NOTA DI FIAMMA NICOLODI

Contributo di ricerca e di studio per la musica italiana fine secolo-primo Novecento, questo libro delimita alcune aree di indagine, fra loro distinte, ma nello stesso tempo sovrapponibili - il verismo e le polemiche che contrassegnarono nascita e diffusione di questo movimento, la riscoperta dell'antico, l'affermarsi del nazionalismo in musica -, per esaminarle nella loro specifica entità, ma soprattutto nel tessuto connettivo che ne asseconda la genesi ed eventuali diramazioni.
Per il primo tema sono stati individuati collegamenti fra l'anti-verismo maturato in Italia nell'ambito dell'avanguardismo vociano dei Pizzetti e Torrefranca e la coeva querelle francese animata da dichiarazioni, manifesti, professioni di fede, recensioni di Bruneau, Debussy, Fauré, Dukas e altri. Dal confronto emergono nuovi elementi che se da un lato permettono di inserire il dibattito contro l'opera deiMascagni, Puccini, Giordano e colleghi in una più ampia rete di riferimenti storico-musicali - fermo restando che solo ulteriori ricerche condotte su altri paesi potranno connotare nella sua completezza il problema del vero in musica e le reazioni che questo suscitò -, dall'altro rivelano affinità di registri ideologici caratterizzanti le nuove tendenze musicali franco-italiane.
Il secondo argomento, quello più esteso, dedicato alla riscoperta dell'antico, si articola su tre piani, spesso congiunti: 1) studi e restituzioni di musiche del passato fra positivismo e idealismo; contributi della critica e dell'editoria musicale; 2) prassi interpretativa delle opere antiche; ambiguità fra trascrizione e pastìche neoclassico; 3) storia del più importante revival del Novecento: quello vivaldiano.
Infine il nazionalismo in musica, filo conduttore che si lascia già percepire fra le voci del concertato antiverista o come molla incentivante i recuperi del passato, assume un rilievo più netto nell'ultimo contributo destinato ad approfondire i legami fra Ferruccio Busoni, musicista italiano di nascita, tedesco di adozione, cosmopolita per mentalità e cultura e alcuni protagonisti della musica italiana del suo tempo. Contrasti, equivoci, fraintendimenti rivelano in questo caso una duplice, conflittuale immagine di patria: l'una vissuta nei suoi contorni reali, con vivo senso di inadeguatezza e insofferenza, la seconda idealizzata all'ombra di un fantasticare nostalgico, affatto utopistico.
I saggi che compongono questo libro, in parte nuovi, in parte tratti da studi ampiamente rielaborati, condotti negli uttimi
anni, sono stati scelti secondo un criterio di omogeneità tematica che mira a cogliere il retroterra comune, una sorta di koinè del gusto musicale piuttosto che sottolineare differenze culturali, poetiche, operative - pur esistenti - fra i singoli musicisti oppure circoscrivere l'esame ad aspetti troppo particolareggiati e unidirezionali. Per questo motivo sono stati esclusi altri interventi a carattere monografico dedicati dall'autrice alla musica italiana del Novecento: Dallapiccola, Stravinsky e Casella, Petrassi, storia dei festivals musicali fra le due guerre,
l'opera teatrale degli anni Trenta e altri.

PREFAZIONE DI FEDELE D'AMICO

Non certo su tutte; ma su alcune figure e tendenze della musica italiana fiorita tra la fine dell'altro secolo e la seconda Guerra possiamo fidarci di avere cognizione, non dicianio completa, ma comunque storica: come dire che su un Puccini, un Malipiero, un Casella, un Respighi, o globalmente sul 'rinnovamento' promosso dalla cosiddetta generazione dell'Ottanta, con qualche successo abbiamo sperimentato categorie di giudizio che sono di oggi e non di ieri. Tuttavia quel che s'è tentato di definire, sinora, è stato per lo più il loro significato finale: molto meno le condizioni della loro nascita, i modi e il senso della loro fortuna presso le cosiddette élites e il cosiddetto pubblico, la sottesa evoluzione della vita musicale, e simili.
Appunto ad alcuni di questi aspetti sono invece dedicati i cinque saggi che compongono il nostro libro; i quali perciò si direbbero inclinare piuttosto alla cronaca che alla critica - sebbene da senso eminentemente critico siano sottotraccia percorsi da cima a fondo. Ora delle vicende cile ci racconta, l'autrice ha sì frequentato di persona non pochi testimoni oculari, o almeno auricolari; ma sa quanto costoro siano tratti a scambiare l'albero per la foresta. E sa d'altro canto quanto spesso gli studiosi venuti alla ribalta nel secondo dopoguerra siano avvezzi a fornire, di quell'epoca, immagini altrettanto leggendarie che semplicistiche. Perciò la sua materia prima, o almeno la sua pietra di paragone, sono i documenti: inseguiti attraverso fonti note o inesplorate, archivi pubblici o privati, con occhi bene aperti e pazienza penetrante. Ne risulta non solo la squalifica di alquante opinioni ricevute, ma un seguito di storie finalmente coerenti, qualche volta esaurienti, e quasi sempre ricche d'implicazioni che trascendono il tema dichiarato.
Si veda per esempio il primo saggio, che riporta e commenta i giudizi della stampa francese sulle opere italiane della Giovane Scuola apparse sui teatri pariginí fra il 1892 e il 1910. Dunque un documento del gusto musicale francese del tempo, particolarmente eloquente dato che in calce a quei giudizi sono firme non soltanto di chroniqueurs chiusi nella loro routine ma di criticicompositori del calibro d'un Debussy, d'un Fauré, d'un Dukas, d'un Bruneau; e che ci mostra una stampa abbastanza solidale, nonostante qualche eccezione e contraddizione, contro il pubblico; al quale in extremis non esita ad opporre anche argomenti, peggio che nazionalistici, autarchici (il povero compositore francese schiacciato dall'invasione straniera). D'altra parte veniamo anche illuminati sulla stampa italiana: che nelle sue reazioni a quella francese troviamo profondamente divísa, e nella sua parte culturalmente più ambiziosa amica del nemico. Sin che verso il 1910 le sue obiezioni alla Giovane Scuola non sono più quelle, dì radice wagneriana, che Torchi aveva mosso a Puccini, ma valgono a difendere poetiche opposte, e di segno analogo, almeno in linea di principio, alle più moderne dì Francia (anche se la ripugnanza dell'intellettuale francese ai passionali impudori della Giovane Scuola non può rìdursi alla decisione di fare quadrato attorno a quel Pelléas che certo non tutta la critica francese antiverista - basti pensare a Bellaigue - aveva accettato).
Conclusione: «Ed ecco anche la genesi del saggio pizzettiano su «La Voce» e del pamphlet di Torrefranca [entrambi contro Puccini] delinearsi con rilìevo inconfondibile: la reazione al verismo sì stacca adesso come frutto maturo in Italia dopo che l'articolato dibattito francese ha chiaramente indicato gli schieramenti di parte. E nel fastidio per l'opera che si dice piccolo-borghese e che affascina platee di mezzo mondo grazie alla franca comprensibilità di un linguaggio - appunto, internazionale - non dovrà essere trascurata l'espressione di un più diffuso disagio - in Italia come in Francia - dell'artista primonovecentesco, conflittualmente dìviso fra il proprio splendido e polemico isolamento e la ricerca d'identità, di un ubi consistam che solo la società può di fatto ratificare e garantire».
Anche più ricco d'implicazioni è il blocco formato dai tre saggi successivi, dedicati a diversi aspetti o capitoli della riscoperta della musica italìana antica cioè preottocentesca: particolarmente i primi due. Già l'asciutta cronaca degli eventi basterebbe. Si veda il racconto senza veli dell'infamia commessa ai danni dell'«ebreo» Alberto Gentili, benemerito paraninfo dell'acquisto e successiva donazione alla Nazionale di Torino, da parte di due mecenati, della fondamentale collezione di musiche di Vivaldi da allora in poi nota come Raccolta Foà-Giordano, e in quattro e quattr'otto spossessato, nell'acquiescenza generale, di quel diritto di curarne in esclusiva la pubblicazione che l'atto di donazione gli aveva garantito. Oppure il ghiotto catalogo delle edizioni di musica italiana «antica» pubblicate dal 1910 al 1920.
Ma c'è ben dì più; e qui basti accennare a due punti. Uno, è la crisi di coscienza dei revisori investiti del compito di portare le nostre musiche «antíche» all'esecuzione. Chi scrive, di fronte ai Monteverdi che negli anni Trenta Giacomo Benvenuti fornì ai teatri italiani, pensò che l'insigne musicologo ignorasse dove la filologia stesse di casa; oppure fosse impazzito. Oggi la nostra autrice dimostra documenti alla mano, che così Benvenuti come tanti altri sapevano con sufficiente approssimazione come le opere di Monteverdi fossero eseguite ai loro tempi, ma nessuna fiducia che un pubblico del nostro secolo potesse mai accettare prassi tanto antiquate; ricorrevano così, collo più o meno obtorto, a compromessi (e quali compromessi), e ne soffrivano. Lo strano è che ne soffriva anche il pubblico; il quale alla sinfonizzata Incoronazione di Poppea di Benvenuti s'addormentava, mentre oggi a quella nuda come mamma la fece di Alan Curtis s'accende. Come da quella sfiducia, e da quella schizofrenia fra edizione filologica ed edizione d'uso, siano cominciate a ventilarsi ipotesi meno pessimistiche, lo racconta il saggio intitolato Restauri in stile moderno; dal quale intanto si deduce che il solo precursore della prassi filologica oggi vittoriosa, in quegli anni, non fu un musicologo di professione ma un compositore: il musicologo di fatto Gian Francesco Malipiero: sebbene qualche dubbio sulla resistenza del pubblico al «tedio del recitativo» lo nutrisse anche lui (e sebbene incomprensibilmente detestasse il mirabile libretto di Busenello, e vagheggiasse di ritoccarlo).
L'altro punto, fondamentale, è il rapporto reciproco fra musicologia e poetiche, vale a dire: fu esplorato, l'antico, a fini puramente storiografici, o come stimolo a creare abbeverandosi a fonti non ancora inquinate dal secolo borghese, e beninteso «italiche»? Non c'è dubbio che l'intreccio dei due motivi si dette ben presto, e forse fin dall'inizio. La Nicolodi sembra insinuarlo additandone tracce piuttosto evidenti già in Torchi e anche, per quanto più vagamente, in Chilesotti, mentre il luogo comune ne attribuiva la nascita ai Torrefranca-Bastianelli-Alaleona-Malipiero, cioè alla generazione dell'Ottanta (e parallelamente, ancora in Torchi addita colui che per primo scorse nel Settecento italiano, e specificamente in Sammartini, i primordi del sonatismo classico, quindi un precursore diretto di quel Torrefranca che appunto per questo, ossia per precauzione, lo guardò sempre dall'alto in basso). Comunque, il nesso fra i due motivi è un filo conduttore. A questo si deve, per esempio, la precisa definizione dell'antitesi fra Bastianelli e Torrefranca: il gusto storiografico dell'uno e dell'altro son fatti coincidere dalla Nicolodi, molto persuasivamente, con la diversa immagine di «musica nuova» che l'uno e l'altro rispettivamente si prefigurano.
Visibilmente connesso con questi temi è l'ultimo saggio, che significativamente rubrica il rapporto di Ferruccio Busoni con i musicisti italiani del suo tempo sotto l'etichetta: «Equivoci del nazionalismo musicale». Di «nazionalismo» infatti era colma la tensione a riscoprire l'antico (né gli era estranea, l'abbiamo veduto, la disputa sull'opera verista); ma in che senso? Il termine è ambiguo, e si presta all'escamotage. Che può anche essere inconscio, o involontario; ma pur sempre generando obiettivamente «equivoci», appunto.
Così nel caso nostro. Il saggio ci mostra Busoni in contatto personale con parecchi musicisti italiani, minutamente (tra l'altro pubblicando in appendice ventltré sue lettere, per buona parte inedite), e anche implicato, consenziente o dissenziente, in alcune loro imprese collettive. Ma questi contatti, più si sviluppano e più svelano una diversità radicale: Busoni 'voleva' essere italiano laddove i suoi interlocutori, semplicemente, lo erano. Da un lato dunque sentiva la cultura che l'aveva formato e in cui respirava, quella germanica, incomparabilmente superiore a quella italiana, della quale perciò ardeva di elevare il livello; dall'altro pretendeva, da questa povera Italia, una nuova musica vergine da qualunque fecondazione straniera; e aspramente la biasimava di guardare a Strauss, a Debussy, a Stravinsky. Ammonimento che i Casella e i Malipiero, votati appunto a riportare musica e cultura musicale italiana a livello europeo, non potevano accettare. Donde il suo paradossale lasciarsi sorprendere, in una controversia sul tema tra Pizzetti e Malipiero, schierato con Pizzetti, ossia col meno 'avanzato' tra i musicisti-guida del momento, e di gran lunga il meno incline ad accogliere la poetica nonché le musiche d'un Busoni.
Ora questa italianità di Busoni, non pochi fra noi l'avevano negata da un pezzo. Senonché la Nicolodi ha il merito, anzitutto, di averla definita nel suo equivoco-base: «[...] una categoria affettiva, romantica, nei suoi corollari di maturazione linguistica tesa alle soglie di un'irraggiungibile perfezione e di indipendenza da modelli etnicamente inautentici. Entità non reale, dunque, né condivisibile dai musicisti italiani che operano nel solco di una storia recente [la sottolineatura è mia] con irrequieto senso di inadeguatezza cui vorranno opporre, in cerca di consacrazioni ufficiali, un bagaglio strumentale d'importazione, sebbene debitamente filtrato». In secondo luogo, di aver fatto scattare, lungo la strada, le numerose e non concordanti accezioni in cui l'ideale «nazionale» era stato inteso in quegli anni.
In definitiva. Nell'aver posto sul tappeto, e con ricchezza di dati attendibili, questi due connessi ma distinti problemi - il rapporto fra la conoscenza della storia e i modi del suo uso creativo, i vari sensi del nazionalismo musicale - è il pregio essenziale di questo libro, più che ambizioso, utile: indispensabile, anzi, a chìunque voglia rendersi finalmente conto di ciò che veramente fu la stagione musicale italiana del primo Novecento, e quali debiti ce ne siano derivati.