GIAN FRANCESCO MALIPIERO

VOCI DAL MONDO DI LÀ

Il compito della nostra critica musicale è di controllare fischi e «chiamate». Un musicista fischiato non ha più nulla da dire. Egli è liquidato, dunque sia pace all'anima sua. Per fortuna, o per sventura (dipende dal punto di vista da cui si parte) un musicista morto in Italia può vivere in ottima salute al di là dalle frontiere. È soltanto grazie a questa anomalia musicale che a un musicista italiano più che defunto non è vietato di uscire dalla tomba, che i suoi compatriotti gli hanno graziosamente donato, per parlare ancora di sè anche se egli preferisce il silenzio alle polemiche. Però, per non spaventare gli amici, G. Francesco Matipiero, che ha cessato di esistere la sera dell'8 gennaio 1929 in seguito a un grave incidente occorsogli al Teatro Reale dell'Opera, in Roma, non ha voluto uscire dalle tenebre ov'è piombato. Ha preferito concedere un'intervista che pubblichiamo perchè certi fenomeni sono abbastanza interessanti. Per cominciare gli abbiamo chiesto come sono nate le Sette canzoni, cioè la causa di tutte le sue sciagure, ed egli, con una parlantina veramente eccezionale e senza lasciarsi interrompere con altre domande, ci ha risposto:
Nauseato dal recitativo, dal falso «verismo», e da tutto ciò che serve a condire quel dolcissimo pasticcio chiamato melodramma, avevo abbandonato il teatro musicale ma purtroppo sono ricaduto, sempre troppo presto, entro i suoi tentacoli. Se il verismo mi sembrava uua caricatura di cattivo gusto della vita, i soggetti storici o mitologici mi apparivano molto più «pericolosi» che «piacevoli». Le Sette canzoni sono dunque sette episodi da me vissuti e che ho creduto poter tradurre musicalmente senza contraddire me stesso.
A Venezia uno zoppo e un cieco, violinista il primo e suonatore di chitarra il secondo, accompagnati da una donna che era la guida del cieco, sceglievano per i loro «concerti» gli antri più misteriosi, le calli più anguste, quasi volessero evitare la luce. Non so perchè attraessero la mia attenzione non ostante la loro straziante antimusicalità. Difatti un bel giorno il cieco rimase solo a strappare accordi disperati dalla sua vecchia chitarra. La compagna era fuggita con lo zoppo.
Questo piccolo dramma mi suggerì la prima canzone: I vagabondi.
Una sera, a Roma, verso il tramonto, nella Chiesa di Sant'Agostino una donna pregava genuflessa dinnanzi all'immagine della Madonna. Un frate andava su e giù intento alle faccende che precedono la chiusura del tempio. Spegneva ceri, rimetteva al loro posto le sedie e il rumore di un mazzo di chiavi accompagnava le voci dei monaci che cantavano raccolti nel coro e nascosti dall'altare. A. un tratto il frate si avvicinò alla donna e l'invitò a uscire. Questa si alzò e senza aprire gli occhi infilò la, porta e disparve.
La seconda canzone: A vespro, è nata da questa misteriosa apparizione crepuscolare.
Passando vicino ad una casa, alle falde del Monte Grappa, quasi sempre udivo una donna piangere, lamentarsi e intonare delle canzoni infantili. Era una inadre impazzita dal dolore per la morte del figlio, ucciso in guerra. Ora cullava e addormentava una bambola, ora la calpestava urlando, imprecando.
In questo episodio tragico ho trovato lo spunto per la terza canzone: Il ritorno.
L'ubriaco, che interrompe un idillio (la quarta canzone), l'ho veduto a Venezia, e pure a Venezia ho notato il contrasto fra la veglia di un morto e i canti di una serenata. La serenata è la quinta canzone.
A Ferrara, entrando in una chiesa durante un funerale, mi colpì Il campanaro (sesta canzone) che rinchiuso nella sua cella suonava «a morto» fischiando «la donna,è mobile». Ho sostituito il funerale con l'incendio e per dipingere l'indifferenza del campanaro l'ho fatto cantare una canzone quasi oscena.
La settima canzone l'ho sentita più di una volta nell'ultinia notte di carnevale. La mascherata del carro della morte è un'antica mascherata italiana che non ha nulla di funebre. Dal suo incontro coi pagliacci ho colto il pretesto per creare una sinfonia di bianco e nero. Se la musica alla fine è un po' solenne, aderisce a quel senso di liberazione che ho sempre provato a «l'alba delle ceneri» quando la quaresima viene a liberare dall'invadente banalità carnascialesca.
Il testo delle sette canzoni l'ho preso dall'antica poesia italiana, perchè mi è sembrato di ritrovarvi il ritmo della nostra musica, cioè quel ritmo veramente italiano, che a poco a poco durante tre secoli è andato perdendosi nel melodramma.
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Giulio Cesare, Dante, Napoleone, sono stati degli uomini grandi, ma se si mettono a cantare «la cavatina» o «la cabaletta» scendono dal piedestallo sul quale la nostra fantasia li ha inalzati e precipitano negli abissi del grottesco.
È inutile esaltare la grandiosità e le bellezze delle «cavatine» e della «cabalette», nè introdurre sulla scena cavalli, elefanti, carri trionfali, nè aumentare il numero delle trombe per dipingere un affresco musicale. Esiste la musica decorativa, ma la musica decorativa è coreografica e rimane coreografica anche se sul palcoscenico si agitano dei cantanti che rappresentano personaggi illustri e che cantano delle arie.
La musica meglio si presta a completare l'espressione poetica che a dipingere personaggi o situazioni drammatiche. Oltre che la poesia idilliaca, pastorale, lirica, esiste anche quella drammatica, dunque il dramma musicale si può costruire con la sola poesia e rinunziando alla coreografia. Sta alla musica di rendere più intenso e più efficace il significato della parola e dell'azione che vediamo svolgersi sulla scena, ma la musica è e rimarrà sempre l'arte più astratta, anche se è l'arte che meglio ha saputo mascherare l'assurdo e smerciare orpello per oro.
Un cieco abbandonato nelle tenebre, una donna che cerca conforto nella preghiera, una madre in preda al dolore, una fanciulla che nel raccoglimento della veglia funebre lotta per non udire il canto dell'innamorato, sono personaggi anonimi ma non antimusicali e che nella musica possono trovare la loro sublimazione, mentre la sorte del personaggio storico o mitologico è inversa: la musica lo impiccolisce e spesso lo mette in ridicolo.
Ritengo dunque che i personaggi delle sette canzoni abbiano «a priori» la stessa importanza di tutti gli uomini illustri ridotti a personaggi melodrammatici e che la storia di un suonatore di chitarra possa interessare quanto e forse più di tutte le Semiramidi e gli Amleti, purchè la musica la completi anzichè sfruttarla materialmente per confezionare il solito libretto d'opera.
Non confondiamo la fede con la presunzione: senza fede non c'è arte nè artista. Io non ho mai detto che le Sette canzoni siano una nuova forma di teatro musicale e che debbano far scuola. La loro forma è nuova ma non mi sono mai illuso di aver scoperto un nuovo, «genere » di melodramma, prova ne sia che sono diventate la seconda parte dell'Orfeide e che la forma della prima e della terza parte dell'Orfeide (La morte delle maschere e Orfeo, ovvero l'ottava canzone) non è quella delle Sette canzoni. Anche le Tre commedie goldoniane, Filomela e l'Infatuato, Merlino mastro d'organi, e Il mistero di Venezia (1º Le aquile di Aquileia, 2º Il finto Arlecchino, 3º I corvi di San Marco) hanno in comune con le Sette canzoni soltanto l'abolizione totale o parziale del recitativo e la scelta o l'invenzione di, soggetti musicali che si possono comprendere da quello che vediamo svolgersi sulla scena senza ricorrere al recitativo. E che le parole del recitativo non abbiano mai servito a far comprendere «il soggetto» lo dimostra la beotica abitudine di leggere il libretto prima o durante la rappresentazione.
Nè le Sette canzoni nè il loro autore hanno mai voluto sconvolgere il mondo. L'artista prima che alla gloria temporale deve pensare alla propria soddisfazione spirituale. La prima dipende da un insieme di circostanze che spesso lo espongono alla berlina, la seconda si deve proteggere contro la profanazione.
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Dopo il disastro di Roma c'è stato uno scambio di lettere fra me e F. T. Marinetti. Non deploro il contenuto della mia lettera, ma mi duole di aver pubblicamente dimostrato di non ignorare la rappresentazione romana e le sue ignobili conseguenze. Mi preoccupa anche la falsa interpretazione delle mie parole. Per esempio sarebbe ingenuo credere che io abbia voluto accusare certi miei amici di fare una aperta propaganda contro di me, o che parlando dello stato miserando della nostra musica io neghi agli Italiani il genio musicale.
Roma è una grande città, ma il Teatro Reale dell'Opera e l'Augusteo sono frequentati da un pubblico stabile e da uno fluttuante. Il secondo è timido e non prende mai l'iniziativa nè per fischiare nè per applaudire, il primo è quello che domina e fa la pioggia e il bel tempo. Predicando la critica sempre le stesse cose sulla musicalità italiana e bersagliando sempre gli stessi autori, e fra questi io sono sempre stato il bersagliatissimo, era logico che si preparasse quel putiferio che l'insolito soggetto delle Sette canzoni ha favorito. La mia allusione allo stato miserando della nostra musica, come ho già detto, non si riferiva a quello che è la nostra musica, ma all'organismo musicale che costituisce l'ambiente più favorevole alla coltivazione dei pregiudizi e che dietro la maschera del patriottismo paralizza ogni possibilità di rinnovamento musicale.
Se il rio destino mi avesse concesso di vivere cent'anni avrei sempre protestato contro il famoso stampo per la fabbricazione della musica e del musicista italiano, contro l'umiliazione di dover subire il verdetto del pubblico perchè questi pagando il biglietto d'ingresso acquista anche il diritto di giudicare. È forse perchè alla Corte d'Assise si entra gratis che spesso il pubblico simpatizza per le più losche figure della delinquenza umana, mentre nei teatri d'opera è d'una severità tale da rendersi spesso degno di passare dalla tribuna dei giudici alla gabbia degli imputati.
Tutti questi malanni non esisterebbero qualora si tenesse vivo il desiderio di scoprire nuove forme d'arte e nuovi artisti, e si ambisse di possedere varie e multiformi espressioni musicali. La delusione si manifesterebbe allora con un dignitoso silenzio che forse condannerebbe inesorabilmente l'opera e l'artista, mentre la gazzarra di un pubblico che protesta perchè non può nè sa ascoltare dimostra che non, l'opera d'arte è inadatta al pubblico, ma il pubblico all'opera d'arte, non questa è da distruggere ma la mentalità del pubblico.
La mentalità del pubblico non esiste, si deve formare curando i mali, sanando le piaghe. Per rinnovare un popolo si mutano e si rifanno le leggi, dunque pure l'organismo intellettuale di un popolo che risorge deve corrispondere alla nuova coscienza nazionale.
La storia della mia vita musicale è quanto mai avventurosa e si può tracciare schematicamente nello stile dei bollettini di guerra.
Dopo varie scaramucce in Italia e qualche piccola battaglia vinta o non perduta all'Augusteo (1913, 1917, 1918, 1919), nel 1920, all'Opera di Parigi ha luogo la prima grande battaglia. È il battesimo delle Sette canzoni senza entusiasmi ma anche senza fischi. La leggenda dei fischi è nata più tardi quando parte della stampa parigina, cioè quella rappresentata da Musicisti falliti, ho voluto sfruttare le Sette canzoni per combattere il direttore dell'Opera accusato di far troppo all'amore con la musica straniera. Per dare all'incidente un'importanza politica i giornali italiani allora protestarono contro la Francia che maltrattava l'arte italiana. Nel 1920 le Sette canzoni erano arte italiana, nel 1929 non sono degne del Reale Teatro dell'Opera di Roma.
Ricorderò di sfuggita le quattro mie opere sinfoniche prescelte nel concorso dell'Augusteo, l'opera prescelta nel concorso del Teatro Costanzi, e il quartetto Rispetti e Strambotti che vinse nel 1920 il premio Coolidge in America, e ciò non per vantare titoli, ma, per accennare alle cause di tanti grattacapi.
Fra il 1920 e il 1926 qualche alto e basso ma la situazione tende a migliorare. In Italia, soprattutto i due quartetti guadagnano terreno, e nel 1924 a Milano il secondo quartetto (Stornelli e Ballate) si deve anche replicare. In questa occasione lo scrupolosissimo cronista di un giornale milanese scrive: «il pubblico era diviso in una maggioranza che abbandonò la sala poco o punto persuaso di ciò che aveva udito, e in una minoranza, che, dopo aver interrotto a sproposito il pezzo scambiando una pausa per la chiusa, si ostinò a rimanere e a chiedere la replica.»
La seconda delle Sette canzoni (il Ritorno) eseguita in concerto incontra ovunque «il favore del pubblico»!!!
Nel 1926 il mistero San Francesco d'Assisi ottiene un bellissimo successo all'Augusteo e lo stesso anno le Sette canzoni si varano felicemente a Torino. Improvvisamente nel 1927, la situazione accenna a peggiorare: tutte le opere mie vengono sbaragliate coi gas asfissianti della critica, dalle posizioni conquistate. Cadono sul campo dell'onore la Sonata a tre a Milano, i Ricercari a Torino, le Impressioni dal Vero a Torino e a Roma, ecc. ecc. A Milano il quartetto Stornelli e Ballate, applaudito nel 1924, il 2 aprile 1928 disgusta l'uditorio.
Comunemente i fallimenti sono la conseguenza delle passività, in musica il caso è inverso, ma non so se sia il mio caso soltanto. Al mio attivo ci sono parecchie opere sinfoniche e di musica da camera che girano per il mondo e le mie opere teatrali (Pantea, Orfeide, Tre Commedie goldoniane, Filomela e l'Infatuato, Il finto Arlecchino), che in Germahia più che altrove sollevano discussioni, destano interesse. Non voglio parlare dei successi perchè certe notizie non devono penetrare al di qua dalle nostre frontiere. Ricorderò di sfuggita un numero della Revue musicale di Parigi (primo gennaio 1927) dedicato alla musica italiana moderna e nel quale mi si assegnava un invidiabile posto d'onore, e la mia edizione di tutte le opere di Claudio Monteverdi, non per vantare titoli ma per accennare le varie cause dei miei grattacapi!
Tutto ciò è meschino, ma è meschino anche otturarsi le orecchie per non ascoltare o impedire che gli altri ascoltino. Abbassandomi a enumerare i miei titoli esteri vorrei riuscire soltanto a far sorgere un dubbio sulla giustizia del verdetto romano, non nei riguardi dell'opera d'arte che, se è un capolavoro, rimane tale contro tutto e contro tutti, verdetto che è stato pronunziato senza ascoltare nè esaminare i precedenti dell'opera incriminata.
Mentre la musica si trascina come una mendicante, pur avendo l'oro cucito entro le calze, la critica delle altre arti si occupa di problemi molto più vasti e più degni della nostra cultura. Per esempio Giovanni Papini, scrivendo nella rivista Pegaso «su questa letteratura», ha sollevato molte discussioni, ma nessuno l'ha insultato e i contradittori hanno approvato o disapprovato chi l'una chi l'altra delle opinioni papiniane, di modo che tutte sono state disapprovate e tutte approvate e lo scrittore toscano ha potuto conservare il posto che gli spetta e, che nessuno ha tentato carpirgli.
Senza discutere i nostri letterati possiamo, scegliendo a caso qualche nome, dire che Pirandello non è Rosso di San Secondo, e che Bacchelli non è Panzini. Ciascuno vive per conto proprio e se anche qualche gruppo si va formando, le battaglie si combattono con armi degne di un popolo civile.
Qualora un musicista avesse scritto «su questa musica» esprimendo le stesse idee di Giovanni Papini, che sono applicabili anche all'arte sorella della poesia, osando negare agli Italiani i requisiti necessari per comporre dei melodrammi, non avrebbe potuto sfuggire alla lapidazione. Con ogni probabilità il suono dell'oro, risonando ad ogni passo della povera musica, è la causa principale della confusione che paralizza ogni cervello appena si parla di musica anche se si sostiene che il musicista italiano può coltivare tutti i generi e che la più grave offesa al genio musicale italiano è l'insidioso pregiudizio del marchio nazionale col quale si vorrebbero bollare fin dalla nascita i musicisti e le loro opere. I letterati citano Brunetto Latini, Dante, Petrarca, Boccaccio, ecc. ecc., come se fossero ancora vivi e non disdegnano di curare la ristampa delle loro opere. Palestrina, Luca Marenzio, Orazio Vecchi, Claudio Monteverdi, Frescobaldi, Domenico Scarlatti, sono animali antidiluviani che possono interessare soltanto gli scienziati e gli archeologi della musica e perciò l'origine della musica si fa risalire al 1848. Questa patriottica trovata la dobbiamo forse alla legge sui diritti d'autore.
Ora perchè Stravinski s'è messo a rifare Bach, coloro, che trovano Bach un po' troppo lontano, per risparmiare la spesa di un buon paio di occhiali si son messi a fare del Rossini o dell'ultimo settecento [1], e credono di scoprire in questo fenomeno un indizio di rinnovamento che battezzano col nome di neo-classicismo. Nessun'arte si è mai rinnovata ritornando indietro e se il Rinascimento è un ritorno all'antico, questa eccezione non può dettar legge. Il Rinascimento è venuto in seguito alle scoperte archeologiche che hanno riportato alla luce del sole opere d'arte che nessuno conosceva, ma non avrebbe generato tanti capolavori se tutti fossero, già stati saturi dell'arte greca e romana. E giacchè da più di cent'anni l'arte musicale italiana dei secoli XVI e, XVII è stata sotterrata nelle biblioteche, è probabile che al contatto dell'aria pura possa generare l'auspicato, rinascimento musicale.
Le nostre balie ci addormentavano cantando Il barbiere di Siviglia, dunque Rossini è ancora troppo vicino a noi per risvegliare l'Italia musicale. È meglio pensare a lui quando la melanconia ci impedisce di dormire e vogliamo godere un sonno tranquillo, oppure quando...
Ma qui il canto del gallo improvvisamente troncò il discorso dell'intervistato e si fece un gran silenzio. A un tratto una voce misteriosa conuncio a cantare:

O falsa invidia, inimica di pace
Trista del ben altrui, che non ti nuoce:
Tu porti dentro quell'ardente face
Che t'arde 'l petto e altrui metti 'n croce.

Che l'autore delle Sette canzoni meditasse la vendetta sotto forma di una Nona canzone? Per ora non possiamo rispondere.
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[1] L'origine della Cimarosiana (1921) di G. F. MALIPIERO, che è stata citata come esempio di un ritorno verso il nostro settecento masicale, è molto banale. Alcuni brani per pianoforte di Domenico Cimarosa vennero orchestrati per accontentare un ballerino russo che s'era impegnato di danzarli a Parigi ed a Londra. La partitura è stata scritta a Roma in una clinica, luogo non propizio alla rievocazione della musica in parrucca e guardinfante.