M. Baroni, E. Fubini, P. Petazzi, P. Santi, G. Vinay

LA MUSICA ITALIANA TRA LE DUE GUERRE

STORIA DELLA MUSICA
EINAUDI


Quando si parla di «generazione dell'Ottanta» con riferimento alle vicende della musica italiana novecentesca non si intende fornire una indicazione puramente cronologica: ci si riferisce invece alla prospettiva definita da Alfredo Casella, uno dei maggiori protagonisti di quella generazione, nei termini seguenti: «La creazione di uno stile moderno nostro è stato il problema assillante della mia generazione. Quando questa generazione cominciò a pensare, l'unica musica tipicamente italiana era quella operistica ottocentesca e verista piccolo-borghese. Urgeva dunque scuotere a tutti i costi questa idea angusta e antistorica e ricondurre i musicisti prima e le masse piú tardi a pensare che ben altre, piú profonde, piú varie erano le fondamenta della nostra musica».
Sarebbe difficile riassumere con maggior chiarezza il punto di vista di chi mirava ad una «sprovincializzazione» della cultura musicale italiana dominata dal melodramma naturalista, intendeva reinserirla in un dibattito europeo e per conferirle nuova dignità cercava di ritrovare antiche radici in un passato remoto in cui la musica strumentale italiana aveva conosciuto una storia gloriosa. Se questo programma di rinnovamento si profilava con chiarezza già all'epoca della Prima guerra mondiale, esso si sviluppò poi nel ventennio fascista. Si creò nell'Italia fascista una situazione assai diversa da quella di totale chiusura della Germania nazista, che ridusse al silenzio o all'esifio quasi tutti i musicisti migliori: in una situazione più complessa e contraddittoria si contrapposero una retorica ufficiale populistico-strapaesana, che tentò di trovare un vessillifero nel vecchio Mascagni, e aperture interne allo stesso regime, riconoscibili ad esempio nella politica culturale di Giuseppe Bottai.
Sono state recentemente esaminate e discusse le convergenze tra il programma della generazione dell'Ottanta e la formula politica del fascismo progressivo, intento a prendere le opportune distanze, cercando di barcamenarsi, dal fascismo agrario e ardimentoso delle origini, quello con cui era giunto al potere. Sí che l'ideologia fascista, in una Italia avviata a divenire potenza industriale fra le altre europee e mondiali, poteva riconoscersi nella istanza di rinnovamento dei nuovi compositori italiani. L'omologia fu vista in modo lucidissimo da Casella, che del moto di rinnovamento fu il portabandiera e che si adoperò per l'internazionalismo che nell'Italia del ventennio fascista fu incarnato dalla creazione del Festival di musica contemporanea di Venezia (1930) o dalla fondazione del Maggio musicale fiorentino (1933). Insieme con Malipiero e Labroca, e con l'entusiastico appoggio di D'Annunzio, Casella partecipò alla fondazione della Corporazione delle nuove musiche (1923-28), che poi si legò all'affività della Società Internazionale di Musica Contemporanea. Si delineava cosí anche in Italia il superamento di un rapporto diretto di condizionamento mercantile fra produzione e consumo, fra opera e pubblico, attraverso la mediazione dellìntervento dello stato. La fuga dal provincialismo ravvisato nel melodramma coincideva con l'abbandono di un'ottica condizionata dal vecchio capitalismo concorrenziale per adottare quella del nuovo capitalismo statuale ed assistenziale. E poiché la tradizione piú vicina dell'italietta liberale da un lato e del melodramma provinciale dall'altro non era cosa degna, ci si rifaceva all'antico veramente glorioso, alla grande musica del passato remoto, dichiarata autenticamente italiana.
In realtà abito naturalistico e ideali modernistici non apparivano cosí separati e contrapposti, nella musica italiana della prima metà del secolo, quanto i programmi innovatori potevano lasciar credere. Essi convissero per un buon quarantennio, condividendo volentieri motivi e caratteri, per lo piú spiritualistici (di stampo dannunziano o idealistico) e nazionalistici (d'ispirazione folclorica, arcaica o neoclassica). Le distinzioni emergevano negli autori di punta, ch'erano da una parte i superstiti della «Giovane scuola» e del melodramma naturalista (da Puccini a Zandonai e a Wolf-Ferrari) e dall'altra Alfano, Respighi, Pizzetti, Casella, Malipiero; ma si annullavano in una quantità di autori minori difficilmente collocabili a preferenza su questo o quel fronte (Vincenzo Tommasini, Riccardo Pick-Mangiagalli, Adriano Lualdi, Vito Frazzi, Ludovico Rocca).
Del resto, la modernità attribuita a Franco Alfano (Napoli 1875 - San Remo 1954) si riconosce fin dall'opera Risurrezione (1904) e si mantiene ravvisabile allo stesso modo nelle composizioni da camera e nella produzione teatrale posteriore, dalla Leggenda di Sakuntala (1921), ch'è la sua opera maggiore, al Dottor Antonio (1949), e persino nel completamento dell'incompiuta Turandot pucciniana, a lui affidato nel 1925; una modernità che consiste in una scrittura armonica e timbrica dottamente elaborata entro la quale viene lasciato fluttuare liberamente un melodismo di matrice napoletana.
Ottorino Respighi (Bologna 1879 - Roma 1936), dimostra addirittura la convergenza della tendenza naturalistica e di quella modernistica, e persino la loro organicità, ossia la sostanziale unanimità della realtà musicale italiana. Egli segna la perfetta fusione di gesto intellettuale e di abbandono sensuale, di modalità arcaicizzante e di colore, di lessico moderno e di suggestione; mentre arcaicizza e folklorizza, egli vive musicalmente la totalità unificante della società italiana in cui il fascismo germoglia. Nella sua produzione musicale piú riuscita e piú popolare (i tre poemi sinfonici ispirati a Roma: Le fontane di Roma (1916); I pini di Roma (1924); Feste romane (1929); il balletto La boutique fantasque (1919) su musiche di Rossini; le tre suites di Antiche arie e danze per liuto del 1917, 1924 e 1932 e quella, pure per orchestra, degli Uccelli del 1928, su musiche del Sei e Settecento la confluenza ideologica che sta alla base della sua musica assume un particolare spicco.
Analogamente Ildebrando Pizzetti (Roma 1880-1968) si rivolge all'arcaico adottando il modalismo greco-medievale. Piú che collegarsi a una precisa tradizione musicale questo modalismo viene a valere per la sua funzione ideologica, in quanto l'affiato religioso sublima l'andamento drammatico della composizione pizzettiana, e le conferisce un che di ascetico al di sopra delle passioni che vi si agitano. Ne emana una presenza etica e carismatica superiore, cui ogni dramma umano, espresso dallo sviluppo musicale, deve ricondursi. L'atteggiamento carismatico appare naturalmente evidente quando la musica si sposa alla poesia di D'Annunzio, soprattutto nel primo periodo creativo di Pizzetti (nella lirica dei Pastori per canto e pianoforte nel 1908, nella tragedia di Fedra nel 1915), ma si conserva poi sempre nella sua produzione, sia teatrale (fra cui Débora e Jaéle nel 1922), sia da concerto (fra cui la Sonata per violino e pianoforte del 1918).
Alfredo Casella (Torino 1883 - Roma 1947), a partire dal 1923, abbraccia invece l'ideale neoclassico e mediterraneo. La funzione strutturale della neoclassicità e della mediterraneità nello stile di Casella (si ascoltino, ad esempio, il balletto da La giara di Pirandello del '24 o il pastiche della Scarlattiana per pianoforte e strumenti del '26), consiste nella loro accentuata esibizione. Il neoclassicismo e il folklorismo caselliani ínfatti non hanno un carattere nostalgico ed oblivioso, ma estroverso, aggressivo, imperativo: l'immagine diatonica della classicità è integrata dal sentimento di una salute e di un'esuberanza vitale impresse da una luminosità solare e mediterranea. Neoclassicismo e folklorismo adempiono, nella musica di Casella, la funzione di un'affermazione culturale mediante la quale affiora la volontà e la ricerca di identità di una società in via di sviluppo capitalistico che si richiama ai propri miti. Essa interpreta, esplicitamente, le aspirazioni sociali e politiche del suo contesto storico.
Con Gianfrancesco Malipiero (Venezia 1822-1973) abbiamo il rovescio della medaglia. Per lui i luoghi aurei della tradizione musicale italiana, segnatamente del barocco cui si rifà il suo stile, sono ideali vagheggiati secondo la loro immagine storica, e collocati in una regione poetica irrimediabilmente remota e irraggiungibile.
Ascoltando la musica di Malipiero si desta in noi la visione di un mondo trapassato i cui tratti e i cui colori, cupi e fantasmagorici, si evocano in lontananza. Ma esso, lungi dal suonare pateticamente nostalgico, ha qualcosa di ebbro, di allucinato, di disperato, di protervo, talora addirittura di cinico e di beffardo. È ilmondo paradigmatico delle Sette canzoni (19 19) e del Torneo notturno (1929), le sue due opere teatrali pìú note. Rispetti e strambotti (1920), Stornelli e ballate (1923), Ricercari (1925), Ritrovari (1926), Cantari alla madrigalesca (1931) - per non citare che alcune delle sue composizioni da camera per quartetto d'archi e per piú strumenti - sono i fantasmi di una mancanza irrimediabile, e segnano amaramente la precarietà del contingente, della situazione presente, che nel luminoso confronto con ciò che ha perduto constata la propria desolazione. Mentre il neoclassico e il folklorico si rendono, in Casella, strumento di ostentazione di vitalità, in Malipiero l'arcaico, colto e popolaresco che sia, comunica invece un senso di estinzione e di morte.
Poiché tutti costoro tendevano a riallacciarsi a una tradizione lontana nel tempo e ad ispirarsi a motivi meramente ideali, le loro soluzioni non potevano esprimersi che in termini di poetica lontana dalle ricerche dell'avanguardia contemporanea. Dal punto di vista della tecnica musicale essi non recano alcuna vera innovazione. Non stupisce, perciò, che nel quadro europeo delle avanguardie musicali, tutte, invece, concentrate sullo sviluppo del linguaggio e della tecnica, il movimento rinnovatore italiano finisse per essere relegato in una posizione marginale. Anche la musica contemporanea italiana avrebbe cominciato veramente a entrare nel circolo internazionale dell'avanguardia con Dallapiccola e Petrassi, nati entrambi nel 1904, dopo un periodo di transizione, durante il quale sarebbe emersa la personalità isolata di Ghedini, della generazione intermedia.