RICORDI E PENSIERI

DI G. FRANCESCO MALIPIERO

RACCOLTI DAI SUOI SCRITTI

Le pagine di ricordi tratte dal libro «La pietra del bando», stampato a Venezia nel 1945, possono dirsi inedite perchè l'edizione non fu divulgata e giace sepolta in un magazzino. Il capitolo «Alla ricerca di Asolo» fu pubblicato la prima volta, con altro titolo, da Renato Simoni ne «La lettura» del gennaio 1941; «Un collezionista» apparve sulla Gazzetta del popolo di Torino nel 1936.
Da volumi e articoli pubblicati in vari tempi, e da un fascio di fogli inediti, sono stati trascritti i passi riuniti sotto il titolo «Musica e musicisti ». Secondo l'ambizione del raccoglitore, essi dovrebbero tracciare la cerchia abituale dei concetti e dei giudizi in cui si muove il pensiero dell'Autore quando considera l'arte sua o rievoca il suo passato di musicista. [GINO SCARPA]

II.

MUSICA E MUSICISTI

L'OPERA DI G. F. MALIPIERO
pp. 285-294


I

Quand'ero studente al Conservatorio di Vienna, m'avevano messo «a pensione» presso la vedova di un ingegnere la quale abitava un appartamento di lusso. Tende, coperte, divani di velluto, soffici tappeti, il tutto condito con molta polvere e odore dì muffa. In questo lugubre appartamento ove regnavano i defunti, le ore più terribili erano quelle dei pasti en tête-à-tête con la vedova inconsolabile. Quando, potevo, anzi spessissimo, disertavo il pasto della sera e, con cinque soldi, cenavo in quelle birrerie famose per i salamini di Vienna. Purtroppo a forza di salamini finii per cadere ammalato. Son passati tanti anni e m'è rimasto l'idiosincrasia per tutti i salumi di questo mondo.
M'è accaduto un po' la stessa cosa col melodramma. Fin dalla mia più tenera infanzia ho dovuto mio malgrado, per il semplice fatto che non ero sordo, abusarne. Non so rendermi conto come mai, proprio nello stesso anno 1900 in cui divorai l'ultimo salamino della mia vita, io automaticamente mi staccassi pure dal melodramma. La verità è una sola, quella che spiega tutte le cose che più han reso difficile in vari campi la mia vita. Soffro di melanconia e, per non soccombere, devo impedire ad ogni costo che essa prenda il sopravvento in me. I miei ricordi d'infanzia sono molto tristi, lugubri, orribili sotto molti punti di vista e legati appunto alla musica teatrale che ha dominato la seconda metà del XIX secolo. Nessun partito preso, nessuna ripugnanza: solo dimenticare.
Non ho invece dimenticato l'origine di un pettegolezzo lirico, dovuto a un mio «collega». A Roma abitavo accanto alla Trinità dei Monti due deliziose stanze al mezzanino. Dovetti sloggiare perché gli organetti di Barberia per ore e ore mi tormentavano con certe «arie» che mi spezzavano letteralmente il cuore, tanto m'ispiravano una tragica tristezza. Naturalmente le pagine magistrali, che mi commuovono, che nessuno ascolta, gli organetti di Barberia non le suonano. Il «collega» divulgò questa mia sofferenza trasformandola in critica avversa al melodramma. Chi si può illudere di sradicare dal popolo una consuetudine che gli è cara, denigrando i suoi idoli? Solo chi saprà creare un'arte che sostituisca quella in voga, riuscirà ad insediarsi nel tempio degli dei popolari. Gli iconoclasti non han mai avuto fortuna, appunto per questo mi sono sempre astenuto da qualsiasi presa di posizione «contro» qualche cosa. Ho sempre preferito battermi «pro» qualche cosa.
Alle varie frodi sulle cronache che mi riguardano, vi hanno aggiunta pure quella delle mie denigrazioni dell'opera italiana ottocentesca. Il mio amico Alfredo Casella, col suo simpatico entusiasmo, nel 1918 («Ars nova») osava protestare perché si minacciava di «domicilio coatto gli sciagurati che trovano a ridire sulla personalità di Verdi. Ma né queste né altre peggiori minacce (egli proseguiva) potrebbero modificare la nostra opinione. Noi pensiamo dunque: a) che tanto la sinfonia del Nabucco quanto quella dei Vespri sono della pessima musica; b) che la loro inserzione in un programma sinfonico è condannabile in nome della buona educazione artistica». E un altro compositore scriveva nel 1910, in un grande giornale milanese, dopo aver ascoltato la Sonnambula, che questa è «una certa forma di melodramma che più non è sentito», ma che la bellezza dell'opera belliniana «non è in quasi nessuna delle opere di Donizetti e in parecchie di Verdi che hanno un contenuto insignificante o non ne hanno affatto».
Forse, essendo nota la mia amicizia per Alfredo Casella, ci sarà chi vorrà attribuirmi pure i suoi scritti, e l'altro compositore si giustificherà dicendo che col tempo si è evoluto, e sta bene - ma perché si dimentica ciò che nel primo quarto di questo secolo due musicisti di chiara fama han scritto e io invece, senza possibilità di difesa, vengo accusato dì aver ingiuriato gli dei dell'Olimpo?
È probabile che non mi si perdoni di aver messo in luce molti capolavori della nostra arte più antica. Non ho mai creduto che questa possa compromettere quella del XIX secolo, mentre sono sempre stato fedele alla mia convinzione che la musicalità italiana dei secoli XVI e XVII possa aprire nuove vie a quella di oggi. Auspicare un'arte contemporanea è forse offendere quella del XIX secolo?

II

È il destino che si giuoca di noi quando a un certo momento della vita, decidiamo nostro malgrado di fare qualche cosa che evade dai piani prestabiliti e dalle nostre abitudini.
Spesso penso con terrore a quello che sarebbe accaduto di me, se, senza rendermene conto, cioè guidato soltanto, dalla mia intuizione, non avessi tempestivamente preso decisioni che mi hanno poi condotto là dove dovevo arrivare, ed evitato di precipitare nel baratro della esperienza dei miei familiari, o dei saggi consiglieri.
Come, dal 1902 in poi, io mi sia recato quotidianamente alla Biblioteca Marciana di Venezia per studiare gli antichi, quasi completamente ignorati dai miei insegnanti e dai miei condiscepoli, io non lo so. Non trascrissi soltanto Monteverdi, ma molti autori, fra i quali Baccusi, Nasco, Stradella, Tartini, Galuppi, ecc. Tutto ciò solo per studiare i cosiddetti antichi.
Nel 1915 facevo la conoscenza del musicologo Oscar Chilesotti il quale mi chiedeva di realizzare il basso delle magnifiche cantate di Giovanbattista Bassani (l'armonia delle sirene e languidezze amorose) e me ne garantiva la pubblicazione presso l'Editore Ricordi di Milano, che invece le rifiutava. Volle il caso che a Milano (1916) incontrassi Umberto Notari dell'Istituto Editoriale Italiano, il quale, udito del rifiuto, mi proponeva di elaborare il programma di una grande collezione di musica del passato. Il mio proposito di evitare le antologie e di pubblicare di ogni autore una o più opere complete venne realizzato soltanto in parte, ché le conseguenze del disastro di Caporetto (1917) si fecero sentire pure nell'attività editoriale, perciò videro la luce soltanto frammenti di ogni singola opera. Ottenni da Gabriele d'Annunzio che accettasse la presidenza e che scrivesse una specie di prefazione. Le cantate del Bassani rappresentano la mia prima realizzazione del basso di un'opera del passato e, pur evitando anacronismi, l'elaborazione, contrappuntisticamente, risultò molto ricca. Seguirono alcune sonate del Tartini, l'«Orfeo» di Luigi Rossi (questo manoscritto è andato perduto), la «Rappresentazione di anima e di corpo» di Emilio del Cavaliere, la «Passione» di Nicolò Jomelli, «Il filosofo di campagna» di Baldassare Galuppi.

III

Devo confessarlo: fu un puro caso se l'edizione di tutte le opere di Monteverdi fu iniziata; però, nel 1902, fu un caso ancor più straordinario se primo fra tutti gli editori dell'«Incoronazione di Poppea», trascrissi (sia pure soltanto alcuni frammenti) questo melodramma monteverdiano. Chi mi consigliò? Nessuno. Ubbidii esclusivamente al desiderio di riconoscere il nostro passato e di reagire contro la sopraffazione degli studiosi stranieri che interpretavano a modo loro la nostra musica. Dunque nel 1902 il genio monteverdiano si metteva direi quasi attraverso alla nostra strada, non per impedirci di camminare ma per fare il nostro passo più franco, più sicuro.
Vari durissimi decenni sono passati da quando con mano tremante aprii per la prima volta il codice contariniano, del «Nerone» (ché così è inciso a lettere d'oro sul dorso del manoscritto il titolo della «Incoronazione di Poppea», senza nome d'autore) e ancora oggi non posso convincermi di essere stato proprio io a trascrivere, facendo atto di volontà, parecchie migliaia di pagine di musica, e a correggerle, rileggendo infinite volte mille e mille bozze e manoscritti.
Un'amica straniera mi aiutò per la stampa dei primi volumi che avevo deciso di pubblicare ad Asolo, il paese dei miei sogni (nel 1926 non ero ancora stato brutalmente ricondotto, come avvenne più tardi, alla realtà, e tutto quello che vedevo nel paese della Regina di Cipro corrispondeva esclusivamente alla mia immaginazione). Combinai con quattro viole e un violoncello la lettura dei primi due libri dei Madrigali (1927) al Vittoriale e tale fu la commozione di Gabriele d'Annunzio, che dal III tomo in poi volli che l'edizione uscisse «all'insegna del Vittoriale degli Italiani», omaggio molto relativo per chi, come me, conosceva la profonda sensibilità musicale del Comandante che si manifestava quando l'elemento mondano e femminile rimaneva al di là dei cancelli di Cargnacco e il Vittoriale appariva nel suo vero carattere, dominato dallo spirito di Gabriele d'Annunzio.

IV

Non si dovrebbe più parlare di Monteverdi, del divino Claudio, dell'incantatore Orfeo, perpetuando un pregiudizio, considerandolo cioè un musicista di eccezione mentre è il più vivo fra i musicisti italiani. Non è colpa sua se gente di tutte le razze lo hanno trascinato per le fiere vestito con gli abiti che meglio potevano renderlo irriconoscibile, e spesso ridicolo.
Un reggimento di infecondi musicisti ha presentato al mondo il vero Monteverdi. Quante volte non si è sentito dire: «Finalmente udremo l'autentico Orfeo, l'autentica Incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi?». E se a qualcuno è convenuto mettere in dubbio l'autenticità di un'opera, l'ha, fatto valendosi di sofismi o di inesistenti testimonianze. Lo spirito monteverdiano è stato metodicamente cancellato, quasi che il suo peso minacciasse l'esistenza dei suoi riestimatori.
Se Claudio Monteverdi in alcune opere della sua ultima maniera oggi può sembrar fiacco, spesso povero, gli è che le sue semplificazioni armoniche e contrappuntistiche, quel maldestro cadenzare sono stati poi, durante tre secoli sfruttati dai compositori di melodrammi, perché la faciloneria molto si confaceva allo sviluppo del bel canto, o per meglio dire del cantante di teatro.
Ma perché ostinarsi a riconoscere un solo Monteverdi, quello delle opere teatrali, se la sua espressione musicale rimane sempre ad un altissimo livello, e non impoverisce né cambia stile quando scende dal palcoscenico, anzi, non essendo costretta ad accoppiarsi ai grossolani poeti-librettisti, si conserva più pura, più alta ed è espressione squisitamente lirica, sovente con forti accenti drammatici, sia negli otto libri dei Madrigali che in molte delle opere religiose?
Coloro che nei melodrammi cercano di rimediare all'apparente povertà dei recitativi, arricchendoli con vaghi e scolastici contrappunti, dimostrano di non aver capito la ragione per cui i recitativi sembrano statici: essi rappresentano una didascalia cantata indispensabile per la comprensione del soggetto e vanno appunto recitati senza il peso di un accademico contrappunto, velocemente, in modo da lasciar trionfare la musica dove è indispensabile alla poesia e al dramma.
Non due pesi e due misure. Un madrigale come la sestina:«Lagrime d'amante al sepolcro dell'amato» (VIII libro) è una espressione drammatica quanto il «Lamento d'Arianna» anche se materialmente non è inteso per la scena.
Dunque lo stile di Claudio Monteverdi ha una grande unità quando si tolga la zavorra del recitativo antimusicale ma imposto dalle vicende dell'azione. La invadenza dell'elaboratore distrugge un grande musicista portando in primo piano un piccolo compositore.

V

Quando, nel giugno del 1942 licenziavo l'ultimo tomo delle Opere di Claudio Monteverdi, non soddisfazione per lo sforzo compiuto provai, ma tristezza per la perdita di un compagno. Quantunque io abbia superato facilmente le difficoltà materiali, devo riconoscere che troppo osai quando m'impegnai di pubblicare tutte le opere del divino Claudio. Se poi penso che finchè il mio compito non era stato ancora assolto, temevo che la scoperta di qualche nuova opera venisse a compromettere il mio bilancio, mi pare di aver tradito un amico. Vorrei che oggi mi fosse dato di continuare all'infinito la ricostruzione delle opere di Claudio Monteverdi. Chi mi farà rivivere gli anni in cui sotto la mia penna, mentre trascrivevo i madrigali a cinque voci, vedevo rinascere i capolavori quasi per incanto? Non ricordo né sofferenze fisiche, né dubbi nel decifrare gli originali, ricordo solo il mio entusiasmo.
Ho dovuto fermarmi dopo la pubblicazione del XIVº tomo non per stanchezza, ma perché ero saturo di Monteverdi, e fu ingratitudine. Io devo agli insegnamenti del divino Claudio molte perfezioni raggiunte, spesso per vie opposte alle sue, nel mio stile. Sono convinto che contro Claudio Monteverdi cospirano forze avverse, quelle forze misteriose che hanno sempre combattuto la sua esistenza materiale. Quasi tutti i suoi autografi (molti inediti) sono andati distrutti e di quasi tutte le sue opere stampate poche copie si sono salvate, scomparse le sue immagini, disperse le suo ossa. Il terzo centenario della sua morte doveva cadere durante la guerra e soffocare il suo canto che volevamo ascoltare in letizia.

VI

Lo studio di tutta la musica che precedette il XIX secolo e degli antichi trattati, mi rivelò la ragione per cui l'accompagnatore improvvisava sul basso continuo: il clavicembalista doveva seguire l'espressione, delle parti principali e mai sovrapporsi ad esse; qualora avesse avuto la parte realizzata dinanzi a sè, egli si sarebbe trasformato in esecutore indipendente e spesso prepotente.
Inoltre l'armonia (che specialmente ì musicologi tedeschi alterarono sempre, per renderla accettabile dagli orecchi abituati all'uniformità armonica della prima metà del XIX secolo) negli antichi offre il massimo interesse. Scopersi molti documenti atti a dimostrare che, come i suoi predecessori, pure Claudio Monteverdi si serviva dei vari «modi» (greci) in rapporto all'espressione degli stati d'animo corrispondenti alle vicende dei melodrammi, o della musica di genere rappresentativo. Nel libretto della Proserpina rapita si legge: «Acclamatione parenetica, con armonia Frigia, entusiastica, cioè concitata»; «Canzonetta Partenia cantata dalle tre ninfe con armonia Lidia, cìoè dì suono molle»; «Pachino con armonia Missolidia accompagnato solo da i Lirodi, spiega il suo lamento chiamato Treno dagli antichi greci».
Purtroppo la musica di Monteverdi per la «Proserpina rapita» è andata perduta, però altri documenti sono a testimoniare l'impiego dei modi greci da parte del divino Claudio. Se si alterano le armonie come hanno fatto tutti gli elaboratori dì Monteverdi, che rimane della sua espressione originale che ci è necessaria per respirare aria più pura?
In sedici anni l'opera omnia di Claudio Monteverdi è diventata un fatto compiuto, ma anziché chiedere riconoscenza a Claudio Monteverdi devo umilmente invocare il suo perdono. È merito della mia edizione se un esercito di iconoclasti, da qualche anno ha incrementato l'industria del falso antico e, dopo averlo impagliato, han esposto alla berlina, camuffato da genio stile XIX secolo, il non più divino Claudio. Mea culpa, ché io ho fornito a domicilio ciò che prima del 1926 era quasi introvabile.
Lo stesso accade, per quanto in proporzioni meno disastrose, con Antonio Vivaldi. Grazie alle centinaia di concerti ora in corso di stampa sotto la mia giurisdizione, il numero delle esecuzioni è aumentato, ma chi rispetta il ritmo (stabilito dall'autore con le arcate, vale a dire col fraseggio), chi cerca di approfondire la conoscenza dello stile di un grande compositore che operò, nella prima metà del XVIII secolo e che esercitò una grande influenza su tutti i musicisti suoi contemporanei?
Nell'arte musicale s'incoraggia e si premia solo il malinteso. Guai se si scoprisse che da quattro secoli la scrittura musicale è precisa, chiara, raramente scorretta e che la musicologia è stata inventata per intricare la matassa.

VII

È strano ma, come per Monteverdi, c'è poco da dire sulla vita di Antonio Vivaldi. Si può raccontare che cos'era l'Ospitale della Pietà, come si istruivano «le figlie de' quattro spedali», come si chiamavano quelle che eccelsero nel suonare il liuto, l'organo, l'oboe e nell'arte del cantare. L'indiavolato violinista ci vuol dar ad intendere che «non potendo camminare per male di petto (ossia per strettezza di petto, come precisa in una lettera) non usciva di casa che in gondola o in carrozza», accompagnato sempre da qualche dama pietosa. È molto probabile che la malattia rappresenti una spiritosa finzione e che il «mormorare» sulla sua vita intima, sia stata la vera causa della sua contrastata carriera. Beninteso, la carriera in rapporto ai posti che gli rifiutavano e ad altre difficoltà materiali. Viaggiò non molto, ma quel tanto che gli bastava per lìberarsi forse dal pettegolezzo che lo assediava da ogni parte.
Lo vediamo, l'orecchio appoggiato alla cassa armonica del violino, gli occhi chiusi, ad ascoltare le proprie improvvisazioni. Come una sorgente in alta montagna egli non inaridì mai. La sua musica è a getto continuo e se ha scritto per vari strumenti solisti (oboe, fagotto, violoncello, ecc. ecc.), è il violino che domina, cioè Vivaldi stesso trasformato in musica. Egli si ascolta per non ascoltare, tanto che in alcuni concerti l'orchestra sembra ridotta al silenzio dalla voce dello strumento predominante.
La forma dei suoi concerti non è stereotipata, anzi egli di rado usa il tradizionale e pigro «da capo» tipico della musica strumentale del settecento. Allorquando egli riprende il primo tema questo è sempre un po' variato e di rado le ripetizioni controsegnate «da capo» si fanno ricominciando veramente da capo; spesso egli riprende alla conclusione del primo tema per poche battute da un segno convenzionale a un altro. È probabile che gli ripugnasse, nella rapidità del comporre, riguardare ciò che aveva scritto.
I tempi lenti, piazzati al centro dei concerti, sono quasi sempre brevi e per pochissimi istrumenti, quello allegro che segue, pare ammonisca: la vita è breve, non c'è tempo da perdere e via di corsa per campi, prati e fra nubi che si inseguono dopo il temporale.
Nessuna delle opere istrumentali di Antonio Vivaldi (i concerti sono più di quattrocento) dà segni di stanchezza. Pure quelle che tradiscono un involontario riposo del Prete rosso, hanno qualche cosa che le sostiene, c'è sempre la voluttà del suonare, suonare, forse per non ascoltare ì mormorii che lo perseguitavano nonostante il riconoscimento ufficiale delle sue infermità e del suo genio.
Il Vivaldi melodrammatico è un compositore per teatro dei suo tempo, e pur volendo ammettere che forse è superiore a qualche altro, rispetto al Vivaldi dei concerti è quantità trascurabile. Nei concerti Antonio Vivaldi è per gli istrumenti quello che Claudio Monteverdi fu per la voce umana.