RICORDI E PENSIERI

DI G. FRANCESCO MALIPIERO

RACCOLTI DAI SUOI SCRITTI


ALLA SCOPERTA DI ASOLO

L'OPERA DI G. F. MALIPIERO
pp. 302-311

Son passati trent'anni dal giorno in cui senza accorgermi né farei caso arrivai, in un tardo pomeriggio d'ottobre, ai piedi di quel Monte Grappa che sette anni più tardi doveva trasformarsi in un simbolo. Esplorando uno degli erti sentieri, a pochi passi dalla casa che mi ospitava, uno strano panorama si presentava al mio sguardo: verso levante una processione di colline e collidete sembrava marciare verso il Piave (che allora, pure, era per noi un fiume come tutti gli altri) e incoronava la più maestosa fra le colline un castello merlato: la rocca di Asolo. Così me la indicava un montanaro al quale m'ero rivolto per orizzontarmi. Sotto la collina un ammasso di case a ridosso dei verdi pendii, gli stessi decantati dal Cardinale Bimbo: «Asolo vago piacevole castello posto ne gli estremi gioghi delle nostre Alpi sopra il Trevigiano ed è di Madonna la Renna di Cipro. Contornato da un giardino vago molto e di meravigliosa bellezza... Oltre a bellissimi pergolati di viti... siepi di spessissimi e verdissimi ginepri... onorati allori... e niuna lor foglia fuori del comandato ordine Parea che ardisse di si mostrare». Ma più degli «Asolani» di Pietro Bimbo l'entusiasmo di certi miei amici pittori, che spesso visitavano un loro collega, un pittore americano domiciliato ad Asolo, contribuì alla mia commozione per l'inaspettato spettacolo.
Mi sovvenni anche di un discepolo di Marius Pictor che una sera si presentava al nostro cenacolo carico di cartocci; in una antica drogheria di Asolo egli aveva scoperto una quantità di vecchie scatole piene di terra e di altre materie coloranti, le stesse che gli antichi adoperavano nelle loro «tempere». Tutti si precipitarono a casa mia, capitanati da Marius Pictor, per esperimentare il prezioso materiale. La mia cucina si trasformò in un vero e proprio laboratorio di alchimisti. Seguivo con molto interesse le ricerche dei miei amici, che speravano scoprire la «tempera» resistente al tempo, perché nel mio campo sempre mi preoccupò la carta del libro moderno, carta condannata a polverizzarsi per l'azione corrosiva del cloro che imbianca la cellulosa solo per ingannare l'occhio del disattento lettore. In mezzo ai filtri, ai lambicchi, alle pentole, al profumo di resina e di corno bruciato si parlava di Asolo, paese sopravvissuto incontaminato, visione di un passato non reale. Ed ora questa visione era, in tutto il suo splendore, dinanzi a me.
Riavutomi dallo stupore per la inaspettata apparizione, noleggiai una vettura e torturato nella mia impazienza dal passo lento e zoppicante di un centenario ronzino, raggiunsi finalmente il «foresto» di Pagnano, cioè una delle strade dalle quali si accede ad Asolo e che si chiamano «foresti» perché una volta venivano a trovarsi in mezzo ai boschi che difendevano questa roccaforte della Serenissima.
Durante la salita, che si arresta al centro della città, mi colpì un rustico capitello, nascosto fra i rami di un gelso, e per molti anni, di sera, ritornavo a vedere la luce del suo strano lumicino ad olio. Le siepi, le case, tutto era in perfetta armonia con la mia immaginazione, perfino la piazza con l'antica fontana, l'arcivescovado e l'affrescato palazzo del Podestà, ora Museo.
La mia mèta era naturalmente la casa del pittore americano mio amico. Né San Giminiano, né Siena, né Volterra mi presero come Asolo, che da quel giorno mi dominò e mi fece suo schiavo.
Incorniciate da una finestra luminosa due bambine erano immerse nello studio e appena alzarono gli occhi per salutarmi. Le due americanine asolane sono l'ultimo ricordo di quella prima visita al Castello di «Madonna la reina di Cipro».
Cominciò allora la nostalgia per Asolo, nostalgia che ora è più sensibile nei periodi in cui vi soggiorno e posso constatare quanto è andato irrevocabilmente perduto.
Dopo un inverno passato sognando «le Mura», cioè la casa dell'americano, potei abitarvi dalla fine dell'estate all'autunno avvicinando anche il figlio del poeta Browning, che in onore del padre visse «asolando» parecchi anni e che mi fece comprendere la poesia di un paese che alcuni artisti forestieri avevano adottato per puro spirito romantico. Questo angolo veneto non s'era ancora imbastardito e i paesaggi del Giorgione e di Cima da Conegliano riapparivano dinanzi a noi in tutta la loro, bellezza: navigavamo fra il Medioevo e il Rinascimento.
La nostra sensibilità non può tollerare le esagerate esaltazioni; per questo un nodo ci serra alla gola, quasi soffochiamo, quando non possiamo esprimere quello che sentiamo davanti a un'opera' d'arte o ad uno spettacolo della natura. Noi lottiamo fra l'incoscienza del dolcissimo ' rapimento e la volontà di controllarci per non cadere nell'enfasi rettorica.
Vorrei poter dire, con parole semplici ma efficaci, di un tramonto al quale ho assistito durante il mio primo soggiorno ad Asolo: rossi, blu, verdi, e una ridda di arcobaleni, guai al musicista che osasse tradurre con le note certe impressioni. Egli può tutt'al più gittarsi a ginocchi e ascoltare silenziosamente le vibrazioni indefinite e riflesse senza mai indagare sulla loro origine. Come descrivere musicalmente per esempio, una strada tortuosa tagliata fra il verde e che conduce a una minuscola villa del XVIII secolo: villa Pasini? Minuscolo il giardino, minuscola la cappella, leggiadri gli ornamenti architettonici, vasi di fiori e guglie di un barocco gentile. A pochi passi dalla villa, dominata dai castagni secolari, il roccolo:

Il guardian dell'ingannevol macchia
Stassi oculato, e i lacci talor leva
Con li pendenti augelli, altri apponendo
In lor vece parati a nova preda.

Questa caccia crudele che si accanisce contro i nostri più bei cantori ha il fascino di quelle tradizioni che s'inquadrano nella vita del nostro Veneto.

Mai l'assassinio
Nè i tradimenti
De quel volatili
Tanto innocenti,
Dei oseleti
Che povereti
Con mile ingani
Va destruzendone
Sti nostri umani,
No za per fame
Ma per el barbaro
Piaser infame
Che sulla tavola
De sti cadaveri
Se veda un monte...




L'ENTRATA DELLA CASA DEL MUSICISTA

Nulla di più veneto che le osterie asolane (ora distrutte per il gusto di distruggere) tutte intonate agli usi e costumi che sempre hanno alla radice il clima del paese, ed anche la sua storia. Le feste del Veneto si distinguono per le «specialità» gastronomiche degne di Gargantua, le quali, in rapporto con certe ricorrenze, assumono l'importanza di un simbolo storico.
Le vecchie osterie di Asolo sapientemente ornate coi «peltri» e i «rami» lungo le pareti, col focolare contornato da panche, nelle sere autunnali reclamano quasi lo spiedo e gli «innocenti volatili» per completare il quadro ,che non è «di maniera» quando si rievoca colla nostra nostalgia.
Quasi tutti i pittori veneziani della fine dell'Ottocento hanno sostato ad Asolo e all'antico albergo «Alla Torre» si davano convegno nelle sere autunnali. Raccolti intorno al focolare studiavano il «giallo» della fumante polenta, stanchi di essere andati a caccia di qualche patetico soggetto: vita d'altri tempi.
Marius Pictor si addormentava al tepore del fuoco morente e non rispondeva agli argomenti pittorici dei colleghi, ché egli vedeva sempre quello che non c'era e non voleva vedere quello che c'era. «Il divino pittore lunatico Marius de Maria, che certo s'è giaciuto con la luna come l'imperatore, disputa con Angelo Conti intorno all'arte di macinare e d'impastare le terre è porre in fuga gli avventori importuni con urli e gesti celliniani». Rievocazione dannunziana di un pittore che si è «fermato» ad Asolo quando «mai urlava in sordina e aveva perduto il gesto «celliniano».
Nell'autunno del 1916 Marius Pictor viveva in grande angoscia perché era convinto che suo figlio fosse morto al fronte, sul Carso insanguinato. Una sera, per distrarlo, gli mostravo certe acqueforti di un mio amico fra le quali una rappresentava gli amori di una coppia di rospi. Egli ebbe uno dei suoi scatti e in uno stato di vera esaltazione mi raccontò che a Venezia un dottore tedesco durante un concerto, piegando abilmente un foglietto strappato al programma, fece una rana meravigliosa che saltava come se viva fosse. In un momento di distrazione, ascoltando la musica, il dottore lasciò cadere a terra la rana. Marius Pictor con rapida mossa ci mise sopra un piede e non si mosse finchè tutti non si fossero allontanati. Con la preda stretta nel pugno egli corse a casa e studiando le innumerevoli pieghe riuscì dopo una notte di intenso lavoro a «fare una rana» che poi mostrò agli amici vantandosi d'aver superato una difficoltà veramente considerevole e da giudicarsi un trionfo.
Qualche giorno più tardi il dottore tedesco si presentava, a casa di Marius Pictor ed entrava nello studio con gli occhi fuori dalla testa gridando: «Chi vi ha insegnato a fare la rana?» Marius Pictor confessava come era riuscito prima a impossessarsi ed imitare poi il prodigioso batrace. Il dottore tedesco disse allora che questo era il primo caso di un europeo che riusciva a «fare la rana» e che egli era stato iniziato da un giapponese sotto il vincolo del giuramento di non rivelare a nessuno il segreto.
Con grande mistero la sera dopo Marius Pictor mi portò una rana; quantunque suggestionato, in due ore riuscii a copiarla, ma non glielo dissi per non fargli dispiacere. Iniziai a mia volta molti amici, difatti persino nelle trincee «la rana» era diventata un passatempo per ufficiali e soldati. Non divenne però mai giochetto popolare, come l'oca, la nave, l'uccellino e tanti altri del genere, forse perché sì tratta di una cosa molto seria. Marius Pictor aveva ragione di esaltarla.
Vivevano allora ad Asolo due gentiluomini di vecchio stampo che abitavano le due più belle ville del paese. Visitai quella più grande costruita sugli ultimi pendii di una collina, quasi in pianura. Maestosa, con due logge a destra e a sinistra del corpo centrale. Il vecchio gentiluomo mi guidò attraverso le ampie stanze per la maggior parte affrescate dal Celesti e dal Liberi, ma con qualche aggiunta piuttosto stonata dovuta al pennello maldestro di vandali campagnoli. Visitai anche la cantina assaggiando un vino del 1785 e infine il «teatro»: uno stanzone ingombro di torchi e di arnesi rurali. Tutti intorno molte traccie di decorazioni e, di fronte all'ingresso, un'apertura larga quasi due metri: il palcoscenico. Essendo stato costruito al principio del XVII secolo e date le dimensioni, è difficile immaginare che cosa vi si rappresentasse. Era un teatro per marionette? O per burattini? Che cosa significava questo teatro nella vita delle ville asolane?
Penetrai anche nella villa di una grande famiglia patrizia veneziana. L'ultimo discendente aveva preferito abitare nella «foresteria», cioè nell'ala completamente isolata e riservata agli ospiti. (Il popolino narra che la casa padronale è abitata dagli spiriti). Fra le piante rare e le uve prelibate tutti gli splendori di una famiglia patrizia: la storia viva degli antenati. Quadri, ritratti, mobili di grande stile, rare ceramiche, ecc. ecc.
Vorrei poter descrivere il mio stato d'animo ad ogni scoperta delle singolari bellezze di queste colline inesplorate. Un viottolo tortuoso. Roccie, un aspetto quasi alpestre. Girando il monte un grande declinare di prati. In fondo un torrente (il Muson) fiancheggiato da un sentiero tagliato nel tufo, quasi sabbia che si sgretola sotto i piedi. Un po' più in alto, al di là dell'acqua: Pagnano. La chiesetta, il campanile, il loggiato, la canonica e un gruppo di belle case settecentesche. Un capitello in mezzo a due cipressi che dominano in fondo a un campo di granoturco. Nella chiesa alcune sculture del Torretto, la gloria del paese.
Antonio Canova dopo il famoso leone di burro presentato al nobiluomo Falier (la villa dei Falier è a qualche chilometro da Pagnano e ospita ancor oggi opere giovanili del Canova, omaggio dell'artista al nobile mecenate) abitò a Pagnano dal Torretto (il Bernardi) e pagava le lezioni lavorando come garzone apprendista nello studio dello scultore pagnanese.
Al di là del ponte sul Muson un'officina fabbrile del 1468, perfettamente conservata. Architettura rustica ma squisitamente gotica, incudine del tempo, il maglio primitivo ma ancora efficiente, ammirevole il congegno per alimentare d'aria il mantice, il tutto mosso come per incanto dalla forza idraulica.
Per completare questo squarcio di vita asolana mi fu dato di assistere alla rappresentazione di una commedia veneziana nel delizioso teatro costruito nel primo ottocento nella grande sala del Castello della Regina Cornaro, sopra le carceri. La «società» asolana era proprietaria dei palchi migliori ed a me offerse ospitalità nel suo palco il Browning. Strano innamorato di Asolo questo dilettante scultore, che pure era un uomo di gusto quando restaurava e ammobiliava le case asolane. Ne ristaurò quattro o cinque perché più volte dovette sloggiare causa certi inconvenienti che in campagna pare siano inevitabili. Non lo rividi più perché l'autunno del 1911 fu l'ultimo della sua vita. Con lui moriva Asolo, cioè il paese di «Madonna la Reina di Cipro» e il mio primo soggiorno rimarrà sempre un sogno straordinario.
Vi ritornai quasi ogni autunno, ma non avendo mai trovato alloggio come quello del primo anno, i ricordi si perdono fra le, cose indifferenti fino al secondo anno di guerra, che non dimenticherò mai per il freddo sofferto abitando la casa che poi fu di Eleonora Duse.
Nei giorni di nebbia si udivano le cannonate, boati lontani, e mi pare ancora di sentire il canto allegro eppur triste di un fringuello in gabbia, mio vicino. È strano: dopo aver passato per cinque anni di seguito i primi giorni di novembre ad Asolo, fu soltanto nel 1916 che osservai un singolare spettacolo nella notte del 11 novembre: tutti i cimiteri della pianura e dei paesi di collina sono illuminati da migliaia di lumi e tutte le campane si rispondono con lugubri rintocchi. In piena guerra non riuscii a liberarmi da questa impressione, né da quella delle reclute partenti: dalla rocca le avevo viste affluire dai «foresti» verso Asolo. I giovani cantavano e agitavano grandi bandiere, sembrava quasi che prendessero di assalto la fortezza della Serenissima. Devo confessare che senza nulla voler narrare né riprodurre fui costretto a scrivere i Poemi asolani, sicuro di non contraddire me stesso. Mi congedai da Asolo quasi tragicamente nei primi giorni di novembre del 1917 e arrivai a Roma trasfigurato. Avevo veduto passare per Asolo le nostre armate, e in una notte di luna grossi calibri transitare per la piazza. La terra tremava, gli uomini non vacillavano. Gli amici mi parlano delle mie sofferenze di quei giorni, ma io non posso pensarvi con tristezza.
Mi pare di aver fatto mille viaggi senza muovermi da Asolo tanto è grande il contrasto. Non rievocherò gli anni trascorsi ad Asolo fra le due guerre europee. Un solo avvenimento importante: la morte di Eleonora Duse. Purtroppo l'affluire delle automobili durante i suoi funerali, e che durò per alcuni giorni, fece perdere agli asolani il senso della realtà: in poco tempo la piazza sparì insieme all'arcivescovado, al convento di Sant'Anna. Quante cose non ci sono più.
«Incominciano le costitutioni del frati minori cappuccini di San Francesco». Questo è il titolo di un volumetto che racchiude le regole della vita francescana. Immagino che i frati che costruirono il convento di Sant'Anna ad Asolo debbano averlo tenuto sottomano di continuo perché è detto: «Dobbiamo vivere in luoghi humili, et povere case, onde a questo fine s'è fatto un picciolo modello, secondo il quale per tutta la congregatione si debba fabricare. Le celle in longhezza et larghezza non passino nove palmi (cioè 2 metri e 30 centimetri), le porte alte sette palmi, larghe due e mezzo, le finestre alte due e mezzo, larghe uno e mezzo (cioè 64 centimetri per 38), Vandito del dormitorio largo sei palmi e l'altezza del Refettorio non passi tredici palmi, e così l'altre officine siano piccole, humili, povere, abiette e basse, acciocché ogni cosa predichi humiltà, povertà e disprezzo del mondo».
Quasi per un secolo il convento di Sant'Anna rimase deserto, ciò non ostante viveva francescanamente.
Il chiostro coi suoi pilastri di tufo, irregolari, il pozzo, la meridiana che ancora segnava le ore. Il cortile rallegrato dai fiori di campo che vincevano l'erba. Le finestre internamente della misura prescritta, ma più larghe di fuori in modo da raccogliere più luce senza turbare il raccoglimento. La loro forma, con le spalle e l'architrave obliqui, dava all'architettura un carattere molto singolare. Grandi melagrani completavano l'opera degli umili architetti che non ebbero altro cemento che la fede.
Dieci anni fa ritornarono i frati. I melagrani caddero sotto l'ascia vandalica. I pilastri si intonacarono e si dipinsero in rosa. In mezzo al cortile si costruì una baracca dove si istruiscono le fanciulle al canto. E come cantano. Le finestre si apersero in tutta la loro ampiezza esteriore e si raddoppiarono le dimensioni di quelle della stanza per le visite. Eppure dice la regola: «Siano avvertiti i frati tutti che dentro alle clausure di luoghi nostri non s'intromettano donne di qual si voglia grado, stato, o conditione e ancora con gli uomini secolari la nostra conversatione sia rara, et discreta perché la troppo et indiscreta loro familiarità è a noi nociva et porge allo spiritual profitto molto impedimento».
Purtroppo qui non incominciano ma finiscono le costituzioni dei frati minori di Santo Francesco; soccombono per virtù di quel demonio che vive distruggendo.




Ho voluto vedere in questi giorni d'autunno le due ville che non visitavo da quasi trent'anni e la «Torricella» di Browning americanizzata e un po' omnibus per il conflitto fra gli stili. E l'albergo «Alla Torre»: la sala ampliata ridotta secondo lo stile campagnolo ma non asolano. Dalla Rocca ho veduto anziché le schiere dei «partenti» gli ospizi, gli ospedali, i collegi, tutte le ricchezze che rappresentano l'attuale povertà di Asolo dove emigrano i cittadini perché lo disertano gli ospiti.
Perché pensare a quello che abbiamo perduto se dinanzi a noi possiamo ancora trovare qualche squarcio di panorama dove nulla è mutato? Dimenticherò quello che non c'è più, o quello che esiste ancora?
Quando sento le campane di Sant'Apollinare, dolci, allegre, quasi pettegole, e quelle di Coste che annunziano la pioggia, tutti i miei propositi di abbandonare Asolo per sempre cadono. Si produce il fenomeno di quella inesplicabile commozione che è sofferenza.

Asolo, autunno 1940.