ALFREDO CASELLA

LE CONFESSIONI DI UN «EUROPEISTA»

I SEGRETI DELLA GIARA I
pp. 297-318

DALLA «SOCIETÀ NAZIONALE DI MUSICA»
ALLA «SOCIETÀ INTERNAZIONALE DI MUSICA MODERNA»

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Secondo Mazzini ogni vero uomo di azione non vive che per una sola idea. Nulla di più vero. Dalla lettura di quanto precede in questo libro, asciutto e disadorno ma veritiero racconto di una vita di artista, il lettore avrà già indovinato quale sia stata la leva principale che ha agito su quella attività spirituale.
Ben disse Carrà che «l'arte sta allo spirito dell'artista come Dio sta all'uomo». Ed infatti la musica fu per me sin dalla prima coscienza, la mia religione e la mia unica ragione di vivere in questo mondo. Ma accanto a questa fede essenziale, mi guidò sempre nell'azione un'altra altissima idea: quella della patria non semplicemente intesa come nozione geografica o linguistica ma sopratutto come espressione di bellezza e di pura tradizione d'arte. Ed allora, si può dire che sin dalla mia formazione artistica, non vivessi che per lo scopo di realizzare un'arte non solamente italiana, ma anche europea per la sua posizione nel quadro generale della cultura. Questa idea era già visibile (se pur confusamente) in lavori come Italia oppure nella Suite per orchestra op. 13. E non cessa mai un giorno di essere presente in ogni atto artistico sino alle «conclusioni» degli ultimi anni, le quali segnano il definitivo raggiungimento di quelle antiche aspirazioni. Quindici anni dividono Italia da La giara, che può essere considerata il primo dei lavori di maturità nel quale la invenzione e la tecnica si accordano finalmente in una completa armonia, anche se quello e gli altri lavori seguenti non furono poi che incessanti preludi a nuovi moti della mia arte. Quindici anni sono parecchi. Ma non sono troppi se si considera la somma dei problemi che avevo di fronte a me e che mi toccò risolvere impegnandovi la totalità delle mie energie.
Siccome, d'altra parte, la lotta contro la mia arte in Italia è stata sempre impostata e condotta sulla negazione del suo carattere nazionale e sulla sua pretesa non appartendenza alla tradizione nostra, così non sarà inutile spendere qui qualche pagina, non in una «auto-difesa» della quale oggi meno che mai sento la necessità, ma in una analisi di quei problemi che ebbi a risolvere ed in una illustrazione del come li superai.
Per comprendere la gravità del problema più essenziale che la nostra generazione aveva da affrontare: quello di uscire a tutti i costi dall'atmosfera nella quale eravamo nati e cresciuti, che era quella del melodramma (ciò che significa anche in ultimo luogo, la modesta Italia dei tempi della piccola borghesia e della politica casalinga del quieto vivere). Il nobile tentativo della generazione precedente la nostra, quella di
Martucci e di Sgambati, se aveva indubbiamente contribuito a ridestare da noi la coscienza sinfonica assopita dalla morte di Clementi, poteva tuttavia considerarsi fallito come impulso creativo, troppa essendo stata la fondamentale subordinazione di quei maestri ai modi ed alle forme della grande musica strumentale tedesca. Ed allora la generazione nostra si avviò decisamente per l'unica via possibile: quella di aderire alle avanguardie europee sorte dopo la guerra sulle rovine dell'impressionismo. Avvicinamento in cui si volle riscontrate una nuova forma di asservimento nostro ad estetiche straniere, mentre invece oggi ci appare come quello che era in realtà: il primo reale tentativo dei nostri musicisti per stabilire nuovi rapporti culturali colle altre scuole e raggiungere una mentalità più larga, più consapevole, più «europea» insomma di quella degli ultimi decenni. Parallelamente al processo di assimilazione che fu contenuto in quella nostra adesione all'avanguardismo straniero, si faceva però prepotentemente strada la reazione del sentimento nazionale.
Non invano erano passati sul nostro popolo gli anni di guerra. Ed attorno a noi stava divenendo formidabile realtà quel movimento politico e sociale che colla Marcia su Roma fece sua l'Italia che rappresentava il più ardito tentativo di fusione mai veduto fra prassi e pensiero, fra tradizione e rinnovamento della medesima a traverso il fluire della storia. D'altra parte, tramontando l'impressionismo e subentrando a quello un'arte nuovamente lineare e costruttiva, si iniziava in Europa un vasto processo di chiarificazione il quale è tuttora in pieno sviluppo, ma che ha già permesso importanti revisioni di valori artistici, si faceva così la pace coll'Ottocento, per lunghi anni tanto aspramente avversato dalla nostra generazione. Alla grande figura di Verdi veniva restituita la sua vera, gigantesca grandezza, ed il Falstaff veniva finalmente in teso come il punto di partenza della nuova musica italiana. I grandi nomi di Vivaldi, Scarlatti, Frescobaldi, Monteverdi, Da Venosa, che ai tempi di Martucci ancora erano totalmente ignorati dai musicisti italiani ad esclusivo profitto del Romanticismo tedesco, tornavano adesso a rivivere nell'attualità nazionale. Si determinava insomma un rapido processo evolutivo, a traverso il quale scompariva ogni traccia di assimilazione straniera e si formava celermente una nuova coscienza musicale ed anche uno stile italiano inconfondibile cogli altri europei.
Il carattere polemicamente anti-romantico assunto dalla migliore arte europea del dopoguerra ha recato con sé, come immediata conseguenza, una aspirazione generale verso un nuovo ordine, il quale ebbe tuttavia la sfortuna, almeno in origine, di essere chiamato «neoclassicismo». L'apparizione di questa tendenza coincise con quella della ripresa - che ad un certo momento dilagò ovunque - di antiche forme pre-romantiche quali Partite, Toccate, Passacaglie, Ricercari, Concerti grossi ecc. Oggi che quel periodo polemico è già lontano, è facile lo scorgere quanto vi fosse di artificioso e di accademico in questa mentalità la quale in troppi casi dava opere che non si innalzavano al di sopra della pura esercitazione oppure imitazione stilistica. Ma, occorre pure riconoscere oggi che guel periodo iniziale non era che il primo aspetto di un vasto travaglio che e oggi in pieno sviluppo, e che tende effettivamente a restaurare nell'arte (non solamente nella musica) il senso della classicità. Questa rinascenza del senso classico, dapprima manifestatasi, come abbiamo detto, sotto forma di una restaurazione talvolta ingenua di certe forme sei- e settecentesche, è attualmente passata in una fase ben diversa. Si vede oggi che, in realtà, quel ritorno a forme preromantiche non era tale che nei titoli dei pezzi, e che queste forme intitolate arcaicamente, erano invece, quando valide, totalmente nuove e diverse da quelle passate. Per noi Italiani, il cosidetto «ritorno» al periodo aureo della nostra musica strumentale altro non era in realtà che la rinuncia alla rigida forma beethoveniana, alle facili seduzioni del poema sinfonico, alla inconsistenza dell'impressionismo, ripristinando in luogo di queste dottrine le antiche discipline strumentali polifoniche nostre, discipline tuttavia che non erano un fine, ma un mezzo per ritrovare con risorse attuali l'antica mirabile e così sciolta e libera «discorsività» della musica. Ed appare oggi evidente che la violenta campagna di opposizione fatta in Italia a questa tendenza tanto da parte di intelligenti quanto da mediocri o scemi, era dovuta al fatto che troppo sovente si criticano gli artisti sulle loro dichiarazioni anziché sui loro lavori. Avviene così di vedere prendere sul serio affermazioni alquanto stravaganti come quella di Strawinski che un bel giorno si paragona ad un notaio, di Honegger che si autodefinisce un onesto operaio oppure di Casella che rivendica per sé la qualifica di artigiano. Se invece di accordare a queste dichiarazioni, tutte dettate da necessità polemiche e momentanee, maggior peso di quanto non si meritavano, i vari critici (intelligenti o meno) si fossero invece limitati ad esercitare la loro attività critica sul reale valore delle musiche di quei compositori, si sarebbe allora veduto quanto vi era di caduco in quelle parole e si sarebbe constatato che la restaurazione dei valori classici era qualcosa di ben più profondo di quanto non si voleva dapprima credere e che non si poteva in nessun caso abbassare a puro capriccio di moda.
Oggi la battaglia sorta attorno alla legittimità di questa rinascenza del classicismo ed alla necessità, più o meno di rimanere aggrappati al Romanticismo (come lo preconizzava il famoso «manifesto» del 1932) si può dire tramontata, almeno come argomento di discussione leale ed attuale. Si è ormai rifatta la convinzione (nei migliori di noi almeno) che l'idea della vera classicità non possa essere che la rinascita di un equilibrio superiore nella creazione, una rinascita ad un tempo classica e romantica per la sua pienezza e serenità di forma e come idea soggettiva di una attualità nutrita di tradizione. Nozione poi che corrisponde precisamente al momento politico, il quale persegue sul suo piano analoghi obbiettivi.
Non è tuttavia attorno al problema del classicismo (con o senza «neo») che si è accesa la maggior battaglia in questi ultimissimi anni, ma bensì, come ho già detto, sulla questione del carattere nazionale dell'arte. Questione che è profondamente attuale, ma che è molto complessa e che si deve o trascurare totalmente (ciò che sarebbe il meglio), oppure trattare con profonda conoscenza, cosa che purtroppo manca quasi totalmente quando questo argomento entra in campo nella critica quotidiana.
Il dovere per l'opera d'arte di aver - oltre ai suoi valori puramente estetici - anche un cosidetto «carattere nazionale» era cosa ignota agli artisti prima dell'Ottocento. Nessun creatore né dell'Antichità, né del Medioevo, né del Rinascimento e nemmeno del Sei- o del Settecento si è mai curato di questo problema. Regnava nell'arte la generale convinzione che essa come tutte le maggiori attività dello spirito umano non avesse frontiere né tanto meno si poteva prevedere che un giorno avrebbe persino conosciuto barriere daziarie.
Basti il ricordare il caso di un G. S. Bach, Maestro il quale prima di essere universale, fu sopratutto formidabilmente tedesco, ma che passò anni della sua vita a copiare, trascrivere e studiare musiche francesi ed italiane (prime fra queste le creazioni di Vivaldi) per assimilarsi certe qualità che invidiava. Luminoso esempio del come possa un vero creatore trasformare in anelito proprio, in intima disciplina, in nuova sostanza d'arte espressioni tolte da altre arti, senza nulla perdere della propria tempra nativa, anzi rendendola più ricca e robusta con quelle assimilazioni. Giova poi ricordare che fino all'Ottocento, non esistevano in Europa che due grandi scuole musicali: la tedesca e l'italiana. Sarebbe troppo lungo il ricordare qui quali e quante siano state le influenze reciproche delle due grandi civiltà musicali, influenze che presero persino, nella miracolosa personalità di Mozart, la forma di una vera e propria fusione di linguaggi e di forme. È con Weber che appare per la prima volta nell'arte dei suoni una volontà cosciente di nazionalismo. A traverso poi lo scorso secolo, parallelamente al sorgere del nazionalismo politico, che fu movimento e dottrina di tutta l'Europa nello stesso tempo che movimento e dottrina di ogni singola nazione, venne formandosi anche quello artistico. Sorsero così successivamente le nuove scuole russa, francese, spagnuola, norvegese, ungherese, inglese, ed infine nordamericana. Scuole tutte animate da una chiara volontà d'indipendenza artistica, anche se questa in non pochi casi non andasse oltre la ingenua elaborazione di melodie popolari. Il nazionalismo artistico è dunque un movimento di cui si può discutere l'utilità in sede puramente artistica, ma del quale non è possibile contestare la stretta aderenza al vasto movimento politico e dottrinale che ha guidato l'Europa dapprima e più tard il mondo intero dall' 800 sino a tutt'oggi.
Passando però all'applicazione pratica di questo concetto all'arte, non si può negare che la definizione critica del puro carattere nazionale di una singola opera d'arte e la sua valutazione, presentano non solamente le maggiori difficoltà, ma aprono altresì le porte alla polemica, e sopratutto ad una forma di polemica nella quale l'arte entra per una minima parte. Taluni interidono il carattere nazionale nel senso folkloristico, vale a dire credono che adoperando il compositore temi tolti dalla voce del popolo o dalle raccolte regionali, basti questo espediente a far opera nazionale. Avendo io fatto qualche esperienza del genere, tanto la lontana Italia (1909) quanto la più recente Giara (1924), ritengo di aver il diritto di dire che considero quelle esperienze come sorpassate da un pezzo, e che i lavori dell'ultimo mio decennio, privi di qualsiasi citazione folkloristica, mi sembrano nondimeno rappresentare un considerevole approfondimento nel senso «nazionalistico» su quelli ora citati. Del resto, il ricorso al folklore come elemento di carattere nazionale è ormai abbandonato da tutti i principali creatori europei, e soli rimangono attaccati a quell'espediente i compositori di mentalità provinciale e di scarsa cultura artistica.
Vi è poi un carattere nazionale infinitamente più importante, ma anche molto più arduo da definirsi; è quello ad es. di un Schumann oppure di un Debussy. Qui ci troviamo di fronte ad un'arte i cui legami colla razza e colla tradizione risultano da una quantità incalcolabile di precedenti esperienze, travagli, lotte, conquiste, realizzazioni, momenti vari tutti ed espressioni di un'anima unica e primigenia che è poi quella del popolo. Somma di valori spirituali che si chiama comunemente tradizione, monumento alla base del quale sta è vero humus popolare, ma che finalmente viene in rialzato a suprema realtà artistica dall'azione del genio.
Della difficoltà di distinguere il carattere nazionale quando si tratti di espressioni di arte che sembrano contraddire, per la loro novità, i concetti di tradizione più generalmente diffusi, è eloquente riprova la storia. Nemmeno Verdi né Rossini seppero sfuggire ai loro tempi dall'accusa di essere asserviti allo straniero [1]. Occorre anche aggiungere che è una forma mentis particolare al nostro paese, quella di temere periodicamente che lo spirito nazionale venga inquinato da influenze straniere, forma mentis che risuscita ad ogni generazione quelle campagne di stampa che sono pure espressioni della mentalità piccola-borghese e provinciale di coloro che, per timore di essere condotti «troppo in là», ricorrono al comodo sistema di accusare gli artisti di essersi «venduti» allo straniero. Ma, prescindendo da questa suscettibilità particolare alla nostra nazione, vediamo nondimeno che in ogni paese gli artisti «storici» (quelli che soli contano cioè) furono regolarmente accusati di uscire dalla tradizione. Basti il ricordare nell'ultimo trentennio i nomi di Debussy, di Ravel, di de Falla e di Szymanowski.
Nel caso specifico dell'Italia, non vi è da meravigliarsi se le ultime espressioni dell'arte nostra vengono a loro volta definite come estranee alla tradizione. Da una parte, una tradizione nazionale eccezionalmente varia che comprende tanto Frescobaldi, Monteverdi, Da Venosa, Vivaldi, Clementi e Verdi quanto D. Scarlatti, Pergolesi, Cimarosa, Rossini oppure Donizetti. D'altra parte, il fatto che unica musica italiana sia stata durante lo scorso secolo il melodratruna - unito all'enorme favore incontrato da questo teatro presso il pubblico del mondo intero - ha contribuito alla formazione di una mentalità propensa a identificare la tradizione italiana con quella sola forma d'arte ed a non sospettar nemmeno lontanamente che ben diverse e più remote possano essere le origini della nostra musica.
Aggiungendo a tutto questo il fatto che il melodramma ottocentesco costituisce, per la sua natura stessa fatta essenzialmente di slancio immediato e spontaneo ma anche fondamentalmente «paesano» (nel senso della sua scarsa partecipazione alla grande evoluzione europea musicale ottocentesca), un comodo appiglio per tutti coloro che vorrebbero vedere l'arte messa a portata delle loro modeste possibilità di artisti mancati e provinciali. Avviene perciò che la polemica quotidiana e spicciola, non riuscendo per incapacità di questi oppositori ad elevarsi verso la pura critica, si trasforma in un noioso ritornello di opposizione basato invariabilmente sulla pretesa mancanza di carattere nazionale di certe arte.
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Io ritengo oggi che il problema della cosidetta «pregiudiziale» del carattere nazionale nell'opera d'arte, debba ormai considerarsi come superato. È un aspetto dell'arte che ha potuto, parecchi anni fa, imporsi come problema alla nostra generazione che ereditava dai predecessori una situazione assai difficile. Ma nessuno di noi si cura oggi di essere «nazionale» quando scrive musica. E nemmeno se ne preoccupano quei musicisti più giovani di noi, che sono stati formati dal nostro esempio e dal nostro lavoro. Il clima dell'Italia attuale non è quello dei tempi che furono, e che non ritorneranno più.
Non si deve dimenticare che è assai più importante essere un artista storico (vale a dire uno di quei pochi che fanno la storia): invece che nazionale. «Le buste survit à la cité», disse non so più quale filosofo. Ed infatti vediamo che delle antiche civiltà non ci rimane che l'arte, mentre è scomparsa ogni traccia della loro scienza e persino della loro potenza materiale.
Dopo aver lottato per tanti anni in me stesso e contro tante difficoltà per raggiungere quello stile «nostro» che fu sin dall'adolescenza lo scopo della mia vita di artista, può apparire singolare che io annetta oggi così poco valore a ciò che rappresentò per me un problema tanto grave. Ma è normale che la soluzione di un simile problema rechi con sé una grande serenità, una profonda quietudine. Altri problemi si affacciano oggi al mio spirito, ma, presupponendo tutti il superamento di quell'altro, ne hanno determinato nella mia mente l'affievolimento e l'oblio.
Due parole ancora in materia di nazionalismo musicale. Si è fatto un gran parlare negli ultimi tempi di un preteso stile «internazionale» secondo il quale la à musica cosidetta moderna sarebbe una specie di esperanto ovunque identico. In parte, questa opinione deriva del fatto che quando non si capiscono, tutte le musiche «moderne» si assomigliano, proprio, come sembrano uguali le lingue cinese e giapponese a colui che non le parla. Ammettiamo tuttavia che vi sia qualche verità in questa affermazione. Ma è molto facile rispondere che si tratta in tal caso di arte mediocre e brutta, e che effettivamente esiste una internazionale della mediocrità. Ma questa esiste non solamente nel campo dei modernisti, ma anche - e non meno deplorevolmente - presso i nemici della modernità, i quali scrivono in tutto il mondo la stessa musica. In materia, possono i reazionari di ogni tipo tendere la mano agli estremisti della S.I.M.C. : sono tutti in realtà la medesima internazionale: quella appunto della mediocrità universale.
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Dal '70 in poi, l'Italia non ha avuto che correnti artistiche ristrette. Troppa è ancora da noi l'indifferenza (che tende nuovamente ad aggravarsi) per quello che avviene altrove, indifferenza che viene pericolosamente confusa come amore alla tradizione. Il futurismo, la Voce, Lacerba, Valori plastici, la C.D.N.M. sono questi i tentativi maggiori dell'ultimo quarto di secolo per sprovincializzare la nostra arte. Occorre più che mai vigilare sulla campagna che è oggi in pieno sviluppo e che vorrebbe - contrariamente all'azione svolta sul piano politico - ricondurre l'arte nazionale ai tempi del «piede di casa» e del «vivere quietamente».
La parola «europeismo» è di recente coniazione, ma è già entrata nell'uso corrente della polemica, tentando taluna gente di creare un equivoco fra questa parola e l'internazionalismo «standard» che è una cosa alquanto diversa. Questa volta ancora, la migliore intelligenza nazionale si trova di fronte la mediocrità tenta di isolare il pensiero italiano e di creare un'atmosfera di diffidenza e di disprezzo verso la cultura straniera, instaurando per lo spirito una «autarchia» simile a quella delle materie prime. Mentre invece e oggi il momento di aprire i confini e di assumere finalmente il nostro posto di creazione e di tendenza entro il grande travaglio della cultura europea. È evidente dunque come la confusione che si vorrebbe fare fra europeismo ed internazionalismo sia un nuovo tentativo interessato di limitare il nostro pensiero italiano e di chiudere le porte alla migliore parte della cultura straniera.
Nella divergenza fra «europei» e «provinciali» sta oggi tutto il dramma della nostra musica (per non dire dell'intera arte italiana). Mentre i secondi, basandosi sull'eterno umano pregiudizio che attribuisce a questa o a quell'altra epoca passata tutte le perfezioni e pensa melanconicamente che quell'epoca non si rivedrà mai più, non concepiscono alla musica italiana altro volto né altri costumi che quelli ottocenteschi negandole a priori ogni altro orientamento - i primi (assai minori per numero) considerano invece che sia ormai necessario il rendere la musica nostra, pur senza nulla rinnegare della nostra tradizione (anzi, semmai, raccogliendo in questa esperienze delle quali l'Ottocento non volle mai sapere), parte viva ed integrante del vasto movimento spirituale che si identifica - (non sempre in senso benevolo, come abbiamo poc'anzi constatato) colla parola «europeismo», la quale significa quella vasta universale aspirazione che guida oggi l'intera arte verso un nuovo ordine, verso nuove discipline, verso una nuova coscienza morale e sociale che già comincia a manifestarsi come una probabile rinascenza del classicismo. Movimento spirituale al quale gl'Italiani sono oggi chiamati a partecipare non solamente per mille ragioni storiche e culturali, ma anche per il carattere fondamentale della loro rivoluzione politica, la quale - a meno che non la si voglia ridurre ad una «rivoluzione di casa» -deve anche recare con sé la presenza di un'arte che non sia meno «moderna» di detta rivoluzione politica e che ponga decisamente l'Italia al primo posto sul piano dell'avanguardia europea.
Si osserva quotidianamente che l'epoca delle grandi audacie artistiche appare tramontata. Cubismo, espressionismo, dodecafonia, deformismo, post-impressionismo ed 'ad similae' sono passati allo stato di ricordi storici. Si parla correntemente di un «ritorno alla normalità» che si verificherebbe oggi nell'arte. È questa pure una paro a assai insidiosa, perché può far molto comodo a coloro che sono abilissimi nell'inserire in ogni momento dell'attualità i loro interessi personali. A costoro bisogna rispondere che la lotta per la continuità evolutiva dell'arte non cessa oggi, come non cessò mai nè cesserà più tardi. D'altra parte però, il medesimo vocabolo «pacifista» corrisponde indubbiamente ad una verità che si fa ogni giorno maggiormente palese: quella che, dopo aver attraversato un periodo di vasto travaglio tecnico, l'arte (ed in particolare modo la musica) si trovi oggi a disporre di un linguaggio favolosamente ricco, così ricco come mai non ne conobbe nessuna epoca, e che sia ormai giunto il momento di usare questo linguaggio come mezzo espressivo di una nuova umanità dell'arte. Troppi sono stati nell'ultimo trentennio gli esperimenti di ogni genere, esperimenti che hanno infinitamente arricchito le possibilità sonore dell'arte in genere, ma che hanno anche distanziato il pubblico e creato fra quello e l'artista una mancanza di contatto che occorre adesso colmare al più presto. E questa smarrita comprensione delle masse non potrà essere ritrovata che il giorno ove l'arte europea saprà ridivenire altissima espressione di umanità, e raggiungere nuovamente - a traverso l'espressione del proprio tempo - quei valori eterni ed immutabili che sono comuni a tutte le epoche e la cui continuità rappresenta la storia stessa dell'arte.
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L'epoca che stiamo attraversando è torbida e confusa e piena di insidie contro l'intelligenza pura. Può anche darsi che domani le circostanze vadano sempre maggiormente aggravandosi, e che allora non rimanga ai pochi veri artisti superstiti che rinunciare alla comprensione degli altri uomini racchiudendosi in una bella «torre d'avorio», in attesa di una risurrezione dello spirito. Aggiungo però che non credo alla possibilità di una simile catastrofe del pensiero. L'arte è - come disse così eloquentemente Croce - l'unica eterna e concreta realtà che possieda l'uomo (la scienza non essendo che un succedersi di ipotesi superantesi a vicenda). E non credo che l'uomo possa vivere senza quella realtà. Una umanità senz'arte sarebbe destinata a perire rapidamente. Perciò conservo intatta la mia fede nel superamento di questa epoca, alla quale del resto fanno riscontro tante altre epoche di oscuramento, di incertezza e di crisi che troviamo nella storia di tutti i tempi.
Questa mia cieca fede nell'arte fu in ogni istante la mia vera religione. La musica ha sempre costituito la mia sola ragione di esistere e fu ognora ta causa determinante di ogni mia azione. Non ho mai conosciuto neppure per un attimo l'angoscia di chiedermi «perché fossi al mondo», ma mi sono sempre considerato come un combattente al quale una potenza superiore aveva affidato un avamposto e che doveva adempiere al o dovere senza perdere un minuto con inutili dubbi oppure superflue interrogazioni.
Ho cercato sempre di far bene, cosa che troppi uomini purtroppo evitano, girando al largo. Il rispetto al lavoro qualunque esso sia, arte oppure umile lavoro manuale (rispetto che ho ereditato da mia madre la quale ne era un mirabile esempio vivente) fu sempre per me altissima regola di vita, alla quale credo di non aver trasgredito un giorno solo.
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Uno dei rimproveri che mi vengono più comunemente rivolti, è quello della mia pretesa immodestia. Ed è vero che talvolta la ostinata inimicizia, di troppi critici miei conterranei mi ha costretto a tributarmi da me certe lodi che non riuscivo a strappare alla parsimonia di quei signori. Come pure è vero che, se mi sento piccolissimo di fronte a Verdi oppure a Bach, mi trovo per contro molto grande quando mi paragono a taluni miei mediocrissimi nemici. Ma aggiungo subito che, anche se ho potuto non di rado apparire immodesto e persino presuntuoso, non mi ha però mai mancato una virtù che considero infinitamente più importante: quella della totale umiltà di fronte alla musica. Umiltà che invece di venire attenuata dal mio continuo travaglio di perfezionamento, cresce ogni giorno nella mia coscienza di artista, e costituisce probabilmente il segreto della mia attuale posizione morale e della mia totale indifferenza alle manifestazioni dell'invidia che non disarma fino all'ultimo.
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Se ho costantemente attirato su di me l'antipatia ed anche non di rado l'odio della mediocrità connazionale, non mi è però mai mancata la stima dai maggiori musicisti stranieri, e neppure (mi sia concesso ancora una volta di essere immodesto) la loro ammirazione. Confesso di tenere assai al suffragio degli stranieri, suffragio il quale corrisponde alquanto nel mio pensiero al consenso anticipato dei posteri.
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Sono stato per lunghissimi anni impopolare nella mia patria, ed è solamente da poco tempo che questa ostilità tende ad attenuarsi ed a lasciare posto ad una più serena valutazione della mia arte e della mia azione, ad una indagine critica la quale finalmente riesca a liberare la mia figura artistica da troppi pregiudizi e da troppi equivoci. Riconosco d'altronde senza difficoltà che la mia natura così decisamente nemica verso l'arte-sfogo, l'arte autobiografica, l'arte impura insomma, non era certo indicata per facilitarmi la via in un paese dove l'arte così detta passionale (veduta a traverso l'eredità veristica) costituisce precisamente il modello favorito alle folle. Va poi ricordata ancora la mia tardività di compositore essendo i miei lavori maggiori e veramente definitivi stati scritti solamente dopo la quarantina, ciò che è un caso abbastanza eccezionale. Sono queste le ragioni principali che valgono a spiegare come quella ostilità abbia tardato tanto a disarmare nei miei riguardi.
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Uno degli equivoci più tenaci che si siano creati sulla mia persona, è quello della polemica. Vi sono individui che nascono segnati da una sorta di fatalità, la quale fa sì che ogni loro parola, ogni loro gesto, anche i più innocui e normali, vengono interpretati in senso polemico. Precisamente come accadde a me e come accade tuttora, non potendo io dire pubblicamente due parole di buon senso senza che queste vengano interpretate come una diana di guerra.
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Ho un vivissimo amore per i giovani. Vivo in mezzo a loro, e mi pare così di essere rimasto giovane come essi. Questo risponde ad una mia naturale inclinazione, e probabilmente anche risulta da una capacità di rinnovamento e da una vitalità che sono lieto di possedere. Purtroppo questa simpatia per la gioventù non è frequente negli artisti anziani, e molte volte ho dovuto constatare che i miei coetanei erano ben diversi da me quando si trattava in certe circostanze di consigliare oppure di aiutare qualche giovane, soprattutto se questo manifestava un ingegno eccezionale. Mentalità certo deplorevole, perché, se è alto obbligo per ogni artista «arrivato» di porgere la mano a coloro che cominciano a loro, volta la loro dura fatica spirituale, è poi una politica ben poco antiveggente quella di cercare di ostacolarne il cammino, per paura che essi abbiano a «superare li loro maestri».
Ho incontrato nella mia vita molto più esseri buoni che cattivi. Ed anche fra i miei peggiori nemici, pochi erano quelli veramente malvagi (come anche pochi erano quelli intelligenti). Ma a nessun nemico serbo rancore, perché voglio credere che furono sinceri nel combattermi. E preferisco infinitamente un nemico di buona fede ad uno di quei pseudo-amici che sono il risultato inevitabile della notorietà e della posizione.
Non considero che questa mia vita offra nulla di straordinario. È la vita di un uomo il quale ha dato tutto se stesso all'arte ed alla patria. È tuttavia una vita completa nel senso che nulla le ha mancato: spiritualità, lavoro, amore, paternità, e persino una invidiabile saldezza fisica. È anche una vita utilizzata al massimo, perché non credo che avrei potuto fare di più ed avvicinandomi alla sera della mia esistenza sento di potermi presentare davanti a Dio colla coscienza tranquilla, certo di aver fatto il mio dovere di artista e di italiano. Ma, ripeto, è la vita molto semplice di un lavoratore dell'intelligenza la quale si riassume tutta in una idea sola: quella di avvicinare quanto maggiormente possibile la perfezione identificando però sempre questa perfezione colla bellezza latina e mediterranea della maggiore arte nostra.
Disse mia madre morendo che, se aveva peccato, era stato per aver troppo amato. Può darsi che io pure abbia a mia volta a ripetere le medesime parole quando chiuderò per sempre gli occhi. Gli unici torti infatti che mi senta verso certi nemici, sono la conseguenza dell'infinito amore che ebbi sempre per la mia arte e per l'Italia, sentimento la cui intensità mi rese non di rado intransigente verso coloro che mi parevano ostacolare una forma di bellezza ed un concetto della patria inscindibili da quell'amore.
Qui termina per davvero il racconto della mia esistenza di uomo e di artista. Non so se Iddio mi concederà ancora di servire utilmente la mia arte e la patria. Gli sia però lode per avermi donato una vita, che fu dura ma anche bellissima e consentendomi di raggiungere per essa, a traverso una quotidiana dimestichezza colle più alte attività dello spirito, la serenità suprema dell'uomo che ha bene speso la sua «giornata terrena».

[Berlino-Dahlem, il dì 10 novembre 1938-XVII].

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[1] Per dimostrare che non solamente scrivevano sciocchezze del genere gli Incagliati dell'epoca, ma persino spiriti superiori, valgano le due seguenti citazioni:
«Dopo Tancredi, Rossini è divenuto sempre più astruso, sacrificando tutto all'imitazione dei Tedeschi. Invece di offrire al pubblico grazie e piaceri, ha intrapreso di incutergli spavento». (Stendhal, «Rossini»).
«Verdi non è più italiano. Fa del Wagner. Non ha più i suoi noti difetti. Ma non ha nemmeno più una sola delle sue qualità. La battaglia è perduta per lui e l'opera è ormai entrata in agonia, una agonia che dovrà solamente all'Esposizione Universale se si prolungherà oltre il normale», (Georges Bizet, sul Don Carlos a Parigi, in una lettera scritta l'11 marzo 1867 a Lacombe).