JOHN C. G. WATERHOUSE

CARATTERISTICHE GENERALI:
FORMA MENTIS, IDEE, OSSESSIONI;
INFLUENZE FORMATIVE

LA MUSICA DI G.F. MALIPIERO.
pp. 13-21
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Fra i vari protagonisti musicali della cosiddetta 'generazione dell'Ottanta' italiana, il più prolifico, più sorprendentemente disuguale e più schiettamente istintivo è stato sempre Gian Francesco Malipiero. Se Pizzetti fu guidato consciamente, seppure limitatamente, nel suo sviluppo creativo dai suoi ideali filosofici e teatrali (che rispecchiavano le giovanili ambizioni drammaturgiche, l'appartenenza al movimento 'vociano', i legami con Giannotto Bastianelli, ecc.), e se il giovane Casella trasse in parte l'impeto creativo dal suo interesse quasi scientifico negli stili altrui e nelle tecniche musicali di per sé, la straripante produzione malipieniana può, a prima vista, apparire come il semplice risultato di un irresistibile bisogno di comporre, rispetto al quale fattori esterni ed ambientali sembrano secondari. Pochi sono i compositori moderni di cui si può affermare con altrettanta sicurezza che la musica è sbocciata in loro «as leaves to a tree», e questa sfrenata spontaneità creativa, cui non sempre fa riscontro un adeguato spirito autocritico, è una delle ragioni di certi aspetti sconcertanti della sua opera. È difficile, ad ogni modo, mettere in dubbio che Malipiero sia stato sostanzialmente il più originale fra i principali compositori italiani della sua generazione. Fattori intimi ed estrosamente personali esercitarono, nella formazione del suo sviluppo stilistico, una funzione proporzionalmente maggiore di quanto non si riscontri in quella dei vari Pizzetti, Casella, Respighi, Alfano, Zandonai e via dicendo. Sarebbe quindi opportuno cominciare il nostro studio considerando in primo luogo certi aspetti generali cruciali della sua inconsueta configurazione psicologica, in relazione alla quale diventerà poi più facile capire come egli sia venuto ad accettare certe influenze esterne e a respingerne altre.
La sfrenata istintività del processo creativo di Malipiero non solo contribuisce a spiegarne la fecondità come tale, nonché la considerevole quantità di ripetizione da un pezzo all'altro [1]; ma costituisce il fondamento anche di certi altri fenomeni come l'«intuizionismo» capriccioso e improvvisatorio delle sue strutture musicali, che tendono ostinatamente a respingere convenzioni formali comuni in favore di ciò che lo stesso Malipiero ha chiamato «quelle leggi inafferrabili che l'istinto riconosce» [2]. Per di più, questa qualità digressiva e improvvisatoria è una caratteristica che ricorre non solo nella sua musica astratta (dove non costituisce necessariamente un difetto, ma è piuttosto parte essenziale della sua personalità); qualcosa di simile si ritrova anche nelle sue straordinarie opere teatrali, solitamente su libretto proprio, che talvolta (specie nei lavori della prima maturità) rinunciano completamente a metodi naturalistici in favore di un simbolismo un po' caotico, la cui logica può sfuggire all'intelletto pur esercitando un singolare fascino a livello meno razionale. Si ha qualche volta l'impressione (soprattutto nelle opere composte nella seconda metà degli anni '20) che gli aspetti extramusicali dell'insieme vi figurino più come pista di lancio, o epifenomeno, dell'impulso musicale che come un'ossatura chiaramente elaborata, quasi come se una personale mistura di ossessioni extramusicali si fosse trovata invischiata nei suoi istinti musicali e fosse controllata da essi anziché dominarli essa stessa, con strani risultati 'surrealistici'. [3]
Comunque, anche se talvolta nelle opere della sua prima maturità si ha l'impressione che la principale forza regolatrice agisca a livello musicale piuttosto che teatrale, non si può tuttavia dubitare che le immagini e i simboli ossessivamente ricorrenti, su cui è basata così larga parte della materia prima dei suoi libretti (e che spesso figurano anche nelle composizioni non intese per il teatro), di per sé accrescono considerevolmente il fascino della sua arte. Inoltre questi simboli, per quanto disorganizzati, sono psicologicamente rivelanti: visti nella giusta luce, essi possono contribuire a darci una più profonda nozione anche di come le forze del subcosciente abbiano condizionato il suo linguaggio musicale come tale.
Alcune delle immagini ossessive di Malipiero sono, è vero, da ritenersi essenzialmente private e di natura affatto 'domestica', senza ulteriori significati: a titolo di curiosità si noti, ad esempio, come il richiamo di una delle sue bestiole preferite, il chiú o assiolo (un uccello raramente assente dalla sua casa ad Asolo, che spesso aveva più l'aria di un serraglio che di una comune casa privata[4]) non solamente echeggia con insistenza attraverso il terzo tempo delle «Impressioni dal vero I» [...], ma più tardi si ripresenta varie volte in maniera rilevante e più o meno esplicita: all'inizio, e di nuovo al principio del settimo quadro, nel «Torneo notturno» (1929); verso la fine della prima parte di «Vergilii Aeneis» (1943-4); e persino in un passaggio cruciale del relativamente recente «L'asino d'oro» (1959) [...].
Piú importanti, peraltro, sono quelle idee fisse più grandiose o sinistre, più universali nei loro significati (per eccentrica che possa apparire la loro presentazione), che figurano in modo cospicuo in tanti suoi lavori. Al livello più generale c'è la sua costante e straziante coscienza del Tempo, che si oppone inesorabilmente agli sforzi che l'uomo compie per restare attaccato alla vita e alla Bellezza, e che è così chiaramente simbolizzata nell'indimenticabile «Canzone del tempo» nel «Torneo notturno» (e per vedere come tale concetto sia rimasto per lui fondamentale proprio fino alla sua più tarda vecchiaia, basta guardare la piccola opera «Uno dei Dieci», composta addirittura nel 1970 [...]. È stato soprattutto questo suo quasi nevrotico assillo della precarietà e, in definitiva, della futilità dell'essere, espresso di continuo negli scritti [5] e nelle conversazioni [6] di Malipiero oltre che nella sua musica, ad indurre Fedele D'Amico a constatare che in questo artista così spesso luminoso e raggiante, e talvolta addirittura gaio, cova, come un rancore implacabile e dolorante, uno dei più conseguenti pessimismi sul valore demiurgico dell'uomo europeo all'uscita del romanticismo: la scoperta improvvisa della vacuità d'ogni sistemazione intellettuale del destino umano [7].
Un nichilismo così profondamente radicato, che si lascia scorgere come nascosta vena tetra o malinconica persino in molte opere dove non si rivela più apertamente, non solo riflette uno degli aspetti più conturbanti della fondamentale Crisi esistenziale del nostro secolo tormentato, ma può anche offrire una chiave parziale - come suggerito da D'Amico - alla ripulsa daparte di Malipiero delle comuni «sistemazioni intellettuali» di ogni genere, sia nel campo della struttura sinfonica sia in quello della continuità e logica drammatica. L'irrazionalismo del Nostro ha forse affinità lontane con le volute deforinazioni della realtà che caratterizzano il movimento 'grottesco' nel teatro di prosa italiano, così come con certi limitati aspetti del teatro futurista [...] e con alcuni elementi paradossali nei drammi di Pirandello: può sembrare, in un certo senso, appropriato che Pirandello e Malipiero abbiano finito per essere congiunti ne «La favola del figlio cambiato» [...]. Tuttavia questi sono paralleli piuttosto remoti: non è qui questione, per lo più, di influenza diretta né in un senso né nell'altro, ma puramente di reazioni artistiche, vagamente paragonabili, al medesimo 'Zeitgeist'.
Tale irrazionalismo, tale coscienza ossessiva della transitorietà, della morte, della distruzione, e le più tetre o persino violente espressioni musicali che l'accompagnano o che provengono dalle stesse radici psicologiche, rappresentano comunque solo uno degli aspetti basilari della personalità di Malipiero, aspetto per il quale - per fondamentale che fosse - lo stesso compositore non è mai riuscito a trovare un definitivo antidoto sia filosofico, sia religioso, sia di qualsivoglia specie. Tuttavia, all'altro estremo del suo spettro spirituale, per così dire, e prevalente nelle sue opere più gaie e serene (e sono abbastanza numerose) troviamo un senso altrettanto ricorrente e non meno personale di spensierata effervescenza oppure d'ineffabile e luminosa bellezza: quella Bellezza cui la Morte e il Tempo si oppongono in modo così implacabile ed insensato. Il dramma fondamentale, implicito o esplicito, che sta alla base di tante composizioni di Malipiero (e specialmente, ma non solamente, di quelle della prima maturità, fino a «Torneo notturno» incluso) risiede proprio in questa nuda e cruda opposizione fra la Bellezza, fragile ma schietta affermazione di vita, e le impiacabili forze che la negano. Avremo occasione d'imbatterci più tardi in molti casi specifici di questo dualismo fondamentale.
A questo punto basti sottolineare che a livello musicale (cioè primario) gli aspetti più turbolentemente modernisti dello stile di Malipiero, e non ultimi quelli derivati originariamente dallo Stravinsky del «Sacre du printemps», rispecchiano naturalmente, nel complesso, il lato più cupo e inquieto della sua sensibilità; mentre certi aspetti arcaici del suo idioma, particolarmente nelle composizioni a partire dal 1920 circa, si collegano invece soprattutto al suo lato più luminoso, a quella Bellezza apparsagli alfine così inaccessibile.
I diffusi arcaismi di Malipiero (come giustamente ha rilevato Luigi Pestalozza [8], anche se non si vogliono accettare tutti i suoi ragionamenti) sono, in definitiva, frutto di un 'ritorno al passato' di genere tutto diverso da quello, per esempio, di Pizzetti, il quale sembra aver avuto una base - almeno in senso lato - fondamentalmente religiosa (anche se ormai si sa che in verità neppure Pizzetti era credente in senso ortodosso). Né l'uno né l'altro compositore, peraltro, riuscì sempre a resistere alle tentazioni dei tipo dannunziano di 'ritorno' edonistico, stravagante e decadentistico, la cui insidiosa malia fu così largamente diffusa nell'arte italiana della loro generazione. Si ricordi che anche Malipiero, come Pizzetti, Zandonai e altri, trasse un'opera da un soggetto di D'Annunzio poco prima della prima guerra mondiale: si tratta dell'immaturo e tuttora inedito, ma certo non interamente spregevole, «Sogno d'un tramonto d'autunno» (1913 [...]. Il che non toglie che, tutto sommato, non è possibile fare un parallelo esatto fra il tipo malipieriano di ritorno al passato e quello dannunziano, pizzettiano e di chicchessia. L'impressione ricorrente è che non solo l'antica musica ma anche l'intera antica civiltà italiana, dal Medioevo al Settecento incluso, abbiano preso nuova forma nell'immaginazione malipieriana assumendo l'aspetto di una remota Epoca d'Oro, insuperabilmente bella e irrimediabilmente perduta. Per dirla ancora con D'Amico (a cui la mia analisi della personalità del Nostro inevitabilmente deve molto), «non è [...] il solito «ritorno» neoclassico, condotto a scopi essenzialmente sfilistici. La passione di quel mondo per Malipiero è una necessità sentimentale [...]il ritrovamento d'un Eden». [9]
Per constatare come tale analisi possa rimanere valida anche quasi tren'anni dopo che D'Amico la formulò, basta guardare ancora quell'ultimissimo vero capolavoro malipieriano che è «Uno dei Dieci».
La fase formativa di Malipiero è assai meno documentata di quella di Pizzetti o Casella, segnatamente perché lui stesso, in seguito, decise di ripudiare e poi dimenticare (o passare volutamente sotto silenzio) gran parte delle opere da lui composte prima del 1913. Ma per fortuna (e contrariamente a quanto egli dava sempre a credere [10]) i manoscritti di questi lavori giovanili (salvo pochissime possibili eccezioni) non vennero distrutti, e la vedova nel 1976 ha finalmente permesso che ne fosse presa visione. Sono immensamente grato alla signora Giulietta Malipiero che a me per primo ha concesso l'eccezionale privilegio di vedere queste partiture, rimaste nascoste per tanti anni.
Perfino l'esame di questi manoscritti giovanili non offre, peraltro, alcuna prova conclusiva che i brevi periodi di studio che il compositore trascorse oltralpe (al Conservatorio di Vienna nel 1898-9 e alla Hochschule für Musik di Berlino nell'inverno del 1908-9, dove frequentò alcune delle lezioni di Max Bruch) abbiano avuto qualsiasi influenza significativa nello sviluppo del suo stile: lo stesso Malipiero mi disse una volta [11] «che le lezioni di Bruch, dedicate soprattutto all'analisi dei classici viennesi fino a Beethoven incluso, non ebbero la minima importanza per lui. Né sembra abbia tratto beneficio molto maggiore dai suoi studi con Marco Enrico Bossi (Venezia e Bologna, 1900-02 e 1904), eccetto nel fatto che la mutua antipatia fra maestro e allievo valse a rafforzare nel giovane la determinazione di respingere quella tradizione strumentale, piuttosto accademica e germanofila, di cui Bossi era uno dei principali esponenti [12] .
Il successivo contatto che Malipiero ebbe con il molto dotato (e per tante decadi scandalosamente negletto) compositore cieco Antonio Smareglia, per il quale lavorò brevemente come amanuense nel 1905 circa [13], fu evidentemente più utile, se non altro come approfondimento della sua conoscenza di Wagner (al quale Bossi, come Bruch, era risolutamente contrario, ma di cui Smareglia era diventato discepolo accanito) e per il notevo e impulso dato allo sviluppo della sua tecnica orchestrale. Ma neanche Smareglia sembra aver influenzato direttamente lo stile di Malipiero, tranne forse, qua e là, in alcune opere giovanili inedite[14]. Il discorso è simile anche per quanto concerne i parecchi contatti personali che il compositore veneziano ebbe, dal 1906 in poi, con Ferruccio Busoni, il cui rapporto complesso e, in definitiva, alquanto ambiguo con il rinnovamento musicale italiano del primo Novecento è una questione molto particolare e affascinante: Sergio Sablich ha rilevato, è vero, alcuni paralleli interessanti sia tra le personalità dei due compositori che tra certi concetti fondamentali delle loro arti teatrali, senza comunque individuare qualsiasi segno inequivocabile di influenza diretta [15]. In breve, i contatti personali che Malipiero ebbe, a livello studentesco o privato, con altri compositori più anziani sia italiani sia stranieri sembrano aver lasciato tracce singolarmente scarse nella sua ulteriore evoluzione [16].
Ancora più negative furono, a lungo andare, le esperienze derivate dai suoi inevitabili incontri con il repertorio operistico italiano da Bellini e Rossini a Verdi e poi a Mascagni e Puccini. L'avversione di Malipiero per tutto il complesso dell'opera italiana dell'Ottocento e del primissimo Novecento raggiunse presto il limite estremo dell'intransigenza, paragonabile a quella di Torrefranca e ben oltre quella di Pizzetti o di Casella. Fu lui stesso a scrivere una volta che «le 'Sette canzoni' nacquero dalla lotta fra due sentimenti: il fascino per il teatro e la sazietà per l'opera»[17]. Il che non toglie che ci sono chiari segni dell'influenza di Puccini e, soprattutto, di Mascagni nella superstite - ma mai eseguita - opera giovanile «Elen e Fuldano» [...], della quale egli in seguito rifiutò recisamente di parlare. È dunque possibile che quel suo atteggiamento esageratamente polemico verso le opere dei suoi predecessori italiani abbia in fondo rispeechiato il bisogno di escludere influenze alle quali si sentiva ancora esposto e vulnerabile. Le due spiegazioni più schiette che egli, a quanto mi risulta, abbia dato su questo argomento sono tuttavia espresse in termini curiosamente blandi, di umile autogiustificazione. Di queste, la prima appare in una nota inclusa, senza indicazione di fonte o di data, in Cat. Op. [18], nota in cui, dopo aver fatto un gustoso paragone con la sua annosa antipatia per i salamini di ogni tipo, Malipiero continua:«Non so rendermi conto come mai, proprio nello stesso anno 1900 in cui divorai l'ultimo salamino della mia vita, io automaticamente mi staccassi pure dal melodramma. La verità è [ ... che] i miei ricordi d'infanzia sono molto tristi, lugubri, orribili sotto molti punti di vista e legati appunto alla musica teatrale che ha dominato la seconda metà del XIX secolo.»
Molti anni dopo la pubblicazione del Cat. Op. Malipiero aggiunse un dettaglio all'ultima parte di questa sua affermazione, riferendosi in special modo alla sua avversione per Verdi in una lettera a Dallapiccola del 20 novembre 1970 [19] nella quale dichiara, con un lampo di quella sincerità autoanalitica tutta particolare che si manifesta talvolta nell'estrema vecchiaia: «Fin dall'infanzia sentivo parlare a casa mia, di Verdi, come causa della nostra catastrofe familiare. Si raccontava che il successo dell'«Attila» di mio nonno [20] inferocì casa Ricordi perché l'«Attila» di Verdi fu un fiasco. L'editore acquistò l'opera di mio nonno, ne cambiò il titolo e impedì che si rappresentasse. Mio nonno allora si mise in mano a un impresario: villa, campagne, tutto si mangiò e nella mia immaginazione infantile la catastrofe si chiamò Giuseppe Verdi.»
Sembrerebbe quindi che la sua antipatia per l'opera italiana tradizionale (come forse non pochi altri aspetti della sua singolare personalità e mentalità) fosse stata almeno in parte il risultato di esperienze traumatiche nell'infanzia e nell'adolescenza. Molte domande riguardanti queste influenze più negative della sua gioventú - queste esperienze che condussero a reazioni e antipatie violente - probabilmente resteranno comunque senza risposta conclusiva, giacché Malipiero fu generalmente assai restio a parlare di tali argomenti.
Lo stesso può dirsi con quasi altrettanta verità anche dei fattori esterni che influirono piú positivamente sulla sua evoluzione. È stato detto [21] che la sua ammirazione per Wagner fu suscitata verso il 1900 dall'ascolto dei «Meistersinger», prima ancora che i suoi rapporti con Smareglia la intensificassero; ed è ben noto che poco dopo, nel 1902 e interamente di propria iniziativa, egli cominciò le ricerche e lo studio delle musiche italiane del sedicesimo e del diciassettesimo secolo che si trovano nella Biblioteca Marciana di Venezia [22]: così il seme degli aspetti più 'arcaici' del suo stile fu piantato in lui quasi contemporaneamente al seme equivalente in Pizzetti, sebbene nel caso di Malipiero fosse destinato a dare frutti maturi solo molti anni più tardi. D'altro canto non possiamo neppure esser del tutto sicuri della data in cui Malipiero scoprì Debussy, seppure alcuni dei suoi primissimi lavori (parte della «Sinfonia del mare», 1906, per esempio) potrebbero smentire la sua affermazione di essere stato del tutto ignaro dell'opera del compositore francese anche nel 1909 [23]. Non c'è comunque ragione di dubitare della sua dichiarazione di non aver avuto esperienza alcuna delle tendenze più avanzate della musica europea (Schönberg, Stravinsky, ecc.) prima della sua visita a Parigi nel 1913, visita di cruciale importanza nel corso della quale incontrò Casella e si svegliò «da un lungo e pericoloso letargo [...] alla prima del Sacre [du printemps]» [24] . Nel complesso, però, un panorama generale delle esperienze formative fra cui Malipiero esordì come compositore può essere tracciato solo per induzione, faute de mieux, partendo dalla musica stessa ed includendovi, non ultime, anche quelle composizioni, rimaste inedite e fino a poco fa ritenute distrutte, che solo nel 1976 diventarono accessibili per lo studio.

NOTE

1. In certi periodi della sua vita, specialmente dal 1930 circa in poi, la continuità di metodo e persino di materiale da una composizione all'altra è talvolta così marcata che Massimo Bontempelli, non del tutto a torto, descrisse l'intera produzione di Malipiero come «una sola vasta opera ininterrotta». Cfr. il suo celebre saggio Il cammino di Malipiero [...]

2. Cfr. la sua nota relativa alle prime sette sinfonie numerate, originariamente scritta nel 1948 e inclusa in Cat. Op., pagg. 229-230. Sull'«antisonatismo» di Malipiero v. anche, per esempio, le osservazioni di Fedele D'Amico alle pagg. 34 e 52 del simposio «Omaggio a Malipiero», a cura di M. Messinis, Firenze, Olschki, 1977 [...]


3. Parlando dell'opera «Torneo notturno» (1929; v. pagg. 98-102, più oltre), Piero Santi ha acutamente fatto notare che se al libretto fosse tolta la sua veste musicale «l'azione [ ... ] risulterebbe slegata e priva di senso. In virtú della dialettica del discorso musicale, invece, ogni episodio drammatico acquista significato univoco [ ... ] mentre si precisano in quanto tali le incarnazioni simboliche, altrimenti inesplicabili, del Disperato e dello Spensierato». V. il suo ampio articolo «Il teatro di Gian Francesco Malipiero» ne «L'Approdo Musicale» no. 9, Roma e Torino, gennaio-marzo 1960, pagg. 19-112: detto articolo resta il più approfondito studio delle opere teatrali di Malipiero che sia stato scritto a tutt'oggi. Il passaggio citato appare a pag. 53. Ancora nel suo contributo principale ad «Omaggio a Malipiero» («La concezione teatrale», pagg. 153-163) Santi fa osservazioni importanti, e questa volta più generali, sui legami strettissimi che esistono in Malipiero tra i metodi teatrali e quelli musicali.


4. V. ad esempio SIR ARTHUR BLISS, «Malipiero, Lover of Animals», originariamente nel giornale londinese «The Daily Telegraph» 28 gennaio 1928, e ripreso in Cat. Op., pagg. 66-67. Quando andai a trovare Malipiero, nel maggio del 1963, ebbi modo di constatare che nei successivi 35 anni la situazione non era molto cambiata.


5. V. parecchi esempi in Cat. Op. pagg. 189-352, e altrove.


6. Come molti, incluso io stesso, possono testimoniare.

7. Ragioni umane del primo Malipiero, dapprima pubblicato in «RaM», Vol. XV, 1942, pagg. 45-55 e ripreso (con revisioni) in Cat. Op., pagg. 110-126. In questa seconda versione il passo qui citato appare a pag. 115. In anni più recenti il celebre «pessimismo malipieriano» è diventato un vero e proprio luogo comune della critica italiana: v., ad esempio, parecchi discorsi in «Omaggio a Malipiero», fra i quali alcuni (come quello di Massimo Mila a pag. 40) sono un poco esagerati. Lo stesso D'Amico è tornato varie volte all'argomento, notevolmente ne «Il pessimismo di Malipiero», in «G. F. Malipiero e le nuove forme», cit. (cfr. n. 2), pagg. 144-149.

8. Cfr. pagg. LXVII, LXXVI-VII, ecc., nella sua famosa Introduzione a «La Rassegna Musicale: antologia», Milano, Feltrinelli, 1966. A pag. LXXVII, ad esempio, egli parla incisivamente di «un linguaggio dei presente che [...] allude ambiguamente al passato onde comunicare l'improbabilità della propria attualità».


9. Articolo cit., pag. 116 nella versione in Cat. Op. Anche quest'idea viene sviluppata in parecchie pagine di «Omaggio a Malipiero»: a pag. 36, ad esempio, D'Amáco dice che Malipiero era «un uomo che per negare il mondo, risuscita quasi furiosamente un mondo scomparso»; mentre il contributo principale di FRANCESCO DEGRADA («Gian Francesco Malipiero e la tradizione musicale italiana» in Om. M., pagg. 131-152) è lo studio piú profondo finora pubblicato su tutti gli aspetti essenziali di quest'argomento.


10. Per esempio in una nota, evidentemente scritta nel 1928 circa, e pubblicata in Cat. Op., pagg. 342-343.


11. In una conversazione che ebbi con lui nel maggio 1963. Tendo a prendere con una certa cautela alcune delle sue rivelazioni di allora, giacché i suoi ricordi di giovinezza sembrarono piuttosto lacunosi, e facilmente distorti da sopravvenuti pregiudizi. Ma in questo caso v. anche in Cat. Op. , pag. 316, una nota che Malipiero aveva scritto il 25 maggio 1932 e poi incluso nel suo libro La pietra del bando, Venezia, Ateneo, 1945, pag. 86.


12. Questa ripulsa, in via di principio, di tutto quanto avevano rappresentato Bossi, Sgambati e altri, non impedì peraltro al Nostro di esprimere una duratura ammirazione per le ultinie opere di Giuseppe Martucci. Nel 1956, ad esempio, egli descrisse il compositore napoletano come «un genio nel vero senso della parola», la cui Seconda Sinfonia in particolare (1904) aveva rappresentato il «punto di partenza del rinascimento della musica non-operistica in Italia»: v. la sua nota Contemporary Music in Italy in «The Score», no. 15, Londra, marzo 1956, pagg. 7-9.


13. Non sono riuscito a precisare le date esatte di questo impiego, dei quale Malipiero tuttavia mi parlò lungamente, come di una esperienza per lui assai importante.


14. Piú di tutto, forse, nella Sinfonia degli eroi del 1905: cfr. pagg. 24-25, più oltre. A questo proposito va notato che ARIBERTO SMAREGLIA, figlio del compositore, afferma a pag. 59 del suo libro Vita ed arte di Antonio Smareglia (Lugano, Mazzuconi, 1932) che suo padre «per lungo tempo diede [a Malipiero] lezioni di contrappunto e d'istrumentazione, aiutandolo anche nella composizione dei suoi primi saggi fortunati».


15. V. SERGIO SABLICH Malipiero e Busoni: un incontro personale e fra concezioni del teatro, in G. F. Malipiero e le nuove forme della musica europea, Atti a cura di Luigi Pestalozza, Milano, Unicopli, 1984, pagg. 150-163. Riguardo al rapporto tra Busoni e la «generazione dell'Ottanta» italiana in genere cfr. anche FIAMMA NiCOLODI, Equivoci del nazionalismo musicale: Ferruccio Busoni e i musicisti italiani del suo tempo, originariamente neU'«Antologia Vieusseux» XVI/1-2, Firenze, gennaio-giugno 1981, pagg. 2-22, e riportato poi nel suo libro Gusti e tendenze dei Novecento musicale in Italia, Firenze, Sansoni, 1982, pagg. 205-262.


16. Per alcuni dettagli biografici sull'infanzia di Malipiero e sulla sua vita di studente v. specie HENRY PRUNIÈRES, G. Francesco Malipiero, originariamente ne «La Revue Musicale» VIII/3, gennaio 1927, pagg. 5-25, e riportato in Cat. Op., pagg. 40-60. V. pure le tabelle cronologiche in Cat. Op., pagg. 355-363 (Cronologia della vita e delle opere), e ne «L'Approdo Musicale» no. 9 (cfr. n. 3, c.s.), pagg. 163-204: quest'ultima tabella, a cura di Alberto Mantelli, è intitolata Prospetto cronologico della vita e delle opere di Gian Francesco Malipiero.


17. V. la sua nota sulle Sette canzoni, datata 1936 e ristampata in Cat. Op., pagg. 191-193.


18. Pagg. 326-328.


19. Pubblicata in Luigi Dallapiccola: saggi, testimonianze, carteggio, biografia e bibliografia, a cura di F. Nicolodi, Milano, Suvini Zerboni, 1976, pagg. 104-105.


20. Francesco Malipiero (1824-87), compositore e pianista, si affermò giovanissimo con Giovanna di Napoli. (Padova, 1842), che fu ripresa nel 1843 a Bologna dove venne elogiata da Rossini. L'Attila (Venezia, 1845), dopo un successo iniziale, fu pubblicato da Ricordi con il titolo Ildegonda di Borgogna. Sembra che le quattro opere successive (da Alberigo da Romano, 1846, a Linda d'Ispahan, 1871) non riuscirono a mantenere le promesse delle prime due, seppure salutate talvolta da successi locali ed effimeri.

21. Da PRUNiÈRES, nell'articolo cit. (cfr. n. 16), pag. 41 in Cat. Op.


22. Cfr. Cat. Op., pag. 329 (un'altra nota del compositore, citata senza indicazione di data) così come la lettera di Malipiero a Guido M. Gatti nella «RaM», Vol. XV, 1942, pagg. 97-100. Nella nota nel Cat. Op. egli dice che nel 1902, quando cominciò a trascrivere alcuni estratti de L'incoronazione di Poppea, «il genio monteverdiano si metteva direi quasi attraverso alla nostra strada, non per impedirci di camminare ma per fare il nostro passo più franco, più sicuro». Pare che egli credesse sul serio, durante gli anni della maturità, di essere legato all'animo di Monteverdi addirittura da «fenomeni medianici»: v. per esempio le osservazioni di GUGLIELMO BARBLAN (con citazioni di qualche parola dello stesso Malipiero) alle pagg. 24-26 di Omaggio a Malipiero. Fiamma Nicolodi ha plausibilmente suggerito, comunque, che la vera spinta che indusse inizialmente Malipiero a cercare la musica monteverdiana risultò piuttosto da letture di D'Annunzio, visto che in quell'epoca «il nome di Monteverdi era nell'aria (leggasi aura)» grazie soprattutto alle pagine sul compositore cremonese ne Il fuoco (pubblicato nel 1900). Cfr. il primo capoverso di NICOLODI, «Restauri in stile moderno» in Gusti e tendenze..., cit., pagg. 119-161.


23. Lo disse in una conversazione avuta con me nel maggio del 1963; e mi confessò poi di sentirsi «imbarazzato» quando gli feci notare alcune progressioni esatonali, all'apparenza debussiane, nella Sinfonia del mare. Comunque la prima documentazione inequivocabile, per quel che mi consta, di un suo contatto diretto con la musica di Debussy si trova nel suo articolo Vita musicale tedesca, pubblicato nella rivista romana «Musica» II/24, 13 dicembre 1908, articolo dal quale risulta che egli aveva fatto la conoscenza, a Berlino, del Prélude à l'après-midi d'un faune e di Pelléas et Mélisande. Meno di due mesi dopo, la stessa rivista pubblicò una sua recensione ferventemente entusiastica della prima assoluta dell'Elektra di Strauss (La prima rappresentazione dell'Elettra, «Musica» III/6, 7 febbraio 1909, pag. 2), entusiasmo straussiano che in verità non durò molto.

24. Da un'altra annotazione senza data, dello stesso Malipiero, inclusa in Cat. Op, pag. 349. Circa il suo primo incontro con Casella, v. specie l'inizio di G.F. Malipiero, Così mi scriveva Alfredo Casella, Originariamente ne «L'Approdo Musicale» no. 1, 1958, pagg. 20-53; ripreso in G.F. MALMERO, Il filo d'Arianna: saggi e fantasie, Torino, Einaudi, 1966, pagg. 159-194.