RICORDI E PENSIERI

DI G. FRANCESCO MALIPIERO

RACCOLTI DAI SUOI SCRITTI


II.

MUSICA E MUSICISTI
PARTE II

L'OPERA DI G. F. MALIPIERO
pp. 285-294


VIII

Troppo facilmente si dimentica che la musica negli ultimi due secoli si è a poco a poco ridotta alle sole tonalità maggiore e minore, e che il sistema temperato ha permesso, dal punto di vista fisico, una formazione dell'orecchio che non ha più nulla a vedere con la musicalità di un Palestrina o di un Domenico Scarlatti. Sono convinto che questi due musicisti non riconoscerebbero le proprie composizioni eseguite, sia pure egregiamente, da un coro o da un clavicembalo accordati secondo l'intonazione oggi prescritta e adottata. Come si può parlare, dunque, di musiche antichissime e di altre genti? Nessuno le conosce, nessuno le può conoscere perché, se pur rintracciabili come documento grafico, esse sono irrimediabilmente sparite. È vero che alcuni popoli dell'Asia hanno conservato la loro musica, ma è impossibile che questa non abbia subìto (dal punto di vista dell'intonazione) l'influenza della musica occidentale, specialmente ora che la radio ha abbattuto le frontiere della parola, e dei suoni.
È purtroppo su una chimera e con concetti squisitamente, distruttori che i musicologi hanno costruito un enorme edificio per lo studio della musica antica, dove manca il punto di partenza per qualsiasi discussione estetica e storica: L'arte musicale è ancora giovane, quella dell'antichità è sparita, anzi non è mai esistita. Non valsero le ricerche dei matematici e dei filosofi greci a farla uscire dall'ambito delle arti popolari e primitive. Le loro teorie ed esperienze rappresentano soltanto il «desiderio» di un'arte della quale sentivano la mancanza, giacche la poesia era già musica, ma un po', strozzata nel manifestarsi, come se una mano crudele tenesse stretto alla gola il recitante.
Ho qui sotto ai miei occhi l'Inno ad Apollo, un coro dell'Oreste dì Euripide, un'ode di Pindaro, nell'edizione dì un dottore di filosofia tedesco. Grande prefazione, documenti, ecc. Alla parte cantata il signor professore ha aggiunto «l'accompagnamento», perciò ha fissato pure le armonie e ha fatto, per esempio, dell'ode di Pindaro una specie di Lied schubertiano. Che cosa può valere una musica cosi ridotta e deformata ?

IX

Se un bambino italiano zufola o canta «un'aria» imitando, a mo' dei merli, qualche cantilena in voga, i genitori gridano al miracolo. «Che orecchio musicale, dicono, se studierà musica l'Italia avrà un genio di più e scrivendo delle opere guadagnerà milioni».
L'importanza che si attribuisce all'orecchio musicale, cioè alla memoria meccanica, è uno degli errori che traggono in inganno ì cacciatori di geni musicali ed è forse il più pericoloso. Se tutti coloro che son capaci di recitare a memoria dei versi di Dante fossero poeti, quanti poeti ci sarebbero in Italia?

X

La lettura musicale (non cantata) è la cosa più semplice di questo mondo, ché il valore e l'altezza delle note non si discutono e non si possono insegnare che in un solo modo, semplice e preciso.
Del solfeggio invece non si è ancora compresa l'importanza e non si può continuare a studiarlo come materia complementare. Se per gli esecutori la standardizzazione del ritmo (ternario e binario, coi tempi forti che cadono sempre sul primo quarto, e anche sul terzo nel tempo di 4/4) è un vincolo che impedisce loro di uscire dalla musica del Sette e Ottocento, per il compositore si trasforma in una specie di paralisi infantile.
L'Italia, paese cattolico e mediterraneo, presto o tardi dovrà convincersi che il canto gregoriano è una espressione squisitamente nazionale, sulla quale dovrebbe ricostruirsi tutto l'edificio della nostra musica. Il catechismo dell'arte musicale italiana, basandosi sul canto gregoriano (il solfeggio potrebbe essere appunto una scuola per apprendere il canto gregoriano che fu sempre il punto di partenza per lo studio della musica) ci libererebbe da tutti i pregiudizi e ci rimetterebbe sulla grande via.
Praticamente si verrebbero a interpretare ritmi diversissimi, con una grande varietà di «toni», che sottintendono pure una considerevole varietà di armonie, armonie immaginarie.
Il sistema attuale è una specie di compromesso, che segue un metodo di studio convenzionale e illogico. Illogico è studiare per quattro anni l'armonia facendo del pessimo contrappunto, più illogico ancora studiare il contrappunto legando all'allievo mani e piedi, come piaceva al Cherubini ,che, per scrivere una melodia con accompagnamento a base di note ribattute, arpeggi, sincopati, tremoli, esigeva un contrappunto severissimo e che escludeva ogni possibilità di capire il contrappunto. Forse il Cherubini a bella posta voleva far venire in odio il contrappunto all'allievo per garantirsi da un possibile e temuto ritorno al vero contrappunto. Vivono attualmente alcuni musicisti che pur avendo studiato seguendo il Cherubini han scritto dell'ottima musica, però questi musicisti si considerano autodidatti e perciò rinnegano la scuola. È pericoloso perpetuare un equivoco, tanto più che spesso non si segue il trattato di contrappunto del Cherubini, ma le sue regole, di seconda mano.
I trattati dell'epoca in cui più fioriva il contrappunto poco si occupano del valore verticale (armonia) della musica. La preoccupazione principale è di combinare vari canti che conservino ciascuno una linea perfetta nella sua espressività, senza proporsi di risolvere problemi armonie!.
I trattati di armonia del secolo scorso ammettono tre accordi di terza e quinta (l'accordo di quinta eccedente è una alterazione), cioè l'accordo maggiore, minore e diminuito coi relativi rivolti e cinque accordi di settima pure coi loro rivolti. Questi accordi si considerano cosa morta se per armonizzare «un canto» si scelgono come si sceglie la stoffa per tappezzare una poltrona, a «occhio», con quel gusto che distingue i dilettanti. Credere che la scelta degli accordi sia una operazione meccanica anziché ispirazione è mettere la musica d'oggi in uno stato di inferiorità di fronte a quella del nostro passato. Le eccezioni, cioè quei musicisti (e son pochi) che si sono dimostrati immuni dal contagio, non rappresentano una giustificazione, mentre è regolamentare che nelle scuole si adoperino i verbi armonizzare, contrappuntare, istrumentare come indicassero un procedimento manuale, e ciò è assurdo. La tematica (melodia) è indubbiamente invenzione (la creazione è sempre di origine divina), ma l'armonia, il colore orchestrale sono pure invenzioni che dimorano sullo stesso piano della melodia, anzi molte melodie vivono e si elevano grazie all'armonia e al colore che le avvolge.
Se, per esempio, noi apriamo a caso i tre trattati di Gioselfo Zarlino da Chioggia: le Istituzioni armoniche, le Dimostrazioni armoniche e i Sopplimenti (seconda metà del sec. XVI), vediamo che questo frate chiozzotto anzitutto ha voluto studiare Aristotele, Tolomeo, Pitagora, Plutarco e molti altri scrittori greci e approfondire le loro teorie musicali da un punto di vista esclusivamente matematico, ma per rendersi conto e stabilire le regole del contrappunto. Mentre allora si accanivano sul contrappunto, non si curavano dell'armonia che era un sottinteso, come dovrebbe essere ora, inquantoché è elementare teoria l'intervallo fra le note, e il vero interesse armonico deriva dal movimento delle parti, siano note legate (sincopi), ritardi, appoggiature, dissonanze preparate e risolte, che al tempo dello Zarlino non si discutevano nemmeno. Era il rispetto delle «cantilene» che preoccupava, e andava da sè che non si potevano rispettare a spese dell'armonia. Le cantilene dovevano rimanere nei «toni» ed avevano carattere gregoriano. Non v'è dubbio, il canto gregoriano lascia trapelare i rapporti armonici: se si aggira sul primo suono di una data scala ha in sè gli armonici, cioè i suoni naturali che vibrano anche se il canto non li tocca, anzi muovendosi questo canto li fa vieppiù sentire, e cambierà totalmente il sentimento armonico se il nucleo melodico si sposta su un altro suono della scala, suono base che a sua volta si muoverà su altri suoni della scala.
Varrebbe certamente la pena di ripubblicare quasi come un «breviario» la parte spirituale dei trattati dello Zarlino, Nicola Vicentino, Zacconi ed altri e poi in riassunto (anche perché certi dubbi oggi non hanno più il diritto di sussistere) le teorie del contrappunto.

XI

Mi ritrovo tra mano il mio primo libro, quello su «l'orchestra» (che è del 1920), e già al primo capitolo (sull'origine dell'orchestra) mi riesce presuntuoso quanto incompleto. Colgo una sola citazione importante, tratta da «L'histoire de l'instrumentation depuis la sixième siècle jusqu'à nos jours di H. Lavois» (1878). Essa dice: «Pour les vieux maîtres mosaistes de la musique, violes et hautbois, flûtes et trombones ne se pliaient pas assez facilement à tous les sinueux mèandres d'un contre-point compliqué». Infatti prima del XVIII secolo i compositori erano affetti da una specie di daltonismo istrumentale. Da ciò la difficoltà di affidare all'istrumento la parte adatta al suo colore, alle sue possibilità tecniche, difficoltà centuplicata se oggi si tenta di ricostruire un'orchestra con istrumenti antichi perché, credendo di abolire ipotetici anacronismi, se ne creano di insormontabili. Ogni istrumento per atavismo viene a trovarsi doppiamente spodestato di fronte al suo discendente che lo domina facendo sentire la sua superiorità sotto molteplici e complessissimi aspetti.
Sono poi soddisfatto di quanto dicevo circa l'inesistenza dell'orchestra nel XVII secolo. Dopo tanti anni di esperienze sono più convinto che mai che l'orchestra è nata nel XVIII secolo.

XII

musicisti hanno sempre elaborato, variato, trasformato temi, canti, ritmi non propri. Il «canto fermo» è il nucleo tematico sul quale si costruirono le prime architetture polifoniche. Infatti, come si poteva creare dal nulla, inventare senza un punto d'appoggio? Hanno i russi (compreso Igor Strawinsky) sfruttato il canto popolare per amor di patria, oppure furono costretti ad adottare il «folklore» perché non riuscivano a pronunziare le prime parole di un linguaggio a loro sconosciuto?

XIII

In musica la originalità non è mai stata rivelata dalla pura invenzione, da uno stile creato dal nulla. Essa risulta dalla preferenza per certi particolari ritmici, armonici, melodici che già esistono nella musica, ma che si perdono in mezzo a un linguaggio nel quale a sua volta si insiste con quei particolari che rappresentano la personalità di un dato autore. L'accordo di tre toni lo troviamo, prima che Debussy adotti la scala esatonale, in Monteverdi, Gesualdo da Venosa, Wagner, ecc. Debussy se l'è fatto suo, abusandone.

XIV

Materialmente ho rifiutato il facile gioco degli sviluppi tematici perché ne ero saturo e mi venivano a noia. Imbroccato un tema, voltandolo, girandolo, sminuzzandolo, gonfiandolo, non è difficile costruire un tempo di sinfonia (o di sonata) che diverte i dilettanti e soddisfa la insensibilità degli intenditori.
Il discorso della musica veramente italiana (basta pensare a Domenico Scarlatti) non s'arresta mai, segue la legge naturale dei rapporti e dei contrasti: non costruzione geometrica ma una architettura pensile e solida, antisimmetrica e proporzionata.
Questo voglio aggiungere: non ho insistito per evitare il pericolo del sistema, ché se è un sistema superato quello dell'artifizio tematico, a che pro inventarne un altro non meno accademico?

XV

Ho sempre obbedito a un principio per me indispensabile: ho inesorabilmente scartato e distrutto ciò che era frutto della mia volontà anziché del mio istinto.

XVI

Gli studiosi di estetica musicale si compiacciono di affrontare problemi, e pure all'improvvisazione degli orecchianti si vuole attribuire un formidabile impulso filosofico-sociale. Da ciò la mania di penetrare nei segreti dell'animo di un musicista. Dovrei mentire se volessi dar soddisfazione a una così ingenua curiosità, anzitutto perché non mi sono mai imposto problemi estetici o tecnici, e poi perché, finito il lavoro, nulla ricordo di quanto è avvenuto durante la sua gestazione.
In una certa opera mia ci sono due battute che molto mi tormentarono, e perché? Una sera, mentre stavo lavorando, arrivava ad Asolo Alfredo Casella. Egli andava orgoglioso dei chilometri superati in aeroplano, treno, automobile e se ne vantava; però sulla sua faccia si scopriva, già vent'anni fa, una profonda stanchezza. Alfredo Casella era felice di approfittare del riposo che la mia casa gli offriva ed io ero più felice ancora di poterglielo offrire. Ebbene, avendo dovuto interrompere bruscamente il mio lavoro, non sono mai riuscito a riannodare il filo spezzato ed oggi non sono nemmeno più capace di riconoscere le due battute raffazzonate.

XVII

Spesso ho avvertito la necessità di fare qualche ritocco o correzione a una mia partitura. Ho sempre constatato che essi non sono un cambiamento, bensì sempre sono determinati dall'esistenza di un momentaneo squilibrio fra la stesura del testo qual era stata concepita dalla nostra mente e la trascrizione della mano. Credo anzi che certi autori chiamati dalla critica lenti e riflessivi nella concezione, non siano altro che artisti che hanno qualche difficoltà di mettere la propria mano a disposizione della propria mente.

XVIII

Nell'autunno del 1916, ad Asolo, stavo scrivendo i «Poemi asolani» e il gentilissimo organista del Duomo mi lasciava usufruire del pianoforte che si trovava nel suo salotto. Un giorno, mentre ero tutto immerso nel mio lavoro, si presenta un vecchio a me sconosciuto (seppi poi che era il padre dell'organista) e gridando: questa è casa mia, questo pianoforte è mio, mi indica la porta. Raccolsi le mie carte, ma appena uscito dalla stanza m'incontrai coi familiari, disperati per l'accaduto, i quali battendosi in fronte per farmi capire che il vecchio era demente, mi forzarono a riprendere il mio posto davanti al pianoforte.
Durante la prima guerra, senza casa, sopportai i più inverosimili disagi. Ero allora un disgraziato senza tetto, che cercava solo di ripararsi per poter lavorare. Ma nei «Poemi asolani» non trovo una battuta che mi richiami la comica scena né in altre composizioni del tempo la traccia di quei disagi. M'accorgo che neppure so ricordare l'orribile salottino di una pensione, in via Gregoriana, a Roma, dove nel 1919 scrissi le «Sette canzoni»: non posso ricordarlo perchè non lo vidi mai. Ora un nonnulla mi toglie la voglia di scrivere (purtroppo spesso è più che un nonnulla) e talvolta ho invidiato Hindemith che è capace di comporre pure in una stazione, mentre attende il treno.

XIX

Una sera dell'inverno scorso (1927), mentre nel mio caminetto la fiamma languiva, non so perché mi prese il desiderio di aprire una cassa che conteneva, fra altro, alcuni miei manoscritti di opere ch'io consideravo degne del rogo, ma che non avevo ancora avuto il coraggio di distruggere. Prima a capitarmi fra le mani fu la partitura di un dramma in un atto. Indignato dalla stupida scelta del testo poetico ch'io mi ero illuso di poter nobilitare con la musica, voluttuosamente affidai la mie sprecate fatiche alla voracità delle fiamme. Ugual sorte toccò a un iniquo balletto, di proporzioni non indifferenti, e poi un poema sinfonico andò a tenergli compagnia. Stavo per distruggere una cantata per baritono, coro e orchestra, ma rileggendo per caso i primi versi (del «Canto notturno di un pastore errante nell'Asia» di Giacomo Leopardi), attratto dalla bellezza della poesia leopardiana rilessi tutta la partitura e vi ritrovai me stesso. Uguale impressione provai sfogliando la partitura della mia «Sinfonia del mare», del 1906. Sai perché in queste due opere ritrovavo me stesso? Perché tutto ciò che certi critici oggi mi rimproverano: i pedali (ch'io prediligo per creare delle atmosfere di tranquillità, o talvolta delle incalzanti sovrapposizioni di ritmi), i canoni (cioè dei canti che si inseguono e si rispondono come l'eco), insomma tutto il materiale che mi è familiare e che semino, senza acrobatismi, nelle mie opere, già vent'anni fa era mio e me ne valevo per esprimermi musicalmente.

XX

Siamo a una prova in una delle nostre grandi sale da concerto. Si sta leggendo una Sinfonia, opera nuovissima di un autore vivente che se ne sta rannicchiato in una poltrona e attende l'autoverdetto, indifferente a quello postumo della folla disattenta e infida.
Il direttore d'orchestra corregge gli errori dei copisti e i suonatori sono zelantissimi perché vorrebbero far passare per «lapsus calami» i loro errori, e per dimostrare la finezza dell'orecchio.
L'autore s'accorge che indipendentemente dal direttore d'orchestra il primo dei violini, colla matita in mano, fa il giro di tutti i leggii spiegando ai violinisti di fila le arcate, e segnandole nelle parti. L'autore si avvicina e chiede che cosa succede. «Segno le arcate», risponde il primo dei violini convinto d'aiutare l'autore, non violinista. «Le arcate sono segnate», risponde l'autore. «Sono sbagliate», sostiene il primo dei violini, «esse non corrispondono al gesto del direttore: quando questo batte in giù, l'arco deve andare pure in giù». L'autore offre la gomma e le arcate ritornano quelle che erano.
Questo insignificante episodio è piuttosto interessante. L'ottimo primo dei violinisti, che pure insegna in un Conservatorio, non si è mai accorto che il ritmo può cadere secondo la volontà dell'autore e non secondo i segni convenzionali della bacchetta. Questi servono soltanto, «per ritrovarsi», per procedere di concerto, ma sono liberi. L'uniformità delle arcate è indizio di povertà ritmica, anzi di mancanza di senso ritmico. È lo stesso che in poesia non si ammettessero che i versi orecchiabili («s'ode a destra uno squillo di tromba») e che, spostandoli, si facessero cadere gli accenti di tutti i decasillabi sulle stesse sillabe. «Di fresch'aure un grato gelo sente» non si ridurrà: «Di fresch'aure un grato gelo sente» per imitare il decasillabo manzoniano.
Se la tecnica degli istrumenti comprendesse anche l'espressione armonica e ritmica, molti compositori si sveglierebbero dal letargo ritmico-armonico e la loro fantasia potrebbe librarsi in un mondo più spirituale. La maggior parte degli insegnanti e dei suonatori adotta e coltiva soltanto quello che è già stato fatto, senza preoccuparsi della umiliazione che subisce e tollera mentre rumina musiche digerite e coopera al sabotaggio dell'arte musicale contemporanea.

XXI

La preoccupazione, il terrore di quello che nelle prossime ventiquattro ore dovremo forse subire e soffrire ci fanno apparire sotto il roseo velo dei ricordi lontani tutto ciò che abbiamo passato e che grazie al cielo più non può, ritornare. È pur strana l'impossibilità di «ricostruire» le sofferenze fisiche, anzi parliamo con indifferenza, quasi scherzando, per esempio di un terribile bisturi che abbiamo veduto luccicare accanto a noi prima che ci squarciasse la gola.
Non riusciamo a ricostruire nella nostra mente il dolore morale! Le lugubri corsie delle cliniche e il sorriso degli indifferenti infermieri non riappaiono dinanzi ai nostri occhi come li vedemmo quando l'angoscia mutava i minuti in ore, le ore in giornate, le giornate in settimane. Le lunghe veglie accanto alla morte, le zolle di terra gettate sui cadaveri che seppellimmo, tutti i ricordi, si spogliano del loro macabro velo nero e lo proiettano sull'avvenire.
Vivi, implacabili, sono invece i ricordi che si riferiscono a quella vita incosciente che è la nostra vita d'artisti. Pare di ieri la voce, ormai spenta per sempre, dei nostri maestri, che temendo il nostro ingegno, cercavano di dominarlo. L'insegnante se non è un artista non perdona al giovane il suo entusiasmo.
Ecco dinanzi a noi, documento ancor vivo, un foglio ingiallito, un'opera nostra scritta tanti anni fa «a scuola». Ecco i segni, le correzioni del maestro. Sono tutte concentrate sui nuclei vitali dell'organismo in formazione. Noi temiamo la vecchiaia solo per il ribrezzo che sentiamo di fronte alla reazione senile. Ascolteremo anche noi un giorno il pettegolezzo, tollereremo la ineffabile arroganza dei dilettanti e i discorsi di farmacia? Cercheremo anche noi dei volgari pretesti per impedire che la vita continui dopo di noi?
L'attesa del responso!
Un direttore d'orchestra si accinge alla lettura di una vostra partitura. Ricordo il dubbio penoso. Che egli sappia leggere una partitura?
Si propaga la voce che avete dell'ingegno. Affluiscono i consiglieri, pronti ad aiutarvi con la loro esperienza.
Il primo contatto col pubblico: stroncature della critica, dissensi fra gli ascoltatori. Ascoltatori? Ma chi ascolta la vostra musica?
I profeti alzano la voce. Non avete prestato orecchio ai loro consigli. Perciò «siete passato come un bolide lasciando gli amici in preda a una profonda malinconia»....

XXII

Il periodo wagneriano si chiude alla fine del XIX secolo con l'apparizione di due musicisti singolari: Riccardo Strauss e Claudio Debussy. Né l'uno né l'altro potevano però aprire nuovi orizzonti all'arte musicale il primo rappresentata la definitiva conclusione del periodo wagneriano; il secondo, antiwagneriano per eccellenza, avrebbe potuto far capo a una nuova scuola se la sua sensibilità fosse stata meno raffinata ed eccezionale. Debussy iniziava e chiudeva il periodo debussiano. È dunque in condizìoni molto precarie che s'apriva il XX secolo musicale.
Fu Arnoldo Schoenberg che capovolse la situazione inventando un nuovo linguaggio sonoro, cioè armonico. Questo musicista che intuì le vere e disastrose condizioni della musica, non riuscì a realizzare con le opere il suo sogno di creatore. S'inaridì nella teoria ed è per questo che la critica più miope lo considera un chimico e spesso un eccentrico.
Arnoldo Schoenberg è invece colui che ha fornito all'arte, musicale l'ossigeno che la tenne in vita mentre si maturavano gli eventi: la guerra e il resto. Difatti nel 1913 appariva il capolavoro; la «Sagra della primavera», il figlio più maschio, per quanto illegittimo, di Arnoldo Schoenberg. Ma forse per l'enormità dello sforzo compiuto, poco dopo la «Sagra della primavera» Igor Strawinsky cambiava strada e col Concerto per pianoforte e orchestra iniziava il periodo neoclassico. Che cosa voglia dire neoclassico non è facile spiegare, mentre i figli di Petrouchka sono un fenomeno abbastanza chiaro, quantunque singolare. La musica con la quale Igor Stravinsky ha voluto descrivere musicalmente l'idiozia del Moro e la viltà di Petrouchka, ha generato quello spirito musicale (definito anche sarcastico o ironico) che ha predominato per qualche anno anche in Italia nelle opere di alcuni giovani non privi di ingegno. I figli di Petrouchka sono nati morti; perciò di loro non rimane che un pallido ricordo.

XXIII

Parigi. Si parla molto (1913) di Arnoldo Schoenberg.
Nella penombra, in una sala che pare una sala di ospedale, un intrepido pianista fa sentire i «Sechs Stüke» di Arnoldo Schoenberg. Il pubblico sghignazza; il riso idiota dei «prevenuti» è irritante quanto il vociare di un piccolo gruppo di fanatici ammiratori. La grande sfida: da allora la musica avrebbe dovuto essere esclusivamente dodecafonica e si stava creando un martire: Arnoldo Schoenberg.

XXIV

A Parigi, aprile 1913. «Non parta. In maggio avremo la rappresentazione del nuovo balletto di Igor Strawinsky: «Le sacre du printemps» che segnerà certamente un altro passo avantì in quella direzione che tutti dobbiamo seguire per la salute dell'arte musicale». Così mi parlava Alfredo Casella mentre stavo congedandomi da lui e gli sono grato di avermi quasi costretto ad attendere «l'avvenimento». Sono però convinto che in ogni modo avrei dovuto rimanere perchè certi incontri sono inevitabili.
L'incontro con Igor Strawinsky in carne e ossa avvenne a Ginevra, nel 1920 durante una visita al mio editore, (J. W. Chester), uno svizzero residente a Londra. Approfittai dell'occasione per recarmi a Morges da Strawinsky. Affabile accoglienza. Invito a pranzo. Come antipasto una bottiglia dì wodka alla quale l'ospite fece molto onore. Tardi nella notte egli mi fece sentire, nel suo studio tutto tappezzato di tamburi grandi e piccoli, di gran casse ed altri istrumenti a percussione, l'«Histoire du soldat». Al pianoforte egli metteva in evidenza il ritmo, la rappresentazione scenica coi gomiti e coi piedi percuoteva istrumenti immaginari mentre il diabolico Josè Porta rendeva a meraviglia la parte del violino.
Igor Strawinsky a Venezia: festival della S. I. M. C., 1925. In programma la Sonata per pianoforte. Esecutore: l'autore. Il settembre riuniva, in quei tempi ormai lontanissimi, il fior fiore dello snobismo internazionale. Nel salotto della Principessa di P. (a Palazzo Contarini dal Zaffo) dame e cavalieri fanno ressa intorno al musicista russo.
«Ancora una tazza di tè». Egli deve rispondere. Tutti tacciono. «Per un russo il tè è il centro di tutte le nostalgie». (Rapidamente passano davanti ai nostri occhi teorie di cosacchi, slitte inseguite da torme di lupi, l'immensa pianura coperta di neve). «Perché, egli prosegue, in occidente, mancando il samovar, il gusto del tè è tutt'altro. C'est un autre goût». Un altro gusto, come la Sonata ascoltata nel festival del 1925. Per scrivere questa Sonata il samovar non era più necessario.
Durante il festival di Venezia del 1943 lo vedemmo salire sul podio per dirigere il suo «Capriccio» per pianoforte e orchestra. Al pianoforte il figlio Sviatolav Soulima, ottimo esecutore. L'evoluzione si svolge entro il cerchio familiare.
Difatti al festival del 1936 a Baden-Baden Igor Stravinsky presentava un Concerto per due pianoforti da eseguire insieme col figlio Sviatolav Soulima. Il contrappunto pianistico anche in quest'opera è stranamente ortodosso: forze contrastanti, linee divergenti si ritrovano, si allontanano, si fondono, si amalgamano. È l'ordine del disordine.
Nel «Sacre du printemps» Strawinsky è padrone del ritmo, ritmo brutale, veemente; qui invece egli, suo malgrado, si lascia trascinare da un programma squisitamente cerebrale, voluto, e quasi sempre occasionale.

XXV

La prima opera per pianoforte veramente strawinskiana è del 1915; i «Tre pezzi facili»: marcia, valzer e polka, brevissimi. Il primo è dedicato a Casella, il secondo a Erik Satie e il terzo a Diaghilew in segno di riconoscenza e stima se, componendo la polka, pensò a un Diaghilew «in frac, cilindro in testa come un direttore di circo». Questi pezzi sono una filiazione diretta dei tre burattini di Petrouchka, burattini prolificissimi che generarono tutto un mondo fatto di polchette, marcette e valzerini di un gusto antiromantico sì, ma anche squisitamente antimusicale.
Alfred Cortot crede molto simbolica la dedica del valzer a Erik Satie perché «è facile identificare la influenza che incoraggiò Strawinsky sulla via dì queste scoraggianti facezie». Forse che l'influenza esiste, ma la musica di Erik Satie non è mai priva dì spiritualità e dimenticando i titoli stravaganti («Gnossiennes», «Gymnopédies», «En habit de cheval», «Troìs morceaux en forme de poire», «Pièces froides», ecc.) risalta l'arguta musicalità di questo esile musicista.
I cinque pezzi facili, per pianoforte sono la continuazione di «Tre pezzi facili». L'autore si è proposto di «concentrare il peso della composizione sulla parte di sinistra, mentre quella di destra è destinata all'uso degli amatori poco esercitati nella tecnica pianistica». Questa nota è il trionfo de l'homme de métier che riesce persino ad accontentare coloro che più odiano la musica, cioè gli amatori.
E se ciò non bastasse, Strawinsky ha poi istrumentato i tre e cinque otto pezzi facili per pianoforte. Difficile è vincere lo smarrimento se la nostra immaginazione ci riconduce a Parigi nella indimenticabile serata del 28 maggio 1913.
Dov'è lo Strawinsky di allora? Spesso abbiamo pensato che nonostante l'indiscutibile bellezza dì certe pagine monteverdiane dell'ultima maniera (per esempio molte dell'«Incoronazione di Poppea») quelle del primo Monteverdi sono molto più pure. Il salto è stato grande fra la prima e l'ultima maniera di Monteverdi tanto che ha travolto con sè tutta la musica di allora, ma era inevitabile, mentre quello di Stravinsky è un salto mortale che forse continua tuttora e non sappiamo come cadrà, quando toccherà terra. Dubitiamo che possa toccare il cielo: sarebbe una fine troppo romantica per un uomo di mestiere.

XXVI

Nondimeno confesso che vorrei non aver soffermato durante la guerra il mio pensiero sull'arte di Strawinsky tanto da partorire una specie di monografia (1944) sul più sconcertante fra i musicisti. Strawinsky procede a scatti e, salvo per quei critici che non riuscendo a, decifrarlo ne dicono belle o male secondo l'opportunità, è difficile seguirlo. Il libro che reca la mia firma e il titolo «Strawinsky» che cosa è? Il disappunto per aver smarrito l'autore di «Petrouchka», del «Sacre printemps» e delle «Noces». Si tratta dunque di un fatto squisitamente personale e in stretto rapporto con certe impressioni e ricordi giovanili. Mi svegliai da un lungo e pericoloso letargo la sera del 28 maggio 1913, alla prima del «Sacre». Questo ricordo rimarrà sempre al centro di tutte le mie nostalgie di fronte al diverso Strawinsky delle opere composte più tardi. La prima guerra mondiale (1914) lo ha sradicato dalla sua terra e questo è il segreto di tutte le sue evoluzioni.
Nelle Cronache della sua vita, pubblicate nel 1935, quel suo modo d'insistere sul mestiere, quel paragonarsi a un abile artigiano, non poteva che accrescere il disorientamento e il dispiacere per ciò che la prima guerra mondiale ci aveva fatto perdere: era dunque legittima l'apprensione per le metamorfosi che egli avrebbe ulteriormente subìto, o provocate, dopo e durante una seconda guerra vissuta nella lontana America.
Si parlava, mentre le fortezze volanti volteggiavano sulla nostra testa, di una polka ch'egli avrebbe scritta per gli elefanti. Forse per quelli di Annibale?
Finalmente, nel 1945-1946, facemmo la conoscenza dello Strawinsky americano. Niente Annibale, ma i mansueti elefanti del Circo Barnum. Un fatto è certo, Strawinsky pure in questa polka per pachidermi, ha sempre una nota sua personale, viva, e il suo genio si manifesta portando in alto ciò che nasce terra terra, il che è preferibile al processo inverso comune a molti compositori.
E poi il fenomeno a cui ci siamo ora, nostro malgrado, abituati è di vivere in una specie di camera ardente, dove tutto è spento salvo il ricordo di certe illuminazioni. Spesso ritorniamo col pensiero agli anni che precedettero la prima guerra mondiale, e perciò, quando è la volta dello Strawinsky di allora, ci avviene di annullare mentalmente tutto il resto della sua produzione, perfino la «Sinfonia dei Salmi», l'«Edipo re», il «Concerto per violino». Quando invece ci è dato di ascoltare le sue opere più recenti, dimentichiamo tutto ciò elle in lui biasimiamo a freddo e ci lasciamo rapire, più o meno lontano, e non ci rendiamo conto della nostra (forse illogica) ammirazione.
Purtroppo i suoi apprezzamenti sulla musica e su alcuni musicisti, per esempio su Tchaikowsky, provocano in noi un vero senso di irritazione. Forse egli non esita a farceli sapere per amore del paradosso e per nascondere le sue preferenze e, di conseguenza, le sue vere origini.