MASSIMO MILA

LA GENERAZIONE DELL'OTTANTA

BREVE STORIA DELLA MUSICA
pp. 419-424


Il rinnovamento della musica italiana nel XX secolo e il suo aggiornamento sulle posizioni del gusto europeo contemporaneo furono opera d'una generazione di musicisti nati intorno al 1880: principalmente Franco Alfano, Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Gian Francesco Malipiero e Alfredo Casella. Il loro compito fu particolarmente difficile. È vero che in ogni paese d'Europa si stava svolgendo, praticamente, lo stesso fenomeno di rinnovamento dei valori musicali tradizionali e indigeni per aggiornarli alle conquiste strumentali del romanticismo tedesco e del dramma wagneriano; ma l'Italia era il paese che piú di tutti aveva da perdere in questa trasformazione storica. Troppo grande era il passato artistico da cui bisognava avere il coraggio di staccarsi: sebbene la tradizione melodrammatica ottocentesca fosse in declino dopo la scomparsa di Verdi, essa conservava intatto il favore delle folle popolari. Non era facile comprendere perché non si dovesse e non si potesse continuare a scrivere belle opere tradizionali come quelle che da Bellini a Mascagni, da Verdi a Puccini avevano dato tanta gioia al popolo e tanta gloria alla musica italiana. I musicisti dell'Ottanta non facevano che prender atto delle mutate condizioni di cultura, di gusto, d'abitudini, per cui non era piú possibile, anche volendolo, scrivere con successo artistico opere di quel genere; ma l'apparenza, talvolta accreditata da intemperanze polemiche e dalla confusione d'idee in cui si svolgono i vasti rivolgimenti storici, faceva sembrare che essi stessi si imponessero deliberatamente come gli affossatori della gloriosa opera italiana.
È facile quindi comprendere l'impopolarità che essi dovettero affrontare. Se si confronta la loro attività con quella del gruppo Martucci-Sgambati-Bossi-Sinigaglia, ci si avvede di una differenza sostanziale: essa fu un fenomeno artistico, mentre quella dei loro predecessori era rimasta essenzialmente un fenomeno di ordine culturale. Martucci e Sgambati si proponevano di restituire all'Italia una musica strumentale, guardando a modelli stranieri che appartenevano ormai al passato: Beethoven, Mendelssohn, Wagner, nella migliore delle ipotesi Brahms. Invece i compositori dell'Ottanta guardavano all'avvenire: per loro non era piú questione di voltarsi indietro a ricuperare i valori del sinfonismo romantico, ma di impossessarsi delle piú recenti innovazioni del linguaggio musicale e di portarle avanti in maniera originale. Qualunque possa essere stato in seguito il loro atteggiamento individuale (Alfano, Respighi e Pizzetti assunsero col tempo una posizione più conservatrice di Casella e Malipiero), nel tempo in cui essi condussero insieme la battaglia per il rinnovamento del gusto musicale, essi avevano in comune l'entusiasmo della ricerca, l'ansia e la curiosità del nuovo.
Sebbene l'opera ottocentesca si configurasse necessariamente come il passato da abbandonare, e il sinfonismo strumentale come la meta da conseguire, essi non facevano tanto questione di generi musicali, quanto di essenziale novità di linguaggio. Strauss e Debussy furono da principio i poli del loro entusiasmo innovatore, ed essi vissero quella esperienza della musica europea in cui la densità dell'armonia e la complessità dello strumentale costituivano le strade maestre della modernità. Alcuni di loro, come Alfano, Respighi e in parte lo stesso Pizzetti, si radicarono su questo terreno e ivi costruirono il loro personale edificio artistico, mentre Malipiero e Casella conservarono un costante interesse per l'evoluzione musicale contemporanea: furono toccati entrambi dalla crisi armonica dell'ambiente viennese postmahleriano, e nella originale formulazione artistica di Malipiero si potrà sempre avvertire una certa apertura verso l'espressionismo mitteleuropeo; invece Casella trapassò ben presto verso l'altro polo della musica contemporanea, cioè verso l'esperienza neoclassica elaborata a Parigi nel primo dopoguerra intorno all'esempio di Stravinskij, all'insegna della semplificazione, della chiarezza e dei valori nazionali.
Nessuno di questi compositori varcò la soglia della atonalità, ma tutti accettarono la pratica della tonalità liberamente allargata, seguendo la svolta modale o politonale dell'armonia, congiunta con la rinascita dell'interesse contrappuntistico. Sebbene il canto popolare fosse tenuto in grande onore, la sua importanza non è paragonabile a quella che ebbe in Ungheria, in Spagna e nei paesi slavi: troppo grande e diffusa è in Italia la tradizione della musica d'arte perché al canto popolare rimanga la possibilità di distinguersi per una sua originale fisionomia. Il raggio d'azione del canto popolare rimane assai limitato nel paese di Rossini e di Verdi, di Donizetti e Bellini, e si può dire che, salvo eccezioni di speciali isole etniche, esso si serva del linguaggio musicale elaborato dal melodramma nei tre secoli della sua storia. Alcuni di questi musicisti - specialmente Malipiero e Pizzetti - si rivolsero invece al canto gregoriano, come a una specie di coscienza musicale sepolta della nazione, per attingervi le norme d'una nuova melodia, caratterizzata armonicamente dal sapore modale e ritmicamente dalla duttile obbedienza alla pronuncia della parola. Insieme al gregoriano, il declamato dell'ultimo Verdi (Otello e Falstaff) è l'altra grande componente di questo nuovo tipo di melodia, che in Pizzetti e Malipiero presenta una natura eminentemente vocale, anche nelle composizioni strumentali. La melodia di Casella, invece, è di natura prevalentemente strumentale, ed infatti, dal punto di vista dei valori ritmici, egli solo accettò gli aspetti ostentatamente moderni del cosiddetto ritmo motorio, con caratteri di ostinata accentuazione metrica, ch'egli derivava dall'esempio di danze popolari, come la tarantella. Invece il modello gregoriano spinse Malipiero e Pizzetti a sviluppare il ritmo piuttosto verso la libertà e la differenziazione, svincolandolo dalla battuta e dal metro, ed ancorandolo alla parola.
Tutti questi musicisti portarono largo interesse al fattore timbrico e collaborarono alle esperienze che condussero dalla grande orchestra wagneriana alla moderna concezione dei timbri puri e dissociati: in questo senso è molto rappresentativa la posizione di Respighi, combattuto tra le due concezioni del «Wohlklang» ricco e grasso, straussianamente amalgamato, e quella nuova della trasparente economia di suono, anch'essa sentita da lui sensualmente, come un'altra forma di « colore» da aggiungere alla ricca tavolozza orchestrale del poema sinfonico, e cioè il colore pittoresco dell'arcaismo.

Le due anime del rinnovamento musicale italiano

Quanto si è detto finora potrebbe far pensare che il merito dì questi musicisti sia consistito principalmente in un'opera di mediazione e di importazione in Italia dei moderni valori europei. Questo fu infatti l'aspetto piú appariscente della loro attività, e in tal senso essa fu esclusivamente intesa da coloro che l'osteggiarono aspramente in nome d'un gretto e conservatore nazionalismo artistico. Se cosí fosse veramente, l'importanza della generazione dell'Ottanta non uscirebbe dall'ambito nazionale, ed anche in questi limiti la sua produzione musicale avrebbe poche probabilità d'inserirsi con salde radici nel decorso storico dell'arte italiana. Sarebbe semplicemente una replica, aggiornata, dell'esperimento culturale tentato nell'Ottocento da Martucci e Sgambati. Ma l'europeismo non era la sola tendenza che governasse l'arte di questi compositori. Agiva in essa un'altra forza meno vistosa, e in certo senso quasi contraddittoria, legata alla categoria del tempo, mentre il bisogno di aggiornamento si esplicava nello spazio: quest'altra forza è la riscoperta di un'antica civiltà musicale italiana, strumentale e polifonica, anteriore alle glorie del melodramma ottocentesco. La rinascita musicale italiana nel Novecento deve la sua forza e la sua originalità all'armonioso equilibrio a poco a poco raggiunto da queste due forze apparentemente divergenti, in realtà cospiranti ad un medesimo fine. Se essa si fosse fondata unicamente sull'imitazione dei piú moderni modelli stranieri, sarebbe stata un movimento senza radici, incapace di penetrare nella coscienza della nazione, sballottato ai quattro venti delle piú snobistiche mode cosmopolitiche, e non avrebbe potuto produrre altro che brutte copie di Petruschka o del Wozzeck.
D'altra parte la sola esplorazione musicologica del passato nazionale non si sarebbe liberata dalla pedanteria scolastica e non avrebbe potuto pervenire al piano artistico e creativo. Debussy, Stravinskij, Hindemith e Schönberg sono indispensabili alla nuova musica italiana nella stessa misura e allo stesso modo di Monteverdi, Vivaldi, Frescobaldi e Scarlatti. Certo, l'arcaismo è stato una tendenza generale nella musica contemporanea: ma in nessun paese come in Italia esso ha potuto sfuggire cosí felicemente alle sue connotazioni negative ed agire come un fattore di progresso. In fondo, in Germania il ritorno a Bach è un invito superfluo, oppure sostanzialmente reazionario, perché Bach non ha mai cessato di agire nel normale sviluppo della musica tedesca, ed è realmente un passato immanente nella coscienza inusicale della nazione. Ma in Italia Monteverdi non sta nel passato, bensí nell'avvenire: è davvero una conquista e un valore da recuperare, poiché era stato sepolto - insieme alla polifonia cinquecentesca e alla civiltà strumentale barocca - dall'alluvione melodrammatica del Sette e Ottocento. Certamente c'è voluto del tempo perché si chiarisse il rapporto di integrazione che la particolare situazione italiana istituisce tra i valori dell'arcaismo nazionale e quelli della modernità europea, spesso sentiti invece in antitesi: e anche in Italia si sono scritte molte «gagliarde» inutili, e «partite» e «concerti grossi» oziosamente retrivi, in omaggio alla moda di un esotismo cronologico. Ma in questo impulso arcaizzante era latente un'inconscia necessità storica, che negli sviluppi piú recenti della musica italiana comincia a manifestare tutta la sua fertilità.
Dal punto di vista delle forme e dei generi musicali, la riscossa della musica strumentale non andò a vantaggio del sinfonismo e del sonatismo classico-romantico: a ciò si opponevano sia l'anima moderna che l'anima arcaica, preottocentesca, del rinnovamento musicale italiano. Perciò il sinfonismo italiano moderno, dopo avere un poco amoreggiato col poema sinfonico di gusto impressionistico e con la suite di balletto, assunse una fisionomia spiccatamente «concertante», com'è facile vedere in Malipiero, autore di 9 Sinfonie che non hanno nulla in comune col classico modello ottocentesco. Ma la voce rappresentava sempre una tentazione irresistibile per i musicisti italiani, e questa tendenza, che poteva essere scambiata nei primi tempi per un residuo di passato ottocentesco non interamente sconfitto, si rivelò in seguito come la piú forte ragione di originalità della nuova scuola italiana. Non solo il teatro continuava ad esercitare la sua seduzione, svolgendosi in nuove direzioni, tutte divergenti dal verismo (dramma musicale pizzettiano, favola malipieriana, resurrezione moderna del melodramma settecentesco, ad opera di Busoni e Casella), ma la natura concertante del nuovo sinfonismo spingeva irresistibilmente a mescolare la voce, solistica o corale, con gli strumenti in varie forme di cantata e di concerto che quasi inconsciamente si orientavano verso la scoperta di obliate forme cinquecentesche. La riconosciuta maestria corale di Pizzetti, che pareva un tempo inattuale, quasi strana concessione a pedanteria di gusti scolastici, prenderà altro significato alla luce degli sviluppi recenti della musica italiana. E i Quattro pezzì sacri che chiudono in maniera un po' misteriosa la parabola artistica di Verdi, sembrano ora un ponte presago gettato verso il neomadrigalismo contemporaneo, cosí come la produzione corale di Brahms, di Cornelius, e di Hugo Wolf non sembra piú un vicolo cieco, dopo l'impetuosa ripresa della cantata sinfonico-corale nella musica europea tra il 1925 e il 1930.