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PREFAZIONE

Quando il presente non faceva rimpiangere il passato, i musicisti, coll'atto di morte, sparivano pure dalla vita musicale. Così fu per Claudio Monteverdi, del quale si ricordava come cosa lontana, quasi leggendaria, il solo Lamento d'Arianna, eppure al suo tempo fu considerato un Dio: il divino Claudio.
Era forse preferibile che la vita continuasse noncurante di chi non è più su questa terra, anziché impagliare i morti, come si fa ora. Gli imbalsamatori sono abili, scaltri, ma l'idolatria abolisce il controllo su ciò che in realtà rappresenta l'idolo, sia pure un pelo della barba del Profeta o un dente d'elefante.
Da tre quarti di secolo si innalzano, spesso con materiale molto friabile, i piedistalli sui quali i geni musicali dovrebbero toccare il cielo. È sorta in tal modo una autentica torre di Babele, o, per meglio dire, un conglomerato di torri di Babele in cemento armato (armato di malafede) vuote all'interno per potervi insediare l'amministrazione di tutte le speculazioni musicali. La vera torre di Babele non raggiunse il cielo perché gli uomini finirono col non comprendersi più, esattamente come accade nella Babele musicale: l'incomprensione ha fatto perdere ogni più elementare senso di pudore.
Le esumazioni ebbero inizio il giorno in cui l'arte contemporanea vestì il saio del mendico, quando cioè a Beethoven era succeduto, crede universale, Johannes Brahms, «autore della decima sinfonia».
La musicologia divenne allora l'unica risorsa per i compositori falliti, i quali per non fallire una seconda volta, vestirono alla moda corrente i compositori del passato. Qualora li avessero lasciati com'erano, urtando contro il gusto corrente, avrebbero forse subito la stessa sorte dei compositori che rappresentano veramente la musica contemporanea più vicina all'antica che a quella dell'Ottocento.
Si sarebbero allargati un po' gli orizzonti del disorientato ascoltatore, se di Palestrina non si fosse fatto un maestro da chiesa di campagna, di Monteverdi (vedi le elaborazioni di Vincent d'Indy) un Wagner alla casalinga e di Vivaldi un classico del primo Ottocento. L'approfittare dei morti per penetrare nella già circoscritta vita musicale dei concerti e del teatro d'oggi, doveva, per forza di cose, annullare ogni possibilità di influire sulla evoluzione non della musica, ma di coloro che credono di amarla.
Antonio Vivaldi più degli altri si prestava a equivoche interpretazioni, ché già Giovanni Sebastiano Bach aveva dato l'esempio, soltanto che le sue elaborazioni (si dice che da principio non citasse il vero autore del Concerto per quattro clavicembali e di altre opere vivaldiane da lui elaborate) rispettavano naturalmente lo stile dell'epoca, e poi Bach era Bach.

VITA, MORTE E MIRACOLI

[ESTRATTO: pp.23-28]

Quei musicologi che si son dati allo studio dell'opera vivaldiana, hanno stabilito, se non una discendenza, una stretta sua parentela col Corelli e col Torelli. Antonio Vivaldi discende dal Prete rosso e questi è un miracolo di San Marco.
Egli ha scritto centinaia di concerti i quali si possono dividere in tre gruppi:
1) Per orchestra d'archi, la quale spesso accompagna archi solisti: violino, o viola, o violoncello.
2) Per fiati solisti (flauto, oboe o fagotto) accompagnati dagli archi.
3) Per varie combinazioni istrumentali.
L'orchestra di Vivaldi non è ancora assestata come quella del Galuppi nella seconda metà del XVIII secolo. Essa è, salvo alcune eccezioni (e ben inteso esclusi tutti i concerti per archi e per un istromento a fiato solista con accompagnamento dei soli archi) un'orchestra di fortuna la quale, come nel XVII secolo, si equilibrava occasionalmente secondo i suonatori a disposizione. Comunque, per esempio nel concerto per l'orchestra di Dresda (archi, 2 flauti, 2 oboi, 2 fagotti e violino solista) di quando in quando affiorano sonorità orchestrali squisitamente vivaldiane.
Su tredici opere istrumentali stampate, undici non recano l'anno della pubblicazione; si può approssimativamente calcolarlo basandosi su più o meno logiche supposizioni, o su elementi quasi sempre imprecisi, però se pur indicate sul frontespizìo, le date non garantirebbero l'ordine di composizione. Certamente per riunire un'opera, Vivaldi prelevava le composizioni dalle sue riserve «scegliendo fior da fiore».
Spesso piccolissime osservazioni possono essere non prive d'interesse. Per esempio all'inizio di un terzo tempo [TOMO 114] s'intravvede, cancellato, il nome di Vivaldi. Molto probabilmente questo terzo tempo fu già il primo d'un altro concerto.
Non possiamo immaginare Vivaldi sempre da mille furie inseguito, darsi gran pena per curare l'edizione dei suoi concerti. Indubbiamente col crescere della fama aumentava la necessità di far presto. Egli disse al presidente de Brosses di comporre un concerto in minor tempo di quello necessario al copista per copiarlo. [*]
Le Opere I e II fanno eccezione ché al loro apparire le tentazioni del melodramma non avevano ancora travolto il Prete rosso.
La tecnica violinistica del Vivaldi non è trascendentale ed egli esige ancor meno dagli altri istrumenti solisti. Per il fagotto invece scrisse un gran numero di concerti, quasi tutti difficili, cosa incredibile, se si considera la imperfetta meccanica degli strumenti di quel tempo.
Perché questa singolare preferenza? Su uno dei concerti per fagotto, si legge: «Concerto per Gioseppino Biancardi o sia per fagotto» nome e cognome sono leggermente cancellati. Cosa vuol dire quel «o sia»? Che Biancardi e il fagotto facessero tutt'uno, fondendo l'insuperabile virtuosità con colui che la possedeva? Perché nome e cognome vennero cancellati?
Le guide della città di Venezia pubblicavano i nomi dei più eccellenti suonatori. Per esempio nella guida del Coronelli (1700) si accenna all'Ospedale de' Mendicanti «dove in eccellenza suona l'organo e les Obois (l'oboe) la Barbara».
Un dubbio: in luogo di Gioseppino, in nessuna parte d'Italia è usato questo diminutivo al maschile, che si debba leggere Gioseppina? Chi non ricorda la tremenda delusione di Jean Jacques Rousseau quando gli venne concesso di vedere gli angeli che (a Venezia nella chiesa dei Mendicanti) lo rapirono col loro canto? Vide sfilare dinanzi a sé un corteo di mostri.
Vogliamo credere semmai che l'entusiasmo del Prete rosso per il fagotto sia di origine puramente artistica e che il sesso del suonatore non abbia influito sul musicista «stretto di petto» ma largo di cuore. Immaginavamo già il romanzo: Vivaldi scrive il concerto per fagotto [Tomo 282], per la Biancardi della Pietà. Scena di gelosia della oboista. Il maestro si affretta a ridurre per oboe lo stesso concerto.[Tomo 283] Purtroppo qualora si tratti di un Gioseppino, la nostra fantasia si arrende, ma non la nostra curiosità, ché vorremmo sapere come mai a Venezia non si trovi notizia di un sì grande virtuoso di fagotto.
L'analisi dei concerti vivaldiani non richiede una grande sapienza in chi all'intuizione non voglia anteporre la retorica.
Hugo Riemann nel famoso Musik-Lexicon dedica a Vivaldi poche righe. Anzitutto gli attribuisce il merito di aver spinto, coi suoi concerti, J. S. Bach a comporre per pianoforte (!) e orchestra. Crede poi che la forma del concerto col ritornello a piena orchestra, il quale riappare più volte trasportato in varie tonalità, sia stata inventata dal Vivaldi. Il concerto grosso esìsteva gìà, ben altri sono i meriti dell'innovatore.
Quasi tutti i concerti sono in tre tempi, lento quello centrale talvolta cortissimo, quasi intermezzo per legare il primo e í'ultimo tempo, vivaci. Dal secondo tempo dei concerti si può forse ìndovinare lo stato d'animo del compositore. Talvolta pare si conceda a malincuore un attimo di riposo, per riprender fiato, tal'altra, quando cioè il secondo tempo è di più vaste proporzioni, si indoviiáa perché al grande Vivaldi, più obbediente fra tutti fu J. S. Bach.
Esaminando da vicino, nostro malgrado, come se non volessimo vedere, ma fossimo costretti a guardare, la forma del primo e del terzo tempo è quella, osservata da Hugo Riemann e da lui definita in poche parole.
Ciò che può variare è l'intensità della invenzione dalla quale dipende il fervore dell'eloquio. I giuochi d'agilità si tradiscono come tali per il loro ingenuo ripetersi, sembrano le capriole di un bambino che fa le bizze per scandalizzare il parentado, però esagera soltanto quando vuole ascoltare sé stesso facendo il bravo alle spese della pazienze altrui. I prolungati arpeggi corrispondono a quello che più tardi divenne il preludiare. Frequenti le «trovate armoniche», chiamarle trovate è più che giusto, perché di fronte ad esse lo stesso compositore s'arresta stupito, le ripete per convincersi che sono proprio sue.
Una delle poche eccezioni: il terzo tempo. di un concerto per fagotto [Tomo 118] potrebbe sembrare un minuetto con variazioni, se in realtà la forma non fosse sempre quella classìficata dal Riemann. Può darsi però che questo terzo tempo provenga da un concerto composto qualche anno prima del prinio e del secondo tempo.
Allorquando per esprimere gaiezza vuole che il proprio pensiero musicale scelga una via meno consueta, Vivaldi ricorre allo stile imitativo, con tutte le apparenze del fugato. L'originalità viene spesso compromessa dalle esagerate ripetizioni del già sentito, ma in compenso forse per atavismo, l'austerità del contrappunto non eclissa la sua personalità quando, sempre inconsapevolmente, non sa se guardare indietro, oppure molto avanti a sé, e Bach lo attende al varco.
Tutt'altra cosa è il melodramma vivaldiano. Il Prete Rosso impallidisce e nonostante la indiscussa superiorità musicale, non riesce a melodrammizzarsi come sanno fare gli specialisti dì questo genere teatrale.
Se l'opera istrumentale di Antonio Vivaldi fosse andata distrutta, il suo posto sarebbe al disotto di quello di un Legrenzi o di un Galuppi.
Negli oratori invece Vivaldi non cade nell'assurdo del melodramma e non si assoggetta obbediente alla moda. Per esempio l'oratorio Juditha triumphans (1716) è il solo dramma musicale della prima metà del XVIII secolo che viva fuori del tempo. In esso Antonio Vivaldi sì mantìene sullo stesso piano della maggior parte dei suoi, concerti, pure facendo del teatro, come oggi si suol dire.
Di fronte all'universalità di Vivaldi, come si può credere all'efficacia della inutile analisi, la quale sempre allontana dalla musica?
È preferibile far nascere il desiderio di ascoltare le opere del Prete rosso purché eseguite rispettando quell'inconfondibile suo stile che non ha contatto alcuno con il linguaggio musicale,del XIX secolo.

NOTA

[1] Questa curiosa confessione si trova nella diciottesima delle Lettere dall'Italia di Charles de Brosses, in data 29 agosto 1739, cioè a un anno preciso dal licenziamento di Antonio Vivaldi dalla Pietà.
«Ce n'est pas que je manque de musique; il n'y a presque point de soirée qu'il n'y ait académie quelque part; le peuple court sur le canal l'entendre avec autant d'ardeur que si c'était pour la première fois. L'affolement de la nation pour cet art est inconcevable. Vivaldi s'est fait de mes amis intimes, pour me vendre des concertos bien chers. Il y a en partie réussi, et moi, à ce que je désirais, qui était de l'entendre et d'ayoir souvent de bonnes récréations musicales: c'est un vecchio, qui a une furie de composition prodigieuse. Je l'ai oui se faire fort de composer un concerto, avec toutes ses parties, plus promptement qu'un copiste ne le pouvait copier. J'ai trouvé à mon grand étonnement, qu'il n'est pas aussi estimé qu'il le mérite en ce pays-ci où tout est de mode, où l'on entend ses ouvrages depuis longtemps, et où la musique de l'année précédente n'est plus de recette.»