RICORDI E PENSIERI

DI G. FRANCESCO MALIPIERO

RACCOLTI DAI SUOI SCRITTI


VI

CAVE CANEM? CAVE HOMINEM!*

L'OPERA DI G. F. MALIPIERO
pp. 323-325

Il 7 luglio 1902 mi son trovato rinchiuso in una stanza del Civico Liceo Musicale Benedetto Marcello in Venezia, alle prese con una fuga con la quale avrei dovuto ottenere la licenza di compositore. Ho superato miracolosamente le difficoltà del noiosissimo esame, molto disturbato dai rumori di una banda che, col pretesto di commemorarlo, si accaniva contro Riccardo Wagner, ma la vera causa dell'esito poco brillante si deve attribuire alla sparizione del mio cane, avvenuta il giorno prima della mia reclusione.
Mezzo secolo è passato da quell'inutile tormento e se ricordo molto vagamente che si trattava di un piccolo cane bastardo, caffelatte con qualche macchia bianca, il dispiacere è invece ancora molto vivo in me.
A vent'anni, nell'età della spensieratezza, ero capace di soffrire per un cane, un trovatello, che probabilmente aveva voluto, fuggendo, riprendere la sua esistenza di cane randagio.
Pochi mesi dopo la sua sparizione lo rimpiazzavo con un cane condannato a morte e che ho trascinato meco attraverso l'Europa. Come io abbia potuto superare tante difficoltà non lo so, certo è che senza la sua compagnia non avrei resistito durante i due inverni trascorsi a Berlino.
Le mie condizioni dì allora non corrispondevano alle mie aspirazioni, i miei studi esigevano una concentrazione che non volevo disturbare perdendo il mio tempo con gli «amici», sempre pronti a disprezzarmi o a impormi discussioni che mi irritavano. Il compagno amoroso, fedele, taciturno è sempre stato per me il compagno ideale. Dovrei riconoscere che il cane che visse con me fra il 1903 e il 1911 non era né bello, né intelligente, ma sarei un ingrato se mi esprimessi in un modo non corrispondente alla realtà, cioè quello che mi dava questo essere generoso e sempre pronto a sacrificarsi per me. È morto poco dopo il mio primo matrimonio. Forse ha creduto di non essermi più necessario: i cani sono capaci di questi e di altri sentimenti.
Nel 1914 due lupetti fiorentini vivevano accanto a me, ma non ero più solo, mi ignoravano quasi. Fu nel 1920, dopo la catastrofe, che si attaccarono a me e uno dei due, fino alla morte, mi ha dimostrato di aver capito tutto ciò che gli altri non avevano voluto capire. Non mi lasciava mai e per non farlo soffrire rinunziai a molti viaggi, anzi è merito suo se nel 1929, a Roma, non ho assistito alla ignobile manifestazione contro le «Sette canzoni», al Teatro Reale dell'opera. In quei giorni egli agonizzava.
Fra il 1923 e il 1940 molti ospiti affluirono dalla strada nella mia casa, ma erano appunto soltanto ospiti e, nonostante l'ottimo trattamento di cui beneficiavano, devo riconoscere di non aver corrisposto al loro amore come avrebbero meritato. Specialmente uno di questi trovatelli, un bellissimo pastore belga che certo deve avermi eletto suo padrone prima di incontrarmi e che forse s'era ridotto randagio perché mi cercava, senza di me era infelicissimo. Non mi sacrificai per lui, ebbe solo tutto ciò che può far piacere a un cane piccolo borghese, e siccome non lo era, certamente ha sofferto più di quanto si possa immaginare.
Ma a vendicarli tutti s'innestava nella mia vita, all'inizio dell'ultima guerra, un saggio che certo discendeva da qualche divinità della Cina. Gli dedicai tutte le mie giornate e se ero costretto a trascorrere qualche ora lontano da lui, mi pareva di commettere una crudeltà. Devo a lui se ho sopportato gli orrori della guerra: tutto egli indovinava, silenziosamente mi rincorava, mi invitava a resistere; perciò organizzavo la mia vita mettendo in primo piano la sua esistenza e facendo l'impossibile, perché questa non, venisse a mancarmi. Mi lasciò il 27 marzo 1952...
Queste confessioni, questi segreti sentimenti possono dare la misura del mio disappunto quando mi si chiede notizie sui mio lavoro, sulla mia vita, per mettere invece alla berlina i miei cani, i miei gatti e l'inesistente mia arca di Noè.
La maggior parte degli scrittori che misero troppo in evidenza nei loro articoli la male interpretata mia mania per gli animali, ha dimostrato dì non essere capace di parlare veramente di me e, trasportandoli nel mondo del facile giornalismo, più meno volontariamente ha offeso i miei animali, ch'io non ho mai considerati né un lusso né un passatempo.»

Venezia, 2S luglio 1952.

Questo capitolo è un rifacimento, e la continuazione, di alcune pagine stampate nella PIETRA DEL BANDO.