista, e del minuetto finale.
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In via normale, dunque, nel
primo Malipiero l'«ideale classico» non è che uno
dei due poli d'un dramma. Se qualche volta questo polo rimane senza
il suo antagonista, è nei casi in cui il musicista s'oblia per
un istante a lasciare il suo personaggio spensierato, incurante del
suo destino ultimo. Così è per lo più nei
quartetti o nelle Commedie goldoniane richiamate più
sopra, e ancora in buona parte della rievocazione mistica del San
Francesco, che è pur sempre ripensamento nostalgico, non
certo preghiera francescana in proprio nome. |
L'altro polo è la
morte, il disfacimento. La «bellezza» malipieriana era
evocata da un tocco di castità tenera e raggiante: quasi un
d'Annunzio spoglio via via di naturalismi e sadismi ed ebbrezze
immaginifiche: il d'Annunzio delle intatte altitudini alcyoniche.
Appunto su questa intatta «bellezza», su queste carni
verginali scoppia ogni tanto, improvviso, l'orrore della morte. Come
nel famoso colpo di scena baudelairiano: «Et pourtant vous
serez sembiable a cette ordure, - A cette horrible infection, -
Etoile de mes yeux, soleil de ma nature, Vous, mon ange et ma
passion». |
Non di rado (ma non nella
più parte dei casi) la morte compare sulla scena
dichiaratamente, col suo macabro nome e cognome: caso tipico, Le
Sette canzoni. Si può pensare allora, per la
qualità dell'amarezza, e dei suoi acri compiacimenti, a Pirandello.
E il pessimismo pirandelliano ha in comune con Malipiero, difatti, la
riduzione dell'esistenza a certi moti elementari, spogli
d'investitura morale; tuttavia lo scrittore, narratore per eccellenza
e cioè inventore di un popolo di casi e di personaggi, s'era
dato a riscontrare questa situazione nel fluire della vita reale,
nella storia quotidiana e particolareggiata dell'infinita miseria
borghese e piccolo-borghese, muovendo alla tragedia da una minuta
indagine dell'insoddisfatto edonismo degli uomini; e senza proporre,
come termine antagonistico di riferimento, nessun sogno incantato, ma
la vacuità stessa d'ogni sete di piacere. In Malipiero la
nausea è tale che egli può gettare lo sguardo su quella
miseria solo di scorcio, tipizzando le situazioni in macchiette
allegoriche, abbozzate colla fretta rabbrividita con cui si tocca una
carne ripugnante, oscenamente denudata. Con un astio sgomento e
feroce, che tenta di sopraffare lo sgomento totale con una violenza
iraconda. (Il suo incontro con Pirandello fu difatti possibile, nella
Favola del figlio cambiato, solo in quanto Pirandello vi
traspose i suoi motivi nei termini d'una favola allegorica; e
l'inferiorità del terz'atto rispetto ai primi due si deve
appunto alla presenza, in questo, dei toni francamente discorsivi del
protagonista; il quale, tra l'altro, nei suoi sogni di vita semplice
e ingenua non s'incontra affatto col sogno di altissimo incantesimo
che è la mèta di Filomela, del Viandante muto di
Merlino, e insomma dei personaggi malipieriani). |
Anche qui, dunque, i
personaggi possono dirsi più che mai «Masken
tragen». E anche in un senso più letterale;
giacché la mascherata funebre (Sette canzoni,
Maschere che passano, e mille altri esempi) è il luogo
tipico del macabro malipieriano. Tuttavia non diremmo che in questo
macabro Malipiero da il meglio di sè; forse neanche quando lo
dissimula come ultima risonanza di quei personaggi
«grossolani» che s'oppongono con enfasi amara al
personaggio-Canto (l'Infatuato di fronte a Filomela). La stessa
violenza convulsa delle ragioni autobiografiche impedisce, per lo
più, una compiuta trasfigurazione in arte. E a dispetto di
pagine che portano il segno incancellabile di un ingegno prepotente,
e certo restano a loro modo tipiche di un temperamento, non siamo di
quelli che collocano le Sette canzoni sul piano delle Pause
del silenzio, di Pantea, del San Francesco, delle
Commedie goldoniane, delle Stagioni Italiche, delle
Aquile d'Aquileia, del Finto Arlecchino, di Merlino
mastro d'organi, (lei Cantàri alla madrigalesca, e
a fortiori, del Torneo notturno; per restare nei nostri
limiti. Ora, appunto sull'Orfeide (e cioè La morte
delle maschere, Sette canzoni, Orfeo) si fonda
l'interpretazione «barocca» di Prunières, il quale
parla del «meraviglioso» dei nostri antichi scenografi
[6] e di una felice « stravaganza» fantastica,
naturalmente incurante di logica. |
In realtà, anche il
burlesco della Morte delle maschere e dell'Orfeo, o di
certe pagine pianistiche, è tutt'altro che ricco, felice,
sgargiante: ma chiuso, triste, fatto d'astiosa isteria e di
sarcastica rivolta. E non mai risolto in un significato preciso; ma
steso con segni frettolosi e approssimativi, spesso equivoci, che
contano troppo sui privati rancori dell'uomo, e non si chiariscono in
una fisionomia obbiettiva. Che questo Malipiero barocco e macabro
abbia «fatto colpo», nessuna meraviglia, data la
temeraria stranezza del caso, così inedito sul mercato
musicale, e gl'innegabili lampeggiamenti d'ingegno che vi si facevano
luce a tratti. Ma in sè il suo valore è soprattutto
documentario, in quanto scoperta attestazione di quell'ossessione
della morte che trova ben più valida trasfigurazione per altre
vie. |
Agghiacciante ossessione.
Nessuna risoluzione della morte sembra più possibile in
Malipiero: non una spiegazione trascendente o filosofica, non una
pietà dostoievskiana, neanche una leopardiana
«illusione». E un Musorgskij, quanto lui pessimista, era
pur distratto e sostenuto dall'amore inguaribile per gli uomini, per
la sapida vita che gli scorreva intorno. Ma per Malipiero la vita
quotidiana è solo nauseabondo brulichio d'insetti, la
«molto triste buffonata» pirandelliana. E la morte
gl'ispira solo un terrore senza ricupero: talvolta risolto, come
s'è visto, in disperata protesta; talvolta nella sgomenta
fissità contemplativa che provocano gli avvenimenti ciechi,
senza senso.
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Appunto per questa seconda
via Malipiero raggiunge la trasfigurazione artistica più
concreta, compiutamente probante; quando cioè il compiacimento
macabro è messo da parte, e l'occhio che contempla non reca
torbidi pesi sensuali, rancori non risolti. È il caso di
quando l'oscura ossessione della morte prende corpo nel sinfonismo
tempestoso e febbrile di alcuni «pannelli» di certi
lavori sinfonici (esempio, le Pause del silenzio); o
addirittura sostiene tutto lo sfondo del dramma, per farne emergere
solo a tratti, a contrasto, i lampi del «canto»: come in
Pantea, primo compiuto capolavoro di Malipiero, e a tutt'oggi
uno dei maggiori.
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Ma più alta è
la trasfigurazione di altri casi, sempre più frequente da
Pantea fino al Torneo notturno, e, scopo ultimo,
catartico, di tutto questo periodo: la trasfigurazione cioè
dell'ossessione della morte in lirica contemplazione, nelle scene di
canto puro; ossia appunto nel seno stesso di quelle zone che
inizialmente si ponevano come «sogno di bellezza». come
polo opposto della morte.
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Il momento critico,
l'esperienza centrale di questo passaggio è visibile
soprattutto in Filomela e l'Infatuato. Già prima di
questa opera (1925), e cioè nelle dolorose zone di canto di
Pantea (1919), nel San Francesco (1921), in buona parte
delle Stagioni Italiche (1923) [1], e in alcuni adagi
delle Pause del silenzio (1917) e dei due primi quartetti
(1920 e 1923) sono ravvisabili momenti sensibilissimi, in cui lo
stornellante arabesco che è all'origine del canto malipieriano
(simbolo scoperto della sua estatica, immobile aspirazione alla
musica come luogo incantato) si scioglieva con ogni cautela, e
cioè senza perder nulla della sua astratta
«bellezza», in melodia articolata. È ben vero che
in Filomela si ha per lo più un ritorno all'arabesco puro,
sostenuto tuttavia da una tensione timbrica eccezionale, paragonabile
alle più fulgide violenze bartokiane; quasi che l'autore
voglia scuotere fino in fondo, per l'estrema volta, quel suo antico
dogma linguistico (e si può dire quasi con certezza che ve lo
esaurisce per sempre, scoprendone i limiti in quello stesso senso
d'incompiutezza che ne rimane a questo dramma, teso internamente a
produrre un nuovo vino a cui i vecchi otri non bastano). Ma al tempo
stesso sono in Filomela tentativi espliciti di far scadere i
termini dell'arabesco a pure componenti di una dialettica ritmica
superiore, più avanzata che nei lavori citati: è il
caso dello straordinario duetto di Filomela col Principe d'Argento, i
cui modi si ritroveranno in certe cantilene del Figlio
cambiato, di risultato quasi schumanniano: e cioè di
favola rievocata in una espressività romanticamente sciolta e
sensibile (vedi soprattutto il secondo quadro del
prim'atto). |
Lo scopo è raggiunto
in pieno in Merlino mastro d'organi (1926) e quindi nelle
Aquile d'Aquileia (1928): lo scopo, dicevamo, già
esplicito nei lavori citati, ma qui cresciuto a suprema maturazione,
di raggiungere l'articolata melodia senza perdere in nulla l'intatta
bellezza dell'antico arabesco; anzi innervando questo stesso arabesco
di significati più profondi. Ora, appunto in questo innervarsi
avviene la trasfigurazione che si è detta, ossia la muta
risoluzione del senso della morte in quel medesimo
«canto» che all'inizio si configurava come polo opposto.
Si vedano la melodia-base di Pantea, e il Cantico delle
Creature del San Francesco («per sora nostra Morte
corporale...»), e la prima delle Stagioni Italiche, e il
madrigale delle tre sorelle e il canto del pastore del Merlino, e il
pianto della madre e l'inno a Venezia nelle Aquile di
Aquileia. Sono i culmini del primo Malipiero.
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Tanto risultato fu
possibile solo in quanto lo sguardo rivolto all'incantato luogo
sonoro del madrigale antico sentì quella sua intatta
freschezza non già come un'ingenua innocenza, ma come frutto
carico d'una «civiltà» suprema di cui era rimasto
solo il vapore, la memoria lirica, ma scaduti per sempre,
rovinosamente, i lieti travagli umani, le articolate avventure che li
avevano prodotti. Era insomma, questo amore, la commemorazione di una
morte, un seppellimento; che è appunto, sempre, seppellimento
di spoglie affaticate, di temporali interessi, per lasciarne in vita
solo un'immagine, una memoria immateriale: col rimpianto tuttavia
cocente che tutto quello da cui questa larva superstite fu creata sia
veramente, irrimediabilmente trapassato. Era fatale dunque che uno
sguardo tanto casto e severo non potesse elaborare a lungo il
ripensamento di quella antica bellezza in sè e per sè:
semplicemente gioire di quel timbro prezioso di linguaggio, complice
la prodigiosa rapidità con cui l'aveva estratto, purissimo,
dal cuore della sua nostalgia. La serietà assoluta di questo
sguardo non poteva ammettere che quello scintillio prezioso desse
insomma nel mero estetismo. Era inevitabile che le urgenti ragioni
che l'avevano sostenuto all'inizio, magari ponendo provvisoriamente
l'accento, qualche volta, sulla sola «bellezza»
nell'ansia di elaborarla e fissarla per sempre, era inevitabile che
lo volgessero dalla parte opposta, ossia sempre più verso i
suoi motivi profondi: a intendere il sogno di vita verso il suo scopo
più vero, verso l'unica catarsi possibile. |
Ora dunque, una siderale e
pacata tristezza, una malinconia ferma e altissima illuminano, e
insieme incupiscono, al momento culminante, i più felici
abbandoni al canto; l'ombra del disfacimento affiora impercettibile,
misteriosamente placata, al punto stesso di saturazione dell'ebbrezza
di vivere, nel cuore stesso di quelle sonorità fonte dalle
carni tizianesche della sua allegoria: e dona al vivere la condanna
della serietà suprema. |
Senonchè la
situazione, ormai così chiarita al limite delle sue
possibilità, poteva offrire dei pericoli. L'antica costruzione
a pannelli, ossia con i poli del dramma affiancati, dialettizzati non
interiormente, ma solo da un contrasto immobile era ancora il metodo
dominante: a segno che il prevalere, alla fine, dell'uno o dell'altro
elemento, non bastava a superare la presenza dell'altro. Ora, quella
sintesi di cui si è parlato, dei due poli in uno solo, della
risoluzione della morte nel canto, si avviava forse a spegnere (lei
tutto il divenire del dramma, per elementare che fosse, avvivandosi
solo del contrasto con elementi non più d'incantata
«bellezza» ma, in vario senso, di «festa»:
quali dunque, meno ricchi di motivi umani, potevano tendeve
probabilmente a divenire col tempo esterno
«balletto». |
Già tuttavia nelle
Aquile d'Aquileia, lavoro di assoluto equilibrio
architettonico, certo il più perfetto dato fino allora da
Malipiero, s'indicavano in concreto dei mezzi di riscatto. Da un lato
l'elemento della «festa» si giovava dei moventi profondi
di una rituale celebrazione: motivo non occorre dire quanto schietto,
nell' «ideale classico» malipieriano. E difatti risultava
in pratica spontaneamente accordato, nella sua serietà
austera, al tono di «canto» nel pianto della madre, e
infine addirittura compenetrato con esso nell'inno finale,
così glorioso e insieme così grave di tristezza:
facendo insorgere, al solito, il fantasma della fine nel culmine
stesso della glorificazione (a segno di rendere inutile la presenza
dei Corvi di San Marco, già implicita nelle risonanze accorate
della celebrazione delle Aquile, e difatti risoltasi in pratica, per
buona parte, in una rivista dei vecchi motivi malipieriani d'acre
sarcasmo, ormai decisamente rimpiccoliti e poveri di risonanza al
confronto con gli altri). Dall'altro il linguaggio stesso si mostrava
pronto, puntualissimo, a registrare le nuove esigenze, con una
«novità» autentica, e cioè il franco
impianto tematico di tanta parte del lavoro; con un vero e proprio
tema conduttore che dava luogo qualche volta addirittura a uno
sviluppo, conferendo al tessuto sinfonico della celebrazione una sal.
dezza, un peso inequivocabile e lampante nell'arco generale.
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Ma il riscatto completo da ogni pericolo, e insieme
la sintesi di tutto questo periodo, si ha nel Torneo Notturno
(1929). Potrebbe sembrare, a un primo sguardo, un ritorno su vecchie
posizioni: il motivo della morte, l'inattingibilità del sogno,
il duello mortale di due personaggi allegorici, ritornano scoperti,
come nelle Sette Canzoni; e torna perfino il vecchio schema
formale della suite di sette scene. Tuttavia questo non fa che
ristabilire con estrema chiarezza i cardini del mondo malipieriano,
ma esaltandoli con profondità nuovissima in un confronto
intimo e continuo, non più in un'immobile contrapposizione.
Torna la sintesi dei due poli che s'era vista in alcuni alti canti
dei lavori precedenti, ma ancor più pratica e probante,
perchè qui i due poli non s'annullano ma rimangono
scopertamente alla base della risoluzione lirica. Tutti i motivi
fondamentali di Malipiero, nelle loro più diverse variazioni,
rimangono dunque in vita, ma toccandosi da vicino, e scambiandosi
reciprocamente i loro riflessi; sì che persino le vecchie
macchiette e il vecchio personaggio «grossolano»
s'allargano a figure tragiche. Si veda per tutti lo Spensierato, che
sulla carta parrebbe rappresentare da un lato la gioia, e dall'altro
i grossolani richiami di un piacere profano. In pratica, si risolve
nei rintocchi di quella indimenticabile «canzone del
Tempo» che riappare in ogni quadro più misteriosa e
sinistra: tanto più fascinatrice, carica di richiami accorati
e irresistibili, quanto più lividamente sinistra. |
Il linguaggio sboccia ormai
a una maturazione fremente, temeraria. Quel crescere dell'arabesco a
melodia articolata senza tuttavia rinunciare al proprio senso
originario, che s'era constatato in alcuni casi delle opere
precedenti, qui diventa quasi la regola; sì che il puro
arabesco, quando torna, appare come frammento rievocatore, per via
d'urgenti suggestioni liriche, di parlanti e arcani aforismi (si
vedano le rotte interiezioni del Disperato, nel quadro della
prigione, con la nota lontana dell'assiolo e i campanacci delle
mandrie). E le melodie crescono a temi, trascorrendo da un quadro
all'altro a segnare il fantomatico passaggio dei personaggi da
un'avventura all'altra, personaggi viventi quasi più vite, e
pur sempre restando gli stessi, condannati a una metempsicosi senza
via d'uscita. |
Ma non sono temi,
wagnerianamente, ad personam. Non richiamano cose o sentimenti
precisi, una «storia». Nel funebre finale questi temi
tornano piuttosto a rievocare i moti misteriosi, i salienti del
dramma, intendendo tutti questi moti come variazione, sdoppiamenti di
un'unica ansia, destinata a non esaurirsi in eterno, e quindi capace
di concretar solo forme d'allucinati arabeschi, come quelli prodotti
da un delirio febbrile: vuoti di storia e di figure umane, pieni solo
del fiato della propria disperazione, della temperatura della propria
febbre.
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E una pace straordinaria,
sovrumana e materna tocca a un certo punto questo delirio.
Nell'apparire del tono di fa diesis minore a mezzo del finale
è forse la catarsi estrema del primo Malipiero: un dolce
ripetere il proprio canto, appena scosso, ogni tanto, dalla febbre
antica di Pantea. Non è il porto del filosofo o dell'apostolo
o del redentore. Sì la consolazione arcana e travagliosa di
chi ha molto amato. Forse il pallido miraggio, sulle soglie del
nulla, del paradiso perduto.
[Da La Rassegna musicale, febbraio-marzo 1942]
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[1] Sui presentimenti di
questo nuovo stile, e sulla sua affermazione decisa, vedere le
finissime analisi di G. ROSSI-DORIA rispettivamente sul Finto Arlecchino (in Nuova
Antologia, 16 marzo 1933) e sulla Cena (La Rassegna musicale,
1 giugno 1933).
[2] G. M. GATTI: Musicisti moderni d'Italia e di
fuori, ed. Bongiovanni, Bologna.
[3] A. COEUROY: Panorama de la musique
contemporaine, Parigi, 1928, pag. 76.
[4] L. D'AMICO: Classicità di
Malipiero, in «Scenario» agosto 1932.
[5] H. H. STUCKENSCHMIDT: Zu Malipiero's
Buehnenwerke, in «Melos» febbraio 1934. Vedi in questo volume.
[6] «Ce n'est pas du fantastique romantique,
mais bien de ce 'merveilleux' dont raffolaient les contemporains de
Bernin et de Salvator Rosa.» (La Revue musicale, gennaio 1927:
vedi qui alle pp.
40-60). |
[7] Un discorso a parte
meriterebbe questo lavoro, che sembra contenere in boccio tanti e
tanto diversi motivi malipieriani, dal più antichi ai
più recenti; e vale soprattutto per questo continuo
lampeggiare di germi inventivi, che emerge con giovinezza temeraria
da un ricchissimo giuoco di prospettive, raggiunto dalla pura forza
lirica delle trovate armoniche e dalla gagliardia inesauribile di un
declamato onnipotente, anzichè da un piano architettonico.
Data la poetica del teatro malipieriano, nessun inconveniente a
considerare le Stagioni una vera opera, in cui il divenire del
dramma è sostituito dal misterioso saldarsi di tante
illuminazioni diverse in un discorso unico.
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